Abstract
La fattispecie di cui all’art. 348 c.p. tutela l’interesse della p.a., come complesso organizzativo di norme che regolano le professioni, al fine di riservare il loro esercizio solo a soggetti in possesso di speciale abilitazione. Sulla base della natura pubblicistica dell’interesse tutelato, un orientamento giurisprudenziale, ormai superato, ha negato la possibilità della costituzione di parte civile degli ordini professioni, nonostante la dottrina abbia sempre evidenziato come l’esercizio abusivo della professione possa recare danni patrimoniali (per sviamento della clientela e concorrenza sleale) e danni all’immagine dell’ordine stesso. La fattispecie è costruita su un elemento di illiceità speciale, che rende alquanto complessa l’esegesi e l’individuazione della disciplina nel caso di errore e nel caso di successioni di elementi normativi. La norma codicistica, inoltre, deve essere letta nell’ambito del contesto normativo europeo, in cui il cd. diritto di stabilimento comporta la disapplicazione della normativa penale statale ed un ampliamento della sfera di liceità penale.
1. Considerazione preliminari
L’art. 348 c.p. dispone che «chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 516». Il codice Zanardelli non prevedeva alcuna disposizione incriminatrice per l’esercizio abusivo di professioni, di conseguenza solo le leggi professionali disciplinavano settorialmente le eventuali condotte abusive. Con l’introduzione di una specifica disposizione nel codice Rocco deve tuttavia ritenersi che le disposizioni contenute in leggi speciali siano abrogate (Contieri, E., Esercizio abusivo di professioni arti o mestieri, in Enc. dir., XV, 1966, 606-607; in giurisprudenza da ultimo: Cass. pen., 11.1.1999, in CED Cass. rv. 212547).
2. Bene giuridico
L’interesse tutelato è il normale funzionamento della p.a., inteso come complesso organizzativo di norme che regolano le professioni, al fine di riservare il loro esercizio solo a soggetti in possesso di speciale abilitazione (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, V, 1982, V ed., 610; Seminara, S., art. 348 c.p., in Crespi, A.,- Forti, G.,- Zuccalà, G., a cura di, Commentario breve al codice penale, 2008, V ed., 844). La speciale abilitazione garantisce (in via presuntiva) i requisiti non solo professionali ma anche morali, rispondendo all’esigenza «di tutelare il cittadino dalla possibilità di imbattersi in soggetti inesperti nell’esercizio della professione, o che possano esercitare in modo indegno» (Contieri, E., op. cit., 606 s.; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, Bologna, IV ed., 2007, 316 ss.; Manzini, V., cit., 610 ss.; Minnella, M., Professioni, arti e mestieri (esercizio abusivo di), in Enc. giur. Treccani, 1991, 1; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, Parte speciale. Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, IX ed., 2000, 421; Cass. pen., S.U., 30.11.1966, in Giust. civ., 1967, 208). L’interesse della p.a. è, quindi, quello che alcune professioni, di particolare rilievo sociale, siano esercitate da persone la cui competenza tecnica sia stata vagliata attraverso appositi esami di abilitazione, in modo da garantire che l’attività professionale venga svolta con serietà e competenza (Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati. Le qualifiche soggettive, Milano, 1999, 135).
La ratio della tutela non coincide, pertanto, con l’interesse corporativo delle varie categorie professionali, bensì con l’interesse generale della collettività (Rel. Ministeriale al progetto del codice penale, parte II, 154; Contieri, E., op. cit. 606 s.; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 308 ss.; Manzini, V., op. cit., 626; in giurisprudenza ex pluribus Cass. pen., S.U., 30.11.1966, n. 2809, in Giust. civ., 1967, I, 206; parzialmente diff. Pret. Odenzo 2.11.1977, in Giur.pen., II, 1978, 447, con nota critica di Cacciavillani, I., Legittimazione alla costituzione di parte civile di ordine professionale per abusivo esercizio della professione; Amato, G., art. 348 c.p., in Lattanzi, G.-Lupo, E., a cura di, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, V, Milano, 2000, 451; in giurisprudenza Cass. pen., S.U., 29.11.1958, in Giust. pen., 1959, II, 1165; Trib. Paola, 19.2.2008, in Giur. mer. 2008, 10, 2631).
