ESERCITO (dal lat. exercĭtus; fr. armée; sp. ejército; ted. Heer; ingl. army)
È, in senso lato, il complesso delle forze armate organizzate di uno stato. In senso più ristretto, e oggi prevalente, è soltanto il complesso delle forze militari operanti per terra, differenziate dalle forze militari operanti sul mare (marina) e nell'aria (aeronautica). Qui si dirà delle vicende storiche della costituzione degli eserciti, in naturale connessione con la vita politica e con le istituzioni economico-sociali dei diversi tempi e paesi, rinviando il lettore all'articolo guerra, arte della, per ogni altro argomento che più direttamente interessi l'impiego degli eserciti, ossia l'arte militare propriamente detta e la sua evoluzione.
Antichità.
Antico Oriente. - Gli eserciti dell'antico Oriente hanno alcune caratteristiche comuni, in conformità della struttura politica e sociale delle civiltà di cui fanno parte. Essi infatti, almeno dall'epoca in cui ci è dato desumerne più chiare e particolari notizie, di sui testi e i monumenti figurati, hanno superato il primitivo aspetto di popolo o tribù in armi, e sono già invece strumento di conquista e conservazione del potere da parte di solide monarchie assolute; perciò, pur coi progressi dell'armamento, della strategia e della tattica, a cui alcuni popoli, come gli Assiri, giunsero in alto grado, gli antichi eserciti orientali restano per lo più al livello inferiore di masse coatte e sospinte dall'avidità di mercede e di preda, dalla devozione e dal timore per il sovrano, arbitro dei destini del paese. Un elemento d'ordine superiore, come il legame cementante della religione, coincidente all'ingrosso con quello di nazionalità, è naturalmente riscontrabile presso gli Ebrei, in cui, nonostante l'orientalizzazione della vita cortigiana e sociale introdotta dai re, è certo da riconoscere anche nell'elemento militare, oltre il lealismo verso il sovrano, la coscienza dell'individualità etnico-religiosa così fortemente radicata in Israele.
Dal punto di vista quantitativo, la critica moderna tende in generale a ridurre in più modeste proporzioni le cifre iperboliche che la fantasia e il primitivo orgoglio dinastico e nazionale e talvolta la corruttela dei testi hanno tramandate sull'entità di questi eserciti: le favolose masse di combattenti di cui le fonti precisano spesso disinvoltamente il numero, debbono essere state di solito corpi di qualche decina di migliaia d'uomini; persino nella grande spedizione di Serse contro la Grecia, certo uno dei maggiori sforzi di guerra dell'Oriente, l'altissima cifra risultante dalla nota rassegna erodotea di Dorisco (oltre 5 milioni) è oggi dagli storici di molto abbassata (180.000 uomini secondo H. Munro; cfr. Cambridge Ancient History, IV, 1926).
Venendo a passare in rapida rassegna l'organizzazione ed efficienza militare delle grandi monarchie orientali, e rinviando per notizie più diffuse alle voci relative ai singoli paesi (babilonia e assiria; egitto; ebrei; persia, ecc.) e all'articolo generale guerra, arte della, vediamo come in Egitto l'esercito permanente sia una istituzione solo del nuovo impero (dell'impero di mezzo conosciamo l'uso di fanteria mercenaria sudanese); diviso in due corpi per il Delta e l'Alto Egitto, agguerrito e sperimentato nella strategia e nella tattica dalle lotte in Siria, perfezionato nell'armamento con l'introduzione del carro da guerra, importato dagli Hyksos, e del turcasso anch'esso proveniente dall'Asia, regolarmente inquadrato, l'esercito egiziano fu nelle mani di faraoni delle grandi dinastie guerriere eccellente strumento di difesa e offesa, e in decisive battaglie, come Megiddo e Qadēsh (v. egitto: Storia), diede ottima prova delle sue capacità aggressive e di resistenza.
Delle due grandi civiltà mesopotamiche, quella di Babilonia, più data alle arti della pace, all'agricoltura e al commercio, meno ci ha lasciato ricordo della sua organizzazione militare: sappiamo che anche qui dovevano sussistere obblighi formali di leva, se il privilegio dell'esenzione goduto da alcune città era ambitissimo e gelosamente conservato; l'esercito stabile, formante il nucleo fisso della nazione in armi, sembra sia stato per alcuni periodi intrattenuto e retribuito con un pistema feudale di investiture di terre ai guerrieri, con l'obbligo di risiedervi e coltivarle. Particolari interessanti sull'armamento e la tattica si desumono dai monumenti figurati, come la famosa stele degli avvoltoi, rappresentante il re in pieno assetto di guerra che carica alla testa delle sue truppe.
Una vera civiltà militare, imperialistica e aggressiva, è invece l'Assiria, nazione aspra e montuosa, dai rudi bellicosi abitanti; la guerra fu la sua principale attività, e per la guerra troviamo già da antichissimo tempo l'esercito nazionale (ummāmu), con servizio militare obbligatorio e generale (salva sempre la pratica possibilità di esenzioni). Solo in epoca più tarda, accanto alla leva che in occasione di grandi spedizioni chiamava il popolo alle armi, sappiamo di un contingente permanente, formato in gran parte di elementi mercenarî (Arabi, Moabiti, Greci, Filistei), con rappresentanza di tutte le armi (cavalieri, bitkhallu; fanti, zuku; zappatori, arcieri, ecc.), e servizî completi, di stabile guarnigione a corte e nelle fortezze numerose, erette nei punti strategici a garantire la solidità del dominio assiro. Armato di mazza e ascia di combattimento, scimitarra e lancia, arco composito e scudo rotondo, guidato dal re in persona o da un generalissimo (turtanu), l'esercito assiro era un vero flagello di guerra, per la rapidità e violenza dell'attacco, la progredita tecnica ossidionale, la ferocia nel saccheggio e nella devastazione del paese nemico.
Dell'esercito presso gli Ebrei, apprendiamo dalla Bibbia come una vera e propria organizzazione militare si sia formata solo con i re, e precisamente sotto Saul, col primo nucleo di un esercito permanente (3000 uomini), sviluppatosi poi in esercito regolare, con la guardia del corpo del sovrano (notevole, al tempo di David, una guardia composta di Filistei), fanteria leggiera armata di scudo piccolo (māgēn), arco e fionda, e fanteria pesante con grande scudo (ṣinnāh), spada e giavellotto. L'impiego della cavalleria fu invece notevolmente tardo e ridotto, forse in relazione col precetto biblico (Deut., XVII, 16), riecheggiato ad ammonimento e minaccia dai profeti, di non fare grande uso del cavallo. Anche presso Israele, comunque, più che di cavalleria montata si tratta di carri da battaglia, di cui gli Ebrei sperimentarono a loro spese l'efficacia nelle guerre con Filistei, Cananei, ecc. Si deve anche qui a Davide e a Salomone l'introduzione di questa temibile arma, di grande importanza nelle battaglie manovrate in pianura. Le divisioni dell'esercito appaiono sino all'epoca maccabaica calcate su quelle attribuite a Mosè nell'esodo dall'Egitto: corpi di 10, 50, 100, 1000 uomini, con corrispondente gerarchia di ufficiali: fra questi notevoli gli shālīshīm (probabilmente dall'assiro shalshu), carica non chiara in origine, ma presto assurta a grande importanza negli alti gradi militari di corte. Il generale in capo ha il titolo di sar ha-ṣābā': tali furono Abner, Gioas, Bananias, rispettivamente sotto Saul, Davide, Salomone. Sino all'epoca maccabaica l'assoldamento di mercenarî sembra presso gli Ebrei fenomeno sporadico.
Ma l'esercito orientale la cui conoscenza è per noi più interessante, per essere stato quello venuto a urtarsi con ordinamenti sociali e militari più evoluti, e aver rivelato appunto in tale urto l'insufficienza tecnica e morale del tipo di esercito ora esaminato, è quello persiano, che conosciamo attraverso i monumenti, e più ancora le abbondanti notizie degli scrittori classici. Presso gli Achemenidi, come esercito permanente sembra esservi stata la sola guardia reale, composta di cavalieri e fanti (arcieri e lancieri, come i μηλοϕόροι del celebre fregio di Susa), oltre al corpo scelto dei cosiddetti Immortali e alle guarnigioni mercenarie per le fortezze e i presidî. In caso di guerra, la leva generale delle provincie conduceva al Gran re forti contingenti di guerrieri, conservanti ciascuno il loro caratteristico armamento e i loro capi diretti, mentre gli alti comandi tendevano sempre più ad accentrarsi nelle mani di Iranici e, in particolare, di Persiani. Contingenti mercenarî stranieri (Greci, Sciti, ecc.) non mancavano. La divisione dell'esercito sembra essere stata quella decimale (divisioni di 10 mila, con reggimenti di 1000, compagnie di 100, ecc.); ma la famosa pittoresca rassegna dell'esercito di Serse, che leggiamo in Erodoto, oltre che inverosimile per le cifre dei combattenti, non può nemmeno prendersi alla lettera per tutti i particolari di armamento, organica e tattica che se ne potrebbero dedurre. L'efficienza della fanteria persiana, di antiquato e disparato armamento, può dirsi nulla; la forza dell'esercito iranico si fondava sulla cavalleria, la cui tradizione rivivrà perfezionata e potenziata nella temuta cavalleria partica e sassanidica, e soprattutto negli arcieri. L'urto dell'Asia contro l'Europa si configura nelle immagini eschilee dei Persiani come la lotta dell'arco contro la lancia. E il trionfo della Grecia sulla Persia, nel sec. V e IV, è stato giustamente ricondotto dagli storici moderni nel suo vero aspetto, più che di quasi miracolosa paradossale vittoria dei pochi contro i molti (giacché, come si è accennato, la schiacciante superiorità numerica di questi eserciti asiatici va spesso di molto ridotta), come logico risultato della superiorità militare e spirituale degli eserciti cittadini di Atene e Sparta e Macedonia sui pur valorosi mercenarî e sudditi del despota orientale, degli opliti di Maratona e Platea e della falange dell'Isso e del Granico sulle incomposte ordinanze di un esercito rimasto socialmente e militarmente di tipo e qualità inferiore.
Grecia. - Nel periodo più splendido della civila cretese intorno alla metà del secondo millennio a. C., i signori dell'isola avevano ai loro ordini eserciti ben organizzati. Nel palazzo reale di Cnosso si rinvennero le impronte dei sigilli dell'ufficio per gli armamenti, su accurati inventarî di materiale da guerra (carri, lance e frecce, pugnali e spade) custodito in appositi magazzini. I monumenti, come il famoso "vaso dei guerrieri" di Hagia Triada, ci mostrano, in azione o in parata, i varî reparti dell'esercito minoico: corpi di lancieri dall'enorme scudo di pelle bovina (che assume poi la forma bilobata), lancia di media lunghezza e copricapo conico; reparti senza scudo armati dell'arco, rimasto poi l'arma nazionale cretese, o di fionda o di spada. Sulla composizione dell'esercito (reclutato forse parte fra i sudditi, parte fra alleati e vassalli), e sulla sua storia nulla sappiamo di preciso. Mercenarî cretesi al servizio dei faraoni sono rappresentati spesso sui monumenti egiziani, e li troviamo poi, sembra, anche al soldo dei re ebrei.
L'organizzazione militare minoica influì su quella del continente nell'età micenea, che conosciamo dai monumenti e dai poemi omerici, nei quali però si mescolano elementi che appartengono a successivi stadî dell'evoluzione militare greca. Secondo la rappresentazione più comune iu Omero, solo i re e i loro compagni dispongono di carri da guerra e di costose armature metalliche complete, e le loro gesta individuali determinano l'andamento della battaglia, mentre minima è l'influenza delle schiere male armate dei sudditi che seguono a piedi i signori e aiutano come possono. Le tenzoni singolari dei capi (tipica quella fra Aiace ed Ettore), alle quali le truppe assistono sospendendo l'azione, sono l'espressione di questa prevalenza dei signori sulla massa. Parecchi capi possono collegarsi fra loro per un'impresa comune, sotto la guida di un re più potente, formando eserciti compositi come quelli degli Achei e dei Troiani, nei quali però ogni nucleo conserva come un piccolo esercito la propria autonomia. Ma l'influenza delle più evolute organizzazioni militari asiatiche del secondo millennio a. C. (dalle quali i Micenei presero i carri da guerra, i più piccoli scudi metallici, in sostituzione degli enormi scudi di pelle, e gli altri elementi della panoplia metallica) si rivela nell'ordine di battaglia che Nestore fa prendere alle sue truppe (Il., IV, 294 seg.) e che egli magnifica come quello degli "antichi": in prima linea la carreria, nella seconda la fanteria più scadente, nella terza la fanteria più valorosa, ἕρκος ἔμεν πολέμοιο. Egli inoltre vieta di spingersi innanzi a cercare la lotta individuale, il προμάχεσϑαι, che è invece altrove in Omero la norma dell'azione. Qui è evidentemente presupposta una disciplina collettiva dell'azione, e quindi una organizzazione più salda e complessa, che tende ad armonizzare l'impiego dei differenti elementi, frenando l'iniziativa personale. Altrove lo stesso Nestore (Il., II, 362) consiglia uno schieramento più rudimentale per tribù e fratrie, perché meglio s'aiutano a vicenda i guerrieri che fanno parte d'uno stesso gruppo di consanguinei. I 2500 Mirmidoni di Achille sono formati su cinque corpi di 500 uomini (Il., XVI, 168). La crescente importanza delle masse si palesa nei passi (Il., XIII, 126; XVI, 212) in cui Omero ci rappresenta la più recente falange costituita da guerrieri tutti armati di panoplia, la cui formazione non risale oltre il sec. VIII, ed è l'espressione militare della società nuova uscita dalle radicali trasformazioni economiche che ebbero luogo nel mondo greco in quell'epoca.
