Esperienza d'artista
Molti anni fa ‒ io ne avrò avuti una ventina ‒ disegnavo dal vero nel cortile di una casa sfasciata nella zona romana di S. Lorenzo (o in qualche altro luogo di bombardamenti, quasi disabitato, che più tardi Pasolini avrebbe consegnato al cinema e alla letteratura). Era un esercizio quotidiano. L'autodidatta che ero, allora, si torceva nelle spire dell'apprendistato, convinto di poterne uscire solo con una violenta immersione nella natura: come Van Gogh, di cui avevo letto, religiosamente, le lettere a Theo. Non sospettavo che la tecnica è emozione 'fattiva'; e che la natura insegna solo se trasferita nella zona 'crepuscolare' della memoria, dove il documento si trasforma in allucinazione. Andavo scoprendo, però, quasi senza volerlo, il paesaggio 'altro' del mio quartiere. Ed esercitavo lo sguardo. Che non è, per il pittore, cogliere un insieme di misure, di proporzioni e colori del verosimile ‒ visi, corpi, piante, elementi naturali ‒, una realtà con la quale mascherarsi; ma piuttosto la sua cancellazione e ricomposizione fantastica. Un processo inesprimibile, ovviamente; un mutamento genetico, in virtù del quale lo zoccolo della realtà percuoteva come su una cassa di risonanza: a poco a poco niente era quello che era stato. Ricordo, come fosse ieri, quando la parete cieca di un casermone, chiazzata di catrame e di muffe, si popolò di figure, e come subito dopo fu vela e cielo; quando le finestre cominciarono a moltiplicarsi e a diventare nuvole d'insetti intorno a una ferita, e finalmente delirio del segno e della macchia. Oggi, se ritorno in quei luoghi, mi meraviglia la modestia degli edifici (per altezza e densità) rispetto alle prospettive enfatizzate di quei primi disegni. Ma io vedevo veramente, in quei mesi di rabbia e di ingenuo decadentismo, un paesaggio vertiginoso. Al punto di sentirmi in uno stato simile all'ubriachezza, quando di sera tornavo verso casa con le mani nere d'inchiostro. Come se le case si chinassero su me a formare un tunnel, per aprirsi subito dopo in un teatro silenzioso. Una cartellina con qualche foglio, una penna, della china: la mia attrezzatura da plein air era minima e poco vistosa. Ma quel giorno, uno dei bellissimi d'ottobre, col sole fresco che spioveva sullo sprofondo di mattoni, reti di letto contorte e patetici, irriconoscibili arredi, s'era piazzato alle mie spalle un ragazzo. Io continuavo a lavorare, con le orecchie basse come un gatto in allarme, in attesa della inevitabile battuta. Che arrivò puntuale: "Cos'è che disegni?" "Non lo vedi?" "No" "Quella casa". Guardò ancora a lungo. "Io non ce la vedo". Gli avvicinai il foglio al viso. "Non le vedi le finestre, le scale?". Lui si tirò indietro, inclinando il capo per prendere le distanze. "Sarà, ma a me sembra... una mano pelosa, mica calcinaccio". Riposi tutto e me ne andai. Però, tornando al disegno, più tardi, mi accorsi che il ragazzo non era del tutto cieco: nella cartella non avevo solo un paesaggio. Guardando il foglio capovolto, e staccandolo così dal motivo descritto, avevo disegnato qualcosa di antropomorfico. Mi si rivelava dunque la profonda ambiguità dell'opera d'arte, l'allusione dei segni ad altri segni, ad altre conoscenze, il cangiare dei segnali, come in un gioco di prestigio. Arte, artificio, inganno. Una mano che disegna o dipinge (qualcuno si fermava a guardarmi lavorare per mezz'ora e più) non affascina tanto per la sua abilità nel riprodurre, quanto per la disinvoltura nel cavare dal foglio o dalla tela, come da un cilindro in apparenza vuoto, conigli, fiori, nuvole; quello che il passante voleva riconoscerci. Più che un'immagine ferma, e controllabile, un film; o meglio, quello che i montatori cinematografici chiamano anello, una pellicola che torna su se stessa con curiosi effetti destabilizzanti nella struttura e nel senso dell'immagine. Forse, a mia insaputa, la mano 'registrava' l'entropia delle apparenze, dalla disgregazione e dal disordine alla loro alternativa ricomposizione. Un'operazione lucida più per un intervento del cuore che dell'intelletto. Di una cosa, tuttavia, mi pareva dovessi essere certo: fare il pittore significava 'vaneggiare' di un corpo, quello della materia, della 'sonorità' dei toni, della capacità dei segni di scrivere senza descrivere.