La ricostruzione in chiave pubblicistica del bene giuridico sembra, tuttavia, oscurare un dato valoriale, che, invece, affiora costantemente nella prassi giurisprudenziale (Cipolla, P., La responsabilità dell’omeopata per il reato di cui all’art. 348 c.p., tra i principi costituzionali. Disciplina positiva e orientamenti della giurisprudenza, in Cass. pen., 2006, 2547, 2561 s. e la giurisprudenza ivi riportata; Introna, F., Tutela della salute; medicine alternative; esercizio abusivo di professione sanitaria, in Riv. it. med. leg., 1984, 593, 597, 600). La diversa operatività dell’art. 348 c.p. rispetto a differenti settori professionali valorizza il ruolo che i beni posti in pericolo o lesi dall’esercizio abusivo dell’attività professionale assumono nella dimensione applicativa. Come emerge dall’analisi della prassi giurisprudenziale, la tolleranza dell’ordinamento rispetto all’esercizio abusivo di attività tipiche, anche se ausiliarie, della professione medica o sanitaria è sensibilmente minore rispetto all’esercizio abusivo di attività tipiche di altre professioni. Il dato da cui si evince il maggiore rigore con cui la giurisprudenza valuta l’operatività dell’art. 348 c.p. è fornito dalla rilevanza che assume nel caso delle professioni mediche anche solo il singolo atto compiuto in assenza di abilitazione (Cass. pen., 10.6.2004, CED Cass. rv. 230212; Cass. pen., 4.4.2005, in Guida dir., 2005, fasc. 35, 95, con nota di Amato, G.; Cass. pen., 27.6.2005, in Riv. pen., 2005, 1192), laddove, invece, nell’ambito dell’esercizio di altre professioni protette, l’ipotesi delittuosa è integrata dall’esercizio continuativo (così ad esempio nell’ambito della consulenza fiscale e tributaria: Cass. pen., 8.1.2003, Rep. Foro it., 2003, Professioni intellettuali, n. 81; Cass. pen., 24.10.2005, CED Cass. rv. 233682; Cass. pen., 5.7.2006, CED. Cass. rv. 234420). La differente operatività della fattispecie codicistica si spiega alla luce della diversa rilevanza che assumono i beni esposti ai pericoli dell’esercizio abusivo. Pare evidente, infatti, che il bene salute o il bene vita messi in pericolo dall’esercizio abusivo della professione sanitaria esigono una tutela maggiore, cui la prassi applicativa ha dato risposta con una lettura alquanto rigorosa della fattispecie (Pagliaro, A., op. cit., 425); gli interessi prevalentemente patrimoniali, messi in pericolo dall’esercizio abusivo della professione di dottore commercialista, sembrano incidere in modo minore nella ricostruzione della fattispecie, per cui è più ampia la soglia di tolleranza da parte della giurisprudenza. Se, dunque, l’interesse che l’esercizio delle professioni protette sia subordinato al conseguimento della speciale abilitazione costituisce l’interesse generale direttamente tutelato dalla norma, è evidente che gli interessi riflessi acquisiscono un rilievo fondamentale nell’evoluzione giurisprudenziale, tanto da poter configurare l’art. 348 c.p. quale reato di pericolo astratto rispetto ai beni giuridici che possono essere intaccati in concreto dall’esercizio abusivo di una professione protetta (Mantovani, M., Profili penali delle attività non autorizzate, Torino, 2003, 26 ss..; contra Cass. pen., S.U., 30.11.1966, cit.).
L’esigenza di approntare una forma di tutela anticipata, per fronteggiare il pericolo che interessi di portata generale siano compromessi dall’esercizio di un’attività posta in essere da chi è privo di competenza tecnica e culturale, costituisce un’interessante chiave di lettura, utilizzata dalla dottrina più recente per individuare il contenuto della fattispecie (Mantovani, M, op. cit., 27 ss.). Secondo tale orientamento teorico, il precetto contenuto nell’art. 348, in definitiva, si sostanzia in un obbligo di astensione dall’attività, in quanto la mancanza dei requisiti richiesti per il legittimo esercizio – ovvero l’abilitazione – può compromettere il corretto espletamento della prestazione professionale. Proprio questa ricostruzione, secondo lo schema del pericolo astratto, suggerisce una lettura dell’art. 348 c.p. che permette di operare una selezione più accurata delle condotte penalmente rilevanti.