Infatti le antiche monarchie dei tempi micenei s'indebolirono e dal sec. VIII vennero a mano a mano scomparendo nelle regioni più progredite del mondo greco, e ad esse si sostituì nelle città, che erano venute sorgendo ai piedi delle rocche, il governo dei nobili, che, disponendo di armature complete, di spade e lance di ferro, di cavalli e carri da guerra, costituivano la forza militare preponderante e detenevano quindi anche il potere politico. Il dominio politico dei nobili cavalieri e gli eserciti a tipo cavalleresco, che ne sono l'espressione militare, si mantennero più a lungo in alcune regioni greche, ove il terreno era più favorevole all'impiego della cavalleria, che succede gradatamente ai carri da guerra; in Beozia, in alcuni paesi dell'Asia Minore, in Sicilia e specialmente in Tessaglia. In altre regioni, invece, il rapido progresso economico e il perfezionarsi della metallurgia resero possibile a un numero sempre crescente di cittadini appartenenti al ceto medio di provvedersi di panoplia, e questi nuovi fanti "opliti" formarono gradatamente falangi ordinate e compatte, che presentavano una muraglia metallica di scudi e una selva di punte di lance, contro le quali erano impotenti i carri da guerra e la cavalleria e la tattica individuale dell'età eroica. La falange si difendeva con la sua compattezza e attaccava con tutto il peso della sua massa.
Questa innovazione ha una grande importanza politica e militare. La falange diviene la formazione militare tipica dell'età greca classica e segna nelle città greche più progredite la fine del predominio militare della nobiltà e l'avvento della democrazia, del governo di coloro che possono provvedersi della panoplia (οἱ τὰ ὅπλα παρεχόμενοι) e che vengono mobilitati in caso di guerra. La cavalleria in molte città scompare (Atene e Sparta non ne avevano al tempo delle guerre persiane) e gli antichi cavalieri devono prendere posto nella falange degli opliti, nella quale essi tutt'al più costituiscono un corpo scelto, come a Sparta e a Tebe. La massa degli opliti è suddivisa dapprima in base agli antichi raggruppamenti gentilizî; a Sparta p. es. secondo le tre tribù doriche, ad Atene secondo le tribù ioniche e le fratrie. Più tardi invece, per eliminare gli ostacoli che al funzionamento dei nuovi stati cittadini opponevano gli ordinamenti gentilizî, questi furono sostituiti in genere con un'organizzazione artificiale territoriale, che serviva di base al reclutamento e alla formazione delle unità dell'esercito. Così in Sparta nel sec. VI si crearono tribù locali alle quali corrispondevano i corpi dell'esercito, detti λόχοι o μόραι (pare 5 al tempo delle guerre persiane, 7 0 6 più tardi: la storia dell'esercito spartano è molto oscura), divisi ciascuno in 4 pentecostie e queste in 4 enomotie; Clistene divise l'Attica in 10 tribù locali: ognuna forniva una τάξις di opliti, divisa in λόχοι. Gli stati tenevano al corrente la lista (κατάλογος) dei cittadini qualificati per la milizia e curavano la loro istruzione militare; in Atene, p. es., i cittadini dai 18 ai 20 anni prestavano servizio permanente come efebi (anche περίπολοι) ed erano istruiti da appositi ufficiali.
Gli elementi che costituiscono gli eserciti degli stati greci variano a seconda delle condizioni particolari. In Sparta il nerbo dell'esercito è costituito dagli Spartani (ὅμοιοι, cittadini con pieni diritti), per i quali unica occupazione è l'esercizio delle armi; ma anche i sudditi liberi, i perieci, prestano servizio militare come opliti, spesso in numero maggiore degli Spartani. In caso di necessità anche i servi della gleba, gli iloti, che seguivano di solito l'esercito come attendenti, potevano essere armati come opliti ricevendo la libertà (neodamodi). I perieci della Sciritide, regione montuosa di confine, formavano un corpo a parte di fanteria leggiera con mansioni particolari. Sparta arruolava inoltre arcieri e, più tardi, cavalieri mercenarî. In Atene la falange degli opliti era formata dai cittadini delle prime tre classi; quelli della quarta, i teti, erano destinati alla flotta, ma in caso di necessità lo stato li armava da opliti, e come tali potevano essere arruolati anche forestieri o meteci, mercenarî o volontarî, e persino schiavi; con mercenarî si costituivano anche corpi speciali, per es. di arcieri. Vi erano poi in tutti gli eserciti, accanto agli opliti, gli armati alla leggiera e gli attendenti; si parla di sette iloti per ogni Spartano (compresi certo quelli addetti ai servizî sulle retrovie) e uno pei ogni perieco; nel sec. IV il numero era minore, e appositi reparti, alcuni dei quali di artigiani, erano destinati ai servizî. Negli eserciti ateniesi gli armati alla leggiera pareggiavano di solito gli opliti.
I cittadini erano a Sparta obbligati al servizio militare dai 20 ai 60 anni per campagne oltre i confini; in Atene dai 18 ai 60 anni, ma le due prime e le dieci ultime classi erano destinate di solito alle guarnigioni. La mobilitazione generale (πανδημεί) avveniva di rado; di solito si procedeva a una mobilitazione parziale a seconda del bisogno, p. es. in Atene di alcune classi di leva (ἐν τοῖς ἐπωνύμοις) o di alcune tribù soltanto (ἐν τοῖς μέρεσιν), a Sparta di ⅓ o di ⅔ degl'iscritti. È norma generale che il soldato deve provvedere alle sue armi e al proprio mantenimento; ma Atene introdusse già nel sec. V il soldo, indennità viveri, che era corrisposto in misura doppia o quadrupla ai cavalieri e agli ufficiali. Il soldato portava seco, o faceva portare dai suoi attendenti, viveri per un certo tempo, specialmente se si trattava di campagne brevi e in regioni vicine; ma si cercava poi, specialmente in territorio nemico, di vivere sul paese e su rifornimenti degli alleati. Si organizzavano però anche rifornimenti regolari con colonne di sussistenza trainate o per mezzo di magazzini. Nel sec. IV numerosi vivandieri seguivano gli eserciti.
La costituzione del comando e del corpo degli ufficiali variava da stato a stato. In modo particolare era sviluppata la gerarchia militare degli Spartani, che superavano tutti gli altri Greci per disciplina e spirito militare. L'unità di comando fu ottenuta intorno al 500 a C. stabilendo che uno solo dei due re spartani comandasse in campo; gli efori, e più tardi anche una commissione di cittadini, sorvegliava però il funzionamento del comando. Questo poteva essere affidato anche ad un alto ufficiale, p. es. ad uno dei polemarchi. I varî gradi della gerarchia erano rappresentati dai polemarchi, locaghi, penteconteri, enomotarchi. In Atene i comandanti delle τάξεις, gli strateghi, prendono presto il sopravvento sull'antico arconte polemarco, e tengono per turno o il comando di tutto l'esercito o di sezioni autonome di esso, mentre i tassiarchi li sostituiscono al comando delle τάξεις. L'assemblea popolare, che eleggeva gli strateghi, poteva influire molto sul comando, la cui autonomia dipendeva specialmente dall'autorità personale del generale. I lochoi delle taxeis erano comandati da locaghi; i gradi inferiori ci sono ignoti.
Le città egemoniche disponevano poi dei contingenti alleati. Le città peloponnesiache alleate di Sparta dovevano mettere di solito a disposizione due terzi dei loro contingenti, e tutte le loro forze se la guerra si combatteva nel loro paese; più tardi si preferiva fissare prima il totale del contingente alleato e ripartirlo poi fra le varie città. Le truppe alleate erano comandate da ufficiali superiori spartani (ξεναγοί); erano più numerose degli Spartani, e quasi tutta alleata era la cavalleria. Quando si diffuse il mercenarismo, si prese anche ad accettar denaro invece di uomini. Pure gli alleati di Atene erano obbligati a fornire truppe di terra, che venivano mobilitate sulla base del catalogo delle varie città, sotto la sorveglianza di commissarî ateniesi, a seconda del bisogno e della località nella quale si combatteva. Nei tempi migliori, però, prima che la catastrofe di Sicilia esaurisse le risorse cittadine, Atene sfruttò molto moderatamente le forze di terra degli alleati.
L'esperienza delle guerre persiane e poi di quella del Peloponneso, portò notevoli innovazioni negli eserciti greci. Si riconobbe così, prima ad Atene e poi a Sparta, la necessità di ricostituire l'arma di cavalleria (v.), e l'importanza di una fanteria leggiera ben addestrata e condotta; si formarono perciò corpi di arcieri, frombolieri e lanciatori di giavellotti. Inoltre gli stati dovettero prendere su di sé l'armamento dei cittadini che non avevano il censo sufficiente per provvedersi di panoplia, e si cominciò a mantenere a spese pubbliche reparti permanenti di opliti (ἐπίλεκτοι), sempre pronti ad entrare in campagna in buone condizioni di allenamento. Nello stesso tempo si andò diffondendo l'impiego di mercenarî che fu causa di notevoli progressi nell'arte militare.
Mercenarî (ἐπίκουροι) venivano arruolati in caso di bisogno dalle città greche fin dal sec. VII; i tiranni ne tenevano in permanenza, e Atene formò nel sec. V con schiavi sciti comperati un corpo di polizia di 1000 arcieri. Sparta cominciò a servirsene nel sec. V, specialmente per spedizioni lontane. Il crescente disagio economico e sociale spingeva torme di Greci, specialmente delle regioni più povere, a cercar il loro sostentamento nel mestiere delle armi: Ciro il giovane, per la guerra contro il fratello, poté procurarsi 12-13.000 mercenarî, reclutati per loro conto da 32 condottieri (strateghi); e in seguito i re e i satrapi persiani e l'Egitto ne formarono il nerbo dei loro eserciti. Dionisio di Siracusa li reclutò a masse, 6000 ne aveva Giasone di Fere e quelli al servizio dei Focesi nella guerra sacra salirono verso i 20.000. Anche Atene nel sec. IV combatté specialmente con essi le sue guerre. Dai mercenarî, soldati di professione, ben allenati ed esercitati, si poteva ottenere quello che non potevano dare le milizie cittadine poco esercitate. Il "condottiere" Ificrate, nella guerra corinzia (394), alleggerì l'armamento dei suoi mercenarî sostituendo la corazza metallica con una di tessuto e lo scudo metallico con la leggiera πέλτη di cuoio, allungò le lance e le spade e fornì tutti i suoi uomini di giavellotti. Gli altri corpi di mercenarî ne seguirono l'egempio, e queste truppe, dalla foggia del nuovo scudo dette peltasti, formate in piccole unità leggiere e mobili, diedero prova della loro superiorità sulle pesanti falangi cittadine e sulla loro tattica tradizionale.
Ancor più frammentarie che per Atene e Sparta sono le notizie a noi giunte sull'organizzazione militare degli altri stati della Grecia classica. I tratti fondamentali sono però uniformi. Tebe aveva una buona cavalleria e la falange degli opliti con un corpo scelto di 300 nobili guerrieri; dopo la battaglia di Coronea (446), fu ricostituita la Lega beota, il cui esercito, costituito dai contingenti delle città confederate, era comandato per turno da 11 beotarchi (ad Epaminonda i colleghi concessero un lungo esercizio del comando). La Beozia adottò per tempo i peltasti, cittadini e mercenarî, ed una sua specialità erano gli hamippoi, fanteria leggiera che combatteva con la cavalleria. La Tessaglia era organizzata su quattro distretti militari, suddivisi in cantoni (κλῆροι), ognuno dei quali doveva fornire 40 cavalieri e 80 fanti leggieri; il ταγός (re elettivo) comandava l'intero esercito. La cavalleria, che ne costituiva la forza principale, era eccellente, e sui ruoli figuravano circa 6000 cavalieri. Caratteristiche particolari avevano gli eserciti delle città greche di Sicilia. Queste avevano le loro milizie cittadine di opliti e cavalieri; la cavalleria siciliana era numerosa e valorosa, e ne fecero la prova gli Ateniesi. Ma le monarchie militari di Agrigento e di Siracusa si valsero poi largamente di mercenarî: Gelone diede la cittadinanza a 10.000 di essi e nell'esercito di Dionisio I servivano Iberi e Galli, in quello di Agatocle Sanniti ed Etruschi. C'erano poi anche contingenti siculi. L'esercito di Dionisio era potente, e nelle lotte con i Cartaginesi i Greci di Sicilia appresero prima di quelli della madrepatria l'arte degli assedî e l'uso delle macchine di guerra, delle quali dotarono i loro eserciti.
Quanto agli effettivi degli eserciti greci dell'età classica, ci limiteremo a pochi dati fra i più probabili. Gli opliti, per la condizione del censo, non rappresentavano che dal 30 al 40%, a seconda dei tempi e della città, degli uomini atti alle armi; e la loro mobilitazione generale, anche per ragioni finanziarie, non poteva essere ordinata che raramente e per breve tempo; ad ogni modo essa rendeva per perdite varie in media un 20% meno delle cifre dei cataloghi. La Lega peloponnesiaca non era in grado di far marciare oltre i confini più di un 20.000 opliti e per campagne brevi; il contingente spartano non superò mai i 6000 uomini, e fra questi la parte minore erano cittadini spartani ὅμοιοι. Nella guerra corinzia, Sparta, Corinto, Sicione e le città dell'Actè argolica mobilitarono 13.500 opliti. Corinto nella guerra del Peloponneso non armò più di 3500 opliti, Sicione 1500; Atene, allo scoppio della guerra del Peloponneso, disponeva di 13.000 opliti cittadini, 1200 cavalieri e 1600 arcieri a piedi. La Beozia, avendo nel catalogo 12.000 fra opliti e cavalieri, potè riunire per la battaglia di Delio (424) con 7000 opliti, 1000 cavalli, 500 peltasti e 10.000 fanti leggieri. Argo nel 394 mise in campo 6-7000 opliti. I Greci di Sicilia armarono eserciti anche di 30.000 uomini di linea, di solito però con il sussidio di mercenarî.