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Come la maggior parte degli artisti (ma anche dei frequentatori dell'arte che non siano del tutto sprovveduti) ho in pochissimo conto i titoli dei quadri. Non solo indicazioni di facciata, ma quasi sempre fuorvianti rispetto a ciò che veramente l'artista ha voluto rappresentare. O forse cifrare, con tutte le sapienze e i lenocini di natura alchemica di cui è capace. Lo stregone ne sa una più del diavolo, mentre mescola le carte di una partita le cui trappole sono più numerose delle regole. Lasciando stare i veri e propri contrabbandi, le infinite Maddalene e Susanne, all'uso timorato dei cardinali, e gli angeli sessuati e le sante in deliquio orgasmico, accade di più: che un nudo sia soprattutto paesaggio (la schiena della Grande Baigneuse di Ingres); e un paesaggio accogliente più del seno di una cortigiana (le nuvole riflesse nello Stagno delle Ninfee di Monet); la carnalità evocata fino al sangue versato (Ostenda di Turner); e la corazza irsuta di fiocchi, rasi, velluti, falpalà, vero corpo alieno, di sauro o pappagallo, della Marianna d'Austria di Velázquez. Esempi della contiguità del mondo onirico, carico di desideri e paure rimosse, alla maieutica dell'artista; fino ad avere voglia di organizzare una vastissima mostra di equivoci e di scambi. La forma è sempre corporea. Van Gogh non ha mai dipinto un autoritratto più espressivo e più somigliante della sua Stanza ad Arles né un nudo più turgido di lussuria e dolore, dei suoi campi di grano scapigliati dal mistral. Dove finisce il viso della Gioconda e dove cominciano i fiumi, i colli, le nebbie di un paesaggio che è altrettanto fascinoso e tattile del suo sorriso, e di una qualità continua, di un uguale tessuto venoso, di uno stesso pallore, sempre sul punto di colorirsi di pudicizia o sfrontatezza? Parlare dunque di un rapporto tra l'arte e il corpo ci conduce dritti in un labirinto, dal momento che la creazione dell'artista non può ridursi a una questione di mere tematiche (del resto per molti secoli obbligate dal potere): questi i nudi, questi i martirii, queste le Maddalene, queste le Niobi, gli Apolli, gli Spartachi, le Armide, le Susanne... Altra cosa sarebbe parlare dell'artista di fronte al corpo vivente delle cose. E al suo stesso corpo che cerca di completare, a volte parossisticamente, con quello della tela o del bronzo. In un processo sostitutivo e ricostruttivo della realtà che è avventura del desiderio e autoriparazione narcisistica. In altre parole del corpo che è in lui.
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Di figure però ne ho disegnate, anche quando non sapevo come un braccio s'attacca alla spalla. Era il 1943, a Roma, e i modelli erano là, tutti nelle strade, smunti e stracciati: l'esercito del 'tutti a casa' era tornato a essere, all'improvviso, folla allo sbando da rappresentare come potevo, così come la mano correva sul foglio. Non avevo, allora, nessuna preparazione al corpo umano: eppure quel lavoro mi piaceva. Il mondo crollava e risorgeva intorno a me, e se proprio non lo tenevo nella penna lo tenevo negli occhi. Quella mia ignoranza e insieme quell'audacia mi paiono oggi, riguardando quei fogli, un miracolo d'equilibrio tra l'innocenza della forma ancora approssimativa e una realtà disperata, inequivoca. E vorrei ritornare in quello stato tormentato e felice delle prime scoperte: un viso che ti riesce tondo invece che piatto, il corpo di un impiccato sul quale i lividi delle botte, le macchie di sangue fresco, fanno arabesco raffinatissimo... (perché l'arte sta in questo cinismo, anche, in questa diversità che ti rende intrepido e persino indifferente alla pena: uno dei miei primi modelli fu la vittima di un mitragliamento alla stazione Tiburtina, e io ebbi la freddezza di correre a casa a prendere carta e penna per disegnarlo, rischiando poi il linciaggio da parte dei curiosi inferociti, che mi cacciarono a spintoni e a calci, come uno sciacallo). Non ho dubbi d'essere stato, come si dice clinicamente, un ragazzo 'disturbato'. Che potessi fissare con tanta operosa indifferenza la vittima di un'incursione, vuole dire che con precoce scetticismo ero già capace di trasformare in regola di vita (e di creatività) ciò che era un segnale di morte; o meglio di trasfigurarlo in qualcosa di raffinato, di folle e, malgrado tutto, di vitale. Gli anni della formazione erano stati soltanto anni di violenza, e mi avevano predisposto a esplorare, in uno stato simile a quello del sonnambulo, le strade del mio quartiere 'sbracato' dalle bombe. Che potessi disegnare quel paesaggio con amore e tenerezza, e in qualche modo come il simbolo della mia adolescenza perduta (un dolore precoce destinato a essere sempre più acuto, ai limiti del sopportabile) oggi può essere scambiato come segno di morbosità decadente. Ma voleva pur dire che trovavo ragioni di sperare dove altri sarebbero rimasti schiacciati dal dolore o dalla compassione di sé. Sono sicuro, del resto, che mentre m'illudevo