Esistenzialismo e fenomenologia
Per una storia della formazione e dello sviluppo del ‘pensiero civile’ nell’Italia repubblicana l’esistenzialismo e la fenomenologia potrebbero sembrare due tendenze filosofiche piuttosto laterali e non particolarmente indicative: anzitutto esse conserverebbero, anche nelle loro versioni italiane, la traccia indelebile di una provenienza ‘estera’ (soprattutto germanica); ma anche a livello concettuale resterebbero impegnate su un piano di analisi – quella dell’esistenza singolare o quella dell’esperienza trascendentale – che tocca i problemi etico-politici della nazione un po’ a distanza, a partire dalla riflessione sulle ‘possibilità’ ontologiche degli individui o sulla capacità della coscienza umana di intenzionare e costituire i suoi oggetti.
Ma l’impressione di una distanza problematica si riduce di molto, fin quasi a scomparire, quando ci si rende conto che gli autori impegnati in prima persona con queste due prospettive di pensiero hanno in realtà contribuito a chiarificare, verificare criticamente e prospettare in maniera originale (o almeno nuova rispetto alle tendenze dominanti nel panorama filosofico italiano dei primi decenni del 20° sec.) i presupposti fondamentali di una comprensione etico-civile della condizione umana e al tempo stesso di una comprensione filosofica della convivenza sociale e dell’azione politica.
L’esistenzialismo ha fatto il suo ingresso in Italia transitando per l’idealismo, calandosi nei problemi rimasti irrisolti all’interno di quest’ultimo e contribuendo a dare un nome e una direzione possibili alla sua crisi. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta la filosofia italiana iniziava a confrontarsi con il pensiero di Edmund Husserl e con quello di Martin Heidegger, considerati nella loro stretta contiguità. Questo incontro si verificò in un momento di crisi dell’approccio filosofico all’epoca dominante in Italia, vale a dire l’attualismo gentiliano, all’interno del quale si affacciava l’esigenza di non ridurre il soggetto concreto allo spirito trascendentale, poiché, se tale operazione consentiva di risolvere tutta la problematica gnoseologica sulla base del carattere intrinsecamente universale della ragione, lasciava tuttavia scoperto il problema etico e quello religioso, non riuscendo a fondare in maniera adeguata il rapporto ‘personale’ del singolo rispetto all’Assoluto e rispetto agli altri individui.
Già in uno dei primi articoli dedicati alle vicende filosofiche contemporanee in Germania, quello di Giulio Grasselli su La fenomenologia di Husserl e l’ontologia di Heidegger («Rivista di filosofia», 1928, 19), si affermava che l’ontologia heideggeriana era il frutto maturo della fenomenologia di Husserl, lasciando intendere che valeva più la pena confrontarsi con il discepolo che con il maestro. A questo articolo fece riferimento Guido De Ruggiero (1888-1948) che, diversamente da Grasselli, preferì invece risalire alla fonte, quindi a Husserl, anziché confrontarsi con i suoi esiti ‘esistenzialistici’, ma che, proprio per questo motivo, non comprese le profonde novità del pensiero di Heidegger. Il suo articolo su Husserl e la fenomenologia («La Critica», 1931, 29, pp. 100-09) costituisce un documento dell’impatto decisamente negativo che le nuove tendenze della filosofia tedesca ebbero sull’attualismo italiano, lette com’erano alla stregua di filosofie ‘inferiori’ rispetto alla sistematicità della filosofia neoidealistica.
Il primo esempio di ricezione positiva fu invece quello di Ernesto Grassi (1902-1991), il quale vide nell’esistenzialismo di Heidegger (all’epoca considerato, appunto, come un esistenzialista, qualifica che in seguito sarà decisamente contestata dallo stesso filosofo) l’occasione per far dialogare l’attualismo con le correnti contemporanee della filosofia tedesca. In un saggio del 1933, intitolato Dell’apparire e dell’essere, Grassi riconosceva nel pensiero heideggeriano una significativa evoluzione rispetto alla fenomenologia, poiché laddove Husserl restava nell’astrazione di pretese «necessità logiche», Heidegger riusciva invece a manifestare il vero problema metafisico dell’uomo, ossia il disvelarsi mai definitivo dell’essere. L’unico limite è che bisognava tradurre il disvelarsi dell’essere dentro le categorie dell’attualismo, quindi intenderlo ancora come il divenire dello spirito. Questa interpretazione di Heidegger, certamente fuori bersaglio, favorì tuttavia il pieno avvicinamento della cultura italiana a una filosofia che fino a quel momento non era stata veramente affrontata. Ma ancora più significativo è il fatto che Grassi negli anni seguenti intraprenderà decisamente la strada di un ritorno creativo alla tradizione umanistica (italiana in particolare) e al patrimonio degli studia humanitatis latini, distaccandosi in questo dal pregiudizio antiumanistico heideggeriano.
Se l’antiumanesimo heideggeriano si accompagnava all’infelice contiguità con il nazionalismo (e peggio ancora con il nazionalsocialismo), è solo cambiando collocazione geografico-spirituale, e tornando alle fonti sempre vive, anche se dimenticate, della latinità umanistica, che il tentativo heideggeriano di superare il pensiero calcolante in vista di un pensiero poetante poteva realizzarsi più adeguatamente. Ma questo portava Grassi a intendere la forza plasmatrice della poesia, nella sua originaria funzione civile, come liberazione di quell’universalità e di quella misura del consenso umano che nel mondo tedesco rischiavano sempre di tramutarsi in una pretesa totalitaria.
Il passo successivo nell’affermazione dell’esistenzialismo in Italia all’interno della crisi dell’attualismo sarà compiuto da quegli autori che vengono etichettati convenzionalmente come ‘spiritualisti’ (Augusto Guzzo, Armando Carlini e Michele Federico Sciacca). Lo spiritualismo era nato come un tentativo di correzione dell’attualismo, soprattutto in relazione al problema della persona concreta. Questa correzione costituì in pratica la ‘conversione cattolica’ dell’attualismo, che oltre ad avere motivi eminentemente filosofici, fu favorita anche da motivi politici, relativi al concordato tra la Chiesa cattolica e il regime fascista (1929). L’avvicinamento politico consentì anche un avvicinamento culturale tra fascismo e cattolicesimo che segnò una netta rottura rispetto alla prima generazione degli attualisti (quella di Adolfo Omodeo, Vito Fazio-Allmayer e De Ruggiero), sostenitori invece di una filosofia dell’immanenza che si configurava come una vera e propria religione laica.
Un momento decisivo per l’affermarsi dell’esistenzialismo nella cultura italiana fu l’inchiesta promossa da «Primato», la rivista fascista diretta da Giuseppe Bottai (allora ministro dell’Educazione nazionale), nei primi mesi del 1943. Tale indagine segnò l’avvio di una seconda fase, che sarebbe proseguita fino alla metà degli anni Cinquanta, nella quale l’esistenzialismo venne per così dire reimpiegato e come ‘metabolizzato’ in altri indirizzi di pensiero, quali la fenomenologia, il personalismo e il marxismo. Anche in questo caso svolgono un ruolo significativo i rapporti politici tra Italia e Germania (è del 1936 l’asse politico Roma-Berlino), sia in negativo che in positivo.