Con Filippo di Macedonia e Alessandro ha inizio l'ultimo periodo della storia militare greca. La Macedonia era rimasta fedele alla primitiva forma della monarchia patriarcale, la cui forza militare era costituita dalla nobiltà, i compagni (ἑταῖροι) del re, che combattevano a cavallo con armatura completa. Di qui l'origine del predominio della cavalleria, che contraddistingue il periodo greco-macedone. Il re Archelao, alla fine del sec. V, organizzò con i contadini macedoni una fanteria regolare, che Aminta e i suoi figli armarono poi secondo i principî di Ificrate, e alla quale Filippo diede infine l'ordinamento definitivo. La massa principale della fanteria macedone fu armata di aste di m. 6,21 di lunghezza (sarisse) e di piccolo scudo e formata in una falange compatta e profonda, sulla cui fronte sporgevano le punte delle sarisse delle prime sei file e il cui attacco in terreno uniforme era irresistibile. La fanteria venne nobilitata con il titolo di πεζεταῖροι, compagni a piedi del re. Accanto alla falange e alla cavalleria pesante degli ἑταῖροι, c'erano poi altri corpi speciali, a piedi e a cavallo, macedoni e alleati, da utilizzarsi a scopi particolari in accordo armonico con la fanteria e la cavalleria di linea, in modo che per l'esercito macedone si può per la prima volta parlare di tattica combinata delle varie armi. L'esercito con il quale Alessandro iniziò la conquista dell'Asia era così composto. La falange constava di 6 τάξεις, ciascuna di 1500 uomini circa (le cifre degli effettivi sono spesso congetturali), reclutate regionalmente e divise in lochoi e tende. Veniva quindi il corpo degli ipaspisti (circa 3000), armati come peltasti, pari per rango ai falangiti accanto ai quali prendevano di solito posto nell'ordine di battaglia, e divisi in chiliarchie e in un corpo scelto (ἄγημα). Gli arcieri (un 500 uomini) erano parte macedoni, parte cretesi. La cavalleria degli eteri (1800?) era formata su 7 ile, reclutate regionalmente, e un corpo scelto l'ἴλη βασιλική. La cavalleria di linea tessalica, formata in ile, era forte, pare, di 1200 cavalli. I sarissofori macedoni (almeno 4 ile) formavano con i Peoni e i Traci la cavalleria leggiera (πρόδρομοι) dell'esercito. I Traci, gl'Illirî e gli Agriani, vassalli della Macedonia, davano quasi tutta anche la fanteria leggiera dell'esercito, parecchie migliaia di uomini (7000?), in buona parte lanciatori di giavellotti (ἀκοντισταί). V'erano poi mercenarî a piedi e a cavallo (5000?) e infine gli alleqti greci, fanti (7000) e cavalli (600): questi e i mercenarî erano in genere truppe di linea. La forza totale era di 5000 cavalli e di 32.000 fanti. In Macedonia erano rimasti, mobilitati o no, all'incirca 12.000 fanti e 1500 cavalli, una metà cioè delle unità dell'esercito macedone. Durante la campagna d'Asia, l'esercito del re subì aumenti e profonde modificazioni. Oltre ai complementi, nuove unità macedoni passarono in Asia, cosicchè in India Alessandro aveva 11 τάξεις; di falangiti; gli alleati greci congedati ad Ecbatana furono sostituiti con mercenari e le truppe leggiere, specialmente a cavallo, furono molto aumentate con elementi asiatici, che negli ultimi tempi Alessandro introdusse anche nella falange e nella cavalleria degli eteri. Il comando era tenuto dal re, coadiuvato dai suoi aiutanti (σωματοϕύλακες), ai quali egli affidava anche comandi speciali temporanei. Mentre gli attendenti delle truppe di linea furono molto ridotti (uno ogni dieci falangiti), i traini andarono sempre crescendo e per la difficoltà delle sussistenze in regioni lontane e spesso aride e perché le mogli e i figli dei soldati, tenuti per anni e anni sotto le armi, seguivano l'esercito. Il soldo pare fosse piuttosto elevato e ad esso si aggiungevano frequenti donativi.
Gli eserciti dei successori di Alessandro conservarono sostanzialmente la struttura di quello del Gran re (la cavalleria di linea, la falange, che diviene sempre più profonda e pesante, e gl'ipaspisti ne formarono sempre gli elementi essenziali), con variazioni dipendenti dalle particolari condizioni dei singoli stati: minori in Macedonia, ove l'esercito mantenne il suo carattere nazionale e l'antica impronta, maggiori in Asia, ove si hanno eserciti compositi che richiamano quelli del re di Persia. Finché fu possibile, anche in Asia i Macedoni e i loro discendenti e gli altri Greci formarono in genere le armi principali, nelle quali però, secondo l'esempio dato negli ultimi anni dallo stesso Alessandro, entrarono presto anche barbari, specialmente nell'Egitto, che dispose sempre di scarsi elementi macedoni. Le truppe leggiere con armamento indigeno erano composte esclusivamente di barbari, che poi formarono anche corpi armati alla macedone. Indigeni egiziani vennero usati però solo eccezionalmente (p. es. a Rafia, in gran numero) dai Tolomei. Si aggiungono poi nuove specialità, come gli elefanti, i carri armati dei Seleucidi, i reparti su cammelli, ecc. Il nucleo degli eserciti ellenistici era permanente, e veniva rinforzato per la guerra con riservisti (che in Asia e in Egitto erano coloni militari che ricevevano dallo stato terre, con l'obbligo di presentarsi alle armi quando ne ricevessero l'ordine: κάτοικοι; v. colonizzazione, X, pp. 833-34), con contingenti indigeni e con mercenarî. Le spese di armamento delle truppe regolari erano a carico del tesoro degli stati, che vi provvedevano coi loro arsenali; gli ausiliari, e spesso anche i mercenarî, si presentavano con armi proprie. Ogni stato aveva la sua amministrazione militare con alla testa un ministro; il re assumeva di solito in persona il comando.
Le monarchie ellenistiche armarono eserciti, che per numero furono nell'antichità superati solo da quelli romani dell'età delle guerre civili. Antigono nel 306 poté condurre quasi 90.000 uomini, dei quali 8000 cavalieri, contro l'Egitto, e non erano quelle naturalmente tutte le forze del suo impero. A Ipso combatterono dalla parte di Antigono 70.000 fanti e 10.000 cavalli, da quella degli alleati 64.000 fanti e più di 10.000 cavalli, oltre a 480 elefanti. I Seleucidi misero in campo 70.000 uomini nel 217 a Rafia contro l'Egitto e quasi altrettanti nel 190 a Magnesia contro i Romani. L'esercito egiziano a Rafia era forte di 75.000 uomini. Più piccoli erano gli eserciti macedoni; il più numeroso, quello di Perseo a Pidna, contava 43.000 uomini, dei quali 29.000 Macedoni, il resto alleati europei. Siracusa non armò in quest'epoca di solito eserciti di più di 20.000 uomini, e la Lega etolica di 12÷15.000; la Lega achea, pur avendo nei ruoli, nell'epoca della sua massima estensione, da 30 a 40.000 uomini, non poteva mobilitarne che una parte. Il rapporto numerico fra cavalleria, falange e truppe leggiere era molto oscillante.
Bibl.: W. Rüstow e H. Köchly, Gesch. des gr. Kriegswesens, Aarau, 1852; G. Gilbert, Handbuch der griech. Staatsaltert., I, II, Lipsia 1881-1885; H. Droysen, Heerwesen und Kriegführung der Griechen, in K. F. Hermann, Lehrbuch d. griech. Antiquitäten, nuova ed. curata da H. Blümner e W. Dittenberger, II, ii, Friburgo in B. 1889; H. Delbrück, Gesch. der Kriegskunst, I, 3ª ed., Berlino 1920; J. Kromayer e G. Veith, Heerwesen u. Kriegführung der Griechen u. Römer, Monaco 1928; G. Busolt, Griech. Staatskunde, Monaco 1920-26 (queste due ultime opere contengono bibl. speciale); per l'esercito di Alessandro: H. Berve, Das Alexanderreich auf prosopogr. Grundl., I, Monaco 1926, p. 101; per l'età ellenistica: W. W. Tarn, Hellenistic Military a. Naval Developments, Cambridge 1930. I momenti essenziali dell'evoluzione militare dei Greci sono tracciati in J. Beloch, Griech. Gesch., 2ª ed., Strasburgo-Berlino 1912-1927.
Roma. - Secondo un'attendibile tradizione antica, le tre tribù gentilizie dei Titienses, Ramnes e Luceres, nelle quali si divideva originariamente il popolo romano, contribuivano a formare l'esercito romano primitivo con un contingente di cento cavalieri e mille fanti per ciascuna, comandati rispettivamente da un tribunus celerum (nome originario dei cavalieri) e da un tribunus militum (gli antichi derivavano miles appunto da mille); queste cifre, come presso tanti altri popoli antichi, significavano l'ordine di grandezza dell'unità fornita da ogni singolo gruppo gentilizio. È probabile che, fino ab origine, anche le "migliaia" dei fanti si dividessero in centuriae, una per ciascuna delle dieci curie, nelle quali si suddivideva la tribù. I guerrieri a piedi o a cavallo (più anticamente su carri) si fornivano variamente, secondo i proprî mezzi, di quelle armi offensive e difensive che le necropoli dell'Italia centrale ci hanno conservate in gran copia. I guerrieri d'una stessa gente e famiglia si tenevano riuniti entro la propria centuria, ed erano seguiti da clienti e servi forniti di armi più rudimentali; tradizioni come quella dei Fabî al Cremera serbano il ricordo dei raggruppamenti militari gentilizî dell'epoca antichissima. Questo esercito primitivo è detto legio e lo comanda il re: può darsi che, almeno da un dato momento, accanto al re esistesse anche un polemarco, il magister populi o dictator, con a lato un comandante della cavalleria, magister equitum. Nell'ultimo periodo della monarchia, nella città, cresciuta di abitanti e di territorio, doveva essersi formato un ceto medio numeroso; e poiché le crescenti esigenze della difesa e dell'offesa su varie fronti richiedevano una razionale e completa utilizzazione delle forze, nel sec. VI, e secondo la tradizione per opera del re Servio Tullio, fu introdotto anche in Roma, come già in molte città greche, ma con tratti originali, un nuovo ordinamento militare e politico. Il primitivo ordinamento gentilizio fu, come organismo militare, abolito e sostituito da un altro, fondato soltanto sulla capacità economica dei cittadini, alla quale era proporzionata la gravità degli obblighi militari e, naturalmente, anche la posizione politica.
I cittadini che per il loro censo (il censimento è d'ora innanzi la base dell'ordinamento militare romano) erano in grado di armarsi pesantemente, cioè con armi offensive e difensive, furono distribuiti in tre classi, a seconda che il loro armamento era più o meno valido e completo, e furono chiamati a fornire 60 centurie di fanti di linea, 40 la prima classe, e 10 ciascuna la seconda e la terza; il doppio di quante ne contava la legio primitiva, ciò che dà la misura del risultato raggiunto col nuovo ordinamento. Le classi quarta e quinta davano 25 centurie di fanti leggieri. Gli specialisti, fabbri, musicanti e gli oscuri accensi, erano formati su 4 0 5 centurie a parte. Ai cittadini che non raggiungevano un dato censo minimo (proletarii o capite censi) lo stato di solito non ricorreva. La tradizione concorde vuole che l'ordinamento di Servio contasse già le 18 centurie di cavalieri (sei volte il numero delle centurie primitive) dell'età classica; notizia che potrebbe forse giustificarsi, ma che i moderni in genere rifiutano, ritenendo che a questa cifra non si sia potuto giungere che molto più tardi, nel sec. IV. Così pure la tradizione attribuisce a Servio la divisione dei cittadini in iuniores e seniores e l'organizzazione dell'esercito territoriale dei seniores su un numero di unità di fanteria pari a quello dell'esercito di campagna degli iuniores. L'obbligo militare cominciava col 18° anno d'età e durava sino al 46° per gli iuniores, e anticamente, pare, sino al 60° per i seniores; ma in seguito per ragioni politiche ogni cittadino rimaneva iscritto fra i seniores fino alla morte.
Istituita la repubblica governata dal collegio dei due consoli, pari per potere, si pensò probabilmente di attribuire a ciascuno dei due magistrati un proprio esercito e si formarono così due legiones, ciascuna organicamente identica all'unica legio dell'età regia, cioè su 60 centurie di fanteria di linea; ma poiché forse i mezzi non consentivano di raddoppiare l'effettivo della forza armata, le due legioni ebbero ciascuna gli stessi quadri ma metà degli effettivi della legione antica. Da questo momento la centuria dell'esercito romano ebbe in media la metà dell'effettivo indicato dal suo nome; ed ogni incremento dell'esercito romano avvenne normalmente per moltiplicazione della tipica legio primitiva, che s'avviò così a diventare da esercito unità organica fissa dell'esercito.
