Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scoperta dell’America o, meglio, l’insieme degli eventi costituiti o determinati dalle navigazioni e dai viaggi che, dalla fine del XV secolo, mettono in contatto l’Europa con lo sterminato continente di là dell’Atlantico e con l’Oriente asiatico, determinano un’enorme trasformazione nella sfera economica, dovuta all’intreccio di rapporti e scambi con quei paesi remoti, e ben presto nella sfera sociale e politica.
Il XVI secolo è generalmente considerato il primo dell’età moderna il cui inizio, per consuetudine, corrisponde con la scoperta dell’America. Naturalmente, se osserviamo le cose con gli occhi degli uomini di allora, questa divisione netta costituisce una forzatura: la conoscenza del mondo non si trasforma rapidamente in seguito al primo viaggio di Cristoforo Colombo, e delle novità che sarebbero derivate da quell’impresa pochi ebbero subito consapevolezza. Ma se consideriamo quell’evento, o meglio l’insieme degli accadimenti costituiti o determinati dalle navigazioni e dai viaggi che, a partire dall’ultimo scorcio del XV secolo, mettono in contatto l’Europa con lo sterminato continente di là dall’Atlantico e con l’Oriente asiatico, non possiamo non scorgere lo straordinario ampliamento di orizzonti verificatosi allora.
I viaggi e gli scambi con le nuove terre determinano una trasformazione radicale: da un mondo ancora centrato sul Mediterraneo, dove Paesi come l’Inghilterra e la Spagna avevano una posizione marginale, si passa a una realtà diversa. Tutta l’Europa viene coinvolta entro una fitta rete di relazioni che, attraverso acque fino ad allora sconosciute, la uniscono a terre da poco scoperte o raggiunte solo eccezionalmente.
L’intreccio di rapporti e scambi con Paesi remoti determina un’enorme trasformazione nella sfera economica e ben presto in quella sociale e politica. Basti ricordare l’ingente quantitativo di metalli preziosi che la Spagna importa dalle colonie americane (dal 1501 al 1530 l’equivalente in argento di 7,7 tonnellate, che nell’ultimo decennio del secolo supera addirittura le 290 tonnellate): un’immissione massiccia di oro e di argento che entra rapidamente in circolazione in Europa, utilizzata in massima parte nell’immediato per finanziare la politica imperiale della potenza conquistatrice. Se una porzione considerevole di quei metalli preziosi serve al pagamento di merci importate dall’Asia, moltiplicando il volume degli scambi con l’Oriente, l’accresciuto stock monetario europeo provoca un generale aumento dei prezzi, che colpisce in particolare i salariati e la piccola nobiltà terriera. In tempi più o meno ravvicinati, la scoperta dell’America provoca notevoli cambiamenti anche sui modi di vita, per le novità che si verificano nell’agricoltura e nell’alimentazione degli Europei: dopo che la canna da zucchero viene introdotta nel Nuovo Continente, un prodotto prezioso e dall’uso fino ad allora prevalentemente farmaceutico come lo zucchero comincia a entrare nel consumo familiare, mentre la flora americana offre all’Europa il mais, la patata, il pomodoro, il cacao e altri alimenti.