di esorcizzare la guerra in un confronto e una lotta senza soste, essa stampava nella mia coscienza, indelebilmente, le sue ferite. Per le quali ancora oggi disegnare o dipingere una figura è prima di tutto l'occasione di analizzare il suo malessere. E in quello il mio. L'uomo vive nel mondo, e anche nel peggiore si conosce. Se oggi posso operare in una totale assenza di speranza (stato che niente ha a che vedere con la disperazione), so di obbedire a una coazione piuttosto che a un desiderio di fuga. La nevrosi che è sempre sul punto di spezzare l'artista è sapere che nulla può cambiare dentro di lui. Egli è condannato, per tutta la vita, a dipingere lo stesso quadro. Ho frequentato spesso lo studio di un amico scultore, perché mi piaceva vederlo lavorare. Visite che sarebbero oggi molto poco istruttive, nascendo le sculture per lo più di cartone e colla, a tavolino. Ma il mio amico ancora s'ingegnava a impastare argilla dal pavimento ad altezza d'uomo, una specie di pilone, o tronco d'albero, dal quale cavava poi la figura. Quella 'cosa', per i più inesplicabile, era tuttavia suggestiva. Sembrava un totem strappato alla boscaglia. E l'argilla, di un bellissimo verde palude, accoglieva la luce con non so quale allegria; a stringerla in un pugno era serica, fresca, docile. Non somigliava ad alcunché (tranne che a un oggetto in transizione, che stava per essere. Un attimo ancora nella condizione inerme di un neonato, dolcemente e pericolosamente). Il mio amico la bagnava con un irroratore e ne fasciava di stracci la base dove sul momento non avrebbe lavorato. E questa era già una 'mutazione': il totem, adesso, era un corpo bendato; oppure, visto da un'altra angolazione, il torso di un mutilato, una bambola di pezza malmenata. Mi domandavo, e ancora mi domando, vivendo le stesse alterazioni del mio lavoro ogni giorno, per quante 'figure' provvisorie passa la figura finale; e quante di esse restano nel suo spessore invisibili eppure operanti; materiale che inerisce alla sua trasparenza come un sistema arterioso. Quante perché sbocci l'ultima mutazione inappellabile, quella che Wilfred R. Bion chiama il 'cambiamento catastrofico', il momento doloroso, il solo, in cui c'illudiamo d'essere liberi dalle regole e di fondarne altre. L'arte non è una discarica di idee approssimative, ma un grumo di pulsioni a malapena occultate. A un certo punto l'amico scultore si fermava, assorto. Un visitatore inesperto dei balletti che l'artista improvvisa nello studio l'avrebbe detto 'inabissato' in una riflessione profonda, alla ricerca del filo che scioglie la matassa della creazione. Da sospendere il fiato o da camminare in punta di piedi. Ma io lo sapevo, non pensava a niente: a guardare bene l'impercettibile tremore delle sue spalle, come se dovesse buttarle avanti e subito se ne pentisse, col busto periclitante per uno slancio trattenuto a fatica, egli era sospeso tra il sé e il non ancora sé. Più o meno come un tuffatore che, all'estremità di un trampolino, si prepari a un tuffo con triplo avvitamento. Pochi sanno che l'artista pensa con le mani e, nel caso di uno scultore, con tutto il corpo. Si può benissimo dipingere o disegnare, o scolpire, mentre qualcuno ti legge il giornale, o un altro chiacchiera con te del più e del meno. L'idea della forma, per l'artista, è un movimento riflesso. Finalmente l'artista sembrò scuotersi dai dubbi e andò incontro al tronco di argilla a braccia aperte, come se vi riconoscesse una vecchia conoscenza; e l'abbracciò forte imprimendovi un solco largo, circolare, a tre quarti e passa dell'altezza, suggerendo subito un che di umano, un torace mutilo ma già con l'ombra delle ascelle (e quindi in 'attesa' che vi fossero attaccate le braccia, il collo, la testa). Poi sostenendo il tronco (non più arboreo) per le 'spalle', prese a picchiarlo con la mano aperta e alternativamente chiusa, a pugno, e con l'avambraccio e il gomito, come un pugile che abbia messo alle corde l'avversario e cerchi selvaggiamente di atterrarlo. Lo scontro si concluse con una potente ginocchiata, sferrata sotto la cintura che subito prese forma di inguine e di ventre. Non continuerò a raccontare il lavoro di finitura, visibilmente destinato a durare giorni: quando me ne andai già si vedeva chiarissima una testa riccioluta, profondamente incassata nelle spalle, inclinata verso il basso, con una espressione dubitativa. Questo dunque è il corpo a corpo dell'artista con la materia. Finché l'arte, almeno, sarà fatta di materia da trasformare e non di materiali 'esibiti'. Il corpo col quale ci si batte, incessantemente. La pittura, la scultura, il segno, nutrono le forme espressive secondo natura, e cioè secondo le regole e con le proprietà di un essere vivente. Generando, fuori di retorica, un 'prodotto' mai esistito prima, che suggerisce calore, gelo, gioia, sofferenza, desiderio. Un prodotto assai più che razionale, e che sottende una diffusa eroicità: una parentesi panica nell'esperienza. Un essere che mima la vita.
