Esortazione alla penitenza
Ascrivibile al genere dei sermoni penitenziali pronunciati nell’ambito di confraternite laicali durante la Quaresima, il breve scritto non presenta alcun elemento interno che consenta di attribuirne la composizione a un periodo piuttosto che a un altro della vita di Machiavelli. Senza dubbio il testo, pervenutoci autografo (BNCF, CM I 76), non è né un abbozzo né una prima stesura, ma una bella copia, come indica la scrittura ordinata con poche correzioni e ripensamenti, per lo più appartenenti alla tipica fenomenologia dell’errore di copia.
Sul fondamento dell’evoluzione delle abitudini grafiche di M. l’autografo può essere ascritto agli ultimi due anni della sua vita (P. Ghiglieri, La grafia del Machiavelli studiata negli autografi, 1969, p. 358). Sebbene in linea di principio la bella copia pervenutaci potrebbe essere stata allestita anche a distanza di molti anni rispetto a una precedente stesura, per noi perduta, del testo, non vi sono però allo stato attuale della documentazione ragioni per pensare a una divaricazione significativa tra la composizione dello scritto e la stesura della copia autografa. Va altresì osservato che, a rigore e in mancanza di altri indizi esterni, la sola autografia non è prova sufficiente per confermare con sicurezza l’attribuzione del testo (non va in effetti dimenticato che si posseggono di mano di M. testi sicuramente non suoi, ma a lungo creduti tali proprio sul fondamento dell’autografia). E ciò poi soprattutto per un testo che, se pure alcuni studiosi hanno voluto giudicare particolarmente rivelativo di aspetti importanti della personalità dell’autore (cfr., per es., R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, 1954, 19787, p. 613), appare tuttavia fortemente vincolato dalle consuetudini tematiche e formali di un genere alquanto diffuso: ci sono giunte, per es., tre Exhortationes ad poenitentiam di Bartolomeo Scala (Bausi 2005, pp. 275-76); e il cronista Piero Parenti ricorda che «sotto ombra di religione, faceano e’ Fiorentini molte congregazioni: in quelle s’essercitavano nel dire e assuefaceansi a parlare, per poi in pubblico ne’ Consigli sapere persuadere le cose occorrenti» (P. di M. Parenti, Storia fiorentina, a cura di A. Matucci, 1° vol., 1994, p. X).
Comunque l’Esortazione fu senza esitazioni attribuita a M. già dal nipote Giuliano de’ Ricci, che ebbe l’autografo tra le mani e lo copiò nel suo zibaldone deducendone l’appartenenza dell’avo a una confraternita e la circostanza che egli si fosse trovato a pronunciare, una volta «infra le altre», quel sermone. Ma tanto l’appartenenza di M. a confraternite quanto, a maggior ragione, la sua riconosciuta attitudine a tal genere di cimenti devozionali appaiono deduzioni non suffragabili da elementi oggettivi; deduzioni alle quali peraltro è probabile che non siano estranee quelle preoccupazioni apologetiche da cui era mosso Ricci, che mirava a ottenere dalla censura ecclesiastica l’autorizzazione per la ristampa delle opere machiavelliane. In sostanza la sua non è una ‘testimonianza’, come si è talvolta sostenuto – poiché non disponeva di alcun elemento in più, fosse anche di sola tradizione orale, di quelli di cui disponiamo noi – quanto piuttosto una congettura; una congettura, tenuto conto di colui che la avanza, certo assai autorevole, ma pur sempre tale che nulla autorizza a promuoverla allo statuto di constatazione fattuale.
Non è pertanto da escludere proprio quel che il Ricci neppure poteva o voleva prendere in considerazione, ben lieto di aver reperito un elemento in favore di quell’immagine che dell’avo intendeva accreditare; e cioè che qualcuno si sia rivolto a M. per la redazione di un’orazione religiosa, come d’altra parte pochi anni prima era accaduto con un testo di altro genere, ma parimenti occasionale, l’Allocuzione ad un magistrato. Né può meravigliare più di tanto il fatto che proprio a M. ci si rivolgesse per un testo di carattere devozionale, se si pensa che nel maggio del 1521 gli era stata affidata una sorta di legazione, assolta per quel che sappiamo con soddisfazione dei committenti, presso il capitolo generale dei frati minori che si svolgeva in Carpi.