Ancora più profondo, forse, è lo sconvolgimento che la scoperta dell’America determina nella visione che gli Europei hanno del mondo: da un’immagine largamente fantasiosa della realtà circostante si giunge, nel corso del XVI secolo, a una concezione sempre più precisa e scientifica. Un uomo colto abitante in uno dei Paesi della Respublica christiana, non pensa più generalmente – come accadeva nel Medioevo – alla Terra “piatta”, il cui aspetto era ispirato al tabernacolo costruito da Mosè nel deserto: entro un piano rettangolare, circondato dalle acque, stavano le tre masse continentali dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, di estensioni non troppo differenti e divise fra loro dal Mediterraneo; ai margini, quattro grandi pilastri reggevano il baldacchino del cielo. La concezione sferica della Terra – già teorizzata dai pensatori antichi che attribuirono ai corpi celesti la forma geometrica perché vicina alla perfezione – era stata recuperata grazie soprattutto a Giovanni da Sacrobosco, vissuto nella prima metà del XIII secolo, che aveva redatto un trattatello destinato a una fortuna plurisecolare, intitolato appunto La sfera del mondo, derivando indirettamente le sue teorie da Tolomeo, il grande scienziato di Alessandria d’Egitto vissuto nel II secolo d.C. Dopo un’illustrazione dell’universo in linea con la teoria tolemaica, veniva descritta la sfera terrestre, divisa in cinque zone: le due estreme e quella centrale erano credute inabitabili, le prime per il rigore del clima, l’altra per l’eccessivo calore, e solo le due fasce mediane temperate erano considerate abitabili dall’uomo. Nel primo Quattrocento l’opera stessa di Tolomeo era stata introdotta in Occidente da alcuni dotti bizantini, e insieme al testo di quella che i traduttori latini avevano intitolato Cosmographia era stato pubblicato un apparato cartografico, ripreso forse dall’originale o quanto meno ricostruito in base ai dati elaborati dal dotto alessandrino. Le masse continentali erano disposte su una fascia a semicerchio, per dare l’idea della sfericità terrestre, e quasi come una cornice al loro margine occidentale e orientale era posto l’Oceano che avrebbe diviso le coste africane ed europee da quelle asiatiche. L’Europa aveva una configurazione piuttosto vicina, nelle linee generali, a quella delle rappresentazioni moderne, ma l’Africa, a sud delle sponde mediterranee, era presentata come un tozzo corpo squadrato con una protuberanza verso oriente che mostrava l’Etiopia, mentre a sud si estendeva indefinita la Terra incognita. L’Asia, a parte la regione del vicino Oriente, delineata in modo abbastanza preciso, appariva senza alcuna delimitazione a nord e a est; a sud il caratteristico triangolo della penisola indiana era estremamente ridotto, mentre si estendeva nel Mare Indicum una grande isola – una Ceylon fantastica – denominata Taprobana; più oltre si sporgeva l’Aurea Chersonnesus, una penisola lanceolata a sud del Sinus magnus, da cui era bagnata la regio Sinarum. Anche le proporzioni dei continenti si discostavano dalla realtà: l’Africa appariva grande poco più di due volte l’Europa, che a sua volta era un terzo dell’Asia. Come è noto, proprio la sottovalutazione delle distanze che avrebbero separato le coste occidentali europee da quelle orientali dell’Asia – Cristoforo Colombo pensa che non vi siano più di 120° di latitudine, un terzo meno della realtà – fa giudicare possibile raggiungere il Levante muovendo da Ponente. Per quel che riguarda la costa occidentale dell’Africa, era stato necessario quasi tutto il XV secolo perché i Portoghesi arrivassero alla punta meridionale del continente e accertassero che era possibile circumnavigarlo: lo si credeva infatti unito alla cosiddetta Terra Australis, e si pensava che il Mare Indicum fosse un mare interno, privo di collegamento con l’Atlantico. Solo cinque anni dopo la scoperta dell’America, Vasco de Gama sarebbe approdato a Calicut, sulla costa occidentale dell’India. Tuttavia, dell’India la cultura europea aveva notizie che risalivano almeno ai tempi di Alessandro Magno, e del Catai e del Cipango (la Cina e il Giappone) aveva narrato Marco Polo nel Milione, un libro che aveva conosciuto rapida fortuna. Maggiore sconcerto provoca, invece, la scoperta dell’America.
Quando Colombo sottopone i suoi progetti di viaggio alla commissione di teologi riunita da Ferdinando il Cattolico, re d’Aragona e da Isabella regina di Castiglia, molti di quei dotti ritengono inattuabile tale navigazione, obiettando che essa si sarebbe addentrata nella zona torrida, intollerabile per il clima, e per di più si sarebbe avventurata nei pressi dell’equatore, con il rischio di precipitare fuori dal mondo.
La progressiva conoscenza del Nuovo Continente – la notizia delle esplorazioni di Amerigo Vespucci si diffonde fin dal primo decennio del Cinquecento – mette in crisi quelle certezze, che nondimeno tardano a scomparire del tutto. Inoltre, considerata sotto l’aspetto religioso, la scoperta pone altri problemi sconcertanti. Per la Bibbia tutti gli uomini derivano da Adamo, ma è difficile pensare che un discendente del progenitore abbia popolato quelle terre lontane e sconosciute. Anche più arduo, poi, è risolvere un problema posto dalla narrazione neotestamentaria della Pentecoste, per cui il Verbo di Cristo – come aveva ribadito san Paolo (Romani 10, 18) – era stato diffuso a tutti gli uomini fino agli estremi confini del mondo, tanto che non professavano quella fede solamente coloro che l’avevano scientemente rifiutata: di qui la possibilità di punirli, riducendoli in servitù. Ma gli abitatori di quei Paesi di là dall’Oceano, separati da una così grande estensione di acque, non potevano essere stati raggiunti dagli apostoli: come devono essere dunque considerati? La risposta più comoda per i conquistatori è di ritenerli estranei alla discendenza di Adamo, privi di anima, alla stregua delle bestie, e quindi passibili di essere annientati o fatti schiavi: come è noto, la distruzione di quelle popolazioni, facilitata dalle epidemie dilaganti per mancanza di immunizzazione, viene operata largamente anche dagli Europei, non tanto con massacri, quanto con lo sfruttamento inumano e con il cambiamento radicale delle abitudini di vita.