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Quasi sempre l'opera d'arte è stata letta e descritta criticamente senza tenere conto dell'autore: del suo 'oriente' psichico, della sua capacità di introiezione e di reintegrazione del reale che incessantemente rimugina. E non sto invocando una lettura psicanalitica dell'opera che, una volta realizzata, è un oggetto che mira soltanto all'estetica, inerte quando si spegne la lampada che lo illumina. Né il fare dell'artista è sempre puro rifacimento simbolico, oggetto mentale o metafora. Bisognerà tuttavia indagare non solo su 'cosa corre' tra l'artista e il corpo rappresentato o da rappresentare, ma sul commercio assai più 'tenebroso' che intrattiene con sé stesso. Col suo stesso corpo, intendo, che, in un altrove preestetico, abbraccia e offende; innescando quel circuito, o corto circuito, le coup de dés, tra il compiacimento narcisistico e la vita 'appena nata' della materia che dà luogo all'arte. Terrifica e insieme tranquillizzante. Perché certamente l'opera dell'artista è la perfetta riconciliazione tra la indeterminatezza del mondo e la determinatezza dell'invenzione. E allora perché sottrarsi a quel 'discorrere' di psicologia diffusa al quale, nel nostro secolo, l'artista è abituato, e del quale, anzi, non saprebbe più fare a meno? Si potrà obiettare che non è corretto attribuire agli artisti, retrospettivamente, la coscienza di una cultura che non è più vecchia di due secoli (e certamente una bottega del Quattrocento non può somigliare a quella moderna fabbrica di ribellione e follia che è lo studio di un artista contemporaneo: certamente assai più lenta, assai meno neurotica fu l'urgenza del nuovo e l'elaborazione dell'inespresso). Eppure io dubito che certi 'meccanismi' di intelligenza creativa (con i correlativi 'modi' e 'disturbi' mentali) abbiano aspettato Charcot e Freud. Basterebbe considerare la lunga sequela di immagini 'alterate', da Il cavaliere, la morte e il diavolo di Dürer alla Nave dei folli e alla Cura della follia di Bosch; e il fatto indiscutibile che la medicina del Cinquecento, compresi alcuni studi sulle malattie mentali, è legata alla grande pittura. Come negare ai ritratti di Lorenzo Lotto l'intenzione (a volte persecutoria) di rivelarci non soltanto la forma dei suoi personaggi, ma l'animo segreto, l'innocenza, i malesseri, l'amore e l'odio, il terribile groviglio psichico che era pure dell'uomo del suo tempo? L'unica cosa che l'artista non sapeva è che, innestato a quello del modello, avrebbe rivelato anche l'animo proprio. Evocando lo spiritello malvagio che per successivi sviluppi, non solo formali, animerà quella linea dell'arte che, dal Caravaggio atroce al Bacon beckettiano, finisce per ridisegnare l'arte come epopea della dolcezza mortale e della disintegrazione. L'arte nasce prima della storia, tra i quarantamila e i trentamila anni fa, in Europa, nella regione francocantabrica. Naturalmente c'erano stati molti altri esempi d'arte applicata alle utensilerie, in altre parti del mondo anche molto lontane. Ma questa delle spelonche è espressione figurale-materica incomparabilmente più avanzata. Assai più dei primi fonemi appena articolati e appoggiati alla gestualità. Ed è strano che un racconto per immagini si sia sviluppato prima che un sistema orale potesse fondare un fantasma di storia. Certo quella delle caverne fu arte 'simpatica', e cioè artificio (inganno) magico; che in virtù di apparenze vivacissime, finiva per generare fenomeni in qualche modo medianici: di mimesi e appropriazione, forse di invasamento, di immedesimazione con la preda. Arte come esorcismo, o religione. E di tutte le opere dell'ingegno la più utile, se è vero che esprimersi per segni e colori, o se si vuole 'imitando', significò subito possedere la belva. Ma le pitture di Altamira, di Font-de-Gaume, del Cap Blanc, di Lascaux, hanno peculiarità che non si spiegano del tutto con la loro finalizzazione: le morbidezze degli sfumati, i segni ricercati e persino calligrafici, l'attrazione per il movimento e l'impeto delle orde alla carica, la ricerca di una naturalezza pungente; sono tutti indizi di una costruzione progettuale-immaginativa che ci fa dire 'qui' nasce la forma, 'qui', nasce l'arte. E cioè una proiezione della vita meravigliosa, come il primo suono concertato tra simili. Il dato spiazzante è la sensazione, invincibile, che insieme a queste pitture nasca l'idea di autore: l'aura del suo narcisismo e della sua acutezza sensoriale. La prima firma, orgogliosa, del singolo che si distingue dal gruppo per una capacità nuova. Fu l'arte la prima professione dell'uomo? Anche se le impronte di mani al negativo che costellano le grotte del Paleolitico ‒ realizzate colorando il fondo intorno alla propria mano, o 'timbrandola' con una tinta naturale sulla pietra ‒, sono già una prova di autografia, la proiezione di un sé stesso memorabile che vuole essere riconosciuto e ricordato. Forse un idoleggiamento delle proprie mani come strumenti, il saperle necessarie al futuro della specie. Ed è emozionante scoprire quanto il 'trucco' sia praticato dai nostri bambini, ancora con quell'antichissima meraviglia. Ma la capacità di vedere non è, immediatamente, capacità di vedersi. Quanto è complessa e plastica la raffigurazione dell'animale cacciato, tanto è povera e ideografica quella dei cacciatori. Dunque l'artista delle grotte non sapeva uscire da sé, e contemplarsi come modello. La selvaggina era più reale del cacciatore. O forse l'uomo non si sentiva ancora diverso, e l'idea dell'animale era idea di sé stesso. La mano che tracciava con potente naturalismo l'orda delle gazzelle, dei bisonti, dei mammut, riduceva i cacciatori a essere 'sfondo' e cornice di uno spazio riservato alla preda. Anche se l'impressione generale prodotta da questa folla è quella di una 'incessante operosità', di una vera e propria fibrillazione panica. C'è insomma, in queste 'cappelle' del Neolitico, un insieme nuovissimo di caratteri che le pone ben oltre il totemismo: una scansione solenne degli spazi, uno studio della cinesi, una eleganza del tratto, vibratile, 'ironica' (un occhio lampeggiante, una coda che frusta l'aria: per cui la scena è quella appena vissuta, non una delle tante, l'animale è quello appena ucciso e palpitante, e non il suo archetipo); ecco la misteriosa alchimia per la quale la primitiva e fissa funzionalità della visione, diventa discontinua, variante, interamente umana.