Nel 1935 Karl Löwith, allievo di Heidegger rifugiatosi in Italia per sottrarsi al regime nazionalsocialista, aveva pubblicato un articolo sul «Giornale critico della filosofia italiana» in cui ricostruiva la dissoluzione dell’idealismo tedesco attraverso Karl Marx, Ludwig A. Feuerbach e Friedrich Nietzsche, individuando proprio nell’esistenzialismo l’ultima tappa di questa dissoluzione. La stessa lettura veniva sostenuta da pensatori francesi come Jean Wahl e Gabriel Marcel, che accostavano decisamente Heidegger a Sören Kierkegaard (un’associazione che in Italia godrà di molta fortuna). In questa prospettiva l’esistenzialismo si caricava di una valenza squisitamente critica, e sul versante politico costituiva un fronte di opposizione rispetto ai recenti ‘ideali’ propugnati dal nazionalsocialismo.
Nel 1936 lo stesso Heidegger venne invitato a Roma a tenere una conferenza, tradotta l’anno seguente da Armando Carlini, il quale curerà anche la traduzione della celebre lezione heideggeriana su Was ist Metaphysik? (1930; trad. it. Che cos’è la metafisica?, 1953). Sempre nel 1936 Franco Lombardi pubblicava una monografia su Kierkegaard che ebbe grande risonanza e suscitò forti interessi per la ‘malattia’ psicologica e morale con cui nasceva l’esistenzialismo.
Dalla metà degli anni Trenta all’inizio degli anni Quaranta si moltiplicarono sulle riviste italiane gli articoli dedicati all’esistenzialismo, soprattutto da parte di autori spiritualisti, che diedero alla luce anche due importanti volumi: nel 1936 uscì a Firenze Il mito del realismo di A. Carlini (in cui si sosteneva che il pensiero di Heidegger poteva essere, sì, utilizzato in funzione antihegeliana per pensare la persona nella sua corporeità, ma non per pensare la persona in rapporto alla rivelazione cristiana) e nel 1938 apparve a Padova il Giudizio sull’esistenzialismo di Luigi Stefanini (in cui si interpretava Heidegger come l’esito nichilistico della filosofia di Husserl, il quale a sua volta veniva interpretato come l’ultima conseguenza dell’immanentismo moderno).
Nel giro di pochi anni divenne chiaro quanta importanza l’esistenzialismo stesse assumendo in Italia: ne abbiamo una traccia ben visibile nelle ampie discussioni su temi esistenzialistici svolte nei due congressi italiani di filosofia tenuti a Bologna nel 1938 e a Firenze nel 1940, ma soprattutto nella comparsa, nel 1939, del primo libro italiano dichiaratamente esistenzialista, La struttura dell’esistenza di Nicola Abbagnano, e l’anno seguente della prima monografia italiana sull’esistenzialismo nel suo complesso, La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers di Luigi Pareyson.
Ma torniamo all’inchiesta promossa da «Primato». I primi due interventi furono scritti da Enzo Paci e Nicola Abbagnano, seguiti da quelli di Armando Carlini, Ugo Spirito, Francesco Olgiati, Augusto Guzzo, Pantaleo Carabellese, Camillo Pellizzi, Cesare Luporini, Galvano Della Volpe, Antonio Banfi. Alla discussione intervenne lo stesso Gentile, mostrando la sua sostanziale incomprensione della portata della nuova filosofia, liquidata senz’altro come un pensiero che, in fondo, non apportava niente di nuovo rispetto al neoidealismo italiano anzi presentava «con marca straniera una merce nostrana».
Una risposta importante arrivò da Abbagnano, il quale, pur riconoscendo un certo debito dell’esistenzialismo verso l’attualismo, precisava
per obbligo di chiarezza e di sincerità, che l’esistenzialismo si stacca dall’idealismo su punti fondamentali e devo insistere sul significato e la portata di questo distacco. Il distacco verte: 1) sulla riduzione dell’uomo a soggetto pensante; 2) sulla conseguente riduzione a elementi empirici ed insignificanti di aspetti costitutivi della natura finita dell’uomo (Risposta ai contraddittori, in L’esistenzialismo in Italia, 1993, p. 140).
Troviamo qui, in nuce, le motivazioni teoretiche di una differenza di concezione sul ruolo dell’individuo umano – della sua finitezza e insieme della sua libertà – all’interno della società e di fronte allo Stato. Proprio l’idea che l’uomo sia libero in quanto segnato da una ‘possibilità’ che non può mai realizzarsi e chiudersi, ma implica un rapporto aperto e problematico con la realtà e soprattutto con gli altri uomini, costituisce una decisa contestazione della concezione gentiliana riguardo alla progressiva riducibilità dell’individuo nel corpo totale dello Stato, il quale era inteso appunto come quella «individualità sola» in cui si attuano storicamente le possibilità dello spirito umano.
Così, l’istanza esistenzialistica avrebbe funzionato da richiamo catalizzatore e simbolico per quelle tendenze sociopolitiche e quelle concezioni della vita civile che in modi diversi assumevano una posizione alternativa, se non conflittuale, rispetto allo statalismo etico di ascendenza gentiliana, quali il liberalismo democratico, il comunitarismo sociale dei corpi intermedi caro alla tradizione antistatalista cattolica, le teorie dell’egualitarismo socialista e i progetti rivoluzionari marxisti.
Nello stesso anno del dibattito su «Primato», viene pubblicata l’Introduzione all’esistenzialismo di uno degli autori che sarà più impegnato nella messa a fuoco della novità e della radicalità di questa tendenza filosofica, vale a dire Cornelio Fabro (1911-1995). Nel 1945 Fabro darà alle stampe un altro volume dedicato ai Problemi dell’esistenzialismo, nel quale definisce addirittura «la filosofia dell’esistenza come l’ultima ‘forma’ del pensiero occidentale» (Problemi dell’esistenzialismo, in Id., Opere complete, 8° vol., 2009, p. 7), considerandola – agli antipodi rispetto a Gentile – come una novità assoluta perché interpreta in maniera paradigmatica la crisi della filosofia e, più al fondo, la radicale finitezza dell’uomo.
Ma l’esistenzialismo di cui parlava Fabro era quello radicale e davvero rivoluzionario veicolato in Germania dalla Kierkegaard-Renaissance e forgiato dagli influssi di Fëdor M. Dostoevskij e di Nietzsche, da cui sarebbero nati contemporaneamente il filone teologico (luterano-calvinista) con Der Römerbrief (nuova ed. 1922; trad. it. L’Epistola ai Romani, 1962) di Karl Barth, e quello filosofico con Psychologie der Weltanschauungen (1919; trad. it. La psicologia delle visioni del mondo, 1950) di Karl Jaspers. Ben diversa, secondo Fabro, la situazione in Francia e in Italia, lì dove «i lineamenti della nuova filosofia hanno tonalità meno chiare quando non danno l’impressione di espedienti di compromesso» (Problemi dell’esistenzialismo, cit., pp. 11-12). Si tratta di un giudizio forse severo, ma indicativo, perché pone in luce il problema se la storia della filosofia italiana all’inizio del secolo fosse davvero in grado di recepire l’innesto della tendenza esistenzialista tedesca, o se al contrario se ne sia solo servita come ci si serve di uno strumento esterno, che non modifica però nel profondo la fisionomia di chi lo utilizza.