Le osservazioni che precedono possono servire per avviare il discorso critico su questo scritto, che se appare minore in seno alla complessiva produzione machiavelliana, c’è pure chi, invece, ne ha voluto fare il documento che consentirebbe di scendere a fondo nella personalità del suo autore, e coglierne quegli accenti cristiani che altrove si esprimono e non si esprimono, ci sono, ma si nascondono, e insomma non si lascerebbero cogliere in maniera altrettanto chiara e univoca come nell’Esortazione (oltre a Ridolfi, Vita di Machiavelli, cit., cfr. in questo senso Lazzerini 2008 e Zorzi Pugliese 2011). Tuttavia, se non sembra che la materia di questa breve orazione possa essere assunta sic et simpliciter quale espressione diretta delle idee e dei sentimenti del suo autore, non pertanto si direbbe che sia possibile accogliere le sbrigative neutralizzazioni che dei suoi contenuti fecero altri studiosi, proponendone una lettura in chiave ironica e antifrastica. Così, per es., Pasquale Villari (Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 2° vol., 19133, p. 414) che parlò di «una certa velata ironia»; mentre Oreste Tommasini (La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2° vol., t. 2, 1911, pp. 734-35) scrisse di «squisitezza dell’ironia» e di «recondita satira»; e poi definì l’Esortazione «una scherzosa cicalata» Benedetto Croce (Conversazioni critiche, 4° vol., 1951, p. 16), che però reagiva ai travisamenti di Felice Alderisio, per il quale l’Esortazione «nella sua bellezza contenuta e robusta ci rivela la coscienza religiosa e cristiana del Machiavelli» (Machiavelli, 1930, p. 252).
In effetti, se mai qualcuno dovette ascoltare questa predica, dalla viva voce di M. o – come pare meno improbabile – di altri, si può ben supporre che non ne rimanesse deluso. Non solo infatti per le lodi a Dio di cui il testo è intessuto con largo e competente uso di citazioni scritturali implicite ed esplicite, ma soprattutto perché il suo motivo centrale ed eponimo – la necessità della penitenza – viene trattato con perfetta aderenza a un intreccio di motivi tutti tipicamente cristiani, dallo status naturae lapsae dell’uomo alla sconfinata misericordia divina, tale da far sperare che mai il pentimento sia tardivo. Quindi va sottolineato come nell’Esortazione, a ben vedere, non vi sia una sola proposizione che possa essere interpretata in chiave ironica o scherzosa: tutto il testo nel suo insieme, con ogni singola sua parte, risponde all’intenzione espressa fin dalle prime linee e alle aspettative del pubblico al quale era destinato, e che, con ogni evidenza, un discorso cristianamente intonato attendeva. Ma se è schietto pensiero e sentire cristiano quello che spira nell’Esortazione, se non vi è nulla in essa degli atteggiamenti e delle tesi che, a proposito della religione e del cristianesimo in particolare, circolano in pagine cruciali dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, quando tuttavia l’Esortazione sia letta non solo in sé ma, per così dire, nel macrotesto della complessiva opera machiavelliana, e di quella degli ultimi anni in particolare, non si direbbe che essa restituisca una diversa posizione nei confronti del cristianesimo, la posizione dell’‘uomo M.’, il quale per una volta avrebbe tacitato in sé il freddo scienziato della politica. Si direbbe piuttosto che essa offra il capovolgimento puntuale e puntiglioso di alcune idee e temi che guidano il pensiero politico del suo autore e ne caratterizzano il giudizio sul cristianesimo. E ciò sia che si tratti della figura di David, a cui M. fa in questo testo ripetutamente ricorso al fine di mostrare nel suo grado eccelso la dialettica peccato-pentimento-penitenza-misericordia divina, mentre negli scritti politici era stata chiamata a esemplificare l’inderogabilità delle armi proprie (Principe xiii 16), nonché la necessità in cui si trovano i principi nuovi di dover cancellare la memoria storica di un popolo per meglio sottometterlo (Discorsi I xxvi 2-4, dove David e Filippo di Macedonia sono bensì indicati come esemplari, ma anche «crudelissimi e nimici d’ogni vivere non solamente cristiano ma umano»). O che si tratti del rapporto tra uomo e natura, con l’insistenza sulla centralità dell’uomo nel creato, sull’uomo creatura privilegiata di Dio, motivo che costituisce il preciso capovolgimento di quell’immagine della natura ostile all’uomo che, per esempio, sottende il discorso del suino nell’viii capitolo dell’Asino, dove la specie umana appare ben ultima fruitrice nella graduatoria dei privilegi dispensati da madre natura, e risulta altresì opposto a quella percezione della natura eterna e indifferente che in una celebre pagina dei Discorsi cancella con il suo cieco corso scandito da inondazioni e pestilenze interi cicli di storia e costringe la specie umana a un nuovo faticoso e non garantito avviamento della civiltà. O che si tratti infine dell’esaltazione della «carità», della quale «la chiesa sì largamente parla» e che non solo è «la virtù» che ci fa «pazienti» e «benigni», ma in primo luogo «è quella sola che conduce le anime nostre in cielo».