3. Soggetto passivo e questioni processuali
Dalla descrizione del bene giuridico, si desume che soggetto passivo o persona offesa sia esclusivamente lo Stato, titolare dell’interesse tutelato della norma. Un risalente orientamento giurisprudenziale aveva esplicitamente negato la possibilità che gli organi professionali potessero costituirsi parte civile nel procedimento penale o proporre un’azione civile nei confronti degli esercenti abusivi (Cass. pen., S.U., 30.11.1966, cit., la sentenza distingue fra interessi primari ed interessi secondari, la cui tutela è solo occasionale e di riflesso e non legittima quindi la costituzione di parte civile; conf. Lega, C., Ordinamenti professionali, in Nss.D.I., 1957, XII, 10; Contieri, E., op. cit., 606, si veda inoltre Pret. Vittorio Veneto, 18.2.1975, in Giur. mer., 1975, 293 con nota di La Cute, G.). La giurisprudenza più recente ammette la costituzione di parte civile degli ordini e delle associazioni professionali “locali”, laddove dal reato sia derivato non semplicemente un danno agli interessi morali della categoria, ma uno specifico nocumento anche di ordine patrimoniale a causa dello sviamento della clientela e della diminuzione della stessa dovuto alla concorrenza sleale subita dai professionisti iscritti in un determinato contesto territoriale (Pret. Palazzolo Acreide, 13.4.1974, in Giust. pen., 1974, III, 458, con nota di Barletta Caldarera, G., In tema di ammissibilità della costituzione di parte civile nel reato di esercizio abusivo di una professione; Cass. pen., 24.11.1981, in Riv. pen. Mass., 1982, 527, Cass. pen., 18.10.1988, Cass. pen., 1989, 1983; Cass. pen., 20.3.2001, in Rass. dir. farm., 2001, 650, che ammette la costituzione di parte civile in quanto l’esercizio abusivo di una professione «lede non solo gli interessi della p.a. intesa in senso lato, ma anche quello circostanziato e diffuso degli appartenenti alla categoria, rappresentata appunto dall’organo esponenziale preposto, concretizzandosi il danno non solo sul piano economico-patrimoniale della concorrenza sleale, ma anche su quello morale derivante dall’interesse che la professione sia esercitata da soggetti qualificati e abilitati»; da ultimo in giurisprudenza Cass. pen., 18.11.2004, in Riv. pen., 2005, 562; Cass. pen., sez. IV, 6.2.2008, n. 22144; sul punto si veda, inoltre, per un’ampia panoramica giurisprudenziale Amato, G., op. cit., 451. In dottrina Bonessi, E., Professione, in Dig. pen., X, 1995, 256; Cicala, M., Legislazione circa le costruzioni in cemento armato ed ordine professionale degli ingegneri, in Giur. mer., 1977, 137; nella manualistica: Antolisei, F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, XIV ed., Milano, II, 2003, 404 ss.; Pagliaro, A., op. cit., 416. Rileva Grosso, C.F., I delitti contro la P.A., in Bricola, F.- Zagrebelsky, V., diretta da, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, in AA.VV., a cura di, Codice penale. Parte speciale, II ed., Torino, 1996, 383, come la difficoltà di riconoscere la legittimazione a costituirsi parte civile sia legata alla definizione del soggetto “danneggiato” rilevante ai sensi degli artt. 22 e 91 c.p.p. «che de iure condito non necessariamente coincide con il concetto di soggetto passivo del reato»).
4. Soggetto attivo
Soggetto attivo è chiunque eserciti una professione protetta senza il titolo richiesto o senza aver adempiuto le formalità prescritte o è stato radiato o perpetuamente o temporaneamente interdetto o sospeso. Alla mancanza della speciale abilitazione è spesso equiparata l’iscrizione fraudolenta, realizzata mediante presentazione di documentazione fittizia (Grosso, C.F., op. cit., 386; Minnella, M., op. cit., 1 ss.; Cass. pen., 18.11.1994; in Mass. cass. pen., 1995, fasc. 9, 50). Tuttavia, secondo Manzini, l’esercizio della professione in mancanza dei requisiti sostanziali dovrebbe escludere il delitto in esame, fin quando non viene revocata l’abilitazione fraudolentemente carpita; in questo caso, infatti, il reato che potrebbe configurarsi è un delitto di falsità documentale o personale (Manzini, V., op. cit., 611; diff. Mazzacuva, N.-Pappalardo, G., Mancata iscrizione all’albo da parte del medico ed esercizio abusivo della professione sanitaria, in Temi, 1978, 163, 168, nota 8, che in senso critico evidenziano come tale soluzione appaia eccessivamente formalistica).
Non integra l’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 348 c.p. l’esercizio della professione che ecceda i limiti territoriali, funzionali o per materia (Antolisei, F., op. cit., 407; Contieri, E., op. cit., 608; Grosso, C.F., op. cit., 386; Manzini, V., op. cit., 629). Tuttavia parte della dottrina (Pagliaro, A., op. cit., 428) correttamente osserva come anche nel caso di incompetenza funzionale potrebbe assumere rilevanza penale la condotta abusiva, laddove le norme sulla competenza siano dettate dall’esigenza di assicurare al pubblico un professionista esperto, mentre si esclude l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 348 c.p., qualora le norme sulla competenza siano dettate esclusivamente per scopi organizzativi.