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Obbedendo alle regole dell'accademia (ancora vigenti, forse, in qualche provincia) io, giovane pittore nel 1944, dovevo mettermi a studiare dal modello, avendo in mente le antiche tavole delle proporzioni classiche e rinascimentali. Ed era convincimento comune dei maestri che servisse assai copiare le repliche in gesso, bianche come fantasmi, del Gallo morente, o del Pugile ferito. Minuziosamente. E con matite durissime (i famigerati 'chiodi' 5H) per non essere troppo agevolati dagli inganni della carbonella. Un tribolo, una distorsione penitenziale all'origine dei molti abbandoni, da parte dei 'cuccioli d'artista', verso più allegre filosofie informali. Malgrado il fiume passato sotto i ponti del gusto, dall'età classica fino a Guernica, a Giacometti, a Bacon, l'idea di una 'divina' proporzione del corpo umano è dura a morire. Fino all'anacronismo di chi, abituato ai più belluini sperimentalismi, scuote la testa di fronte a una spalla più bassa di un'altra. In verità, com'è ovvio, ogni secolo cerca le proprie misure. Più che dall'estetica esse sembrano imposte dalla 'costellazione psichica' e dal vissuto. Eppure esse vengono scambiate, ogni volta, per assolute. Anche il 'triplo naso' di Picasso fu regola, finché non fu spodestato da una apparente anarchia totale (questa, a sua volta, non definitiva). In realtà ogni autore crea la sua tipologia, che è la ricostruzione del sé a spese dell'oggetto rappresentato. Secondo Vitruvio, il piede è la sesta parte della lunghezza totale del corpo; secondo l'Alberti, pari a ses pedes, sessanta unceolae e seicento minuta; per Dürer uguale a sette teste se di tipo A, di otto se di tipo B, e via misurando. La teoria delle proporzioni, armonicamente all'epoca, visse a lungo i suoi inderogabili entusiasmi. Per buona parte del Quattrocento e del Cinquecento si arrivò a commisurare il corpo umano alle proporzioni architettoniche e ai ritmi e alle pause delle composizioni musicali. E a studiare, armati di compassi, con entusiasmo protolombrosiano, un gran numero di modelli (ma normalmente solo i più belli e i più somiglianti alle sculture delle divinità greche. Ricavando, così, una norma dalla più vistosa delle anormalità). Una nuova centralità della figura umana, reale perché di carne e ossa, s'andava però affermando. E del resto Leonardo da Vinci, che di regole e di tassonomia s'intendeva, almeno quanto un chirurgo settore, iscriveva il corpo in una sfera. Disegnandolo, ovvero, come motore della terra, con l'equatore all'altezza dei linfonodi iliaci. E consegnandoci, senza volerlo, un logo abusatissimo. Il mondo delle apparenze manca di forma. Se addirittura non appare, in sé, come il regno del disordine. Confrontare l'irrazionalità del reale col desiderio violento di evidenza espressiva dell'artista, ci dà la chiave per penetrare l'arte. È un confronto di sensi e di pulsioni oscure: dopotutto, realtà ed arte dipendono l'una dall'altra, strette in un vincolo di odio e amore. Ed anche da un continuo scambio delle parti. Leonardo artista poteva vivere tranquillamente con Leonardo scienziato non perché queste due anime s'integrassero; ma al contrario perché furono sempre preparate a smentirsi. Egli sapeva troppo bene che per conoscere il mondo non bastava seguirne i rilievi con un dito; e che la conoscenza, dopotutto, dipendeva da una variante euritmica, dalla necessità di deroghe distruttive quanto una mina: la soggettività della visione artistica, e cioè l'autorizzazione a modificare ciò che è giusto, a favore di ciò che 'sembra' giusto. Niente può trascendere il gioco crepuscolare (e mortale) delle apparenze. Questa 'doppiezza' appare evidente proprio nei famosi disegni di anatomia, che a me sembrano il suo esito scientifico-poetico più alto: quasi il chiaroscuro e una calligrafia stupendamente modulati diventassero bisturi. E non si trattasse di una esposizione di organi e di funzionalità in piano e in chiaro, ma di una serie di ritratti. Spesso, e contro la mia convinzione d'avere lasciato in giro troppi documenti su ciò che mi piace e dispiace, la domanda è sempre la stessa: "Preferisce la natura morta? O i nudi, le marine, i fiori?", "Ma non sono la stessa cosa?" rispondo. Nella fantasia del pubblico esistono tematiche di diversa difficoltà. Diciamo, in crescendo, dal paesaggio al nudo. Un paradosso irriducibile. È quasi impossibile convincere chicchessia, che le difficoltà del dipingere (insieme agli scoramenti e agli orgasmi) non sono nel soggetto ma nel modo. Non è a tutti che Cézanne ha spiegato la complessità di una mela. Però trovo più sensata l'altra domanda ricorrente: se faccio anche il ritratto. Non che il ritratto sia in sé, tecnicamente, più difficile: si può copiare un volto come un vaso o come il profilo dei monti; eseguire un calco (o un ricalco), una definizione 'indefinita' del reale. Ma un ritratto 'vero' (dove chi è in posa non sia mero soggetto) è altra cosa. Arte, che impegna altre culture, altra scientificità, altre doti. Prima fra tutte, naturalmente, la