L'esercito romano dell'ordinamento serviano combatteva ordinato a falange, con gli uomini meglio armati nelle prime file. Al posto dell'ordinamento falangita troviamo poi, non sappiamo quando introdotto né sotto la pressione di quali fatti (si pensò alla catastrofe gallica e specialmente alle guerre sannitiche, ma non si può precisare), un altro ordinamento, per il quale la fanteria della legione risultava divisa in tre linee; e queste in un certo numero di unità intervallate e quindi con una certa autonomia tattica; unità che non erano le centurie, troppo piccole ormai per costituire nuclei tattici autonomi, ma gruppi di due centurie detti manipuli, dieci per ogni linea. Fu una grande innovazione, conseguenza di concezioni tattiche nuove, che impressero all'esercito romano la sua potente originalità. ll manipolo era così chiamato dalla mano infissa su una pertica, il signum col quale il comandante dà gli ordini agli uomini del suo manipolo, e che è l'indice della sua autonomia; altra cosa erano le immagini di animali, i palladî totemici dell'esenito primitivo, dei quali l'aquila assurse poi a simbolo sacro della legione. I soldati della prima linea sono detti nell'età classica hastati, e principes e triarii (o pilani) quelli delle altre; ma poiché i principes non stavano in prima linea, gli hastati non avevano hastae, cioè aste da uno, ma pila, la nuova speciale lancia da getto, mentre di hastae erano armati i pilani o triarii, questa ordinanza deve essere stata preceduta da un'altra, nella quale i principes stavano in prima linea, seguiti dagli hastati. Noi non sappiamo in quale rapporto questa ordinanza fisse con la falange serviana; ed è d'altra parte naturale che gli ordinamenti militari romani abbiano assunto forme varie nell'evoluzione tre volte secolare dall'epoca di re Servio al sec. III a. C., quando noi sappiamo con certezza che i fanti romani venivano assegnati alle tre linee non più in base al censo, perché lo stato ottiene con il soldo militare l'uniformità dell'armamento, ma secondo il criterio dell'età, e che gli effettivi delle tre linee, con eguale numero di manipoli, stavano come 2,2 e 1, cosicché i manipoli delle due prime salirono a 120 uomini e quelli della terza discesero a 60. Indubbiamente attraverso lunghi esperienze si giunse poi ad un armonico contemperamento nell'uso delle tre armi tipiche della fanteria di linea antica, la lancia da getto, l'asta da urto e la spada. La tendenza romana, tipica, è verso lo sfruttamento massimo delle qualità individuali del soldato nel quadro della più rigida disciplina; quindi la preminenza data alla spada, la più individuale delle armi, mentre l'asta da urto, l'arma per eccellenza delle falangi compatte, è relegata nella terza linea; le due prime file furono dotate di pila, speciale lancia da getto, con la quale s'apriva il combattimento romano e si preparava la lotta con la spada. La rinuncia all'asta da urto permise il caratteristico articolamento della legione in manipoli, cioè la soppressione delle difficoltà che su terreni non uniformi presentava il movimento della falange. La formazione in parecchie linee distanziate, in antitesi alla falange che agisce con l'urto contemporaneo di tutta la sua massa, è predisposta in vista della lotta con la spada, più lunga e faticosa e richiedente quindi un impiego successivo delle forze. I manipoli delle tre linee erano separati nello schieramento iniziale da intervalli eguali alla fronte dei manipoli stessi; non sappiamo però se questi intervalli venissero mantenuti nel combattimento, ma è probabile che, avanzando all'attacco, i manipoli passassero dall'ordine chiuso, più adatto allo schieramemo iniziale e alla manovra, ad un ordine più aperto, quale era richiesto dalla scherma con la spada, sopprimendo così gl'intervalli.
È questo il celebre ordinamento manipolare romano, che inquadrava la mobilità e l'autonomia dei manipoli nell'unità della linea e della legione, e che richiedeva un severo allenamento e una rigida disciplina: donde la grande stima dei Romani per i soldati veterani. Alcuni indizî farebbero credere che i Romani abbiano derivato alcuni elementi di questo ordinamento dai Sanniti.
Accanto alla fanteria di linea, assegnati ai manipoli e nell'ordine di combattimento posti dinnanzi alla prima linea, c'erano i fanti leggieri, armati di armi da getto, e il cui antico nome era rorarii. Il loro numero normale era di 1200, ossia 40 per manipolo. La cavalleria veniva assegnata alle legioni secondo il rapporto assai frequente nell'antichità di 1 a 10; 300 cavalli ai 3000 fanti di linea. Notizie incerte abbiamo su una cavalleria leggiera, i ferentarii. Dai ruoli delle centurie degli specialisti si assegnavano i trombettieri (tubicines e cornicines), gli armaioli (fabri) e gli scrivani (accensi) ai manipoli e ai comandi superiori.
Durante le guerre sannitiche, si cominciò a mobilitare per ogni console un esercito di due legioni, che sino al sec. I a. C. rappresentarono la forza normale di un esercito consolare. Quando più tardi dei pretori vennero destinati normalmente al comando di provincie, si assegnò invece ad essi la metà di un esercito consolare, cioè una sola legione. A formare gli eserciti romani concorrevano sempre gli alleati, con forze anche superiori a quelle di Roma. Il patto fra Roma e la Lega latina, conchiuso da Sp. Cassio nei primi anni della repubblica, sanciva l'obbligo di portare aiuto con tutte le forze all'alleato assalito; ma gli alleati erano su un piede di perfetta eguaglianza e pare che il comando spettasse a turno anche ai Latini, specialmente se la guerra si combatteva sul loro territorio. Sciolta la Lega latina, i trattati fra Roma e le singole comunità latine e italiche stabilivano l'obbligo da parte di queste comunità di fornire, dietro ordine di Roma, contingenti militari da porre al comando dei magistrati romani. Il governo romano stabiliva la cifra globale del contingente alleato da richiedersi, e questo veniva poi ripartito fra i varî alleati in base a una matricola, formula togatorum, sulla quale erano segnate le cifre dei cittadini in grado di prestare servizio in campagna (iuniores) di tutte le comunità alleate, che alla fine del sec. III erano ordinate in sette grandi circoscrizioni militari abbraccianti tutta la penisola. In genere, fino a una certa epoca, si chiedeva agli alleati un contingente di fanteria pari a quello reclutato fra i cittadini romani e uno triplo di cavalleria: e poiché la popolazione alleata stava alla romana nel sec. III all'incirca come 2 a 1, il servizio militare pesava sui Romani il doppio che sugli alleati. Dopo la guerra annibalica, si richiesero contingenti sempre più numerosi agli alleati.
Gli alleati erano ordinati in coorti e turmae, ognuna delle quali comprendeva il contingente di una o più comunità alleate (p. es. cohors Cremonensis, turma Placentina,Peligna); e siccome gli alleati prendevano posto in battaglia sulle ali delle legioni romane, metà a destra e metà a sinistra, essi erano divisi in due alae, sinistra e dextra, meno 1/5 della fanteria e un ⅓ della cavalleria, che col nome di extraordinarii sociorum erano tenuti a disposizione del comando dell'esercito. I comuni alleati pagavano il soldo alle proprie truppe. Si deve ritenere che gli alleati abbiano presto adottato l'armamento e gli ordini tattici romani, e quindi la suddivisione della fanteria in linee e manipoli.
Nel tempo più antico, il soldato romano doveva pensare ad armarsi e a mantenersi; ma quando le campagne di guerra divennero più lunghe (la tradizione dice in occasione dell'assedio di Veii), lo stato introdusse a titolo d'indennità il soldo militare, che aveva il vantaggio di ripartire anche su quelli che non prestavano servizio gli oneri finanziarî della guerra. Sul soldo lo stato tratteneva il costo delle armi, che esso prese a un certo momento a fornire, e del rancio, che consisteva specialmente in cereali (circa 850 gr. al giorno). La tradizione attribuisce al re Servio l'istituzione dell'aes equestre e dell'aes hordearium, indennità per l'acquisto e il mantenimento del cavallo, che lo stato corrispondeva ai 1800 cittadini iscritti nelle centurie equestri, i quali dovevano tenere sempre presso di sé il cavallo: ai cittadini più ricchi poteva essere richiesto il servizio a cavallo con mezzi proprî.
Roma non ebbe durante la repubblica esercito permanente. Se la guerra durava a lungo, le milizie più anziane potevano essere sostituite. Solo l'acquisto di provincie lontane, come la Spagna, portò con sé la necessità di mantenere in esse in permanenza dei corpi di truppa. Le risorse d'uomini che Roma ebbe a sua disposizione nei tempi migliori della repubblica erano larghissime, tenuto conto degli effettivi normali delle quattro legioni romane, che di solito costituivano il contingente romano dei due eserciti consolari mobilitati, e che non superavano i 18-20.000 uomini.
Il censo romano indicava come atti alle armi tutti i cittadini adulti di qualunque condizione (la cifra dei capita civium è nello stesso tempo quella di coloro qui arma ferre possunt); e questa massa era espressa nel sec. III da cifre oscillanti fra 240.000 e 300.000 cittadini all'incirca, e nel sec. II da cifre che si accostarono ai 400.000: di questi i due terzi erano iuniores. Praticamente la leva si faceva sui cittadini iscritti alle classi, e si ricorreva ai proletarî solo in caso di leva in massa (tumultus) o per equipaggiare la flotta. Al tempo di Polibio il limite minimo del censo era stato già abbassato da 12.500 o 11.000 assi a 4000. Ai cittadini iscritti alle classi, che avessero compiuto 16 campagne come fanti o 10 come cavalieri, non venivano poi richiesti ulteriori anni di servizio, qualunque fosse la loro età, tranne in casi di necessità; e queste cifre vennero nel sec. II ridotte, pare temporaneamente e in circostanze speciali, sino a 6 campagne annuali per i fanti. Da una certa epoca i generali usano però invitare i veterani, che avevano già compiuto il loro servizio, a riprendere le armi a condizioni particolarmente favorevoli (evocati). Il reclutamento dei contingenti alleati avveniva sulle masse ancor più numerose dei soci Latini e Italici. In questo modo le risorse militari umane di Roma e dell'Italia già nel sec. III superavano di gran lunga quelle di qualsiasi altra potenza del mondo antico. Un'idea concreta di tutto ciò ci è data dal quadro delle forze militari romano-italiche per il 225, conservatoci specialmente da Polibio (II, 24). Per quanto questo documento sia in parecchi punti incerto, le valutazioni più basse sono che Roma e gli alleati disponevano in quell'anno di almeno 550.000 iuniores, di guisa che la mobilitazione di due eserciti consolari e di uno di riserva non richiedeva che 1/10 circa degli iuniores. Con tali mezzi Roma poté superare la crisi della guerra annibalica. Durante questa guerra si cominciarono ad aggregare agli eserciti romani corpi ausiliari (auxilia) soprattutto di specialisti (arcieri, frombolieri) forniti da popolazioni extraitaliche o come mercenarî o come alleati. Questi ausiliari presero il posto dei veliti romani o alleati, conservando in genere il loro armamento nazionale. Il più esteso reclutamento di auxilia fu fatto prima in Spagna; e auxilia cominciarono a sostituire sempre più la decadente cavalleria romano-italica.
Gli eserciti romani erano comandati dai magistrati e promagistrati cum imperio, consoli o pretori, proconsoli o propretori, e in via eccezionale dal dittatore col suo magister equitum o anche da privati, ai quali il popolo avesse concesso l'imperium. I comandanti degli eserciti romani non erano quindi dei generali nel senso moderno della parola, ma dei magistrati per i quali il comando degli eserciti era solo un aspetto del loro potere. Il comando dei magistrati annuali romani era compatibile con le guerre del tempo più antico, combattute nella stagione estiva e in paesi non lontani. Ma quando si dovette combattere in lontane provincie, come la Spagna, o in guerre particolarmente difficili, apparve l'assurdità di sostituire, alla scadenza annuale, capi che avevano dato ottima prova di sé e che avevano acquistato pratica del teatro di guerra e del nemico, e si adottò il sistema di prorogare l'imperium al magistrato per uno o più anni o sino alla fine della guerra. La guerra annibalica rese necessaria una larga applicazione di questo sistema, che rimase poi sempre. I magistrati romani comandanti avevano gli auspicia e quindi la responsabilità e il merito della condotta delle operazioni che si svolgevano nel territorio di loro competenza, anche se assenti, e a loro i soldati si obbligavano con solenne sacramentum. Il loro potere disciplinare al campo era pieno e, fino all'epoca repubblicana tarda, libero da tutti i vincoli che lo limitavano nella sfera civile di fronte ai cittadini non soldati. Se gli eserciti di due magistrati di pari potestà operavano insieme, il comando veniva esercitato per turno giornaliero. Per l'amministrazione, vi era, come intendente generale, un questore che poteva assumere anche funzioni di comando. L'ufficialità era costituita dai tribuni militum, originariamente i capi dei contingenti di fanteria delle tre tribù, saliti a 6 quando l'esercito fu raddoppiato e rimasti poi sempre in tal numero presso ogni legione. Essi non comandavano una frazione della legione, ma collegialmente tutta la legione, due alla volta, per turno mensile, suddividendosi le mansioni; il comandante poteva attribuire speciali incarichi ai tribuni di turno o a quelli che fuori turno rimanevano a sua disposizione. Scelti più anticamente tutti dai magistrati, furono poi sottoposti all'elezione popolare i tribuni delle quattro legioni ordinarie (trib. m. a populo). I magistrati sceglievano poi fra i Romani i praefecti sociorum, tre per ogni ala, con funzioni analoghe a quelle dei tribuni delle legioni; le coorti alleate avevano i loro prefetti nazionali. Importanza sempre maggiore vennero poi assumendo i legati, luogotenenti di rango senatorio scelti dal comandante, ai quali egli affidava comandi e mansioni speciali. Questi ufficiali provenivano dalla nobiltà o dall'ordine equestre. Ma l'addestramento della truppa, la disciplina e la condotta degli uomini nel combattimento erano affidati ai capi delle centurie, i centuriones, 60 per legione e due per manipolo; il centurione della centuria di destra comandava l'intero manipolo. I centurioni erano scelti dai tribuni fra gli uomini di truppa e potevano salire fino al grado di centurioni primipili, difficilmente al tribunato militare. Pur adempiendo le funzioni dei nostri ufficiali subalterni, essi erano considerati dai Romani come sottufficiali. Essi portavano sempre il bastone di tralcio (vitis), simbolo e strumento del loro potere disciplinare. Sotto i centurioni v'erano poi i graduati inferiori di truppa, optiones, aquiliferi, signiferi, ecc. Le turmae della cavalleria erano comandate dal più anziano dei tre decuriones della turma: non v'era comandante permanente della cavalleria delle legioni.