Nel caso dei provvedimenti interdittivi o sospensivi di natura temporanea, che precludono in un determinato periodo di tempo l’esercizio della professione, il superamento dei limiti di efficacia temporale assume rilevanza penale (Cass. pen., 6.3.1995, in Cass. pen., 1997, 419; Cass. pen., 9.11.1995, in Cass. pen., 1997, 1379; Cass. pen., 29.3.1999, in Guida dir., 1999, n. 26, 132; Cass. pen., 17.10.2001,in CED. Cass., rv. 220186, conf. la dottrina: Antolisei, F., op. cit., 378; Contieri, E., op. cit., 608; Fiandaca G.-Musco, E., op. cit., 317; Manzini, V., op. cit., 629; Minnella, M., op. cit., 1 ss.; Romano, M., op. cit., 141).
Di dubbia legittimità, sebbene del tutto maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza, è l’applicazione della fattispecie in esame nel caso di mancata iscrizione all’albo (sulla funzione e la natura degli ordinamenti professionali si veda: Lega, C., Ordinamenti professionali, in Nss.D.I., 1957, XII, 6, 9 ss.), nonostante il conseguimento dell’abilitazione (Antolisei, F., op. cit., 406; Contieri, E., op. cit., 607; Introna, F., L’esercizio abusivo della professione medica e i danni alla salute collettiva, in Riv. it. med. leg., 1999, 1515, 1517; Manzini, V., op. cit., 614; conf. in giurisprudenza: Cass. pen., sez. VI, 19.1.2011; Cass. pen., sez. VI, 15.2.2007; Cass. pen., sez. VI, 5.3.2004, in CED Cass., rv. 228430; Cass. pen., sez. VI, 16.1.1998, in Riv. pen., 1998, 569). In particolare si ritiene integrata l’ipotesi di cui all’art. 348 c.p. nel caso di mancata iscrizione all’albo, ove questa sia richiesta quale condizione inderogabile di esercizio della professione, anche se la legge professionale non equipari espressamente la mancata abilitazione con la mancata iscrizione all’albo (Cass. pen., 29.9.1986, in Foro it., 1987, II, 651, Cass. pen., 16.1.1998, in Riv. pen., 1998, 569, in questo senso anche la dottrina Manzini, V., op. cit., 614; Mazza, L., L’iscrizione all’albo nella struttura della fattispecie criminosa dell’abusivo esercizio della professione, in Cass. pen. Mass. Annali, 1977, 544, Rustia, R., La nozione di professione e la sua rilevanza nel diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 905).
La funzione tipica degli albi è essenzialmente quella di garantire una «certezza critica a tutela della pubblica fede, sulla preparazione tecnica e sulla serietà morale dell’iscritto» (Cacciavillani, I., op. cit. 448; Giannini, M.S., Albo, in Enc. dir., I, 1958, 1013-1014; sul punto si veda Cass. pen., 17.10.2001, in CED Cass., rv. 220186, che specifica come: «l’attualità dell’iscrizione attesta – nell’interesse generale – il possesso dei requisiti di probità e competenza tecnica necessari per l’esercizio della professione»; in questo senso anche Introna, F., L’esercizio, cit., 1519). L’argomento letterale a sostegno di tale applicazione estensiva dell’art. 348 c.p. è fornito dal termine “abusivamente”, utilizzato dal legislatore per definire la tipicità della condotta: con tale espressione si fa riferimento a tutti i requisiti richiesti per l’esercizio di una professione, per cui sarebbe legittimo equiparare sul piano della tipicità la mancata abilitazione alla mancata iscrizione all’albo, laddove le leggi professionali richiedano anche tale ulteriore requisito per lo svolgimento dell’attività professionale (in senso critico Mazzacuva, N.-Pappalardo, G., op. cit., 169; sul punto si veda, inoltre, Mantovani, M., op. cit., 94 ss.).
Appare evidente che tale soluzione ermeneutica compie una irragionevole assimilazione fra situazioni cariche di differente disvalore penale (Romano, M., op. cit., 140 ss.). La rilevanza penale che assume in questa interpretazione la mancata iscrizione compromette il significato politico-criminale della fattispecie codicistica, che da norma a tutela dell’interesse generale della collettività affinché alcune professioni vengano svolte con serietà e competenza – come sopra precisato –, sbiadisce a mero strumento di affermazione di interessi corporativistici (Seminara, S., op. cit., 844). Ugualmente irragionevole è l’estensione dell’operatività della norma fino ad includere l’esercizio della professione in violazione di un regime di incompatibilità (Cass. pen., 23.10.1981, in Giur. it., 83, II, 206, con nota Cerri, A.; Contieri, E., op. cit., 608; Manzini, V., op. cit., 630; Romano, M., op. cit., 139): l’inosservanza dei doveri di esclusività del servizio, come nel caso del pubblico impiego, non è certamente condotta che può essere riferita all’operatività di una fattispecie posta a tutela dell’interesse generale che l’attività professionale sia svolta da chi è dotato di particolare idoneità tecnica (per l’applicabilità della norma in caso di incompatibilità Cass. pen., 30.1.1989, in Riv. pen., 90, 858; Cass. pen., 10.6.1986, in Cass. pen., 87, 2109, con nota critica di Carinci, F.).