psicologia (e una psicologia dei segni, che non è cosa immediatamente realizzabile). Poi la pietas, poi la complicità e l'ironia. E ancora una comprensione del reale che non si pieghi al soggetto e alle sue vanità. Cos'altro ancora? Umiltà per sentire la bellezza di chi ti siede davanti (ce n'è sempre); e 'spirito di servizio' perché non emergano nel soggetto, esperienze ed emozioni che non ha mai avuto; perché non si finisca, in ultima istanza, a solleticare un piacere estetico che è solo tuo, il tuo impegno teorico palese o nascosto. Bisogna, insomma, cedere all'uomo che hai di fronte, e poi recuperarlo alla tua forma, come tirassi a riva un pesce preso all'amo. Possibilmente vivo. Ogni mio autoritratto è pieno di efferatezze sospette: che l'esibizione 'sfacciata' dei particolari (fino a ottenere comici effetti di macrofotografia o di anatomia orrorifica) sia un espediente per nascondermi? Forse eseguo sul mio volto una perforazione archeologica che lascia il 'sito' pieno di buche e spogliato di ogni magia. Seguirà certo la descrizione (scientifica?) dei reperti e dei detriti per gli usi accademici: ma qui c'era il viso di una persona, uno sguardo? La somiglianza (una questione cacciata di scena dal terrorismo dei critici, ma che pure attiene all'arte) non va confusa con la maschera funebre. È piuttosto la risultante di delicatissimi equilibri e antagonismi. Una singolare rifrazione dei lineamenti dell'artista in quelli del soggetto. La modificazione dell'io in posa e una speculare modificazione dell'io che lo manipola. Un dialogo, se non più verosimilmente un alterco. Guardando un uomo noi lo leggiamo e 'correggiamo' a nostro piacimento, rileviamo alcuni dati e altri li escludiamo. Esercitiamo, insieme al giudizio, l'arroganza dell'arte. Poco male: dell'uomo non è possibile un rilievo obiettivo, ma solo un ritratto vivo. "Le somiglierà tra cent'anni" diceva Picasso a Gertrude Stein, insoddisfatta del suo ritratto. Aveva ragione (malgrado la scortesia). Che te ne fai di un ritratto se non ti trapassa come una spada? Era così lungo il collo di madame Hébuterne? Era così olimpico il Bonaparte, e assorto nei miasmi della digestione, quando lo dipinse Ingres? Era così lunga Madame Recamier sulla dormeuse di David? Forse l'esattezza fisionomica di un ritratto ci farà riconoscere nel giorno della resurrezione e del giudizio, ma non è certo che ci consegni alla memoria degli uomini. Per questo ci vorrà la 'esattezza' dell'artista. La sua capacità di farti melanconico, sorridente, ridente, abulico finché durerà il mondo. Direi di più: che quello che corre tra la fisionomia reale e la fisionomia reinventata del ritratto è lo iato dove possiamo ripensare e immaginare il personaggio, anche a distanza di secoli. La differenza tra l'aspetto del vero e la sua traduzione poetica è la fessura lasciata all'affabulazione, all'elaborazione della conoscenza (quasi in un setting analitico tra vita documentabile e vita rivissuta dal paziente). Quelle pupille come pietre dure, quel rosato ancora infantile, dipinti da Lorenzo Lotto, appartenevano veramente al Giovinetto degli Uffizi? O sono il prodotto di una reazione psichica avvenuta nell'incrociarsi dei loro sguardi? Che importanza può avere, se quel volto, dissimile o no dal soggetto, è quello per cui il giovinetto viene consegnato al tempo, senza che possa crescere o appassire? E qui m'accorgo che nel lavoro dell'artista uno scambio simbiotico accade in ogni caso: Van Gogh è perfettamente riconoscibile nella sua Sedia spagliata, Toulouse-Lautrec nell'Inglesina dello Star; e, se mi si consente uno sconfinamento nella letteratura, Proust è Charlus. Che l'arte sia soprattutto un eccezionale gioco di specchi?
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Ho sempre sospettato che Caravaggio avesse inventato la fotografia, non informandone anima viva; e se non la fotografia, la camera oscura degli sviluppi: il suo studio verniciato di nero, profondo come un pozzo, le finestre chiuse per fare lo spessore del buio. Che luci avranno illuminato i 'malandri' che fittava alla bisogna, non so. Certo non di fiamma o di lucerne dal momento che le immagini che balzano 'fuori' dalla tela non sono immerse in un chiarore tremolante. Ma vicine a una finestra o a una porta che, spalancandosi, gettano un fascio di luce violenta e traversa. Luce di un secolo a venire, di filamenti survoltati e sfrigolanti, uguali a quella che ai giorni nostri servono alla polizia per abbacinare i malavitosi. E a EjzenŠstejn per scolpire i nudi in una famosa scena di tortura (Lampi sul Messico): che voleva michelangiolesca risultando poi, ad anni di distanza, del più lampante Caravaggio, con quell'idea di morte che traspare sotto le muscolature acerbe e tornite. Dunque questa 'qualità' rivoluzionaria e profetica della luce: il buio non ne viene penetrato, e non sai bene se ti trovi all'improvviso in un vicolo a ridosso del Tevere o in uno scantinato della Santa Inquisizione. 