Non essendovi nella Roma repubblicana esercito permanente, non c'era neppure un corpo di ufficiali né una carriera fissa. Cittadini, che come magistrati avevano tenuto il comando supremo, potevano poi servire come tribuni militari o legati. Col congedo dell'esercito a guerra finita, tutti i gradi decadevano. Per i posti di centurione, però, il magistrato che procedeva ad un nuovo arruolamento teneva conto dei gradi rivestiti durante precedenti campagne, e si vennero così stabilendo col tempo delle specie di norme di avanzamento, alle quali però il magistrato non era legato. La disciplina era la forza principale dell'esercito romano. Essa era ferrea; il servizio era severamente e minutamente regolato e il soldato era tenuto sempre occupato ed esercitato in rudi lavori, come quello della fortificazione del campo. Come gli onori del trionfo attendevano il generale vincitore, così questi disponeva per destare l'emulazione e stimolare il valore dei soldati di numerose decorazioni (hastae purae, phalerae, torques, armillae e varie specie di coronae) e poteva inoltre concedere aumenti di soldo o donativi sulla preda a singoli soldati o a interi reparti.
Durante il sec. II a. C. gli ordinamenti militari romani subirono profondi mutamenti. Roma cominciò a soffrire verso la metà di questo secolo di una grave crisi di effettivi. Il ceto medio si riduceva fortemente e cresceva il proletariato, cosicché riusciva difficile reclutare in base alle liste delle classi, anche dopo la riduzione del censo minimo. Ti. Gracco si accinse alla sua riforma agraria appunto per combattere questa crisi degli effettivi. D'altra parte i cittadini censiti si presentavano sempre piú malvolentieri alla leva, sia per l'impopolarità delle guerre combattute nelle lontane provincie sia per il decadere dello spirito militare e del sentimento civico nelle classi più elevate, e cercavano in tutti i modi di sfuggire all'arruolamento. Questa condizione di cose si ripercuoteva sinistramente anche sulla disciplina e il morale degli eserciti così faticosamente reclutati, che diedero spesso triste prova di sé nella seconda metà del secolo. Solo la speranza di ricche prede e il credito personale di un capitano potevano alle volte indurre forti schiere di cittadini a dare il loro nome come volontarî, ordinariamente come evocati; gli eserciti dei due Africani ne contavano un gran numero. La minaccia delle prime invasioni germaniche alla fine del sec. II costrinse Roma ad adottare rimedî radicali. Mario arruolò le legioni destinate ad opporsi ai Cimbri ed ai Teutoni senza tener più conto delle classi del censo. I principî che regolavano il reclutamento non furono abrogati, e in teoria la leva rimase e fu ancora in casi particolari applicata; ma i proletarî furono chiamati da Mario a formare le sue legioni come volontarî. Fu la fine della milizia cittadina romana. Il soldato romano possidente dei tempi migliori della repubblica militava per dovere civico, in attesa che il congedo o la fine della guerra lo restituisse alla sua azienda rurale o alla sua professione; il proletario senza professione arruolandosi sceglieva come suo mestiere la vita militare, con l'intenzione di rimanere per lunghi anni sotto le insegne (si fissa ora il periodo di ininterrotto servizio di 16 e poi di 20 anni) e la speranza di congedarsi quando che sia con un gruzzolo risparmiato sullo stipendio, sulle prede e sui donativi, per vivere una vita di riposo su un pezzo di terreno assegnatogli all'atto del congedo dal generale. La condizione del soldato e l'avverarsi delle sue speranze dipendevano quindi dal generale, e ai generali più che allo stato sono perciò legati i nuovi eserciti professionali. Il nuovo sistema, oltre ad essere inevitabile, presentava parecchi vantaggi. I superstiti elementi delle classi medie venivano risparmiati con beneficio dell'economia sociale, e il proletario era più docile e disciplinato del milite censito che serviva contro voglia; Mario poté così subito riformare l'equipaggiamento dell'esercito e trasferire sulle spalle del soldato parte dei bagagli, che richiedevano un treno ingombrante al seguito delle truppe. Le legioni dell'epoca classica venivano formate a ogni mobilitazione e disciolte quando non ve n'era più bisogno; ora esse diventano corpi stabili, nei quali i soldati rimangono a lungo, con una loro insegna (Mario fece appunto dell'aquila l'insegna sacra della legione), una loro tradizione e spesso anche un nome.
Nello stesso tempo profondi mutamenti avvenivano anche nella costituzione organica dei corpi dell'esercito. Nella guerra annibalica l'ordinamento manipolare si era dimostrato troppo schematico e impari alle nuove esigenze della battaglia manovrata; fra la legione troppo grossa, e il manipolo troppo piccolo, non c'erano unità intermedie per la manovra tattica.
Si profittò dapprima della suddivisione della legione in tre linee, adoperando una o due linee ad uno scopo diverso da quello di rincalzare la linea antistante; ma si finì poi col rendere permanente la riunione (che già compare come occasionale al tempo dell'Africano maggiore) a tre a tre dei manipoli dei tre ordini della legione portanti lo stesso numero in 10 unità maggiori, dette, dai corpi degli alleati, coorti. Manipoli e centurie rimangono solo come unità amministrative e rimangono per ogni coorte i 6 centurioni dei 3 manipoli; ma la differenziazione della truppa in astati, principi e triarî scompare. Per antichissima tradizione la legione era un piccolo esercito, con la sua cavalleria, i suoi veliti, i suoi specialisti; ora cavalleria e veliti vengono staccati dalla legione e formano corpi indipendenti a disposizione del comando dell'esercito, e la legione diviene un corpo di fanteria di linea. Mario ne portò l'effettivo a 6000 uomini, cifra che rimase poi come regolamentare e la coorte avrebbe così dovuto avere 600 uomini; ma molti generali preferirono anche in seguito legioni più piccole e più maneggiabili. La guerra sociale e l'estensione della cittadinanza a tutta l'Italia romanizzata fece scomparire dagli eserciti romani le alae degli alleati; tutta la fanteria di linea è ora costituita dalle legioni romane. Viene meno quindi anche l'antico schema dell'esercito consolare di due legioni e due alae, e gli eserciti risultano ora di un numero vario di legioni: quello di Cesare salì durante la guerra gallica sino a 10 legioni. Scompare la cavalleria italica, sostituita da squadroni di Numidi, Iberi, Galli e Germani, e fuori d'Italia si reclutano arcieri, frombolieri e altri armati alla leggiera, che sostituiscono i veliti cittadini. Il soldo, da indennità diviene ora vera e propria mercede sulla quale il soldato conta di risparmiare; Cesare lo raddoppiò al principio della guerra civile. La disciplina dipende dall'energia del generale ed è basata sul rapporto fra soldato e generale; ma anche Cesare, fascinatore di truppe, si trovò varie volte dinnanzi a pericolosi ammutinamenti.
Durante le guerre civili, con tutti i mezzi, leve, arruolamenti volontarî, e formando anche legioni di provinciali (vernaculae, come la celebre V Alaudae di Galli Narbonesi), i contendenti armarono eserciti quali mai s'erano veduti nell'antichità: circa 40 legioni erano in armi all'epoca della battaglia di Farsalo, altrettante ne lasciò Cesare; quasi 70 ce n'erano all'epoca di Filippi, ove si batterono 36-38 legioni con circa 200.000 fanti e 33.000 cavalli; 45 ne aveva Ottaviano prima di Azio e più di 30 Antonio. Cessate le guerre civili, Augusto dovette risolvere il grave problema della riorganizzazione dell'esercito. Ad un ritorno al sistema delle milizie non c'era da pensare, poiché un esercito permanente doveva difendere la frontiera dell'Impero e costituire la base del potere del principe; d'altra parte bisognava procurare i mezzi per mantenere questo esercito. Augusto ridusse il numero delle legioni, che alla sua morte erano 25, e soddisfece con terre e denaro i veterani delle legioni disciolte. L'obbligo generale al servizio militare venne in principio mantenuto; nella pratica però si ricorre ordinariamente a volontarî o a mercenarî. I cittadini romani dovevano, in cambio del loro primato nell'Impero, dare la fanteria di linea delle legioni; e se provinciali, che dovevano essere però romanizzati, entravano nelle legioni, ricevevano all'atto stesso del loro arruolamento la cittadinanza. La durata del servizio fu nel 13 a. C. fissata da Augusto a 16 anni, dopo i quali il soldato aveva diritto al congedo e al praemium militiae, pagato dall'aerarium militare istituito a tale scopo. Per le difficoltà del reclutamento, si cercava però di trattenere in servizio il più a lungo possibile i veterani. Il principio della italianità delle legioni fu osservato dagl'imperatori della casa Giulia; ma Vespasiano, ostile agl'Italiani per la loro scarsa disciplina, cominciò a reclutare nelle provincie occidentali. Adriano adottò il reclutamento locale nelle zone occupate dalle singole legioni, ciò che indebolì le legioni orientali completate con reclute di scarso valore militare. Con gli Antonini, anche peregrini furono accolti nelle legioni e Settimio Severo, eletto dalle truppe di confine, cacciò del tutto gl'Italiani dall'esercito. Così gradatamente la popolazione più civile dell'Impero rinunciò alla forza militare a favore degli elementi meno civili. Le funeste conseguenze di questa rinuncia si fecero presto sentire in tutta la loro gravità.
Augusto non poteva trascurare le immense risorse militari delle provincie. Queste furono chiamate a fornire l'altra grande categoria di forze armate, dopo le legioni, cioè gli auxilia, che presero il posto dei socii italici degli eserciti repubblicani. Tutta la cavalleria era costituita dalle alae ausiliarie, mentre alle legioni romane corrispondevano le coorti ausiliarie di sola fanteria o miste (peditatae o equitatae): alae e coorti si distinguevano, a seconda degli effettivi, in quingenariae e miliariae, e si chiamavano di solito dal popolo presso il quale erano state in origine reclutate (v. ala; coorte).
Angusto diede a questi corpi stabile organizzazione, e, nei limiti del possibile, armamento e istruzione uniforme, alla romana, sotto la guida di ufficiali romani; i reparti con armamento e duci nazionali furono soppressi dopo l'esperienza della ribellione gallica del 60 d. C. Fecero da principio parte degli auxilia anche le cohortes civium romanorum, sulle quali siamo però molto all'oscuro. Dopo 25 anni di servizio, gli ausiliari congedati ricevevano la cittadinanza romana. Dapprima gli auxilia erano stabilmente aggregati alle legioni o destinati a presidiare provincie non occupate da legioni; dalla fine dei sec. I diventano invece autonomi e sottoposti direttamente ai comandi d'esercito. Al tempo di Augusto e di Tiberio gli effettivi degli auxilia eguagliavano all'incirca quelli delle legioni; il rapporto mutò poi considerevolmente nelle varie epoche. Si cercava di reclutare gli auxilia regolari nelle provincie più romanizzate, anche per le esigenze linguistiche; ma con Traiano compaiono formazioni reclutate nelle provincie meno romanizzate e fra i barbari dette numeri, e corrispondenti alle truppe leggiere ausiliarie della repubblica. Concessa da Caracalla la cittadinanza a tutte le provincie, molti stranieri entrarono nei numeri, anzi alcuni numeri erano tutti di stranieri. Si aggiunsero poi contingenti di stati tributarî e di mercenarî.
Il problema dell'ufficialità fu risolto da Augusto nel senso che il servizio di ufficiale divenne parte essenziale e necessaria della carriera degli ordini senatorio ed equestre da lui riorganizzati (v. cavalleria e cavalieri). I giovani senatori entravano nell'esercito come tribuni di legione, passavano poi legati legionis, cioè comandanti di legione, e quindi legati Augusti pro praetore, cioè governatori di provincie militari e comandanti degli eserciti in esse di presidio come legati dell'imperatore, capo supremo dell'esercito. I giovani cavalieri servivano come prefetti delle coorti e delle ale ausiliarie o come tribuni di legione, e potevano poi aspirare alla carriera amministrativa come procuratori o prefetti imperiali, giungendo sino alle alte cariche della prefettura del pretorio o dell'Egitto. Fu regolata anche la carriera degli ufficiali subalterni, i centurioni, provenienti dalla truppa e in alcuni casi dai cavalieri, in vista di supplire con i centurioni di grado più elevato (p. es. il praefectus castrorum) alla scarsa pratica del servizio degli ufficiali senatorî o equestri.
Speciale importanza, oltre che politica, militare, avevano le coorti pretorie (v. pretoriani), la guardia del comando supremo (praetorium), cioè dell'imperatore residente in Roma, sviluppatasi dalla coorte pretoria degli eserciti degli ultimi tempi della repubblica. Composte di elementi scelti, reclutati prima in Italia e poi nelle provincie più bellicose, e superiori di rango alle legioni, esse davano la maggioranza dei centurioni alle legioni, e assicuravano quindi l'uniformità dell'istruzione dell'esercito dislocato dalla Britannia all'Arabia, e composto di elementi sempre più eterogenei. Accanto alla guardia con le sue varie formazioni, presidiavano la capitale le cohortes urbanae e vigilum; le legioni e gli auxilia invece erano distribuiti nelle provincie militari, lungo le frontiere, ove formavano i varî exercitus, e risiedevano nei campi fortificati e nei castelli delle linee fortificate (limites). La dislocazione delle legioni variò a seconda dei tempi e della pressione dei barbari sull'uno o sull'altro settore del confine: il più forte concentramento si ha nel sec. I sulla frontiera renana, nel sec. II sul Danubio e in Siria.
