temporalità, espressione della
La capacità di esprimere la temporalità costituisce uno dei tratti principali della comunicazione umana. Tutte le lingue di cui siamo a conoscenza possiedono mezzi lessicali e/o grammaticali per collocare un evento nel tempo, indicarne la durata, ecc. Si tratta di categorie grammaticali come il tempo e l’➔aspetto, di caratteristiche lessicali del verbo (➔ verbi), di avverbi temporali (➔ temporali, avverbi), di principi discorsivi come l’espressione degli eventi nell’ordine in cui avvengono.
Nella codifica della temporalità è fondamentale, più che la situazione reale, la rappresentazione che il parlante ne elabora. Una citazione che ricorre spesso negli studi sull’espressione della temporalità, e che ne indica la complessità, appartiene ad Agostino d’Ippona, che, nel libro XI delle Confessioni, dice: Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio. Si quaerenti explicare velim, nescio («Che cosa è il tempo? Se nessuno me lo chiede lo so. Se lo devo spiegare a qualcuno non lo so»); intuitivamente, infatti, ci sembra di sapere cosa sia il tempo, ma se ci troviamo a doverlo spiegare, ci mancano le parole. È infatti arduo dare una definizione dei concetti di tempo e temporalità in quanto tali; inoltre, complesso è il rapporto tra tempo reale e tempo verbale: «come pare semplice la triade passato-presente-futuro, ma come tutto si fa complicato quando si cerca di sintonizzarla con le strutture temporali di una data lingua!» (Weinrich 20042: 90).
Secondo Klein (2009), sono sei i mezzi che le lingue usano per codificare il tempo:
(a) il tempo, categoria grammaticale dei verbi;
(b) l’aspetto, altra categoria grammaticale del verbo;
(c) l’Aktionsart, cioè la classificazione in tipi verbali in base alle caratteristiche temporali e alle proprietà temporali delle situazioni che descrivono;
(d) gli avverbi temporali (➔ temporali, avverbi), la classe di parole più ricca di espressioni temporali (a differenza di tempo e aspetto, infatti, essi si trovano in tutte le lingue);
(e) le particelle temporali, a metà strada tra avverbi temporali e suffissi o prefissi (come la particella cinese le; l’italiano non ne possiede);
(f) taluni principi discorsivi (➔ testo, struttura del).
Tra le lingue, le differenze nel modo di codificare la temporalità possono essere grandi, rispecchiando concezioni anche molto distanti tra loro: ad es., lo hopi, lingua amerindiana studiata dall’etnolinguista statunitense Benjamin L. Whorf negli anni Cinquanta del Novecento, codifica tre tempi, che non sono però presente, passato e futuro; una forma è utilizzata per codificare verità generali, che valgono senza tempo (del tipo di l’acqua bolle a cento gradi), un’altra per relazioni di eventi noti o molto probabili, una terza per eventi incerti. Ancora, in alcune lingue le marche di tempo sono espresse non sul verbo, ma su altre ➔ parti del discorso: il giapponese ha una forma di passato per gli aggettivi; in potawatomi (lingua amerindiana) sono i nomi a poter essere modificati con una marca di passato, come in numerose lingue mesoamericane. In ngiyampaa (lingua aborigena australiana) kampirra può significare sia «ieri» sia «domani», mentre in un’altra lingua australiana, l’aranda orientale, apmwerrke può significare «ieri», «pochi giorni fa», «negli ultimi giorni».
Il sistema verbale italiano è complesso: basti pensare che la flessione completa di un verbo comprende circa quaranta forme (➔ coniugazione verbale; ➔ tempi composti; ➔ tempi semplici). Come nota Schwarze (1990: 312), «i tempi verbali dell’italiano hanno tutta una serie di funzioni, che si estende dal riferimento a relazioni temporali, attraverso l’espressione di valori aspettuali, l’espressione di valori modali, la segnalazione dello status argomentativo, la strutturazione del testo narrativo, fino alla segnalazione di un modo comunicativo (o registro)».