Al contrario di Fabro, qualche anno prima Luigi Pareyson (1918-1991) aveva dato un giudizio ben diverso nell’articolo Idealismo ed esistenzialismo, sostenendo che «non è possibile parlare di vera opposizione tra esistenzialismo e idealismo» e che anzi «la polemica esistenzialistica contro l’idealismo non è essenziale alla filosofia dell’esistenza» (Idealismo ed esistenzialismo, «Studi filosofici», 1941, 2, p. 162). Sintomo, probabilmente, di una precisa tendenza della scuola torinese, di cui Pareyson sarebbe divenuto uno dei principali riferimenti, nel sottolineare una qualche continuità tra lo spiritualismo cristiano (a sua volta come si è visto imparentato con l’idealismo) e la filosofia dell’esistenza, ma anche a interpretare l’esistenzialismo come una riformulazione in senso ontologico della filosofia del soggetto e in senso ermeneutico della filosofia dello spirito.
Ma vale la pena addentrarsi un po’ di più nell’ambiente torinese, che ha costituito una sorta di crocevia dell’esistenzialismo italiano. Abbiamo già più volte accennato al nome di Augusto Guzzo (1894-1986) a proposito delle istanze di tipo ‘esistenziali’ emergenti nello spiritualismo cristiano. Di rilievo nel nostro percorso è la sua critica all’idea gentiliana di spirito, a suo parere troppo condizionata dall’impronta del Romanticismo tedesco, secondo cui lo spirito sarebbe abitato da una insoddisfazione perenne che lo porta all’infinita inventività e progressione dell’atto presente. Per Guzzo l’atto dello spirito non è solo dissoluzione del già stato, ma anche conservazione del già stato: il passato è sempre necessario allo spirito in quanto costituisce un «operare civile, storico, che crea opere determinate, per vivere ivi, in concreto, la ‘creatività’ dello spirito» (A. Guzzo, Sic vos non vobis, 2° vol., 1940, p. 43). L’atto dello spirito perciò si costituisce in forme che restano e che restando sostanziano la storia. Queste forme sono oggettività al contempo immanenti e trascendenti rispetto allo spirito: una trascendenza che verrà poi interpretata da Guzzo, in senso agostiniano, in riferimento alle idee divine, intese come le «intenzioni» di Dio verso l’uomo, le quali costituiscono al tempo stesso i fini morali verso cui l’io tende (cfr. Mathieu 1978, p. 46).
E se – come Guzzo sostiene in L’io e la ragione (1947) – ogni esistenza si attesta sempre «in prima persona», non si potrà mai ridurre la personalità dell’io all’universalità della ragione, come ha fatto una lunga tradizione, da Sigieri di Brabante sino a Gentile. Proprio nella differenza tra il soggetto esistente e la ragione universale deve fondarsi la libertà dell’uomo. Il problema della libertà costituirà il nucleo essenziale della riflessione dell’autore che ha per così dire ‘incarnato’ più di ogni altro l’esistenzialismo italiano, vale a dire Nicola Abbagnano (1901-1990). Essa nasce come una riflessione sui rapporti e sulle rispettive delimitazioni tra scienza e filosofia e, in particolare, sulle differenze, e insieme sulle inevitabili implicazioni, fra una teoria della conoscenza, intesa in senso kantiano come teoria della scienza, e una metafisica che mira a illuminare e analizzare il più ampio campo dell’esperienza umana in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi problemi, non solo quelli della ragione, ma anche quelli del «cuore» (cfr. La fisica nuova, del 1934, e Il principio della metafisica, del 1936). L’elaborazione di questa tematica (nella quale si possono ritrovare alcuni influssi della fenomenologia husserliana) porterà Abbagnano a confrontarsi serratamente con Kierkegaard e con Heidegger, e a maturare quello che può essere considerato il primo testo di un esistenzialismo italiano, ossia La struttura dell’esistenza (1939), heideggeriano nel linguaggio, ma originale nei contenuti.
Come Heidegger, anche Abbagnano intende l’esistenza come «possibilità di rapporto con l’essere». Questo rapporto finora è stato pensato in due modi: come impossibilità di staccarsi dal nulla (Heidegger) oppure come impossibilità di coincidere con l’essere (Jaspers). Nel primo caso il rapporto tra l’esistenza e l’essere è sempre segnato dalla possibilità estrema dell’uomo come «essere-per-la morte», che costituisce la «situazione iniziale» da cui egli non potrà mai fuoriuscire, mentre nel secondo caso è segnato dallo «scacco» o dal «naufragio» di ogni tentativo di raggiungere il senso ultimo dell’essere, ossia il Tutto, quindi a partire dalla sua «situazione finale». Da parte sua Abbagnano ritiene invece che tra queste due possibilità fondamentali se ne possa individuare una terza, quella che pensa l’esistenza a partire dall’unità delle sue situazioni estreme, quindi «come una forma nella quale la situazione finale dello sforzo verso l’essere realizza la propria essenziale unità con la situazione iniziale» (La struttura dell’esistenza, 1939, p. 35).
Ora, la situazione iniziale dell’esistenza è l’indeterminazione, nel senso di un «poter-essere» indeterminato, e ogni oltrepassamento dell’indeterminazione è una decisione riguardo alla nostra esistenza, una determinazione di noi stessi. Ma la decisione con cui ci autodeterminiamo non elimina il nostro ulteriore poter-essere, e l’esistenza si ritrova sempre nuovamente nell’indeterminazione, la quale dunque rimane permanente sullo sfondo del nostro esistere. Abbagnano la definisce «possibilità trascendentale», ossia la struttura fondamentale dell’esistenza, quella che, se riconosciuta, ci permette di vivere in maniera «autentica». Essa infatti mi consente di riconoscere nelle decisioni attuali il punto di partenza delle decisioni future, quindi da un lato di poter ripetere la mia scelta in futuro (o meglio di poter scegliere ancora il ‘me’ già scelto) senza perdermi nell’indeterminazione; dall’altro di decidere responsabilmente, dal momento che la scelta è sempre unitariamente un punto d’arrivo e un punto di partenza.
Non è un caso che per Abbagnano vivere «autenticamente» significa preservare la nostra esistenza come «possibilità di possibilità», ossia rispettare la trascendentale possibilità di scegliere. Il che comporta una particolare comprensione della finitudine dell’esistenza, dai toni meno angosciosi o nichilisti, rispetto alle versioni ‘tedesche’, ma, se si vuole più ‘italianamente’, come il segno della «saggezza della vita». All’interno di tale saggezza rientrano i tre approcci fondamentali all’esperienza umana che danno il titolo a un suo saggio del 1947, Filosofia, religione, scienza. La filosofia e la religione cercano il senso dell’esistenza, mentre la scienza è al servizio dell’uomo in quanto lo aiuta a migliorare la ragionevolezza della sua ricerca di senso. Così l’esistenzialismo italiano più che suggellare un destino insuperabile (come spesso nelle sue versioni europee) indicava piuttosto un compito di illuminazione ed emancipazione delle possibilità individuali e soprattutto culturali e sociali della vita umana.