'All'improvviso', perché trascinati dall'ira e dal furore dell'artista, si sopraggiunge in una scena di coltelli. E vieni obbligato dallo stesso 'pitturare vivace e ben colorito' a distogliere lo sguardo dal fattaccio. Che è prudente non vedere. Non c'eravamo, o c'eravamo accorti solo di un gran tumulto (e della bellezza, questa sì). E ci portiamo via nella retina un che di lampeggiante, la lama di un assassino. Non c'erano mai stati, in pittura, modelli più franchi e prestanti, più agili nelle gambe e, direi, più furbeschi nelle movenze, tra esibizione ammiccante e fierezza popolana. Mi tengo al di qua dei problemi di forma e di stile, e cioè alla mera antropologia dei modelli. Questione, per altro, fondamentale nella 'liturgia' prima ancora che nella poetica di Caravaggio, e predefinita dalla sua omofilia; quasi fosse l'inventore di membra e di volti mai accettati dall'arte. Non da quella greca, che conosceva solo le fattezze degli dèi, non da quella durata fino a Leonardo, fatta di modelli mentali, di creature supreme che recitano un''unica' avventura di ambasciatori celesti. Solo la grande ritrattistica latina, col suo utilitarismo laico, aveva scolpito gli uomini che incontri nelle strade. E con grande dispendio di notazioni accessorie, comprese le grimaces, le bolsaggini, i porri, come compete ai dominatori più svergognati del mondo. Basta girare Roma per capire dove Caravaggio prendesse i propri modelli: nella suburra appunto, tra Campo de' Fiori e Ponte Rotto, Piazza Farnese e Palazzo del Monte (dove ancora c'è, nel vicolo traverso, un'osteria del Seicento intatta, con quell'inesprimibile luce di temporale e di miracolo che è nella gran tela della Vocazione). Un feudo impenetrato di plebe romana: e quindi di 'mignotti' impuberi, che tutto sogguardano con suprema indifferenza; perpetuamente 'stravaccati', come se lo scheletro stesse sul punto di collassare. Che Caravaggio ne abbia fatto angeli e profeti e santi lividi di malaria, la dice lunga sulla sua fiducia nella potenza del vero; e ancora più lunga sulla sua 'infamia' caratteriale che scuoteva persino i mecenati e che non poteva non formare di sé la sua pittura, sempre buttata là, come una sassata: quel di più di eros spiattellato, eppure sottile da far male peggio di una rasoiata. Quella volontà di offendere la sensibilità del potere, così simile alla rivolta antiborghese dell'età moderna; e insieme di accarezzarne le voglie matte, facendo precipitare giù dal cielo angeli flessuosi, di carnagione chiarissima, e pennuti come uccelli rapaci. Corre insomma dai suoi modelli un filo rosso che attraversa gli spagnoli (Velázquez, Goya) e arriva ancora tenace, a Courbet, a Belli, al Pasolini cinematografico e anche letterario, insomma a gran parte della sensibilità contemporanea. Dunque pittore in 'presa diretta'. E passi la terminologia cinematografica per un metteur en scène di luci sbattenti com'era il nostro. Michelangelo Merisi da Caravaggio è l'artista che costruisce sull'aspetto dell'uomo una poetica antiumanistica. E quindi perentoriamente umana. A chi gli propone la discendenza da una bottega diversa dalle bottegucce dei pittori di 'teste e verzura' sparse tra Piazza della Quercia e Campo de' Fiori, sbarra gli occhi in faccia minacciosamente; come il Golia nel quale si è effigiato (ed è pronto a impugnare, alla bisogna, anche lo stocco e il coltello). E così, nella sua opera, fa ingresso solenne un uomo spogliato di ogni superfetazione colta; uomo perché ha disimparato a credere e a soffrire per la morte di Dio. Per la morte degli dèi. L'infernale che tutti sentono in Caravaggio, e che sentì ai suoi tempi la Chiesa di Roma, quasi venisse da un fuoco della Geenna, è il rifiuto sprezzante di consolare e consolarsi con le figure araldiche della fede o dei miti. E della 'tradizione', aggiungerei, vista la sua convinzione d'essere rampollato dalla mera osservazione del vero. La sola rappresentazione che lo appassioni è quella del corpo, vaso di bellezza, di forza, di fierezza e dolore; o quella dei dettagli di 'natura' (la frutta e le erbe studiate come appartenessero a una razza tutta speciale di umani). Sempre sedotto dal mondo oggettivo, da una realtà che supera la intelligenza della realtà. È in forza di questa caparbia scelta "di vivere ‒ citando Camus ‒ solamente con ciò che sa, adattandosi a ciò che è, e non fare intervenire nulla che non sia certo" che Caravaggio riesce ancora a essere scandaloso. Una scelta che amava; gli sembrava, semplicemente, così vera e luminosa da non potersi negare, nemmeno in nome di Cristo, figuriamoci se in omaggio ai lunghi strascichi della cultura rinascimentale; o al lucore stremato della pittura veneta. Naturalmente sarebbe insano attribuire a un artista di quattro secoli fa la premonizione del nostro tempo. Ma nel suo ribellismo c'era anche la poetica dello straccione, in odio all'oro delle mitrie e all'opulenza e al ghigno patibolare dei prìncipi. In una scena che Dio sta per abbandonare, il regno è in mano agli ignudi, ai bari, alle fattucchiere, alle prostitute, ai prostituti, agli assassini. Una corte dei miracoli piena di rivolte nuovissime.