Il dibattito su quel problema teologico si prolunga, impegnativo e difficile, e ha come maggiori protagonisti l’umanista aristotelico Ginés de Sepúlveda, sostenitore dell’inferiorità naturale degli indigeni, e il domenicano Bartolomé de Las Casas, che sostiene la causa degli indios. Una riunione di teologi, indetta dall’imperatore e re di Spagna Carlo V nel 1550 per dirimere la controversia, non approda ad alcun risultato; se la Chiesa finisce con l’abbracciare le tesi di Las Casas sviluppando una vasta opera di evangelizzazione, i colonizzatori perdurano nel convincimento della naturale inferiorità degli indigeni, sfruttandone la manodopera soprattutto nelle miniere, e più tardi nelle coltivazioni, finché lo stesso scarso numero dei superstiti li spinge a ricorrere alla tratta degli schiavi africani. Un’altra considerazione sulla natura degli indios – senza peraltro alcuna positiva conseguenza pratica per loro – viene sviluppandosi: si tratta del mito del “buon selvaggio”, che trova i suoi prodromi già negli appunti di Colombo, nell’iniziale entusiasmo per quella che giudica l’innocenza naturale delle popolazioni appena scoperte. Forse l’enunciazione più limpida e matura di questo giudizio sugli abitanti del “mondo bambino”, trovato da poco, è nei Saggi del filosofo francesce Montaigne: egli avrebbe voluto che quella “così nobile conquista” fosse stata compiuta da Alessandro Magno o dai Romani per non essere svilita e imbarbarita, come era avvenuto con gli Spagnoli.
Le scoperte e le navigazioni transoceaniche non solo rivoluzionano la visione del mondo, ma introducono nella coscienza europea l’idea del relativismo dei progressi civili. Mentre viaggiatori, cartografi e geografi, ma anche poligrafi e compilatori di enciclopedie contribuiscono a diffondere le nuove conoscenze, che hanno dilatato incredibilmente l’orizzonte umano, vari studiosi prendono a interrogarsi sulle diverse vie seguite dallo sviluppo delle scienze e delle arti. “Da cento anni in qua” – scrive Louis Le Roy, autore delle Considerazioni sulla storia universale – “non solo le cose prima coperte dalle tenebre dell’ignoranza sono venute in chiaro, ma anche parecchie altre cose sono state conosciute, che erano state interamente ignorate dagli antichi: nuovi mari, nuove terre, nuovi tipi di uomini, di costumi, di leggi”. Si fa strada l’idea che le più importanti trasformazioni siano il frutto del progressivo incivilimento, così che proprio questo arriverebbe a dare un senso alla storia degli uomini, tracciando una linea dai secoli passati a quelli presenti. “Se vogliamo considerare l’insieme dell’antichità di cui resta memoria, troveremo che gli antichi abitatori dei Paesi in cui noi viviamo erano tremila anni fa rozzi e incivili come lo sono i selvaggi da poco scoperti da Castigliani e Portoghesi”. Perciò, alla fine del Cinquecento, uno storico francese vagheggerà di partire verso il lontano Oriente, per prendere diretta conoscenza “dei più antichi e notevoli fra i civilizzati, che si è sempre stimato siano gli Asiatici, e fra loro gli Orientali, che per primi [...] hanno dato origine alle più belle istituzioni umane”. Per contro l’esame dei popoli africani e americani mostra gradi di civiltà diversi, gli uni non molto al di là della fase selvaggia, gli altri ancora immersi in forme di vita che appaiono allo stadio primordiale della sociabilità. Attraverso un confronto sembra dunque possibile capire come “gli uomini, da selvaggi e isolati, quali si dice fossero, si siano fatti a poco a poco socievoli e uniti da diversi legami di civile umanità”. Non a caso Burckhardt, nell’esame dei caratteri originali che danno vita al Rinascimento, avrebbe posto insieme “la scoperta del mondo esteriore e dell’uomo”.