Proprio questa considerazione della scienza come strumento emancipativo al servizio dell’umanità porterà Abbagnano a sviluppare il suo esistenzialismo nella direzione di un vero e proprio ‘neoilluminismo’, un indirizzo di pensiero che si diffonderà in Italia negli anni Cinquanta e che coinvolse pensatori anche abbastanza diversi tra loro, quali Ludovico Geymonat, Norberto Bobbio e Antonio Banfi. Il neoilluminismo vuole ripensare la filosofia come compito civile, in maniera analoga al modo in cui la pensava l’Illuminismo storico, e dunque come strumento di miglioramento delle condizioni della vita, della politica, della società. In particolare, per Abbagnano l’approdo neoilluminista è segnato da una maggiore attenzione al carattere finito, determinato della libertà. Questo porterà a ridefinire il compito della filosofia e a rendere più rigorosi e controllati i suoi procedimenti, dal momento che, «ridotta a uno stato di purezza, la filosofia perde le sue radici umane, cessa di rispondere a problemi autentici e diventa ‘pura’ esercitazione retorica» (Possibilità e libertà, 1955, p. 3).
A differenza dal modo in cui la libertà era stata pensata nella filosofia dell’Ottocento (sempre garantita da una superiore necessità della ‘Natura’ o dello ‘Spirito’), ma anche tentando di concretizzare in senso più empirico-culturale-sociale la stessa libertà esistenzialistica, Abbagnano punta sul fatto che nel pensiero contemporaneo la libertà può essere fondata solo nella stessa libertà. Questa attenzione alla libertà gioca un ruolo di tutto rilievo anche nello sviluppo della scienza, come, per es., nella matematica (in cui sparisce il concetto di verità necessaria) o nella fisica (in cui il concetto-chiave diviene sempre più quello di probabilità). Anche nella filosofia si tratta di abbandonare il concetto esistenzialistico-negativo di possibile, e di pensare – in direzione più pragmatista – la possibilità come ‘potenzialità’, vale a dire come ciò che non resta semplicemente in sospeso, ma è possibile per realizzarsi, in vista dei suoi effetti. La filosofia che meglio assolve a questo compito è per Abbagnano quella di John Dewey (sebbene analoghe considerazioni si troverebbero, secondo lui, anche nell’ultimo Wittgenstein e nell’ultimo Croce): così la struttura dell’esistenza viene sempre più vista, in assonanza con lo strumentalismo americano, come possibilità pratica e impegno operativo nell’interazione dei soggetti umani con il mondo esterno e come continua e progressiva costruzione e ricostruzione dell’esperienza, sia individuale che sociale.
Ma facciamo un passo indietro per aggiungere un altro importante tassello alla nostra ricostruzione dell’esistenzialismo in Italia. Nel 1940, infatti, l’anno successivo alla pubblicazione del volume di Abbagnano, apparve uno studio di Pareyson dedicato a La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers. L’intento dell’autore era quello di verificare se la ‘nuova filosofia’ potesse essere usata per la fondazione di un pensiero ‘personalista’. Il punto di forza della sua interpretazione (come era già emerso da un saggio di due anni prima) riguardava il rapporto tra l’esistenziale e l’esistentivo: il primo costituisce l’oggetto principale della filosofia di Heidegger, tanto che ogni analisi dell’esistentivo (cioè delle determinazioni concrete dell’esistenza) vale nella misura in cui illumina l’esistenziale, inteso come una «struttura a priori dell’esistenza»; diversamente in Jaspers l’attenzione è rivolta proprio alle determinazioni concrete che l’esistenza decide di assumere di volta in volta, sebbene in esse l’esistenza, come si è detto, sia destinata al «naufragio» (L. Pareyson, Note sulla filosofia dell’esistenza [1938], in Id., Studi sull’esistenzialismo, 1943, pp. 201, 235).
Ciò che per Pareyson accomuna entrambi i filosofi, però, è una determinazione dell’esistenza come rapporto con sé e al tempo stesso come rapporto con l’essere, cioè nella simultaneità di «autorelazione» e di «eterorelazione». Qui si mostra «l’idea centrale dell’esistenzialismo» (La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, 1940, cap. 18), visto nella sua filiazione diretta dal pensiero di Kierkegaard, dalla cui «straordinaria ricchezza» discende anche un terzo, importante protagonista, vale a dire il teologo Karl Barth. Abbiamo così tre diversi tipi di esistenzialismo sorti da una stessa radice: quello teologico (dialettico) di Barth, quello fenomenologico (esistenziale) di Heidegger e quello psicologico (esistentivo) di Jaspers (Studi sull’esistenzialismo, cit., p. 57).
Di particolare rilievo per la visione della storia che ne discende, è il fatto che per Pareyson l’esistenzialismo non va inteso come una mera ‘filosofia della crisi’, ma come una filosofia autonoma che, da un lato, decreta il fallimento dell’hegelismo, cioè del più imponente tentativo di superare la differenza tra finito e infinito attraverso la loro compiuta ‘mediazione’ nella storia; e dall’altro lato, proprio grazie al rifiuto di questa mediazione, si attesta saldamente su di un pensiero finito in quanto finito. Per Pareyson tale finitezza assume il significato originale di «contingenza», e quest’ultima a sua volta va pensata attraverso il concetto (kierkegaardiano) di «implicanza»: proprio nel riconoscimento da parte del singolo uomo di non-essere Dio, egli può scoprire il suo essere fondato in Dio. Così, attraverso la massima scissione o la massima impossibilità, si verifica la massima unione, la possibilità massima. Il fatto è che, sia in Barth che in Heidegger, il concetto di implicanza sembra sfaldarsi. Jaspers sembra l’unico esistenzialista a non dissolvere l’implicanza di positivo e negativo, come emerge dalla sua considerazione delle ‘situazioni limite’, ovvero di quelle situazioni in cui, esistendo, mi imbatto necessariamente (come il non poter vivere senza lotta o dolore, o l’essere destinato alla morte ecc.). Proprio nella necessità del limite si rivela la mia esistenza, tanto che esistere è fondamentalmente esperire situazioni limite (La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, cit., p. 148), perché nella situazione limite si manifesta la perfetta coincidenza di autorelazione ed eterorelazione.
Le opere successive di Pareyson proseguiranno il tentativo di fondare un’ontologia personalista basandosi sul concetto di singolo, pensato non solo come individuo, ma anche come unico, quindi non come frammento di una totalità, ma come un intero (L. Pareyson, Esistenza e persona, 20027, pp. 87-89). Ma c’è di più, ed è il fatto che l’ontologia inaugurata dall’esistenzialismo, in quanto fondata sul rapporto tra il singolo storicamente situato e l’essere verso cui egli si trascende, non può che configurarsi come una ermeneutica dell’essere trascendente. Prima ancora di Hans Georg Gadamer e Paul Ricœur, Pareyson elaborò a partire dagli anni Cinquanta una propria filosofia dell’interpretazione o ontologia ermeneutica: poiché noi accediamo alla realtà attraverso la nostra esistenza personale, ogni nostro rapporto con l’essere è un’interpretazione; ma a sua volta l’interpretazione è un’incarnazione personale dell’essere che trascende la mia situazione. Si tratta di una prospettiva che avrà significativi effetti (anche attraverso gli sviluppi di alcuni suoi allievi, quali Gianni Vattimo e Umberto Eco) non solo sulla filosofia in senso stretto, ma sull’intera cultura italiana dagli anni Sessanta ai giorni nostri.