La normativa italiana sulle professioni protette deve, inoltre, leggersi alla luce dei diritti che la comunità europea riconosce ai cittadini dei paesi membri. In particolare assume rilievo il Trattato istitutivo della Comunità europea, che agli artt. 43 ss., riconosce il cd. diritto di stabilimento, cioè il diritto di un cittadino di uno Stato membro di esercitare in un altro Stato attività non salariale alle condizioni stabilite per i cittadini dello Stato medesimo (Antolisei, F., op. cit., 405; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 317; Grosso, C.F., op. cit., 393; Pret. Lodi, 17.5.1984, in Dir. com. sc. intern., 1984, 189; Cass. pen., 28.11.1988, in Cass. pen., 1990, I, 1704, con nota di Salazar, L.; Cass. pen., 12.2.1999, in Guida dir., 1999, n. 15, 59, con nota di Amato, G.; Trib. Milano, 1.3.2001, in Dir. pen. e processo, 2002, 343, con nota di Notaro, D.; si veda inoltre App. Firenze, 20.1.2003, in Dir. pen. e processo, 2003, 1541, con nota di Notaro, D.; in generale si veda, inoltre, Salcuni, G., L’europeizzazione del diritto penale: problemi e prospettive, Milano, 2011, 213, ss.).
5. Elemento oggettivo. La condotta
Il compimento di uno o più atti propri dell’esercizio di una professione, riservato/i esclusivamente all’attività professionale, costituisce il fatto tipico del reato di cui all’art. 348 c.p. Non sono atti propri, riservati a ciascuna professione, gli atti che, sebbene caratteristici di una prestazione professionale, possono essere compiuti da chiunque. Sebbene vi siano orientamenti oscillanti, dovrebbe essere ormai un dato assodato che in assenza di una normativa extrapenale che disciplini l’esercizio della professione, l’abilitazione e l’iscrizione all’albo non possa trovare applicazione l’art. 348 c.p. (Fiandaca, G.-Musco E., op. cit., 310; Marinucci, G.-Dolcini, E., Codice Penale Commentato, Milano, II ed., 2006, 2577 ss.; Seminara, S., op. cit., 1001; in giurisprudenza, si veda Cass. pen., 29.11.1983, in Cass. pen., 1985, 1058; Cass. pen., 11.5.1990, in Riv. pen., 1991, 521; Cass. pen., 29.5.1996, in Cass. pen., 1996, 1703, con nota di Gallucci, E., Esercizio abusivo della professione sanitaria e attività di tatuaggio e la giurisprudenza ivi citata; Cass. pen., 22.4.1997, in Riv. pen., 1997, 697). Unico presupposto è che l’attività sia svolta a favore di terzi (Manzini, V., op. cit., 631; Contieri, E., op. cit., 608), a prescindere dalla gratuità o meno della prestazione (La Cute, G., Prestazioni gratuite ed occasionali di consulenza legale non abilitata, in Giur. mer., 1975, 293; Cass. pen., sez. VI, 10.10.2010, n. 42790). Deve essere rilevato, inoltre, come il singolo atto, per assumere disvalore penale, deve possedere un’autonomia di significato e ed essere produttivo di effetti giuridicamente (e penalmente) rilevanti (Antolisei, F., op. cit., 370; Grosso, C.F., op. cit., 383).
Riguardo la realizzazione del fatto tipico, secondo un orientamento teorico consolidato ed una risalente prassi giurisprudenziale, assume rilevanza anche solo il singolo atto, non essendo necessaria, invece, una pluralità di atti, né l’abitualità (Manzini, V., op. cit., 624, nota 1 e la giurisprudenza ivi citata). Tuttavia questa considerazione, ricorrente nella manualistica, deve essere rivista alla luce di quanto emerge nell’ambito dei più recenti orientamenti giurisprudenziali. Come già segnalato, il rilievo che assume il singolo atto ai fini della configurazione dl delitto di cui all’art. 348 c.p. riveste una diversa portata in funzione dei beni giuridici posti in pericolo dall’esercizio abusivo della professione in concreto svolta (v. supra § 2).