Con Augusto la legione riebbe il suo contingente di cavalleria e in parte quindi l'antico carattere di corpo autonomo; ma si ritornò a periodi al sistema preaugusteo della cavalleria d'esercito. Le legioni furono dotate di artiglieria da campagna (onagri, balliste e catapulte) e ricevettero un nome (v. legione). Il numero delle legioni crebbe lentamente da Augusto a Settimio Severo fino a 33, con effettivi da 5 a 6000 uomini; con gli auxilia, le forze armate dell'impero si possono valutare, per il sec. II d. C., da 300.000 a 350.000 uomini, piccola cosa, secondo i nostri concetti moderni, per un impero che contava meno un 60 milioni di abitanti. Il costo di questo esercito era però, per le finanze dell'impero, molto grave. Le difficoltà di reclutamento e la necessità d'ingraziarsi le truppe condussero a continui aumenti del soldo; dai 2000 e di 600 sesterzî annui pagati da Augusto ai pretoriani e ai legionatî, si salì con Caracalla a 10.000 e a 3000; la moneta andava però svalutandosi.
La disciplina era la forza dell'esercito imperiale e fu per lungo tempo mantenuta, anche attraverso le più gravi crisi politiche. Con l'imbarbarirsi dell'esercito, decadde nello stesso tempo anche la disciplina. Manovre, marce e lavori tenevano sempre occupati i reparti. Il matrimonio degli uomini di truppa, compreso il centurione, era rigorosamente vietato, e se i soldati avevano delle donne e dei figli, questi dovevano vivere fuori del campo: quando Settimio Severo permise, pare, ai soldati di abitare fuori servizio nelle case vicino al campo, la compagine dell'esercito ne soffrì molto. Un potente fattore di coesione era il culto che ogni reparto prestava ai suoi dei, alle sue insegne e al genius dell'imperatore, il cui culto era l'espressione dell'unità dell'esercito e dell'impero.
Alla fine del sec. III Diocleziano e Costantino fecero un ultimo grande sforzo per ridare vita all'esercito. Le unità furono aumentate lsi dice che Diocleziano abbia quadruplicato gli effettivi dell'esercito) e si cercò di supplire col numero alla decadenza della qualità. E poiché il sistema della difesa a cordone delle frontiere, che obbligava a sguarnire un settore per rinforzarne un altro minacciato, si rivelò a lungo andare insufficiente, l'esercito fu diviso in due masse; i vecchi corpi furono lasciati di presidio alla frontiera (limitanei) e fu creato un esercito di campagna all'interno, pronto ad accorrere dove ci fosse bisogno. Questo esercito era composto di corpi di nuovo tipo, con effettivi minori degli antichi reparti, distinti in vexillationes di cavalleria (500 uomini) e legiones di fanteria (1000 uomini), comitatenses e palatinae. Queste ultime, con gli auxilia palatina, presero il posto della decaduta guardia dei pretoriani. Le due parti, orientale ed occidentale, dell'impero ebbero ciascuna il loro esercito. Le forze armate erano alle dipendenze di due generali detti magister peditum praesentalis (in praesenti) e magister equitum praesentalis, il primo superiore al secondo. Al comando degli eserciti di campagna si destinavano comites. I limitanei erano invece agli ordini dei duces, che tenevano nelle provincie il comando militare, dal sec. III separato dal governo civile.
Ma l'imbarbarimento era ormai completo. Gli ultimi grandi magistri militum furono barbari come Stilicone e Ricimero; barbara era l'ufficialità di ogni grado (caratteristica è la scomparsa nel sec. IV del centurione) e i soldati più apprezzati venivano dalle tribù più selvagge. L'armamento e la tattica romana furono sostituiti dalle armi più rozze e dai primitivi metodi di combattimento dei barbari; la cavalleria prese il sopravvento sulla fanteria decaduta, e gradatamente il millenario esercito romano si trasformò in un'accolta di schiere barbariche. Fu la fine dell'esercito e, insieme, dell'impero e della civiltà di Roma.
Bibl.: La letteratura sull'esercito romano è immensa. Quella più antica è indicata in J. Marquardt-A. v. Domaszewski, Röm. Staatsverwaltung, II, 2ª ed., Lipsia 1884 (trad. francese: De l'organisation militaire chez les Romains, Parigi 1891) e in Daremberg e Saglio, Dict. des antiquités, art. Exercitus; la più recente in J. Kromayer e G. Veith, Heerwesen u. Kriegführung d. Griechen u. Römer, Monaco 1928. Per le opere principali v. cavalleria e cavalieri; coorte; legione.
Medioevo ed età Moderna.
Medioevo. - Nel Medioevo la consistenza e la struttura organica delle forze armate rispecchia lo stato caotico di una società che faticosamente ricerca nuovi orientamenti e lavora durante secoli, fra incertezze e contraddizioni, per costruire sulle rovine del mondo romano una diversa civiltà. Nuove energie (che si riassumono in gran parte nel cristianesimo e nel germanesimo) elaborano la decadente società imperiale, ma solo dopo il mille hanno effetti costruttivi, pur fra tentennamenti e lotte, come quelle fra papato e impero, fra potere regio, privilegi feudali, libertà comunali.
Nel primo periodo, dopo gli ultimi sforzi compiuti da Belisario e da Narsete, le legioni dell'impero d'Oriente - che avevano conservato le apparenze, ma non l'essenza delle legioni di Roma dell'età classica - cedono dinnanzi alle masse armate dei barbari e da questo momento prevalgono gli ordinamenti guerreschi delle società barbariche, imperniati sull'utilizzazione del valore personale, con organismi rudimentali, ridotti alla più semplice espressione di aggruppamento di fanti, con scarso ausilio di cavalli, scarsissimo di macchine. I Franchi furono tra i barbari espressione tipica di questa manifestazione guerriera, nella quale l'arte fu pressoché nulla, e il cui successo fu dovuto alla pressione brutale del numero e più ancora all'effetto d'intimidazione che un'intrepidezza ingrandita dalla leggenda sempre produce sui fiacchi e sui rassegnati.
Dalla restaurazione dell'impero romano in Occidente, basata sulla concezione di un potere spirituale esercitato direttamente dal pontefice e di un potere temporale esercitato dall'imperatore quale messo di Dio consacrato dal papa, doveva derivare un incremento degli eserciti, in quanto l'accordo fra papa e imperatore mirava appunto a dare alla cristianità le armi per difenderla contro gl'infedeli, e per aiutarla nella propagazione delle sue dottrine. Ma poiché nell'impero romano d'Occidente permane nell'ordine politico una forma largamente federativa, rispettosa delle costumanze dei diversi popoli (mentre nell'ordine religioso si stabilisce un dominio unitario e integrale), lo strumento bellico che Carlomagno si foggia viene a mancare di omogeneità e di fusione, e conseguentemente di uniformità organica.
Non tutti i particolari della costituzione degli eserciti di Carlomagno sono noti. Si sa che essi si fondavano sul principio del servizio obbligatorio e gratuito per tutti i detentori di benefici e i loro clienti e che tutti gli uomini liberi, possessori di una certa superficie di terreno (circa 6 ettari) avevano anch'essi obbligo di servire personalmente nell'esercito, i proprietarî minori si riunivano nel numero necessario per raggiungere il minimo di 6 ettari, e l'uno di essi prestava effettivamente servizio militare, gli altri gli fornivano le armi, i cavalli, le provvigioni. Ma, mentre per i vincolati al feudo era garanzia di obbedienza agli ordini di coscrizione lo stesso beneficio (che sarebbe andato perduto in caso di renitenza o diserzione) per i liberi proprietarî le sanzioni erano meno facili e il mancato concorso ai bandi di convocazione era più frequente. Le chiamate raramente furono generali; frequentemente si limitarono alle provincie più prossime al teatro delle operazioni. Comunque, il sistema militare di Carlomagno fu soprattutto basato sul prestigio personale del grande imperatore e fu questa la ragione per la quale non gli sopravvisse.
Diminuita la forza dell'autorità imperiale, la coesione che aveva tenuto insieme elementi militari eterogenei fu a poco a poco distrutta dal particolarismo e col decadere delle istituzioni militari decadde un impero basato sulla forza: quarant'anni dopo la morte di Carlomagno, l'impero d'Occidente s'infranse.
In questo momento appariscono in pieno nell'ordinamento delle forze armate le caratteristiche della feudalità. Il trapasso dei feudi per eredità, che era stato elemento di forza per l'imperatore allorché concesse ai sollecitatori questa forma di stabilizzazione, divenne elemento di debolezza quando il trapasso fu ormai considerato un pacifico diritto e la disobbedienza all'imperatore non più, o assai meno, rischiosa. Così la sovranità venne frantumata e parallelamente si dissociò l'organismo militare fino a ridursi allo stato molecolare. E se riuscirà al potere regio di mettere insieme, nei momenti di pericolo, eserciti sufficientemente numerosi, sarà pressoché impossibile conferir loro struttura omogenea, unità di comando, concordia di animi, senso di disciplina collettiva.
L'addestramento alla guerra si riduce in questo tempo ai tornei, dei quali è fondamento e scopo la tenzone singolare; e il solo aggregato militare che presenti consistenza ha vita nella "masnada", nel senso primordiale e non ancora spregiativo della parola, ossia nella famiglia militare del signore feudale, formata di uomini che combattono per il loro padrone e benefattore.
Organismi militari numerosi ebbero i Saraceni durante le loro lotte nella Spagna; ma con le notizie giunte a noi non si può concludere all'esistenza di forme complesse; ed anzi, i pochi racconti enfatici di quelle gesta, così da parte degli Spagnoli come da parte degli Arabi (nei quali racconti sono messi esclusivamente in rilievo gli atti di bravura dell'uno o dell'altro guerriero) inducono a ritenere che gli ordinamenti militari, e per conseguenza i procedimenti di guerra, avessero per caratteristica uno sminuzzamento organico non dissimile da quello del mondo feudale. Anche i successi dei Normanni più che a superiorità di ordinamento o di procedimenti applicativi sono da ascrivere alle ottime qualità guerriere dei singoli, e al fortunato accoppiamento delle qualità del combattente terrestre con le qualità marinare.
Ben presto, in quello stato diffuso di guerriglia che si accompagnò alla feudalità, sorse un nuovo elemento determinante: il comune. Questo conferisce ai cittadini, non servi ed atti al combattere, il diritto e il dovere di difendere gl'interessi della collettività anche con le armi alla mano se occorra, nel tempo stesso che conferisce loro il diritto e il dovere di partecipare alle discussioni dell'arengo. Nell'età aurea dei comuni, il capo politico ed amministrativo è anche il capo militare. I comuni italiani dovettero cimentarsi in una doppia lotta: l'una a sfondo sociale contro i signori feudali estranei e ostili al comune; l'altra a sfondo nazionale contro i tentativi di germanizzazione delle contrade italiane. Le imprese di guerra dei comuni richiesero in questo secondo compito forze considerevoli, ottenute mediante leghe (Lega lombarda, Legnano), ma gli organismi armati comunali rimasero sempre per necessità di cose, a minima intelaiatura. Fu loro essenziale caratteristica - oltre l'elevato spirito proprio di chi combatte per interessi collettivi e non per servilismo verso un padrone - la valorizzazione dell'uomo a piedi, dai comuni tenuto per validissimo combattente, difensore strenuo del carroccio e del gonfalone. Così nobilitato, il fante, nella lotta contro il cavaliere, pose ogni cura a perfezionare, a poco a poco, le armi e gli accorgimenti. Ragioni analoghe di ordinamenti democratici, cui si aggiungeranno le caratteristiche geogranche del terreno montuoso, imporranno alla Svizzera eserciti di fanti, che trionferanno delle cavallerie austriaca e borgognona. I vittoriosi montanari elvetici, combattenti con lunghe picche in ordine falangitico, sono nel campo militare fenomeno connesso con la reazione del popolo contro la nobiltà.
Una maggior considerazione dei pedoni si era manifestata - per effetto di conciliazione, più che per gara di prevalenza - durante le crociate, le maggiori imprese militari del feudalesimo. Questi grossi eserciti miranti alla conquista dei Luoghi Santi, non furono in realtà se non giustapposizione inorganica di una folla di minuscoli organismi, sospinti bensì da una comune passione religiosa, ma senza omogeneità fra loro, senza comunanza di linguaggio, senza concorde disciplina, senza gerarchia di comandanti.
Maturava frattanto nel caotico mondo dell'età di mezzo un altro importante fenomeno militare; quello dei capitani di ventura e delle loro compagnie di mercenarî, le quali furono precedute da un mercenarismo individuale. Le compagnie furono dapprima poco numerose, ma molto audaci, costituite di uomini per i quali l'esercizio delle armi era mestiere, non missione ideale. Solo in questo tempo si può, a rigore, cominciare a parlar di eserciti, nel senso di organi specializzati per la guerra, con una psicologia professionale. L'ambiente favorevole per il loro propagarsi fu creato soprattutto dalle discordie interne nelle quali degenerò la vita dei feudi e dei comuni. Quando le fazioni si disputarono accanitamente il potere e dei dissensi approfittarono i più audaci per impossessarsi del potere e abbattere il comune e per fondare sulle rovine la signoria di una famiglia, le milizie comunali, in quanto s'identificavano con i cittadini, parteciparono anch'esse alle lotte intestine e si divisero fra le fazioni in lotta, ciascuna delle quali, per sopraffare l'altra con le armi, ricorse all'aiuto dei venturieri mercenarî. L'apporto delle compagnie di ventura rappresentò un elemento prezioso di preponderanza, soprattutto per la superiorità dell'addestramento e per la brutalità militaresca, per la quale si resero temibili. Giova notare che le milizie mercenarie ebbero prevalente funzione regia in contrasto con le milizie feudali.