Intanto, può risultare interessante considerare – in contrappunto al tentativo pareysoniano di appropriarsi dell’esistenzialismo e di condurlo sino a un esito ermeneutico – un altro tentativo, anch’esso di matrice cattolica, come quello di Augusto Del Noce (1910-1989), il quale prenderà anch’egli le mosse dal problema esistenziale della finitudine umana e del suo rapporto con l’infinito, ma lo svilupperà attraverso una messa in questione della secolarizzazione del pensiero moderno e al tempo stesso una riapertura critica delle istanze più vitali della modernità, per giungere a una interpretazione ‘transpolitica’ della storia contemporanea.
Anche Del Noce si era formato all’Università di Torino (con Adolfo Faggi), e sin dall’inizio aveva individuato come problema decisivo per la sua ricerca, che tale rimarrà sino alla fine, quello del razionalismo moderno. Quest’ultimo costituiva, appunto, un problema a motivo dell’immanentismo e dell’ateismo che ne costituivano la struttura o la tendenza: e si trattava di una questione particolarmente urgente per chi, impegnato nella sinistra cattolica come il giovane Del Noce, voleva pensare il marxismo in connessione con il cristianesimo.
L’attenzione sulla modernità fu suggerita a Del Noce soprattutto dalla lettura giovanile dell’Humanisme intégral (1936; trad. it. 1946) di Jacques Maritain, mentre a suggerirgli l’ipotesi storiografica decisiva fu l’esistenzialismo di Lev Šestov. Il filosofo francese gli indicava la possibilità di conciliare alcune conquiste positive del pensiero moderno (come la democrazia) con il pensiero cattolico tradizionale. Invece il filosofo russo gli suggeriva una concezione della filosofia come risposta al problema più radicale della finitudine umana, quello della morte e del male. Del Noce utilizzerà le analisi di Šestov per descrivere il problema del razionalismo moderno, nel quale ogni realtà finita, proprio perché finita, deve subire, con l’annullamento della sua singolarità, il castigo di essersi emancipata dall’essere puro; il male sta nella finitezza stessa dell’esistente, la colpa è ontologica, scritta nella struttura stessa dell’esistente finito. L’uomo è colpevole in quanto esistente (A. Del Noce, L’esistenzialismo di Chestov, 1946, pp. 33-34).
Contro la lettura tradizionale che vedeva nel razionalismo un’esaltazione della ragione, Del Noce vi vede piuttosto il tentativo di giustificare (peraltro senza prove) l’imperfezione e la negatività del finito. Un’ipotesi molto simile egli ritroverà poi nella lettura di Hegel proposta da Alexandre Kojève (Introduction à la lecture de Hegel, 1947; trad. it. parziale, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, 1948), in cui si afferma che il significato fondamentale della filosofia hegeliana è trovare la giustificazione del «nesso tra esistenza finita e morte». Proprio a partire da queste considerazioni esistenzialiste, Del Noce svilupperà il suo pensiero in direzione antistoricistica, rifiutando di considerare «l’idea hegeliana della storia della filosofia come sviluppo dialettico di un unico pensiero» (A. Del Noce, Razionalismo metafisico e punto di partenza, 1948, p. 169), allontanandosi al tempo stesso dal neotomismo, per la sua tendenza a dedurre sistematicamente ciò che può essere solo legato a una decisione della libertà umana e rompendo infine decisamente anche con il marxismo.
Alla fine degli anni Quaranta Del Noce abbandonò la sinistra cattolica auspicando che la Democrazia cristiana assumesse il ruolo di una terza forza politica (tra comunismo sovietico e capitalismo americano) capace di condurre l’Italia nel postfascismo. Proprio attraverso la critica alla modernità Del Noce si rende conto che il marxismo non può essere corretto dall’interno in direzione del cristianesimo (come presumeva il ‘cattolicesimo comunista’ sviluppato da Franco Rodano), poiché esso si situa all’interno di quella decisione che considera il finito come negatività. Bisogna perciò correggerlo dall’esterno, risalire a prima di tale decisione: solo in un pensiero pre-marxista – e cioè sostanzialmente nelle decisioni di fondo del pensiero moderno – è possibile capire e superare i limiti del marxismo.
Mentre Croce e Gentile avevano cercato di superare il marxismo attraverso Hegel, e in questo tentativo avevano fallito, Del Noce trova già in Giambattista Vico la confutazione di quella che sarebbe stata la filosofia marxista della storia, poiché la concezione vichiana della storia non tenta di superare, anzi presuppone, l’interpretazione teologica della caduta dell’uomo di cui parla la Scrittura. In questo senso il pensiero cattolico si pone, secondo Del Noce, come l’unica reale alternativa al marxismo, e con esso all’immanentismo e all’ateismo moderni, in quanto risulta essere l’unico modello di pensiero che consente di «definire ciò che può fare l’uomo nella sua natura decaduta» (A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, 1964, p. 117). Così al cattolicesimo e a questa linea di tradizione interna al pensiero moderno, è affidato il compito di guidare la nazione superando i limiti sia del fascismo che del marxismo. Significativi saranno a questo riguardo due celebri interpretazioni delnociane, quella sulla dipendenza teoretica della filosofia della prassi di Antonio Gramsci dall’attualismo di Gentile e quella sul cosiddetto «suicidio della rivoluzione», vale a dire sul fatto che il marxismo, proprio per aver assunto in sé l’immanentismo e l’ateismo moderno, si trasforma alla fine in un radicalismo di massa, contribuendo a realizzare proprio quella società borghese dell’opulenza che voleva combattere.
In questa lettura ‘transpolitica’ della storia contemporanea, l’attenzione metafisica al libero arbitrio è considerata come necessaria condizione per affermare la libertà in senso politico. In definitiva la libertà politica si fonda sulla libertà morale, cioè sulla scelta autonoma e responsabile del soggetto. L’ontologismo, secondo il quale la realtà precede e fonda la libertà, si traduce dal punto di vista politico in un ‘nuovo umanesimo’ cristiano, in cui la politica è pensata come dipendente dai limiti della finitudine umana (antiperfettismo) e passibile di miglioramento soltanto conseguentemente alla virtù dell’uomo (perfettibilismo etico-politico).
Ultimo protagonista dell’ambiente torinese, Pietro Chiodi (1915-1970), dopo il suo impegno civile nella Resistenza, si dedicò allo studio dell’esistenzialismo, diventando uno dei principali traduttori di Heidegger in Italia. Diversamente dal suo maestro Abbagnano e da Pareyson, egli tematizza sin dall’inizio il ruolo della fenomenologia di Husserl all’interno dell’‘esistenzialismo’ di Heidegger. L’«analitica esistenziale» di Sein und Zeit (1927; trad. it. Essere e tempo, 1953) di Heidegger va letta secondo Chiodi come il compimento della grande scoperta di Immanuel Kant, secondo cui il soggetto è auto-condizione della comprensione dell’essere; solo che tale analitica mancherebbe il suo obiettivo, proprio a causa del metodo fenomenologico che porta a una riduzione trascendentale del singolo soggetto alla sua struttura impersonale e indifferente.