Parte della giurisprudenza ha elaborato la distinzione fra atto “tipico o riservato” di una professione, la cui realizzazione integra l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 348 c.p., ed atto “caratteristico”, che sebbene “relativamente libero”, qualora venga realizzato in maniera reiterata, assume rilevanza penale (Trib. Taranto, 25.1.1989, in Riv. pen., 1989, 1121; Cass. pen., 8.10.2002, in Cass. pen., 2004, 84 con nota di Ariolli, G.-Bellini, V., per cui gli atti rilevanti «non sarebbero solo gli atti tipici della professione, ma anche gli atti c.d. caratteristici a quella strumentalmente connessi, a condizione che vengano compiuti in modo continuativo e professionale, perché anche in questa seconda ipotesi si ha esercizio della professione, per il quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo»; Cass. pen., 5.7.2006, in CED. Cass. rv. 234420; Cass. pen., sez. VI, 25.2.2011, n. 10100. Sul punto si veda inoltre Cipolla, P., La responsabilità dell’omeopata, cit., 2551.) Tale orientamento sembra porsi in netto contrasto con un precedente indirizzo teorico e giurisprudenziale, per il quale in assenza di un’espressa previsione legislativa, in grado di individuare le professioni protette e l’attività abusiva, non potrebbe trovare applicazione l’art. 348 c.p. La condivisibile preoccupazione di non compromettere le garanzie sottese al principio di riserva di legge e di tassatività, ampliando in via ermeneutica l’operatività della fattispecie, spingono incontestabilmente a contenere la dimensione applicativa della fattispecie alla sola rilevanza degli atti propri ed esclusivi. Appare evidente che la difficoltà di individuare la soglia di rilevanza penale nell’esercizio abusivo di una professione protetta inficia la determinatezza della disposizione codicistica, in quanto il legislatore si limita ad individuare, attraverso il requisito dell’abilitazione, solo le professioni che rientrano nell’operatività dell’art. 348 c.p., ma non fornisce alcuna indicazione su quali condotte siano abusivamente realizzate, perché riservate esclusivamente all’attività professionale. La zona di incertezza fra lecito ed illecito è, conseguentemente, rimessa al prudente apprezzamento del giudice, il quale formula rispetto al caso concreto un giudizio di valore, assolutamente discrezionale, sul concetto di atto esclusivo o riservato all’attività professionale (Contieri, E., op. cit., 609; Grosso, C.F., op. cit., 386; Romano, M., op. cit., 138; Seminara, S., op. cit., 1000). La Corte costituzionale, con sentenza 13.6.1983, n. 169 (in Giur. cost., 1983, I, 933) ha tuttavia negato il deficit di determinatezza, con la motivazione che «il principio della tassatività della fattispecie penale deve considerarsi rispettato anche se il legislatore, nel descrivere il fatto-reato, non usi termini di significato rigorosamente determinato, ma espressioni meramente indicative o di rinvio alla pratica diffusa nella collettività in cui l’interprete opera; spettando a questo ultimo di determinarne il significato attraverso il procedimento ermeneutico di cui all’art. 12, primo comma, delle preleggi».
6. La struttura della norma
Con il termine “abusivamente” il legislatore ha inteso tipizzare le condotte penalmente rilevanti, facendo un rinvio alle disposizioni di leggi speciali che disciplinano l’esercizio delle professioni protette. In conseguenza di tale rinvio, è opportuno interrogarsi sulla funzione e sulla struttura che potrebbe assumere la disposizione codicistica (Grosso, C.F., op. cit., 381; in generale sugli elementi normativi della fattispecie si veda Pagliaro, A., Appunti su alcuni elementi normativi contenuti nella legge penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1964, 420, 443).
Secondo una parte della dottrina l’art. 348 c.p. è un esempio di norma penale in bianco (Contieri, E., op. cit., 607, il quale qualifica le discipline professionali presupposti normativi della fattispecie; Bonessi, E., op. cit., 259; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 328; Terrusi, F., Orientamenti giurisprudenziali in tema di abusivismo professionale, in Giur. mer., 1990, II, 599, 601), ove le norme speciali sono chiamate ad integrazione del precetto, che si assume incompleto (Cass. pen., 9.12.2002, in Riv. pen., 2003, 407).
La giurisprudenza ha quasi unanimemente aderito a questa ricostruzione della fattispecie (Cass. S.U., 30.11.1966, n. 2809, in Giust. civ., 1967, 206; Pret. Torino, 19.10.1985, in Riv. it. med. leg., 1986, 905; Pret. Roma, 15.5.1989, in Giur. mer., 1990, 599; Cass. pen., sez. VI, 18.11.1993, Mass. cass. pen., 1994, fasc. 10, 5; Cass. pen., 3.4.1995, in Riv. pen., 1995, 1444; Cass. pen., 22.4.1997, in Riv. pen., 1997, 697; Cass. pen., 20.3.2001, in Guida dir., fasc. 24, 74, con nota di Amato, G.; Cass. pen., 9.12.2002, in Riv. pen., 2003, 407; Trib. Genova, 10.10.2005, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it, per cui l’errore su norma extrapenale è errore sul precetto, perché l’art. 348 è norma penale in bianco). In senso contrario, invece, si è espressa la Corte Costituzionale, con sentenza 27.4.1993, n. 199 (in Cass. pen., 1003, 1927), la quale ha affermato che «l’art. 348 c.p. lungi dall’operare un meccanico rinvio ad altre fonti dell’ordinamento quali elementi strutturali del precetto, delinea esaurientemente la fattispecie in tutte le sue componenti essenziali. Il fatto costitutivo del reato, infatti, assume i connotati dell’antigiuridicità attraverso la realizzazione dell’atto o degli atti mediante i quali “abusivamente” viene esercitata una determinata professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato».