Per quanto riguarda il tempo, si tratta di una categoria deittico-relazionale del verbo (➔ deittici): essa permette di situare un evento sull’asse temporale. Si distinguono tre relazioni temporali: passato, presente, futuro, a seconda che l’evento espresso dal verbo sia precedente, contemporaneo o posteriore rispetto al momento dell’enunciazione. Tuttavia, non sempre l’evento è collocato sull’asse temporale rispetto al momento dell’enunciazione: a volte, il punto di riferimento per la collocazione dell’evento espresso dal verbo è un qualche punto nel tempo dato dal ➔ contesto, e non necessariamente il momento dell’enunciazione: in tal caso la temporalità è detta anaforica (➔ anafora).
Più specificamente, il ➔ presente esprime:
(a) simultaneità rispetto al momento dell’enunciazione: leggo un libro;
(b) eventi abituali: non mangio carne;
(c) fatti che durano da sempre o che potrebbero avvenire in qualsiasi momento (è il cosiddetto presente intemporale): spesso è utilizzato nei ➔ proverbi e negli aforismi: chi rompe, paga e i cocci sono suoi;
(d) eventi o stati di cose che persistono indefinitamente, come le affermazioni di carattere geografico: la Terra è rotonda.
Col presente narrativo, invece, il momento dell’enunciazione è artificiosamente spostato: Ferdinand de Saussure nasce a Ginevra nel 1857. La sua funzione è quella di rendere più viva la narrazione, coinvolgendo il destinatario:
(1) Don Rodrigo, tornato sotto, l’accompagnava […] contava i passi, calcolava il tempo […] dopo qualche tempo cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava […]. Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano […] lo sente più forte […] si rizza a sedere […] sente un rumor cupo […] butta le gambe fuor del letto […] guarda all’uscio, lo vede aprirsi (Alessandro Manzoni, I promessi sposi XXXIII)
Il presente può fare riferimento a un evento posteriore al momento dell’enunciazione, assumendo il ruolo tradizionale di un altro tempo verbale, il ➔ futuro (è il presente pro futuro). Il momento a cui ci si riferisce può essere collocato in un futuro molto vicino: ora gli apro. In questo caso si parla di presente ingressivo. Ma non è questo l’unico caso: il presente può anche essere usato in riferimento a un evento lontano, ma già pianificato: l’estate prossima vado al mare. In questi casi, che si tratti di futuro è indicato da avverbi o espressioni temporali (negli esempi citati ora, l’estate prossima):
(2) Domani vado a Roma, Sabino, e non so a che ora rientro. Dopodomani è sabato (Gianrico Carofiglio, Le perfezioni provvisorie, Palermo, Sellerio, 2010, p. 10)
Il presente come futuro è molto diffuso nei dialetti, soprattutto centro-meridionali, in cui spesso manca una forma dedicata per il futuro.
Nell’➔imperfetto le due categorie di tempo e aspetto sono strettamente connesse: tale forma verbale colloca un evento anteriormente rispetto al momento dell’enunciazione, ma, a differenza del perfetto, lo presenta come non concluso, in corso in un momento del passato. È spesso utilizzato:
(a) nelle descrizioni:
(3) La città, dopo tutta quella pioggia, sembrava coperta da una lacca nera e lucida. Niente biciclette, niente pedoni, poche macchine. Era uno scenario da Blade Runner (ivi, p. 49)
(b) per sottolineare il carattere abituale di alcuni eventi:
(4) Hachiko aspettava sempre il suo padrone alla stazione
(c) può assumere un valore perfettivo; si tratta di casi di imperfetto narrativo:
(5) Della grave situazione si rendeva immediatamente conto un anziano pescatore […], il quale, vestito com’era, si lanciava in acqua, sollevava il corpo inerte del giovane e lo portava sulla banchina dove tentava disperatamente di tenerlo in vita con la respirazione bocca a bocca. Purtroppo i suoi sforzi risultavano vani («Il Mattino di Napoli» 28 novembre 1986)
L’imperfetto ha una serie di usi modali (come il cosiddetto imperfetto di cortesia: cosa desiderava signora?; o l’imperfetto ludico: io ero capitano della nave, tu il marinaio), la cui analisi non è qui pertinente. Come sottolinea Simone (1993: 60-61):
l’imperfetto occupa una posizione speciale in tutta l’area romanza, perché ha assunto, rispetto al suo corrispondente latino, una varietà di funzioni estremamente vasta e complessa […]. Questa varietà di funzioni rende l’imperfetto una delle forme capitali dell’organizzazione verbale dell’italiano (e delle altre lingue romanze), che lo adopera anche come forma di trasposizione ‘semplificante’ di svariate altre forme verbali percepite come più complesse.
