SUBACQUEA, ESPLORAZIONE
Sono passati quasi duecento anni da quando, nel 1797, il tedesco Klingert, portando avanti le esperienze di Torricelli e di Pascal, progettò sia uno scafandro ad aria (compressa dalla stessa pressione dell'acqua in un sacco di cuoio) sia il primo casco metallico subacqueo. Era l'inizio della tecnologia subacquea, della ricerca di mezzi e tecniche che consentissero all'uomo di vivere e lavorare il più a lungo possibile sotto la superficie del mare. Ma bisogna arrivare alla seconda metà dell'Ottocento perché si generalizzi l'impiego di palombari; è questa anche l'epoca della diffusione dei cassoni pneumatici, grossi contenitori che, svuotati dell'acqua, consentivano agli operai di compiere lavori all'asciutto sul fondo del mare. È evidente come questi mezzi avessero precisi limiti d'impiego: lo stesso palombaro, ancorato al fondo da scarponi zavorrati e vincolato alla superficie dai tubi dell'aria, aveva scarse possibilità di movimento. Fu solo nel 1925 che il francese Y. Le Prieur costruì un'apparecchiatura autonoma d'immersione costituita da una bombola di aria compressa, un riduttore di pressione che erogava con continuità aria a pressione ambiente e una maschera "gran facciale" dai cui bordi usciva l'aria non utilizzata. L'apparecchio, pur di ridotta autonomia (circa 15 minuti) consentiva all'uomo in immersione di liberarsi da qualsiasi vincolo. Quando, più o meno nello stesso periodo, il francese De Corlieu, ispirandosi a studi di Leonardo da Vinci, costruì le prime pinne di gomma da applicarsi ai piedi, l'uomo ebbe la possibilità di muoversi nell'acqua non più come in un elemento ostile, ma quasi con la stessa disinvoltura dei pesci: era nato il subacqueo.
La diffusione delle immersioni mise in moto un gran numero di ricercatori e di scienziati: con gli apparecchi autonomi di respirazione cominciò la corsa agli abissi marini e si verificarono anche i primi incidenti, dovuti al fatto che i gas respirati a grande pressione sono tossici o provocano, al ritorno in superficie, l'embolia gassosa. Per molti anni il perfezionamento di questi apparecchi di respirazione rimase affidato ai militari: è appena il caso di ricordare le imprese dei sommozzatori italiani nella seconda guerra mondiale o quelle degli "uomini rana"i dell'inglese L. Crabble. Sono state le imprese di questi uomini, che spesso operavano con apparecchi rudimentali, a risvegliare l'interesse verso il mondo sommerso. Alle imprese dei militari fecero seguito quelle degli sportivi che, per le stesse motivazioni che spingevano gli esploratori in Africa nel secolo scorso, iniziarono la scoperta delle profondità marine: alla ricerca di prede i cacciatori, alla scoperta di testimonianze di antiche civiltà (relitti di navi greche e romane, di città sommerse, ecc.) gli archeologi, in cerca d'immagini inusitate i fotografi subacquei, per la conoscenza di nuove forme di vita e di esseri sconosciuti i biologi.
È solo negli anni Sessanta, quando si acquista coscienza che alle risorse del mare sono affidate le speranze future di sopravvivenza dell'umanità, che la figura romantica e avventurosa del sommozzatore cede il passo all'industria. Sono le grandi compagnie internazionali che, con i loro metodi rivoluzionari, con tecniche d'avanguardia (rese possibili dalla disponibilità d'immensi capitali), impostano e rendono possibile il razionale sfruttamento delle risorse naturali di un immenso territorio sommerso, solo parzialmente esplorato: giacimenti petroliferi sottomarini, depositi di minerali preziosi, risorse ittiche. In conseguenza di ciò negli ultimi anni le attività sottomarine si sono moltiplicate, i cantieri subacquei sono diventati sempre più numerosi, le tecniche d'immersione si sono perfezionate al di là di ogni immaginazione. È nata insomma una nuova forma di lavoro industriale che vede occupata non più un'esigua minoranza di palombari esposti a ogni rischio, o di avventurosi sommozzatori, ma una nuova categoria di lavoratori e di tecnici ben remunerati.
