esperienza
Forma di conoscenza diretta, personalmente acquisita con l’osservazione, l’uso e la pratica, di una determinata sfera della realtà. In questo senso si definisce comunemente esperto colui che ha acquisito particolari competenze in campo pratico sulla base di precedenti e ripetute acquisizioni.
In campo gnoseologico, la nozione di e. come contatto diretto con gli oggetti attraverso la sensibilità è presente nella filosofia greca, che con Platone ha visto in essa una forma di conoscenza valida a fini pratici, ponendola come tale alla base della «tecnica», ma inferiore rispetto alla scienza, che fa riferimento a giudizi basati sull’intelletto e il ragionamento e non sulla semplice ripetizione di esperienze sensibili. Anche per Aristotele la conoscenza basata sull’accumulo di esperienze si distingue dalla conoscenza scientifica: l’«empirico» conosce i fatti ma non il loro «perché», vale a dire le cause, il cui accertamento rientra nell’ambito dell’intelletto. Ma pur distinguendosi dalla scienza l’e. ne diventa in Aristotele una premessa. L’analisi di Aristotele prende le mosse dalla sensazione, che è una capacità innata negli animali; ma mentre in alcuni di essi è l’unica forma di conoscenza, che scompare dall’anima dopo il suo passaggio, in altri lascia traccia in forma di ricordo, e dal ricordo ripetuto nasce appunto l’e., che è un processo di unificazione attraverso il quale i ricordi molteplici convergono in un’unica immagine. In base alla ripetizione di sensazioni memorizzabili, gli uomini arrivano a formulare giudizi intorno a casi simili e per questo l’e. apre all’arte e alla scienza; ma in quanto legata al ricordo di casi particolari, l’e. è per sua natura accidentale e, come tale, non in grado di sostituire l’intelligenza dei principi primi della scienza, che sono necessari.
Questa immagine dell’e. prevalse fino all’alba della rivoluzione scientifica del Seicento, quando l’indagine sul mondo si indirizzò direttamente, per dirla con Galilei, alla lettura del gran «Libro della Natura», abbandonando i formalismi della logica aristotelica, per privilegiare la via dell’osservazione e dell’esperimento. Ai teorici della nuova scienza l’e. non si presenta più come passiva ricezione del dato esterno, ma diventa interrogazione attiva della natura, operazione che richiede la collaborazione della facoltà sperimentale e di quella razionale: sono le «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni» di cui parla Galilei. In questo contesto, l’e., regolata in base a un complesso sistema di procedure di cui Bacone fornì le prime tavole, non si presenta più come una forma limitata di conoscenza inferiore alla scienza, ma diventa parte integrante del metodo scientifico stesso in quanto costituisce il criterio di verifica delle ipotesi. Sul diverso ruolo svolto nella costruzione dell’e. dalla componente sensibile e da quella razionale si sarebbe interrogata a lungo la filosofia della conoscenza moderna, fino alla classica soluzione offerta dal trascendentalismo kantiano.
Alle rappresentazioni dell’e. sensibile come fonte unica della conoscenza fece appello la corrente di pensiero che va sotto la denominazione di empirismo (➔). Se le idee sono per Locke gli unici contenuti della mente, una volta confutata la presenza in essa di idee innate, l’analisi epistemologica ha il compito di risalire alla fonte delle idee, che Locke individua nella sensazione, mediante la quale la mente entra in contatto con le qualità sensibili delle cose esterne, e nella riflessione, che fornisce le idee del senso interno, ottenute dalla mente riflettendo intorno alle sue diverse operazioni, come il percepire, il pensare, il dubitare, il credere, il volere. Sensazione e riflessione si presentano così come i due aspetti dell’e. dalla quale unicamente derivano tutti i materiali della conoscenza. Sviluppando questa linea analitica, Hume fece valere criteri di distinzione diversi da quelli avanzati da Locke, proponendo un uso critico, e non solo descrittivo, del principio della dipendenza delle idee dall’esperienza. La distinzione che pone Hume è quella tra impressioni e idee: le impressioni, sia esterne sia interne, precedono le idee corrispondenti che ne sono copie illanguidite e si presentano pertanto come percezioni forti e vivide, mentre le idee, specie nel caso di quelle astratte, sono deboli e confuse. La dipendenza delle idee dalle impressioni è così in grado di fornire un criterio di discriminazione per venire a capo delle interminabili dispute metafisiche: quando sorge il sospetto che qualche termine filosofico non faccia riferimento a un’idea reale, occorre chiedersi da quale impressione quella idea sarebbe derivata, e se non è possibile richiamare alcuna impressione, si può concludere che quel termine è privo di significato.
In un contesto radicalmente diverso, caratterizzato dalla crisi della fisica classica che aveva costituito il riferimento principale della riflessione degli empiristi e di Kant, una nozione di e. per certi versi analoga a quella elaborata a suo tempo da Hume si ripresenta a cavallo tra Ottocento e Novecento nell’empiriocriticismo. Mach parlò di una «esperienza pura», i cui elementi ultimi e costitutivi sono le sensazioni che, come tali, costituiscono gli unici dati certi in base ai quali e alle connessioni dei quali studiare i fenomeni sia fisici sia psichici. La spiccata istanza antimetafisica fatta valere da Mach con l’esclusione di tutto quanto non può essere riportato all’e. empirica diretta influenzò direttamente i neopositivisti del Circolo di Vienna (➔ positivismo logico). Analizzando il significato degli enunciati scientifici, i neoempiristi elaborarono un criterio di verificabilità in base al quale un enunciato è significante quando è empiricamente verificabile, cioè quando è possibile indicare le condizioni osservabili realizzandosi le quali l’enunciato diventa vero. Il richiamo all’e. si poneva in questo modo come linea di discrimine tra la conoscenza scientifica e altre forme di conoscenza o di credenza.