Il ➔ passato remoto, al pari dell’imperfetto, colloca un evento nel passato rispetto al momento dell’enunciazione, ma, come indica il nome stesso, si tratta di un evento considerato concluso, senza alcun legame con il momento dell’enunciazione: entrai nell’edificio e salii le scale.
Il ➔ passato prossimo è un altro tempo del passato; tuttavia, l’evento codificato attraverso questo tratto è presentato con effetti ancora perduranti al momento dell’enunciazione. Nell’esposizione narrativa di carattere storico (➔ testi narrativi), come vedremo in seguito, il passato prossimo è raro; ad es., nei Promessi sposi lo si incontra nei discorsi diretti: «me l’avete promesso»; «che prova m’avete data?»; «è uscito»; «io ho capito tutto»; «tu m’hai inteso», ecc.
È da notare che nell’italiano settentrionale il passato prossimo si usa molto spesso dove nell’italiano centro-meridionale ci si aspetterebbe il passato remoto:
(6)
a. piem. a perdü; lig. a persu; milan. s perdü; ven. a perso «perse»
b. sicil. comu dormisti? «come hai dormito?»; sta matina chiuvìu «stamattina ha piovuto»
c. salentino comu durmisti?
Il ➔ trapassato prossimo indica un evento anteriore rispetto a un momento di riferimento nel passato, mentre il ➔ trapassato remoto è molto ricercato, utilizzato quasi soltanto nella lingua scritta molto controllata; codifica anteriorità e compiutezza rispetto a un perfetto semplice e compare solo nelle frasi temporali:
(7) dopo che lei fu partita […], mi buttai sul lavoro redazionale (Italo Calvino, Racconti, Torino, Einaudi, 1973)
Nella ➔ lingua parlata, al suo posto si trova il passato remoto (passato prossimo nell’italiano settentrionale).
Il ➔ futuro semplice codifica la posteriorità di un evento rispetto al momento dell’enunciazione. Come nell’imperfetto, anche nel futuro tratti aspettuali e modali si mescolano a quelli più propriamente temporali (ad es., si parla di futuro epistemico). Non bisogna dimenticare che il futuro italiano, e romanzo più in generale, rappresenta l’esito di un processo di ➔ grammaticalizzazione: il futuro sintetico del latino classico, del tipo laudabo, è sostituito nel latino volgare dalla perifrasi infinito + habeo, da cui poi si sono sviluppate le forme di futuro sintetico delle lingue romanze: laudare habeo > it. loderò. La struttura perifrastica del latino volgare aveva un chiaro significato modale: lett. «ho da lodare».
Interessanti sono poi i casi di futuro con valore retrospettivo, frequenti nella prosa giornalistica, che indicano anteriorità del momento dell’avvenimento rispetto al momento dell’enunciazione:
(8) gol non ce ne saranno più, ma per il Catania è cosa fatta
Il ➔ futuro anteriore esprime l’anteriorità rispetto a un momento di riferimento nel futuro: fra un mese l’avrai bell’e dimenticato.
Il ➔ condizionale passato esprime la posteriorità, ma rispetto a un momento di riferimento nel passato: Marco ci ha detto che si sarebbe fatto vivo.
In latino, la ➔ concordanza dei tempi tra la frase principale (➔ principali, frasi) e le subordinate (➔ subordinate, frasi) era regolata dal complesso meccanismo della consecutio temporum; in italiano ne sono rimaste alcune tracce: il tempo del verbo della subordinata è condizionato da quello del verbo presente nella principale.
Il tempo del verbo di una frase subordinata può essere lo stesso che si avrebbe se la frase fosse indipendente (tempo deittico):
(9) Giovanni verrà da noi domani
(10) Giovanni mi ha detto che verrà da noi domani
In altri casi, il tempo del verbo presente nella subordinata dipende dal tempo del verbo della principale. Inoltre, la concordanza dei tempi varia a seconda del tipo di subordinata: nelle frasi completive (incluse le ➔ interrogative indirette; ➔ completive, frasi) il tempo del verbo è condizionato più dal tempo della principale che da quello dell’enunciazione; viceversa, nelle frasi avverbiali e nelle frasi relative (➔ relative, frasi), il tempo del verbo della subordinata è maggiormente influenzato dal tempo dell’enunciazione.