Certo non tutto il lavoro in mare richiede tecniche sofisticate e costose: esistono pur sempre, per un'attività che si può dire sia ancora agl'inizi, margini elevati per l'iniziativa di singoli e di piccoli gruppi che potremmo definire ancora "sportivi", per i quali però sono a disposizione attrezzature altrettanto valide. Naturalmente l'apparecchiatura d'immersione più comune è l'autorespiratore, per mezzo del quale è possibile respirare sott'acqua autonomamente, cioè senza essere collegati con la superficie. Questi apparecchi sono costituiti da una o più bombole contenenti aria compressa, oppure ossigeno o altre miscele gassose e si possono classificare secondo il gas che impiegano o secondo il ciclo di funzionamento. A seconda del gas impiegato si hanno autorespiratori ad aria (identificati con la sigla ARA), a ossigeno (ARO) e a miscela (ARU). Secondo il ciclo, invece, gli autorespiratori possono essere divisi in: autorespiratori a ciclo aperto (generalmente quelli ad aria); a ciclo chiuso (quelli a ossigeno) e a ciclo semi-aperto (quelli a miscela).
Gli autorespiratori a ciclo aperto sono composti generalmente da una o più bombole di aria compressa a 150 ÷ 200 atm e da un erogatore che serve a far defluire l'aria dalle bombole nel quantitativo richiesto e alla pressione ambiente, e che consente lo scarico in acqua dell'aria espirata. Gli autorespiratori a ciclo chiuso sono composti invece di un sacco-polmone e di una bomboletta nella quale è contenuto ossigeno puro a 150 ÷ 180 atm; l'ossigeno immesso nel sacco-polmone viene inspirato alla pressione ambiente, quindi viene rimesso in circuito attraverso uno strato di calce sodata che lo libera dell'anidride carbonica e può quindi essere riutilizzato. Negli autorespiratori a ciclo semi-aperto, nella fase espiratoria viene espulsa in acqua solo una parte del gas inspirato, mentre l'altra parte viene nuovamente inspirata dopo essere stata depurata passando attraverso un'apposita capsula. Esistono anche precisi limiti di utilizzazione di questi apparecchi di respirazione autonoma: per es., gli autorespiratori a ossigeno (ARO) non possono essere utilizzati per profondità superiori a 12 m perché oltre tale profondità l'ossigeno tende a diventare tossico. Più ampia è la gamma di possibilità che offrono gli autorespiratori ad aria (ARA) anche se il loro uso richiede sempre la massima prudenza e il rispetto di precise regole per quanto riguarda le prolondità, i tempi d'immersione e i tempi di risalita onde evitare i pericoli più comuni dell'immersione: l'ebbrezza dei grandi fondali, l'affanno, l'embolia.
Circa le profondità che si possono raggiungere con gli ARA, esse sono essenzialmente legate alla durata dell'immersione e alle soste di decompressione che sono necessarie prima di poter riemergere. Più si va in profondità, meno dura l'immersione e più lunghe sono le tappe di decompressione; comunque il limite prudenziale per l'uso degli ARA è fissato in 50 metri. È vero che i pescatori di corallo che operano in Sardegna sono scesi per anni a 80 ÷ 100 m di profondità, sia pure rimanendo sul fondo per pochissimi minuti; hanno dovuto osservare sempre lunghe tappe di decompressione, utilizzando altre bombole di aria che gli venivano fornite dalla superficie. E tuttavia ciò non ha impedito, purtroppo, che si verificassero incidenti, anche mortali. Per quanto riguarda i limiti di massima profondità con ARA, vale la pena di ricordare che tre italiani detengono il record mondiale d'immersione: sono A. Novelli, E. Falco, C. Olgiaj che nel 1959 s'immersero a 131 m respirando normale aria atmosferica da un ARA dotato di un erogatore tecnicamente sofisticato, chiamato Explorer.
Con l'impiego di miscele respiratorie (generalmente elio e ossigeno) si è arrivati a poter scendere a maggiori profondità e con maggiore sicurezza. Ma l'impiego di queste miscele è costoso per la difficoltà di reperire l'elio: del resto non tutte le necessità operative subacquee richiedono l'uso di apparecchi a miscele, mentre anche questi sono insufficienti, o poco remunerativi, quando si tratti di effettuare lavori a grande profondità (oltre i 100 m) o di grande durata. Per questi impieghi più onerosi è stata messa a punto una tecnica definita "immersione in saturazione". La premessa per questo tipo d'immersione è basata sulla certezza (derivata da lunghi anni di esperimenti) che l'organismo umano, sottoposto a una certa pressione, assorbe i gas inerti che compongono la miscela respiratoria fino a quando non raggiunge una condizione di saturazione. Quando ciò accade il volume dei gas diffusi nei vari tessuti e organi non subisce altri aumenti in relazione alla durata dell'immersione, a meno che non venga aumentata la quota d'immersione. La conseguenza più importante di questo fenomeno è che un sommozzatore compresso e saturato per lavorare a 200 m di profondità, potrà sostare e lavorare a quella quota per settimane senza che, al momento del ritorno in superficie, il tempo occorrente per la decompressione (cioè il tempo necessario perché i tessuti espellano tutti i gas assorbiti) sia superiore a quello necessario dopo un'immersione di una sola ora. Ciò ovviamente, oltre a eliminare i rischi di ripetute decompressioni, evita tempi morti nelle operazioni e quindi consente un coefficiente di rendimento abbastanza elevato.