Lo stesso Heidegger avrebbe riconosciuto il pericolo della riduzione fenomenologica e avrebbe tentato di evitarlo attraverso la sua ‘secessione esistenzialistica’: ma anche questo tentativo sarebbe fallito, perché avrebbe semplicemente capovolto l’analitica esistenziale «in un rinnovato romanticismo, tanto impressionante quanto inaccettabile» (vedi il tema del ‘destino dell’essere’ o della ‘storia dell’essere’). Ma qui avviene un colpo di scena: proprio a motivo di questo fallimento,
non pochi studiosi che avevano accettato in un primo tempo la validità della secessione heideggeriana furono ricondotti, dalla inaccettabilità delle posizioni heideggeriane, ad un riesame delle posizioni husserliane che la secessione aveva rifiutato (P. Chiodi, Esistenzialismo e fenomenologia, 1963, p. 20).
Soprattutto ci si riferiva agli scritti di Husserl successivi a Sein und Zeit e in particolare a Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie (trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1961), apparsa postuma nel 1954. Il principale punto debole dell’esistenzialismo era stato il problema del ‘fondamento’, quindi della ‘ragione’ (Grund). In questo senso, secondo Chiodi occorre riconciliare l’esigenza husserliana di fondazione con l’esigenza heideggeriana di irriducibilità (o non-riduzione): ed è quello che non riesce a Heidegger ma a Husserl, il quale, superando un certo ‘idealismo’ di marca cartesiana, avrebbe ripensato a fondo la fenomenologia approdando infine al concetto di esperienza da lui tematizzato nella Krisis.
Questo mostra che la riduzione husserliana non è necessariamente di tipo ‘idealistico’: essa infatti non mira semplicemente a superare la differenza tra il finito e l’infinito, tra gli oggetti e la ragione, ma a mostrare le cose in se stesse, cioè i ‘fatti’ come ‘fenomeni’. Ciò che Husserl scopre nella Krisis è che l’esperienza non è un mondo unico (quindi una totalità di oggetti dentro un unico orizzonte di significato), ma è un universo di mondi, ognuno con le sue condizioni di possibilità e di validità. In questa ‘pluridimensionalità’ dell’esperienza, il fondamento non andrà più inteso come un ‘assoluto metafisico’, ma piuttosto come una ‘relazione fondatrice’, vale a dire come un rapporto reciproco tra l’intenzionalità del singolo e i fenomeni intenzionati, secondo le ‘infinite possibilità’ di tale rapporto.
Tra le infinite possibilità vanno quindi contemplati anche l’errore, la morte, la malattia, l’alienazione: il fondamento, cioè, può fondare anche il suo fallimento. Così la fenomenologia porterebbe con sé una «rinnovata teoria della ragione», o una nuova critica della ragione, «che tragga dalla consapevolezza dei propri limiti lo stimolo per i propri compiti reali» (Esistenzialismo e fenomenologia, cit., p. 143). E per Chiodi non è un caso che questa critica fenomenologica della ragione sia stata impiegata nel ripensamento del marxismo, come per es. in Sartre: ricollocare infatti la filosofia nel punto di vista del finito consente il suo utilizzo concreto e ne riabilita il ruolo civile di comprensione e di guida della realtà storica.
L’elaborazione, in ambito torinese, dell’esistenzialismo come fenomenologia della ragione trascendentale e storico-sociale, quale è quella proposta da Chiodi, trova un analogo filosofico – questa volta in ambito milanese – nell’itinerario di Enzo Paci (1911-1976). Tra gli allievi di Antonio Banfi, Paci rappresentava per così dire la posizione maggiormente ‘esistenzialistica’, nutrita di grande ammirazione per l’esistenzialismo positivo di Abbagnano, tanto da non approvare il passaggio di quest’ultimo al neoilluminismo. In Pensiero, esistenza e valore (1940) Paci mostrava una particolare attenzione all’irriducibilità dell’individuo di fronte all’essere, interpretato come ‘valore’, e insieme all’irriducibilità della filosofia rispetto alle scienze, dal momento che nessuna scienza potrà conoscere adeguatamente il rapporto tra esistenza e valore. Al tempo stesso, però, egli sentiva il bisogno di salvaguardare la filosofia dall’utilizzo sbagliato che ne facevano, da una parte, i cattolici (che partivano dal presupposto di un ‘assoluto irrelativo e astorico’), e dall’altra gli storicisti (che partivano dall’assolutizzazione idealistica della storia). Per difendere l’irriducibilità della filosofia, Paci pensava che non fosse sufficiente definire un ambito di oggetti eminentemente filosofici, ma che bisognasse mostrare l’intrinseca filosoficità di tutte le attività umane.
Proprio nel tentativo di mostrare la portata filosofica e ‘problematica’ di ogni rapporto tra l’uomo e l’essere, Paci si sarebbe reso conto dell’insufficienza dell’esistenzialismo, il quale restava pur sempre una ‘teoria del problema’: ma anziché tematizzare il problema, bisognava problematizzare le cose, mostrare la loro strutturale problematicità. Nascerà di qui il passaggio di Paci dall’esistenzialismo al ‘relazionismo’, che mirava dunque a comprendere la ricchezza costitutiva dell’accadere e soprattutto l’apertura di possibilità e di progettualità che esso porta con sé. Il superamento della metafisica classica della ‘sostanza’ diventa così la condizione per prendere sul serio il futuro, in vista della
progettazione e [della] attuazione di quelle possibilità che, meglio delle altre, trasformano il bisogno in soddisfazione, la crisi in soluzione della crisi, la situazione problematica in situazione risolta, la perdita dell’equilibrio in un nuovo e più armonico equilibrio (E. Paci, Dall’esistenzialismo al relazionismo, 1957, p. 309).
È qui la molla del progresso sociale e dell’evoluzione civile. La dignità di ogni uomo sta proprio nel suo essere l’occasione del manifestarsi delle relazioni che lo costituiscono e nell’intenzionarsi verso il futuro sapendo che egli costituirà un ruolo nella trama delle relazioni, quindi nel significato del cosmos.
Poiché la temporalità è irreversibile, e le relazioni del passato non sono riproducibili in quelle del futuro, l’uomo non può restare nelle relazioni che già lo costituiscono, ma deve progettare sempre nuove relazioni, quindi salvarsi dalla minaccia del suo isolamento, restando sempre proteso all’avvenire, sentendo «la propria responsabilità per l’aprirsi del processo universale al valore» (p. 389).
L’attenzione alla trama delle relazioni e al valore del soggetto come colui che dall’interno vive e costituisce queste relazioni porterà Paci a confrontarsi in maniera serrata con la fenomenologia di Husserl, tanto che nel 1961 Giuseppe Semerari poteva scrivere che «Paci è il più ricco assertore oggi, in Italia, dell’attualità del pensiero husserliano e della esigenza di approfondirlo e metterlo a fondamento dell’orientamento filosofico (e non solo filosofico) contemporaneo». La posta in gioco era ambiziosa: mostrare la «connessione tra fenomenologia e situazione storica contemporanea» (G. Semerari, Appendice a E. Paci, La filosofia contemporanea, 19613, pp. 263-64).