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Copiare un'opera d'arte è forse il modo meno scientifico per indagarla criticamente. Ma certamente è 'lavoro' affascinante, e nella misura in cui non è solo imitazione, ricco di suggerimenti impensabili. Dirimendo non soltanto il nodo degli stilemi che proliferano e si espandono a dismisura nel corpo dell'immagine, ma anche i problemi più segreti dell'autore, la costante del suo essere (la sua 'eroica' sostanza) non altrimenti abbordabile. Si tratta, in definitiva, di passare da una normale e vigile visione critica, a stati di conoscenza e coscienza che direi interamente fisici. La prima volta che copiai da Caravaggio un particolare del Cesto di frutta ‒ la foglia di fico di medio destra, quella accartocciata come per effetto di una fiamma ravvicinata ‒ mi accorsi linea dopo linea del profondo antropomorfismo dell'artista; essendo quella foglia in tutto simile ai molti volti di vecchie ruffiane che l'artista effigerà, negli anni successivi, tra i testimoni nelle sue scene di martirio: anch'essi, come quella foglia, più che avvizziti contratti. E uguali nei verdi disidratati, paludosi, a quel mascalzone coronato d'edera detto eufemisticamente Bacchino malato. E m'accorsi, ancora, della traumatizzante coazione di Caravaggio a leggere la morte come filigrana dell'esistente: persino della bellezza che, in tutti i suoi quadri, emana sempre una aggressività impura e in qualche modo caduca. Anche nell'epoca romana della sua produzione, pur così affollata di membra che scoppiano di salute e strafottenza. Ricordo come mi tremò la mano tracciando la linea che il braccio avvinto alla colonna, e quindi retratto, profila sul fianco del Cristo flagellato, conservato a Capodimonte: definizione ondulante dall'inguine all'ascella, inclinata fino all'ombra della spalla, al collo sul quale sembra attaccarsi malamente, e in maniera posticcia, come fosse di un decollato, la testa di un giovane; un percorso calligrafico slanciato verso i capezzoli rilevati, femminei. E così erotico da fare suonare il titolo dell'opera ferocemente blasfemo. Nei dipinti di Caravaggio c'è sempre questo profilo o margine che staglia i corpi dalla buia cavea del fondo: un profilo musicalmente armonioso, di suprema raffinatezza, e così formalmente compiuto, come per un tratto solo e continuo, da contrastare la drammaticità dell'insieme. Quando vidi per la prima volta, a Berlino, l'Amore vincitore, fui scioccato da quella sua luce di smalto o di corallo peau d'ange, e dal profilo tagliente che saliva dal ginocchio alla spalla dolcissima, al viso dipinto come una maschera dionisiaca, deformata nell'estrema contraddizione della morte. Quando nel 1984 misi mano a quel lungo ciclo che intitolai Come mosche nel miele, dedicato, sì, a Pasolini, ma che privilegiava nei confronti del fattaccio della sua morte il background della Roma degli anni Ottanta, la prima immagine che mi venne alla memoria fu quel corpo seduto sugli strumenti musicali (quasi a dichiarare che l'arte, anche la più astratta come la musica, fa da sedile alla lubricità: il paracarro al quale, ancora oggi, è appoggiata la 'marchetta' di Trastevere). E insieme a quel corpo il viso dove il vizio e la bellezza ammiccavano sinistramente, quasi uno scudo araldico di ciò che avrei voluto realizzare. Quel viso mi affiorò più volte sullo spazio della tela e del foglio, e alla fine ossessivamente, così che decisi di farne una copia per cacciarlo da me, una volta per tutte. Quella copia l'ho distrutta, ma quel sorriso dalle labbra arricciate, che lascia vedere la bocca e i denti pieni di saliva, quegli occhi ridenti ma privi d'amore, affiorano dappertutto nei quadri del mio ciclo. Sì che a rivederne qualcuno mi viene da dire, questo è lui, l'amorino dalle pesanti ali di aquila.
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L'artista è al centro di un diorama circolare. Egli fa perno sul suo stile, e la giostra delle apparenze gli gira intorno, in continuo e lento movimento. È al centro dello spettacolo, ma non fa parte dello spettacolo; non possiederà mai le cose che lo innamorano, ma solo la loro ombra (in fondo ama solo la loro ombra). Pagherà il divertimento col suo grave, cortese tributo di opere. Ma finirà anche per soggiacere all'illusione che l'esistente sia nient'altro che un insieme di momenti cruciali della forma: dati diversi, infiniti, di uno stesso problema. E dunque la strana logica dell'artista: sinuosa, piena di sovrapposizioni insensate e allucinatorie. Vive nella conca rotonda delle emozioni, e non può che sentirsi indifferente al quadrato aristotelico. Sembra che non sappia esprimersi che per allitterazioni (anche cromatiche, anche segniche). A scriverle sulla sabbia lascerebbero la traccia del serpente. E del resto, secondo una voce corrente e generale (avvalorata da molta cattiva letteratura, e dallo spettacolo riprovevole di pittori che si fracassano sassi sulla fronte), l'artista è come il cavallo, troppo sensibile per essere anche intelligente (e qualche volta, come i cavalli, non appena se ne ha il destro, si accoppa; spesso con manovre di annientamento che coinvolgono tutta la società, a garanzia di irresponsabilità personali, e dell'inconscio collettivo che però è sempre disposto a tutto). Ogni quadro, qualsiasi cosa rappresenti, è un autoritratto, un calco del corpo e unico fondamento dell'esperienza sensoria. È in ogni caso una stretta e difficoltosa via di fuga dall'ingranaggio di un mondo integralmente funzionale, da un sistema che si è fatto della nostra esistenza, più di noi, contro di noi, una idea ben precisa e terribilmente fissa.