Si è appurato anche che l'uomo può vivere e lavorare in condizioni d'iperbarismo per molto tempo, senza che (almeno allo stato attuale delle conoscenze) si abbiano sull'organismo gravi ripercussioni funzionali e anatomiche: è chiaro però che questa adattabilità è condizionata al fatto che l'ambiente in cui l'operatore subacqueo si troverà a vivere per tutta la durata del lavoro sia accettabile. È per questo che molta attenzione è rivolta allo studio di miscele sempre più perfezionate, e i risultati di tali ricerche sono tenuti riservatissimi, per motivi sia commerciali sia strategici, dal momento che gli enti che più si dedicano a questi studi sono quelli militari. Con l'adozione di tecniche d'immersione in saturazione si è ottenuto di non riportare in superficie l'operatore subacqueo dopo ogni immersione, ma si è reso necessario, ovviamente, dotarlo di una comoda abitazione sottomarina nella quale possa rientrare dopo aver terminato il suo turno di lavoro, quindi di riposare e nutrirsi in ambiente asciutto e in un'atmosfera che necessariamente dovrà avere la pressione equivalente a quella della profondità alla quale ha operato e continuerà a operare. Naturalmente le tecniche d'immersione in saturazione richiedono sia apparecchiature sofisticate e costosissime sia personale particolarmente addestrato. Si tratta di complessi iperbarici, generalmente installati a bordo di apposite navi o di piattaforme, composti da una o più camere iperbariche di superficie e da una campana di trasferimento dotata di portello di chiusura e di apparati autonomi di rigenerazione della miscela respiratoria (v. fig.).
Quando è prevista un'immersione in saturazione, gli operatori subacquei, generalmente in numero di tre, sono immessi nell'impianto iperbarico di superficie e pressurizzati al valore della quota di fondo che si è stabilito di raggiungere; la pressurizzazione avviene lentamente e con l'uso di miscele elio-ossigeno occorrono circa 24 ore perché l'organismo sia saturato alla pressione equivalente: per es., se si deve scendere a 300 m la pressione è di 30 atmosfere. Quando l'impianto ha raggiunto la pressurizzazione voluta, gli operatori subacquei passano dalla più comoda camera iperbarica (è una vera mini-casa con televisione, telefono, libri, doccia, servizi, lettini, ecc.), alla campana d'immersione, anch'essa pressurizzata. Per mezzo di questa campana, che viene disinnestata dall'impianto, gli operatori sono calati sul fondo: così come con l'ascensore i minatori scendono in miniera. Giunti sul posto di lavoro due dei tre sommozzatori lasciano la campana, uscendo da un portello posto sul pavimento, mentre il terzo rimane nella campana per assisterli e aiutarli a uscire e a rientrare. L'attrezzatura di questi operatori subacquei comprende mute doppie riscaldate da un flusso di acqua calda (ma recentemente sono state realizzate anche mute riscaldate elettricamente), un casco integrale dotato di valvola erogatrice della miscela respiratoria a flusso continuo, di telefono, talvolta anche di apparecchi per riprese televisive. La miscela respiratoria, l'acqua calda e i vari collegamenti telefonici, vanno dalla campana al sommozzatore mediante un cordone ombelicale di grande sicurezza e collegato ad almeno due fonti di alimentazione indipendenti. Se per caso il cordone ombelicale dovesse impigliarsi in qualche ostacolo, o rompersi, il sommozzatore può sganciarsi e rientrare in campana respirando la miscela contenuta in una piccola bombola che fa parte dell'equipaggiamento. Terminato il lavoro sul fondo, che può avere durata variabile, dipendente da motivi biologici legati alla fatica, al freddo, o a esigenze corporali, gli operatori subacquei rientrano nella campana che, dopo aver chiuso il portello inferiore, è recuperata a bordo della nave-appoggio e innestata all'impianto fisso: a questo punto gli operatori subacquei possono trasferirsi nella loro camera per osservare il prescritto turno di riposo rimanendo però sempre alla pressione relativa alla profondità alla quale stanno operando. I sommozzatori pertanto restano pronti a una nuova immersione. Soltanto quando sono terminate le esigenze del lavoro che stanno eseguendo, e comunque non oltre un periodo che generalmente è di due settimane, gli operatori effettuano la decompressione: cioè la pressione dell'ambiente in cui essi hanno lavorato e vissuto viene riportata lentamente, secondo tempi stabiliti da precise tabelle, alla pressione di superficie; fatto questo gli operatori possono uscire dall'impianto iperbarico.