Come annoterà lo stesso Paci, l’esistenzialismo si era rivelato ormai «un episodio minore e superato all’interno della grande corrente fenomenologica» (E. Paci, Diario fenomenologico, 1961, p. 8). Peraltro, proprio tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta la fenomenologia in Italia riacquistava vigore, grazie soprattutto alla pubblicazione di diversi testi inediti di Husserl, quali Ideen II, Ideen III e Krisis (lo stesso Paci lavorò all’Archivio Husserl di Lovanio). Nel concetto husserliano di Lebenswelt Paci ritrovava l’idea che il significato dell’uomo possa essere definito solo dall’interno del mondo che lo costituisce e al quale egli appartiene. In virtù di questa strutturale appartenenza, la fenomenologia – intesa come «scienza della Lebenswelt» – ci consente di pensare l’essenza originariamente comunitaria o intersoggettiva di ogni esistenza individuale. L’intersoggettività come ‘essenza’ relazionale dell’individuo farà dire a Paci, sulla scorta di Husserl, che
non c’è socialità autentica se non in una progressiva individuazione e non c’è individuazione se non nel costituirsi progressivo di una vita sociale della comunità secondo un senso razionale, secondo un’idea teleologica infinita della razionalità (Funzione delle scienze e significato dell’uomo, 1963, p. 135).
Attraverso il suo tentativo di mettere in luce il significato dell’uomo, la fenomenologia costituiva così la risorsa per costruire una società razionale, e proprio in questa prospettiva Paci tenta di rileggere lo stesso marxismo con gli occhi di Husserl. La penetrante analisi dell’economia capitalistica compiuta da Marx è intesa da Paci come un’analisi prettamente fenomenologica: essa svela le relazioni reali che si nascondono dietro i fenomeni (o le apparenze), e comprende la disposizione delle relazioni in maniera temporale, quindi come disposizione storica che può essere cambiata razionalmente. Solo in quanto scoperta delle relazioni reali, cioè dei bisogni che legano i singoli tra loro e i singoli alla società, è possibile svelare le contraddizioni della società capitalistica. In poche parole, la fenomenologia diventa il metodo con cui analizzare le relazioni umane e sociali, e quindi la porta d’ingresso della filosofia nei processi storici del lavoro e della cultura. Essa diventa un progetto di prassi civile.
Al nome e al percorso di pensiero di Enzo Paci è legata la vicenda intellettuale di Giuseppe Semerari (1922-1996). Nell’asse tra Milano e Bari (nella cui università Semerari ha insegnato filosofia teoretica), e attorno alla rivista «aut aut», si sono impostate e sviluppate molte discussioni della fenomenologia italiana, proprio nella prospettiva di riformulare la funzione civile della filosofia e il compito emancipativo della politica. Già in Storicismo e ontologismo critico (1953) Semerari sosteneva che per problematizzare la storia a partire dalle condizioni della nostra esistenza fosse necessaria l’analisi fenomenologica. Partendo dall’insegnamento antistoricistico del suo maestro Pantaleo Carabellese, egli optò per una considerazione della storicità come temporalità, pluralità, relazione e alterità, e ritrovò proprio nella fenomenologia la possibilità di una fondazione relazionale e non metafisica (o sostanzialistica) dell’esperienza.
Come per Paci, anche per Semerari il punto di riferimento è soprattutto l’ultimo Husserl, per la sua proposta di una filosofia della vita intersoggettiva e della comunità umana. In un articolo apparso su «aut aut» nel 1959, dal titolo La responsabilità filosofica nelle “Meditazioni cartesiane” di Husserl, Semerari sottolinea proprio come la fenomenologia, nel suo tenere insieme la ricerca dell’universalità e dell’assolutezza, insieme alla soggettività dell’ego che compie la ricerca, dimostri che la filosofia sia «la pratica più consapevole e coerente della responsabilità dell’uomo» (G. Semerari, Responsabilità e comunità umana, 1960, p. 206).
Pensando la relazione irriducibile o ‘trascendentale’ tra l’essenziale e il fattuale, la fenomenologia è sempre al tempo stesso teoresi e critica, cioè sforzo di pensare l’essere e sforzo di pensare la differenza insuperabile tra pensiero e essere. Per questo essa, da un lato, supera il dogmatismo che accompagna inevitabilmente le posizioni ‘pragmaticiste’ e ‘operativiste’ (appiattite sui ‘dati di fatto’); ma dall’altro non può mai superare semplicemente il fattuale. Questa lotta della fenomenologia contro il dogmatismo viene portata da Semerari sino all’interno dell’unico vero tentativo finora compiuto di antidogmatismo, cioè il criticismo kantiano, che gli appare in fondo un tentativo fallito, in virtù della contraddizione permanente tra il «principio critico della soggettività» e la «nozione precritica dell’oggettività», cioè il residuo di una ‘cosa in sé’ metaempirica (G. Semerari, Scienza nuova e ragione [1961], in Id., Civiltà dei fini e civiltà dei mezzi, 1979, p. 36). Il problema del dogmatismo, o della «ragione narcisistica» (poiché pretende di vedere se stessa rispecchiata nella realtà), così come il problema opposto dell’irrazionalismo, o della «ragione masochista» (poiché pensa di essere distrutta dalla realtà), non è altro che il problema dell’«estraneità della coscienza umana, rispetto al processo storico-sociale della ragione» (p. 27). Alla luce di questa estraniazione dell’io dalla ragione, considerata come assoluta e indipendente dai singoli soggetti, diventa chiaro che l’irrazionalismo è l’esito naturale del razionalismo.
Di qui l’importanza, per il pensiero filosofico, di essere ‘critica’, nel senso che esso deve mostrare l’attività storica del soggetto nella ragione, quindi nelle realizzazioni storiche della ragione. Rispetto alla critica kantiana, è la critica fenomenologica a essere antidogmatica fino in fondo, proprio perché non ammette un mondo ideale al di fuori dal mondo della vita concreta, ma pensa l’essenza come la ‘costituzione’ soggettiva del senso del mondo. Ed è appunto il problema della costituzione storico-soggettiva della ragione e delle trasformazioni sociali, che porterà Semerari – sulle orme di Paci – a intendere le analisi di Marx come una vera e propria fenomenologia. In questo senso, anche per Semerari la fenomenologia ha un ruolo eminentemente ‘politico’, in un senso che chiameremmo etico-teleologico-culturale.
Nel panorama della filosofia italiana degli anni Sessanta, accanto e spesso attraverso il ritorno della fenomenologia, si presentano due fenomeni singolari e in qualche misura complementari: da un lato, un ritorno alla metafisica classica (in maniera diversa, però, da come essa era utilizzata nel neotomismo), dall’altro, e in linea con le riflessioni più militanti della cultura europea, una decisa ripresa di Nietzsche e l’elaborazione di un pensiero postmetafisico. I tre fenomeni, per quanto sembrino assai divergenti tra loro, possono essere letti in realtà come risposte diverse a una stessa questione, quella della «filosofia della crisi» (secondo la definizione data da Gianni Vattimo alla filosofia europea degli anni Sessanta). L’esistenzialismo, infatti, aveva sollevato il problema della finitudine, ponendo per la prima volta «il pensiero stesso come problema» (C. Fabro). La filosofia, così, si trovava coinvolta, in maniera inedita rispetto al passato, con la questione della sua stessa essenza: può davvero la filosofia essere quella forma di sapere capace di guidare l’umanità nella storia?