In questo senso anche un diverso orientamento teorico, che, invece, considera “chiuso” il contenuto precettivo dell’art. 348 c.p., per cui il termine “abusivamente” viene qualificato come elemento normativo della fattispecie (Romano, M., op. cit., 137; Mazzacuva, N.-Pappalardo, G., op. cit., 167, i quali definiscono l’art. 348 c.p. norma ad illiceità espressa. Differente la posizione di Pulitanò, D., Illiceità espressa illiceità speciale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1967, 58, 76 ss., il quale, elaborata la distinzione teorica fra illiceità espressa ed illiceità speciale, ritiene che il termine “abusivamente” non esprima una rilevante illegittimità del fatto, ma costituisca semplicemente un elemento normativo della fattispecie). Secondo tale orientamento la mancanza dell’abilitazione «rappresenta un elemento del fatto costruito negativamente», per cui la disciplina amministrativa «non contribuisce a forgiare il tipo di reato, ma funge soltanto da criterio di riferimento per determinare il concreto abuso» (Romano, M., op. cit., 137).
Tale contrapposizione teorica possiede un enorme rilievo a livello applicativo, in quanto la differente opzione sistematica influisce sulla disciplina dell’errore di diritto (art. 5 c.p. o, a seconda dei casi, art. 47 c.p.) e offre una diversa soluzione al problema della successioni di leggi integratrici.
Nel caso, infatti, si consideri l’art. 348 c.p. una norma caratterizzata da una clausola di illiceità speciale e quindi si assuma il termine “abusivamente” quale elemento normativo della fattispecie, sarebbe l’art. 47, co. 3, a disciplinare l’errore di diritto sulla legge professionale (per la distinzione fra norma extrapenale che integra il precetto e norma che non ha funzione integratrice si rinvia alla manualistica: Palazzo, F., Corso di diritto penale, Torino, 2006, 285; Fiandaca, G.-Musco, E., Parte generale, cit. 380; Pulitanò, D., Diritto penale, 2005, 39).
Probabilmente tale soluzione ermeneutica è dettata proprio dalla necessità di attenuare il rigore con cui viene disciplinato l’errore nel caso di norma penale in bianco, ove la norma extrapenale, ovvero la disciplina professionale, integra il precetto e l’errore su di esso ricade nell’ambito di operatività dell’art. 5 c.p.
La distinzione fra norma penale in bianco ed elemento normativo riveste un notevole impatto applicativo anche in tema di successioni di leggi: in caso di modifica o di abrogazione di legge extrapenale, priva di funzione integratrice, secondo un orientamento dominante in dottrina e giurisprudenza, non opererebbe, infatti, l’art. 2 c.p. (Micheletti, D., Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, 2006, passim; il panorama teorico offre una vastità di soluzioni che la giurisprudenza adotta ed interpreta spesso per giustificare decisioni poste in base ad esigenza di giustizia ed equità del caso concreto, l’incertezza che ne deriva suggerisce di adottare una soluzione unica per tutti i tipi di modifiche mediate della fattispecie penale, in questo senso Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, Parte generale, cit., 94 s., Palazzo, F., Corso di diritto penale, 2006, 155 s.; diff. Marinucci, G.-Dolcini, E., Manuale di diritto penale, Parte Generale, Milano, 2006, 78 s.).
Secondo una recente ricostruzione teorica l’art. 348 c.p. sarebbe, invece, da considerare «norma parzialmente in bianco» (Mantovani M., op. cit., 96 s., il quale definisce l’art. 348 c.p. norma sub specie di norma (parzialmente) in bianco; secondo l’A., l’errore su norma extrapenale, coerentemente con la struttura della norma “parzialmente” in bianco, costituisce un errore sul precetto; tuttavia l’A. auspica una maggiore rilevanza dell’errore scusante, in modo da offrire una più ampia integrazione del principio di colpevolezza nel sistema penale; mentre, per quanto riguarda le modifiche mediate della fattispecie, è sempre operativo l’art. 2 c.p.).