Specialmente in Italia, le compagnie di ventura - fossero esse straniere o paesane - segnarono la quasi totale scomparsa delle milizie feudali e comunali divenute inutili. Gli smaniosi di potere ne assoldarono per la riuscita dei loro disegni di dominio; e, a successo ottenuto, ricorsero ad esse per consolidarlo. Così, con l'utilità che il mestiere delle armi procurava, crebbe il numero di coloro che vi si dedicavano. Spesso si riunirono numerose compagnie, prevî accordi fra i loro capi, a costituire degli eserciti, per quei tempi, di mole considerevole (diecine di migliaia di uomini) composti di cavalli, di fanti e di ausiliarî; questi complessi organismi adottarono in Italia metodi di combattimento con schieramenti in più linee, con riserve, con servizî - sia pur rudimentali - di esplorazione e di collegamento. Ciò fa dire comunemente agli storici che i capitani di ventura in Italia contribuirono alla rinascita dell'arte della guerra paesana. E, per quanto riguarda la tecnica, l'affermazione può essere senza altro accettata. Rimane però gravemente difettosa la base etica di questi eserciti di ventura, che non furono illuminati da una finalità superiore e che si volsero dove poteva essere più pingue il bottino e più generoso il soldo, oggi traditori e nemici dell'amico di ieri. Sicuro merito delle compagnie di ventura italiane fu nondimeno quello di aver soppiantato le straniere, che ancor più gravemente avevano fatto soffrire l'Italia.
Intanto fuori d'Italia, e specialmente in Francia durante la guerra dei Cento anni, venivano messi in luce, in maniera sempre più impressionante, i danni delle milizie mercenarie e delle milizie feudali. Conclusa la lunghissima guerra, Carlo VII - sospinto anche dalle suppliche e proteste che da ogni parte gli giungevano - istituì (1439) una milizia da lui direttamente reclutata, sottoposta a capi di sua scelta e sempre disponibile, iniziando così l'era degli eserciti permanenti. Questo stabile organismo fu dapprima modesto: in tutto 15 compagnie di 100 lance, ciascuna lancia di 6 uomini a piedi e 8 a cavallo. Ma l'importanza dell'istituzione fu nel principio informatore, col quale si diede all'esercito stabile assetto e si cominciò a conferirgli metodo nel comando, nelle ordinanze, nell'addestramento e nell'amministrazione della disciplina. Mentre da un punto di vista politico-sociale se ne avvantaggiò l'autorità regia, dal punto di vista della tecnica guerresca si posero le fondamenta per la rinascita dell'ane bellica.
Età moderna fino alla Rivoluzione francese. - Il progressivo affermarsi del potere centrale portò all'accrescimento e a un più saldo ordinamento delle forze armate; e i più numerosi e più disciplinati eserciti furono a loro volta - nelle mani del capo dello stato - strumento di una più larga e più salda politica nel campo delle contese internazionali. Meritevole di menzione il fatto che si incomincia a intravedere come l'educazione morale del soldato debba essere alla base dell'addestramento tecnico. L'attenzione è posta anche al problema del conferimento dei gradi, al di fuori dei privilegi della nobiltà e del censo; ma in questo campo sarà lunga e aspra la lotta contro i pregiudizî di casta. La maggiore stabilità degli ordinamenti rende possibile una maggior chiarezza amministrativa e una pratica più uniforme della disciplina. Si tende altresì a fissare un metodo nella concessione di ricompense e onorificenze militari. Tutto ciò, insomma, che contribuisce alla giustizia distributiva, e perciò alla più salda compagine collettiva nel campo dello spirito è oggetto di attente cure (chiari esempî gli eserciti di Gustavo Adolfo di Svezia e di Emanuele Filiberto di Savoia). Avverrà però di frequente che quando il comando degli eserciti non sia direttamente esercitato dal sovrano come nei due casi accennati, gli strateghi in campo agiranno mossi di lontano dai consigli aulici, con danno delle operazioni, in quanto l'inconveniente generalmente insito nei consigli di guerra, si aggraverà per la molta distanza, ostacolo di per sé stessa alle valutazioni esatte e immediate delle circostanze determinanti. Altra caratteristica degli eserciti della prima metà dell'evo moderno, è nella piattaforma del reclutamento: il mercenarismo permane commisto con gli ultimi avanzi delle milizie feudali.
In Piemonte, Emanuele Filiberto, rientrato in possesso dei suoi stati, ordinò l'esercito ricostituito, su tre linee: una prima di truppe mobili, in cui accanto ai soldati d'ordinanza (che servivano per mestiere) erano in gran numero le milizie paesane reclutate per obbligo, regionalmente, sulla base delle circoscrizioni parrocchiali; una seconda linea (scaglione organico di rincalzo) costituita da milizie paesane di seconda scelta e senza soldati d'ordinanza; e, infine, una terza linea - destinata a servizî prevalentemente territoriali - dove furono relegate le milizie dei vassalli. Circa la concezione del servizio obbligatorio è da notare che all'inizio dell'evo moderno il Machiavelli aveva affermato esser necessario per una sana politica affrancarsi dai mestieranti e statuire l'obbligo del servizio militare per i cittadini atti a portare le armi e la loro iscrizione in liste speciali, previa naturalmente la constatazione della loro idoneità fisica e la loro adunata periodica in campi d'istruzione. Ma il sano concetto che metteva a nuovo - secondo lo spirito del Rinascimento - la pratica seguita da Roma nell'età aurea, mal poteva adattarsi, per sostanziali diversità di fatto, al costume del tempo; e la sua affermazione integrale, come abbiamo accennato, richiese dei secoli.
Ad imprimere all'ordinamento degli eserciti dell'età moderna nuovo carattere, molto contribuirono le armi da fuoco; le quali - se al loro primo apparire sui campi di battaglia non avevano causato modificazioni notevoli nella compagine delle forze armate a causa delle loro molte imperfezioni - quando la migliorata tecnica accrebbe la sicurezza del loro uso e l'efficacia dei loro effetti determinarono una decisa prevalenza della fanteria sulla cavalleria nella dosatura degli eserciti e introdussero, terzo elemento, le bocche da fuoco trainabili in sostituzione delle macchine da guerra a propulsione elastica. Nella stessa massa dei fanti la crescente fiducia nelle armi da fuoco portò a una proporzione sempre maggiore di uomini combattenti con l'arma da sparo (azione a distanza) rispetto agli uomini combattenti con arma da punta (azione corpo a corpo); e verso la fine del Seicento l'invenzione della baionetta a ghiera (mediante la quale il fucile poté trasformarsi in una corta picca sempre conservando la possibilità di sparo) rese inutile la partizione della fanteria in due specialità diversamente armate. Così il fante divenne il combattente tipo, capace di agire alternativamente col fuoco e con l'assalto. Prima di questa invenzione, l'esercito spagnolo di Carlo V nella sua formazione tipica (40.000 fanti, 16.000 cavalli e 30 cannoni) aveva in ciascun reggimento di fanti 1000 uomini armati di moschetto e 2000 armati di picche. Gustavo Adolfo ridusse le picche a un terzo e portò a due terzi i moschetti. Nel 1692 nell'esercito francese di Luigi XIV gli uomini armati di moschetto erano i quattro quinti di quelli armati di picche.
L'ordinamento militare di Luigi XIV - che ebbe vita di un secolo, fino alla Rivoluzione francese - porta il nome del Louvois, ministro del re e riformatore sagace e tenace. Nei primi anni del regno l'esercito non era permanentemente costituito, e mancava di riserve organiche (ché tali non si potevano considerare le milizie territoriali o comunali male inquadrate e peggio istruite). Gli ufficiali reclutavano, equipaggiavano e armavano i gregarî a loro rischio e il sovrano concorreva soltanto in parte nelle spese. V'era continua incertezza sulla reale consistenza dei reparti. Gli uomini di complemento, che venivano chiamati saltuariamente alle armi ad arbitrio di ciascun comandante di compagnia (denominati passavolanti) servivano a falsare il computo della forza amministrata. Il Louvois, chiamato poco più che ventenne alla carica di segretario di stato (1662), cominciò un'ardua lotta contro la venalità e la condusse con tali metodi di rigore che glie ne venne fama di uomo crudele; stabilì severi principi disciplinari e gerarchici; accentrò nelle mani del ministro della Guerra il potere militare; istituì uno speciale corpo amministrativo dell'esercito; fece eseguire frequenti ispezioni di controllo a mezzo d'ispettori generali; adottò una divisa uniforme per ogni corpo o specialità; fissò stabilmente gli assegni in danaro per i varî gradi; fece dell'artiglieria un organismo ben definito, nel tempo stesso in cui restrinse i poteri quasi sovrani riconosciuti fin'allora al Gran Mastro delle artiglierie, e per effetto dei quali quest'arma veniva ad essere considerata come organismo privilegiato e separato dal resto dell'esercito; istitui, anche per ispirazione de Vauban, un corpo d'ingegneri militari; infine, per affermare la pubblica riconoscenza verso coloro che avevano combattuto per la patria, fece costruire l'Hôtel des Invalides.
Nel sec. XVIII domina la figura di Federico il Grande (v.), organizzatore e stratega. Egli introduce l'obbligo generale del servizio con chiamata per biglietto, mentre in Francia permane il racolage coi suoi molti inconvenienti di ordine morale; ripartisce il territorio del regno in distretti di leva; regola le dispense temporanee degli arruolati in relazione con esigenze sociali e famigliari, introduce in guerra il sistema dell'avanzamento per merito, indipendentemente dall'anzianità di servizio o di grado e dalla nobiltà della nascita, ciò che in Francia non si era potuto realizzare, ché anzi s'inasprì colà (editto di Luigi XVI nel 1781) l'esclusione dalla classe degli ufficiali di chi non fosse nobile. Nel decennio che seguì la guerra di successione d'Austria, Federico diede nuovo impulso all'addestramento dell'esercito nel campo di Potsdam, facendo manovrare grandi masse di molti battaglioni e conseguendo un alto grado di disciplina di manovra. Alla cavalleria diede agilità e slancio, vietandole il fuoco da cavallo. Divise anch'egli, come Gustavo Adolfo, l'artiglieria da campo in reggimentale e da posizione, la prima destinata in accompagnamento della fanteria.
Intanto alcuni enciclopedisti francesi e italiani bandivano, sulla medesima traccia del Machiavelli, la necessità di far intendere ai cittadini il loro dovere, ed insieme diritto, di difendere, armata mano, lo stato. Questo principio come gli altri che l'affiancavano nel campo politico e sociale, tendeva ad affermare l'evoluzione delle istituzioni dal carattere regio al carattere nazionale e democratico; ossia tendeva a rendere l'esercito indipendente dalle variazioni che potessero avvenire nel regime interno dello stato.
Nel decennio che precedette la rivoluzione, l'esercito francese non aveva potuto sottrarsi al turbamento degli animi determinato dal nuovo pensiero politico, né agli effetti della grave crisi economica attraversata dal paese. Così, esso era nel 1789 certamente inferiore di numero e di spiriti all'esercito di Luigi XIV; contava, nella parte attiva, circa 150.000 uomini, compresivi circa 50.000 stranieri (questi costituenti 23 reggimenti di fanti) nonché le normali aliquote di cavalleria (un quinto circa della fanteria) di artiglieria e del genio, ed esclusi pochi reparti scelti della Maison du Roi e i 7 reggimenti coloniali. V'era inoltre, sulla carta, un esercito di seconda linea, costituito da milizie obbligate al servizio militare (soltanto fanteria e artiglieria) e sommante a circa 75.000 uomini.
Dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri. - Il cataclisma della rivoluzione scosse fin nelle basi l'esercito regio, quando ancora non si erano poste le fondamenta di un nuovo ordinamento militare e mentre l'emigrazione in massa dei nobili faceva il vuoto nei quadri degli ufficiali, eccezione fatta per l'artiglieria e il genio, dove la necessità di severi studî aveva costretto a ricorrere (in deroga al menzionato editto del 1781) ad elementi delle classi borghesi, più studiosi e attivi. L'ostilità latente fra ufficiali e truppa valse ad estendere la ribellione generale anche nelle file delle forze armate. All'assalto della Bastiglia parteciparono soldati fuggiti dalle caserme. Più gravi scene avvennero nel mezzogiorno della Francia, dove le guarnigioni in rivolta imprigionarono e anche uccisero i capi. La situazione rimase caotica fino a che non intervenne il primo provvedimento legislativo, adottato dalla Costituente nel 1790, che innovava in senso democratico l'istituto della concessione dei gradi di ufficiale e istituiva il reclutamento sulla base del volontariato con impegno di servire per otto anni, con successive rafferme di quattro anni ciascuna. Fu quello della rivoluzione un volontarismo a sfondo politico, agli antipodi col mercenarismo; e infatti la coscrizione, che avrebbe obbligato tutti, anche i nemici del nuovo regime, a servire nell'esercito, non era misura che convenisse in quel primo periodo di formazione e di consolidamento dei nuovi istituti.
L'anno seguente (1791) una legge fissò l'ordinamento dell'esercito francese. Lo scaglione attivo fu mantenuto nella forza di 150.000 uomini (110.000 fanti, 30.000 cavalieri, 10.000 uomini di artiglieria e genio) e vi furono inclusi gli elementi già appartenenti all'esercito regio convertitisi al regime repubblicano; lo scaglione di seconda linea fu portato a 100.000 volontarî; e fu costituito un terzo scaglione (guardia nazionale in sostituzione delle milizie provinciali regie) comprendente tutti i cittadini validi, in possesso dei diritti elettorali ed in età compresa fra i 18 e i 50 anni. Vietato il racolage; soppressi i premî di arruolamento; aboliti i vecchi nomi dei reggimenti, che vennero sostituiti con un numero d'ordine; i gradi di ufficiale concessi ai sottufficiali per elezione dei gregarî e, nei battaglioni volontarî, per elezione anche di semplici soldati.