La soluzione richiedeva un vero e proprio ripensamento del ruolo fondativo della filosofia. Alcuni tentativi importanti in questa direzione erano stati fatti, con il passaggio dall’esistenzialismo al neoilluminismo e al relazionismo. Ma al tempo stesso qualcuno avrebbe cercato di rispondere al problema ‘fondativo’ della crisi in una direzione più ontologica e metafisica, sia riabilitando la perduta identità tra pensiero ed essere (Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino), sia pensando radicalmente l’impossibilità di una fondazione come la ‘possibilità’ più propria della riflessione filosofica e quindi – a partire da Heidegger e soprattutto da Nietzsche – a pensare una fuoriuscita dalla metafisica (in maniera diversa, Vattimo e Massimo Cacciari).
Negli stessi anni in cui Paci, nell’Università statale di Milano, cercava una fondazione dell’esistenzialismo attraverso l’ontologia relazionistica, nell’Università cattolica della stessa città Gustavo Bontadini (1903-1990) teorizzava la sua proposta di un ritorno alla ‘metafisica classica’. Non della pura riesumazione del pensiero antico, si trattava, ma di un ‘ritorno’, appunto, attraverso il cammino dello gnoseologismo moderno e dell’idealismo (cfr. G. Bontadini, Dal problematicismo alla metafisica, 1952). Tale gnoseologismo, secondo Bontadini, portava con sé un dualismo problematico tra la ragione e l’esperienza, che si dispiega nelle due grandi strade tentate per pensare la loro connessione, ossia l’empirismo (esperienza come ricezione) e il kantismo (esperienza come costruzione). Bontadini pensa invece che l’unico modo per fondare l’unità tra ragione ed esperienza, e quindi considerare l’esperienza come una ‘unità totale’, sia quello di riconoscere – attraverso un’inferenza metaempirica – che l’esperienza non costituisce l’orizzonte ultimo del pensiero, ma è preceduta da ‘altro’, vale a dire dall’essere. È proprio perché l’essere, in virtù del principio di non-contraddizione, non può essere delimitato dal non-essere, che esso fonda originariamente l’unità dell’esperienza.
Questa impostazione troverà le sue conseguenze più radicali nel più noto allievo di Bontadini, Emanuele Severino (n. 1929), il quale, a partire dalla fine degli anni Cinquanta (La struttura originaria è del 1958), si dedicò all’elaborazione di una metafisica fondata sul principio di non-contraddizione. La posizione di Severino trova il suo punto di svolta nell’articolo Ritornare a Parmenide (1964), in cui egli sviluppa un discorso sull’inviolabilità assoluta del principio di non-contraddizione, sostenendo che è necessario affermare l’impossibilità del divenire e l’eternità di ogni essere (anche di quelli solo pensabili). L’argomento principale di Severino gioca proprio sui limiti del fenomenologico: il divenire è solo un passaggio, dentro l’apparire fenomenico, da essere a essere, ma mai un passaggio dall’essere al non-essere. Poiché non appare mai il nulla di qualcosa, lo stesso divenire, di per sé, non viola il principio di non-contraddizione. Allora che cosa accade quando affermiamo – secondo un’inveterata abitudine – il nascere e il morire delle cose? Si tratta per Severino di un’affermazione che scavalca l’esperienza, quindi di una ‘fede’, che però, proprio in quanto viola il principio di non-contraddizione, costituisce una fede irragionevole, una ‘follia’. In questa follia si è sviluppata la storia dell’Occidente, che si configura perciò come storia del nichilismo.
Il problema del nichilismo non è solo filosofico, ma investe il nostro modo di vivere l’esperienza. La sua conseguenza più visibile è l’affermarsi della tecnica contro l’episteme. Nella tecnica gli esseri, considerati essenzialmente come ‘divenire’, sono interpretati come mezzi per la realizzazione di altri esseri, e gli stessi saperi sono considerati come mezzi per la realizzazione di altri saperi. Questo impedisce il perseguimento di un sapere assoluto, ultimo, rispetto al quale orientarci, e sostituisce la verità con la potenza. Così, quelle che sembrano rivoluzioni epocali, come la rivoluzione scientifica del 17° sec. o la dissoluzione della metafisica del 20° sec., sono in realtà processi implicati da sempre nella fede del divenire. E anche chi pensasse di poter piegare la tecnica ai propri vantaggi, come avviene per es. nelle grandi dottrine dell’Occidente (il cristianesimo, il capitalismo, il marxismo), è in realtà destinato a essere dissolto nello stesso procedere della tecnica. Infatti, poiché ognuno di questi fenomeni appartiene alla storia dell’Occidente, quindi al nichilismo, ognuno di essi non porta con sé una verità, ma solo una volontà di potenza. «L’estrema potenza che l’Occidente è destinato a realizzare è essenzialmente insicura: essa è minacciata dalla possibilità dell’estremo naufragio» (E. Severino, Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, 1978, p. 23). Proprio qui si comprende il ruolo destinale della filosofia per l’umanità: essa è l’unica via per comprendere la follia dell’Occidente (‘la fede nel divenire’, quindi ‘la volontà che l’ente sia niente’) e mostrare la fede nell’eterno come il suo destino necessario. La filosofia ha il compito di pensare il destino dell’essere come un apparire, sì, ma l’apparire dello stesso incontrovertibile (E. Severino, La gloria, 2001).
L’altro grande tentativo di rispondere alla crisi, vale a dire l’elaborazione di un pensiero postmetafisico, in Italia ha avuto due principali direzioni: una è quella che ha prodotto lo sviluppo dell’ermeneutica e del pensiero debole (soprattutto con Gianni Vattimo), l’altra è quella che ha prodotto, soprattutto con Massimo Cacciari (n. 1944) un ripensamento della tradizione metafisica moderna alla luce delle acquisizioni postmetafisiche di Nietzsche e di Heidegger (a cui va aggiunto senz’altro Ludwig J. Wittgenstein, che in questa ricostruzione non potremo affrontare). Uno dei problemi fondamentali sollevati da Cacciari riguarda il ruolo della politica nell’età postmetafisica, e l’insostenibilità di tutti quei programmi di riabilitazione utopica della ragione filosofica (come fondamento delle scienze e della politica) che tacciano di ‘irrazionalismo’ il naufragio della metafisica moderna. Tale naufragio è invece inevitabile, dal momento che l’essere ha abbandonato l’ente, e proprio per questo permette il sempre ulteriore sviluppo della tecnica, pensando al tempo stesso l’essenza non tecnica (cioè nichilistica) della tecnica. L’esistenzialismo non è che un fantasma o un equivoco; la fenomenologia un’illusione o un’utopia. Il soggetto è diventato volontà di potenza e la metafisica tecnica. A questo destino secondo Cacciari (almeno alla fine degli anni Settanta) può corrispondere solo il ‘marxismo’, a patto che esso faccia di questo compimento-fine della metafisica la sua stessa storia, «strappandola definitivamente ai decadenti, ai nostalgici, ai letterati e ai dottori dell’anima che l’hanno finora monopolizzata» (M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, 1977, p. 82). In altri termini, dall’alienazione non si esce con l’ideologia, ma assumendo il nichilismo come nuova razionalizzazione tecnica della politica.
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