Se il verbo della principale è al presente o al futuro, il verbo della subordinata può essere al presente, al futuro o al passato prossimo:
(11) dice che non può partire [o che non ha potuto partire]
(12) ti dirò quando lo vedo [o lo vedrò o lo avrò visto o l’ho visto]
Se il verbo della principale è al passato (imperfetto, passato semplice, trapassato), il verbo della subordinata può presentare uno di questi tempi o il condizionale:
(13) mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio (Manzoni, I promessi sposi III)
Se il verbo della principale è al passato prossimo, il verbo della subordinata può essere o al presente o a un tempo passato:
(14)
a. mi ha detto che non arriva in tempo
b. mi ha detto che non veniva
Il condizionale nella subordinata si può trovare in dipendenza da un verbo al tempo passato nella principale: mi ha detto che sarebbe venuto.
Come osserva Rohlfs (1969), le varietà calabresi meridionali e salentine non seguono sempre la consecutio:
(15) calabrese
a. jia mu si curca «andava a coricarsi» (lett. «andava che si corica»)
b. volivi mu parra «volli che parlasse» (lett. «volli che parla»)
(16) salentino
a. ulia cu ffazzu «vorrei fare» (lett. «volevo che faccio»)
b. trasíu cu bbite «entrò per vedere» (lett. «entrò che vede»).
Si devono a Benveniste (1959) e a Weinrich (20042) importanti riflessioni sull’uso dei tempi nei testi. Tempo reale e tempo testuale possono coincidere (ad es., nel discorso performativo, in cui il proferimento del verbo espleta il suo significato: la proclamo dottore in Lettere), ma possono anche non coincidere; i tempi verbali forniscono importanti informazioni a questo proposito.
Nel sistema verbale di una lingua, i tempi si organizzano in due sottogruppi: tempi della storia e tempi del discorso (per Benveniste 1959), tempi commentativi e tempi narrativi (per Weinrich 20042). Nel caso della lingua italiana, i tempi commentativi (tempi del discorso) sono: passato remoto, presente, futuro, futuro anteriore; i tempi narrativi (tempi della storia): trapassato, imperfetto, passato prossimo, condizionale presente, condizionale composto.
Per quanto riguarda i tempi narrativi, un’importante articolazione a livello testuale è data dai ruoli dell’imperfetto e del passato remoto: si tratta di due tempi verbali che si trovano non solo in italiano, ma anche in altre lingue romanze (come il francese), mentre, ad es., non si trovano in inglese e in tedesco (da cui, ad es., la difficoltà di traduzione del testo nietzschiano Also sprach Zarathustra, che in italiano potrebbe suonare sia come «Così parlò Zarathustra», sia «Così parlava Zarathustra»). Imperfetto e passato semplice permettono di operare una distinzione tra sfondo (imperfetto) e primo piano (passato semplice):
(17) [Era una bella giornata, fredda e luminosa].sfondo [L’aereo, sovvertendo le mie banali previsioni, partì e arrivò puntuale]primo piano (Carofiglio, cit., p. 11)
La funzione di sfondo può essere svolta anche da forme non finite del verbo, come ➔ gerundio e ➔ participio: uscendo di casa, incontrai Giovanni.
Le categorie di tempo e ➔ persona sono, nei due sottogruppi, strettamente correlate: il piano della storia si accompagna con la terza persona, il piano del discorso con la prima persona. In uno stesso testo, i due piani, del discorso e della storia, possono alternarsi liberamente: a segnalare i passaggi dall’uno all’altro sono proprio i tempi verbali.
In un romanzo vi è un gioco molto complesso tra tempo della storia raccontata e tempo del discorso che narra: il romanzo novecentesco ha sperimentato forme diverse di interazione tra questi due piani, con esiti molto interessanti.
Il tempo può essere anche segnalato attraverso perifrasi verbali (➔ perifrastiche, strutture): una delle più frequenti in italiano è formata da stare per + infinito che esprime un evento imminente: sto per uscire. In francese, tale valore è espresso dalla perifrasi formata da aller + infinito: je vais sortir «esco tra poco» (lett. «vado a uscire»).