Come mai allora l’Esortazione presenta un così radicale e inequivocabile rovesciamento di atteggiamenti e di valutazioni? È forse da ritenere che a M. fosse accaduto quel che una volta Francesco Guicciardini gli predisse nella famosa lettera del 21 maggio 1521, in caso si fosse «dato all’anima»? E che cioè, avendo egli «sempre vivuto con contraria professione», ciò sarebbe «attribuito più tosto al rinbanbito che al buono». O piuttosto l’Esortazione rivela finalmente quel suo volto nascosto che la pesante ‘maschera’ della riflessione politica aveva così a lungo e tenacemente occultato? Escludendo l’ipotesi avanzata per celia da Guicciardini, a chi a proposito di religione e cristianesimo in M., non potendo negare l’evidenza delle aspre tesi elaborate in tante sue pagine, ha sentito il bisogno di dividerne gli scritti e di far ricorso alla dubbia categoria ermeneutica della maschera e del volto, verrebbe da chiedere se uno scritto come l’Esortazione è veramente capace di assolvere quasi da solo (o magari con il non ponderoso soccorso di qualche formula epistolare) il ruolo di ‘volto’, schiacciato com’è da una maschera tanto imponente. Ma poiché non si direbbe che il ricorso a tale categoria sia qui dei più indicati, fosse solo per ribaltarne i risultati, ci si può limitare a osservare che non è questione di ‘maschere’ e di ‘volti’, e che probabilmente M. compose l’Esortazione perché richiestone, affinché lui stesso o altri la pronunciasse in qualche confraternita. E quindi, messosi all’opera seriamente, senza l’intenzione di venir meno agli impegni presi con i propri committenti (come d’altronde, a dispetto degli affettuosi sarcasmi di Francesco Guicciardini, non ebbe intenzione di fare a Carpi nel 1521), si sforzò come meglio poteva di rispondere ai propositi per i quali l’orazione gli era stata commissionata. E naturalmente il compito gli riuscì piuttosto bene, e persino con un qualche compiaciuto virtuosismo. Ma non poté fare a meno che gli riuscisse come neppure i suoi talenti mimetici potevano impedire che riuscisse, e cioè non poté fare a meno di riscrivere sé stesso, e continuare a vedere nel cristianesimo gli aspetti, i temi e i miti che vi aveva sempre visti e ai quali aveva sempre diretto la sua attenzione. Solo che ora la circostanza tutta occasionale richiedeva che tali temi, miti e aspetti fossero non aspramente criticati bensì esaltati.
Bibliografia: G. Cattani, La vita religiosa nella Esortazione alla penitenza e nella Mandragola di Niccolò Machiavelli, Faenza 1973; P.E. Norton, Machiavelli’s road to Paradise: The exhortation to penitence, «History of political thought», 1983, 4, pp. 31-42; S. de Grazia, Machiavelli in hell, Princeton 1989, pp. 73-74; G.P. Pacini, Per una rilettura della Esortazione alla penitenza di Niccolò Machiavelli, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1991, 27, pp. 125-34; A. Ciliotta Rubery, A question of piety: Machiavelli’s treatment of christianity in the Exhortation to penitence, in Piety and humanity. Essays on religion and early modern political philosophy, ed. D. Kries, Lanham 1997, pp. 11-44; E. Cutinelli-Rendina, Riscrittura e mimesi: il caso dell’Esortazione alla penitenza, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 413-21; E. Ballabio, Machiavelli e la penitenza. La duplice personalità del Segretario fiorentino, Massarosa 2000; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, pp. 319-21; F. Bausi, Niccolò Machiavelli e Bartolomeo Scala: due schede, «Interpres», 2005, 24, pp. 272-79; L. Lazzerini, Machiavelli e Savonarola. L’Esortazione alla penitenza e il Miserere, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 2008, 44, pp. 385-402; O. Zorzi Pugliese, Machiavelli e le confraternite: partecipazione e parodia, in Brotherhood and boundaries. Fraternità e barriere, a cura di A. Pastore, A. Prosperi, N. Terpstra, Pisa 2011, pp. 259-74.