Le prime prove di guerra del volontarismo non essendo state quali si era sperato (diserzioni di interi reparti durante la campagna di Valmy), l'Assemblea legislativa dovette correre al riparo, senza però rinnegare il principio del volontarismo, che era stato solennemente proclamato come uno dei cardini della rivoluzione. Quando nel luglio 1792 la patria fu dichiarata in pericolo, l'Esecutivo ebbe facoltà di requisire gli uomini necessarî per un determinato tempo; e quando venne il momento di rinviare in congedo i primi requisiti, la Convenzione - con legge del febbraio 1793 - ordinò la requisizione di altri 300.000 uomini scelti fra i celibi dai 18 ai 40 anni; e nell'agosto seguente, di fronte alla controrivoluzione (cui il supplizio di Luigi XVI aveva dato nuova esca) e di fronte alla minaccia esterna, fu decretata la leva in massa di tutti gli uomini dai 18 ai 25 anni. Si raggiunse così coi militari già alle armi, il milione di uomini, e si continuò a chiamare questo organismo un esercito di volontarî. In questo momento l'esercito repubblicano risultava dalla somma di unità tutt'altro che omogenee; oltre le superstiti formazioni dell'esercito regio, si avevano corpi franchi, volontarî nazionali, volontarî stranieri (in omaggio al cosmopolitismo della rivoluzione) e unità costituite con le levate recenti. Fu allora stabilito (1794) di amalgamare i diversi elementi per trarne fuori un complesso omogeneo. L'idea di fondere armonicamente l'ardimento un po' sregolato dei volontarî e lo spirito abitudinario dei militari di mestiere, era già venuta al Lafayette che aveva composto le brigate con un reggimento di linea (ex-regio) e con due battaglioni di volontarî. Il Dumouriez aveva seguito lo stesso criterio; per amalgamare le varie armi si erano anche costituite piccole unità miste, dette "legioni" composte di due battaglioni di fanteria leggiera, un reggimento di cacciatori a cavallo e una compagnia di cannonieri con quattro pezzi. Coi decreti del gennaio 1794 l'amalgama fu completato e l'ordinamento dell'esercito su basi omogenee ebbe le caratteristiche seguenti: fanteria ordinata su 209 mezze brigate di linea e 42 mezze brigate leggiere; cavalleria su 85 reggimenti delle varie specialità (linea, dragoni, cacciatori, ussari); divisioni risultanti dalla riunione di due brigate, più un'aliquota di cavalleria e di artiglieria; raggruppamenti superiori determinati secondo le circostanze.
Ma la saggezza di questi provvedimenti non sarebbe stata sufficiente al superamento della grave situazione determinatasi per la Francia repubblicana dall'ostilità di tutto il mondo e dalle continue guerre che ne furono la conseguenza, se le istituzioni militari, nella loro evoluzione, non avessero trovato l'appoggio di spiriti ardenti di patriottismo. Senza di ciò non si comprenderebbe come un esercito, colto dalla guerra in crisi di riorganizzazione, abbia potuto in otto anni (1792-1800) respingere due invasioni, conquistare ed occupare il Belgio, l'Olanda, la Savoia, l'Alsazia, la penisola italiana, imporsi alla Spagna, minacciare l'Inghilterra e l'Egitto, scorrazzare per la Svizzera e la Germania fino alle porte di Vienna, e all'interno tener testa alla controrivoluzione.
Passato il Terrore e iniziatasi la normalizzazione della vita statale, anche l'esercito perde a poco a poco il carattere rivoluzionario e acquista una normale struttura tecnica. La regolarità delle carriere conseguente all'abolizione del conferimento del grado per elezione, attira nei quadri dell'esercito una quantità di giovani della nuova borghesia, formatisi in guerra come semplici soldati. Fratellanza d'armi e spirito di corpo conferiscono compattezza morale al corpo degli ufficiali. Ma tutto ciò, se giova da alcuni punti di vista, porta d'altra parte a differenziare lo spirito militare dallo spirito della rivoluzione, in quanto l'esercito sarà più nelle mani dei suoi capi che nelle mani dei governanti.
La legge (1798), sfavorevolmente accolta dal popolo, fissava l'obbligo per ogni cittadino di difendere la patria, e distingueva i due casi di chiamata ordinaria e di chiamata per gravi eventi straordinarî. Alla coscrizione erano soggetti tutti i cittadini dai 20 ai 25 anni, con facoltà al potere esecutivo di trattenere gli uomini oltre il 25° anno, in caso di guerra. I cittadini erano ripartiti in classi di leva, ogni classe comprendente i nati nel medesimo anno (del calendario repubblicano); in caso di esuberanza dei cittadini di una classe rispetto alle necessità organiche dell'esercito, la precedenza nell'incorporazione era attribuita ai più giovani; le altre modalità di reclutamento lasciate alle municipalità. Accanto alla coscrizione era consentito l'arruolamento volontario, con impegno di servire quattro anni, e se durante questo periodo fosse proclamato lo stato di guerra, per tutta la durata delle ostilità. Non ammesse le esenzioni (oltre quelle determinate da ragioni di salute) salvo per coloro che fossero già ammogliati all'atto della promulgazione della legge.
Appena assunto al consolato, il generale Bonaparte prescrisse rigorose sanzioni per i renitenti e stabili una tassa per gli abbienti non idonei; ma, nel tempo stesso, mitigò la legge introducendo l'esonerazione per i giovani giudicati più utili alla cosa pubblica nelle mansioni civili. Queste disposizioni furono probabilmente dettate dal senso pratico del Primo Console, il quale trovò il paese già stanco per otto anni di guerre, intuì il pericolo di misure troppo rigide e preferì procedere con cautela. Che essa fosse necessaria fu dimostrato dal fatto che, quantunque sul contingente dell'anno VIII si richiedessero soltanto 30.000 uomini (un sesto circa della disponibilità) il numero desiderato non fu raggiunto. Lo stesso accadde per le levate degli anni IX e X. Tanto che per gli anni XI e XII (con legge del 1803) fu allargato l'istituto della surrogazione.
All'avvento dell'impero (1804) una nuova legge statuì che nessuno potesse avere impieghi o funzioni rimunerati dallo stato, dalle prefetture o dai comuni, se prima non avesse assolto ai proprî obblighi militari. Ma la tendenza rimase in complesso quella di non disgustare la popolazione, sempre ostile al servizio militare obbligato; e mentre da un lato si accrescevano, come sopra detto, le facoltà della surrogazione, dall'altro s'introducevano nuovi casi di esenzione. Sennonché le continue guerre determinarono uno stato di fatto prevalente sui buoni propositi. Per accrescere le forze organizzate e per colmare i vuoti, Napoleone dovette a poco a poco ricorrere non solo alle chiamate degl'interi contingenti, ma anche alle chiamate anticipate di giovani sotto i venti anni e ai richiami di veterani già pensionati. Fu anche mobilitata la Guardia nazionale; furono costituiti reparti speciali, come i corpi delle Guardie d' onore del 1813. Per il rîfornimento degli ufficiali, non essendo sufficiente il gettito della Scuola di Saint-Cyr, si offrì il brevetto a quanti, appartenenti a famiglie borghesi, sembrassero a colpo d'occhio idonei. Il peso sempre più grave del servizio nelle forze armate accrebbe l'odio contro la coscrizione, specialmente nelle campagne. Tanto che, subito dopo l'abdicazione di Fontainebleau, il nuovo sovrano Luigi XVIII, mise fra i primi articoli della sua carta costituzionale, l'abolizione dell'obbligo del servizio. Il brusco ritorno al racolage e al mercenariato - se dava soddisfazione alle classi privilegiate che avevano in avversione l'obbligo militare e se sollevava le classi lavoratrici dal peso di un sistema che, riconosciuto giusto in linea di principio, diventava troppo oneroso nella sua applicazione - non poteva però non urtare coloro che, pur stanchi di guerre, non intendevano si facesse scempio delle tradizioni gloriose dell'impero. Costoro furono particolarmente disgustati quando venne stabilito (febbraio 1815) un premio di cinquanta franchi per coloro che si arruolassero. Durante i Cento giorni, Napoleone cercò di rimettere in piedi un suo esercito, con gli avanzi della campagna del 1814, con levate straordinarie e con la Guardia nazionale ricostituita; ma la coalizione europea non gli lasciò il tempo necessario. L'esercito dei Cento giorni non era ancora uscito dalla crisi organica del profondo rifacimento, quando l'imperatore dovette accettare la nuova lotta impostagli.
Mentre in Francia, con la seconda restaurazione borbonica proclamatasi per la pace ad ogni costo, l'esercito riprendeva lc vecchie caratteristiche di una piccola accolta di mestieranti, che invecchiavano nel servizio alle armi attraverso i riassoldamenti e costituivano una casta a sé, si affermava in Prussia un sistema su basi completamente diverse, e cioè: esercito di cittadini coscritti; breve permanenza dei singoli alle armi, ma obbligo a tutti di tenersi pronti per rientrare nelle file; quantità delle forze permanenti durante la pace, in minima proporzione rispetto alla quantità delle forze che potevano essere messe in campo in caso di guerra. Questo sistema fu consigliato alla Prussia dalle circostanze sorte durante le disgraziate guerre contro Napoleone. Infatti per il trattato di Tilsit (1807) la Prussia era stata costretta a ridurre a 20.000 uomini il proprio esercito stanziale; ma poiché essa non voleva trovarsi disarmata alla mercé del vincitore, pur accettando per coercizione di eventi il duro patto, pensò gli accorgimenti che potessero eluderlo sostanzialmente attraverso il rispetto alla forma, e cioè mantenne in permanenza alle armi soltanto il numero di uomini consentito; ma riducendo al minimo (due anni) il servizio dei gregarî alle caserme, accelerò il ritmo delle rinnovazioni dei coscritti, sicché anche nel breve quadro consentitole di 20.000 uomini poté istruire alle armi una considerevole quantità di cittadini, e poté al momento buono mobilitare un esercito di campagna, quale lo stesso Napoleone non avrebbe supposto. A quel sistema la Prussia si è sempre attenuta; negli altri paesi, in conseguenza delle restaurazioni avvenute dopo la caduta di Napoleone, prevalse il tipo francese anteriore al 1789 dell'esercito di mestiere con lunga permanenza alle bandiere e perciò con grande scarsità di riserve istruite.
Soltanto quando il sistema prussiano ebbe fatto le sue prove decisive nel 1866 e nel 1870, gli eserciti delle principali potenze militari ne adottarono gli ordinamenti.
Dopo la guerra mondiale, per le clausole militari dei trattati di pace, sono risorti negli stati vinti gli eserciti di mestiere e le potenze vincitrici, per limitare le forze armate degli ex-nemici, hanno non solo imposto, come Napoleone a Tilsit, un limite massimo delle forze di pace, ma anche un limite minimo di permanenza dei singoli cittadini alle bandiere e il loro carattere volontario.
Allo stato dei fatti quali oggi si presentano, vi sono potenze (Italia, Francia, Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Iugoslavia, Belgio, Spagna, ecc.) che continuano nel sistema già seguito nell'anteguerra del servizio obbligatorio, delle "ferme" brevi, dell'intelaiatura di guerra molto ampia rispetto alle forze tenute alle armi in pace; e vi sono potenze (Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria) che hanno dovuto acconciarsi al servizio volontario, alle ferme lunghissime (dodici anni) e ad un'intelaiatura di guerra, che, per la scarsezza delle riserve istruite, non può essere di molto superiore all'intelaiatura di pace. Fra questi opposti estremi si hanno alcuni tipi speciali consigliati da peculiari circostanze: il tipo dell'esercito inglese, fondato sul volontarismo, per ossequio alla tradizione e perché sembra meglio adattarsi al carattere prevalentemente coloniale delle operazioni cui le armi britanniche sono normalmente chiamate; ed il tipo dell'esercito svizzero il cui scopo essendo soltanto la difesa di un aspro terreno montano può limitarsi ad una brevissima istruzione militare dei cittadini e può contenere le forze di pace entro il minimo indispensabile per assicurare l'istruzione degli ufficiali e dei gregarî. Degli eserciti dei singoli stati e delle loro particolarità organiche è detto negli articoli che si riferiscono agli stati medesimi.
Giova notare, in linea generale, che gli eserciti belligeranti tendono ad assumere proporzioni sempre più gigantesche, non soltanto per numero di uomini, ma anche per quantità dei mezzi d'ogni specie che il celere progredire delle scienze mette a loro disposizione; né si vede come a questa tendenza si possano mettere freni artificiali. Attorno al nocciolo delle vecchie armi (fanteria, cavalleria, artiglieria e genio) si sono costituite numerose altre specialità tecniche per le applicazioni scientifiche più svariate. Il frazionamento della massa è divenuto più complesso per la necessità di raggruppamenti superiori; le divisioni (che sono le più piccole unità combinate di due o più armi) e i corpi d'armata in cui fin dai tempi di Napoleone le divisioni furono raggruppate, sono tuttora alla base dell'ordinamento di pace e di guerra degli eserciti; ma i corpi d'armata sono a loro volta raggruppati in armate; le armate in gruppi di armate, sicché è divenuta sempre più complessa l'azione dei comandanti e degli stati maggiori. Gli eserciti moderni necessitano inoltre d'una vasta organizzazione di elementi ausiliarî, non combattenti sulla linea di fuoco, ma operanti anch'essi in gran parte nella zona tattica e nella zona strategica, da fermi o in movimento, e incaricati di assicurare alle prime linee i rifornimenti necessarî.
Circa gli eserciti considerati in azione, circa l'evoluzione storica del loro impiego e per la bibliografia v. guerra, arte della.