7. Antigiuridicità
In relazione alla presenza di situazioni scriminanti, pare evidente che solo nel caso di stato di necessità, l’esercizio, ancorché abusivo di una professione, possa essere esente da pena. Tale situazione, tra l’altro, può verificarsi esclusivamente rispetto all’esercizio di professioni sanitarie (Cass. pen., sez. III, 14.1.2009, n. 6229; Cass. pen., sez VI, 8.10.2002).
Non assume invece alcun rilievo, se non al limite nell’ambito della commisurazione della pena, il consenso del soggetto a favore del quale viene realizzata la prestazione professionale (Grosso, C.F., op. cit., 385; Mazzacuva, N.-Pappalardo, G., op. cit., 175).
8. Elemento soggettivo
Come già evidenziato, coerentemente con la tesi che configura l’art. 348 come una norma penale in bianco, dall’oggetto del dolo sarebbe esclusa la normativa extrapenale che disciplina l’esercizio delle singole professioni, in quanto tali norme integrano il precetto penale (Manzini, V., op. cit., 633). Differente è l’orientamento di quanti, invece, ritengono che la disposizione di cui all’art. 348 c.p. sia costruita attraverso elementi descrittivi ed elementi normativi, per cui ricade nell’oggetto del dolo anche la legge che disciplina le singole professioni. In questo caso, l’errore sulla disposizione extrapenale è regolato dall’art. 47, terzo comma, c.p. (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 310, sebbene classifichino l’art. 348 c.p. come norma penale in bianco, attraggono la disciplina dell’errore su norma extrapenale nell’orbita dell’art. 47 c.p.; Mazzacuva, N.-Pappalardo, G., op. cit., 173; Seminara, S., op. cit., 1003; Pagliaro, A., Principi, op. cit., 429; Pulitanò, D., Illiceità, op. cit., 92).
Bisogna osservare che la fattispecie di esercizio abusivo – come evidenziato nel corso dell’analisi – ha confini mobili in funzione del settore professionale di riferimento. Se si prende in considerazione l’orientamento giurisprudenziale che ammette anche la rilevanza degli atti caratteristici, sebbene non esclusivi della professione, ne deriva un’incertezza sui confini operativi della fattispecie, che, oscurando la funzione di “richiamo” del fatto tipico, compromette anche la possibilità, da parte del soggetto agente, di percepire il disvalore del proprio comportamento. Pare evidente che tale incertezza ermeneutica mina le garanzie sottese al principio di colpevolezza, per cui sarebbe opportuno, a prescindere dalla ricostruzione interpretativa cui si aderisce, riconoscere un effetto scusante all’errore sulle leggi professionali (Cass. pen., 3.7.1984, in Foro it., 1985, II, 414, con nota di Ingroia, A.; Pret. Putignano, 13.3.1989, in Foro it., 1989, II, 680; Pret. Spoleto, 8.6.1989, in Riv. pen., 1989, 1114. Sul punto Donini, M., Il delitto contravvenzionale. Culpa iuris e oggetto del dolo nei reati a condotta neutra, Milano, 1993, 240 ss.)
9. Consumazione e tentativo
Il delitto ha carattere commissivo (Pagliaro, A., Principi, op. cit., 420; tuttavia Manzini, V., op. cit., 632, ne ammette la ricostruzione in chiave omissiva) e si consuma nel momento e nel luogo in cui è stato compiuto il primo atto di esercizio professionale abusivo. Mario Romano configura il reato di cui all’art. 348 c.p. come eventualmente abituale (se invece si aderisce all’indirizzo giurisprudenziale per cui gli atti caratteristici, sebbene non esclusivi di una professione, integrano l’ipotesi di cui all’art. 348 c.p. se realizzati in maniera continuativa, il reato è necessariamente abituale, sul punto Ariolli, G.-Bellini, V., op. cit., 86), per cui esclude la possibilità di legare tramite l’istituto della continuazione una pluralità di atti (rectius azioni) che realizzano l’esercizio della professione (Romano, M., op. cit., 146). Secondo Antolisei sarebbe ipotizzabile anche la forma tentata, tale posizione, tuttavia, non è del tutto condivisa dalla dottrina, in quanto, se la fattispecie si consuma con la commissione di un atto, prevedere la forma tentata costituirebbe un’anticipazione di tutela, che porterebbe ad incriminare fatti prodromici privi di disvalore penale, come ad esempio acquistare l’arredo di uno studio medico o stampare bigliettini da visita (sul punto si veda la casistica riportata da Amato, G., op. cit., 514). Tuttavia potrebbe essere rilevante come tentativo, la condotta di chi cerchi di ottenere fraudolentemente l’iscrizione ad un albo professionale, in assenza di abilitazione.
Fonti normative
Art. 348 c.p.
Bibliografia essenziale
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