La tecnica descritta è quella più usata per i lavori oltre i 200 m (o a profondità inferiori ma per immersioni di lunga durata); un impiego richiesto nella maggior parte dei casi dai lavori di perforazione di pozzi petroliferi sottomarini, o dalla posa di sea-line, cioè condutture sottomarine per il trasporto di greggio o di gas. Ma a questa, che è un'attività tutto sommato statica, si aggiunge anche quella più propriamente di esplorazione dei fondali, del prelievo dei campioni o d'interventi a profondità superiori a 500 m, dove l'uomo ancora non è in grado di operare direttamente, essendo questo il limite attuale che esperimenti condotti in appositi simulatori hanno stabilito per l'uomo che opera in immersione. Oltre tale limite ci si serve di speciali sommergibili capaci di raggiungere qualsiasi profondità: i batiscafi. Si ricordi il batiscafo Trieste, costruito in Italia, con il quale A. Piccard raggiunse presso Ponza i 3150 m (settembre 1953) e con cui il figlio Jacques toccò il record di 11.520 m nella Fossa delle Marianne (Oceano Pacifico, gennaio 1960).
Naturalmente anche in questo campo il progresso è stato ed è sensibilissimo: al Trieste ha fatto seguito il Deep Star, sottomarino oceanografico realizzato negli SUA nel 1966 su progetto del comandante J. Cousteau e reso famoso dai molti film che il pioniere francese dell'attività subacquea ha realizzato per le Tv di tutto il mondo. Il Deep Star poteva ospitare tre persone, scendere fino a 4000 m e aveva bracci meccanici per il prelievo di campioni, nonché apparecchi fotografici, cinematografici, sonar, ecc.
Si sono ricordati questi due mezzi subacquei perché essi possono ormai considerarsi "storici", anche se la loro data di nascita è recente. Il fatto è che il progresso in questo campo è rapidissimo e, ancorché molte realizzazioni siano mantenute segrete per ovvi motivi, si costruiscono, specialmente negli SUA e in Giappone, mezzi subacquei sofisticatissimi; a Houston si svolge ogni anno, a maggio, la Offshore Technology Conference, mostra-mercato dei più rivoluzionari mezzi di esplorazione sottomarina.
Esistono capsule abissali telecomandate che possono operare fino a 2000 m di profondità inviando in superficie, su uno schermo televisivo, tutte le immagini che una telecamera, provvista di messa a fuoco e di controllo luce, può raccogliere nel raggio di dieci metri e per una visuale di 180° e quelle che un operatore in superficie richiede con un hand control.
Esiste la capsula con oblò e manipolatori che viene immersa sospesa a una gru: l'operatore all'interno, a pressione atmosferica fornita dalla piattaforma, opera con una cloche che comanda un braccio meccanico regolato elettronicamente attraverso un servosistema elettrico o idraulico. Questo braccio meccanico ha mani-tenaglia potentissime e, agendo sulla cloche si riesce, con relativa facilità, a compiere lavori altrimenti impossibili.
Vi sono infine sommergibili tascabili che possono scendere a 1000 m di profondità con tre o quattro uomini di equipaggio. Sono dotati di complessi e segretissimi sistemi di sicurezza per la navigazione sottomarina, sono realizzati in materiali pregiati (titanio e leghe speciali) e sono dotati di tutto il meglio per quanto riguarda i sistemi di misurazione delle profondità, di videoregistrazione Tv, di comunicazione radio (sottomarina ed esterna), di sonar, di sistemi di decompressione avanzatissimi, di manipolatori per lavori in diretta e telecomandati.
Mezzi avveniristici marciano dunque alla conquista della platea continentale, quella piattaforma che circonda le terre emerse (a volte per centinaia di chilometri), con una superficie di 22 milioni di km2 profonda dai 200 ai 300 metri. Qui ragionevolmente, nei prossimi anni, si potranno risolvere i problemi che riguardano la fame nel mondo e la necessità di reperire nuove fonti di energia.
Bibl.: Per l'informazione corrente sono da vedere le seguenti riviste: Mondo sommerso, Torino; Rivista marittima, Roma; vedi inoltre G. Melegari, Operatività subacquea, in Pescasport (1969); C. Fabiani, Io sub, Milano 1974.