Nell’ambito della categoria verbale dell’aspetto, la distinzione più comune è quella tra aspetto perfettivo e aspetto imperfettivo:
(18)
a. quel giorno Carlo andava in tribunale, quando vide Giulio
b. quel giorno Carlo andò in tribunale
In (18 a.) l’evento è presentato nel suo svolgersi (aspetto imperfettivo); in (18 b.) è dato come concluso (aspetto perfettivo).
Come nel caso del tempo verbale, anche per gli avverbi temporali (➔ temporali, avverbi) occorre distinguere tra riferimento assoluto e riferimento relativo. Alcuni avverbi di tempo collocano un evento in un punto nel tempo in relazione al momento dell’enunciazione, come oggi, ieri, domani (riferimento deittico); altri avverbi temporali situano invece un evento in relazione a un punto nel tempo dato dal contesto, come il giorno stesso, il giorno seguente, il giorno prima (riferimento anaforico).
Gli avverbiali temporali, oltre che in base al riferimento deittico o anaforico, si possono anche classificare in base ai tratti della duratività, della puntualità e della frequentatività: avremo così avverbi puntuali, come a mezzanotte, fra poco, ecc.; avverbi durativi, come oggi, l’anno scorso, durante le vacanze, ecc.; avverbi frequentativi, come ogni sera, tutti i giorni, ecc.
Molte delle espressioni linguistiche utilizzate per codificare la temporalità provengono dal dominio spaziale. Si tratta di un processo metaforico, per cui concetti astratti, come la nozione di tempo, vengono strutturati sulla base di concetti più concreti, come lo spazio (Lakoff & Johnson 1980): mentre possiamo percepire fisicamente lo spazio, il tempo non lo possiamo vedere o toccare e dunque, per cercare di afferrarne la complessità, dobbiamo basarci su qualcosa di concreto.
Haspelmath (1997) ha mostrato come, tra le lingue, le espressioni temporali siano spesso codificate attraverso espressioni in origine spaziali. Si confrontino gli esempi:
(19)
a. spazio la catena montuosa si estende tra la Valle d’Aosta e il Piemonte
b. tempo i ragazzi torneranno tra un paio di mesi
(20)
a. spazio si è diretto verso l’edificio
b. tempo arriveremo verso le tre.
Benveniste, Émile (1959), Les relations de temps dans le verbe français, «Bulletin de la Société de Linguistique» 54, pp. 46-68.
Bertinetto, Pier Marco (1991), Il verbo, in Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di L. Renzi, G. Salvi & A. Cardinaletti, 1988-1995, 3 voll., vol. 2º (I sintagmi verbale, aggettivale, avverbiale. La subordinazione), pp. 13-161.
Haspelmath, Martin (1997), From space to time. Temporal adverbials in the world’s languages, München - Newcastle, Lincom Europa.
Klein, Wolfgang (2009), How time is encoded, in The expression of time, edited by W. Klein & P. Li, Berlin - New York, Mouton de Gruyter, pp. 39-82.
Lakoff, George & Johnson, Mark (1980), Metaphors we live by, Chicago - London, The University of Chicago Press (trad. it. Metafora e vita quotidiana, Milano, Bompiani, 1998).
Rohlfs, Gerhard (1969), Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Sintassi e formazione delle parole, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 3º (Sintassi e formazione delle parole) (1a ed. Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten, Bern, Francke, 1949-1954, 3 voll., vol. 3º, Syntax und Wortbildung).
Schwarze, Christoph (1990), I tempi verbali dell’italiano come sistema funzionale, concettuale e formale, in La temporalità nell’acquisizione di lingue seconde. Atti del convegno internazionale (Pavia, 28-30 ottobre 1988), a cura di G. Bernini & A. Giacalone Ramat, Milano, Franco Angeli, pp. 311-329.
Simone, Raffaele (1993), Stabilità e instabilità nei caratteri originali dell’italiano, in Introduzione all’italiano contemporaneo. Struttura e variazioni, a cura di A.A. Sobrero, Roma - Bari, Laterza, 2 voll., vol. 1° (Le strutture), pp. 41-100.
Weinrich, Harald (20042), Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, il Mulino (ed. orig. Tempus. Besprochene und erzählte Welt, Stuttgart, Kohlhammer, 1964).