Espressioni d'arte: i principali monumenti architettonici
Con l'elezione a duca di Agnello Parteciaco si ha il trasferimento definitivo della sede del potere da Malamocco a Rialto, e propriamente nell'area di parte dell'attuale palazzo ducale. Ora la zona di Rialto appare piuttosto lontana dal centro politico San Marco-palazzo ducale, ma, seppur in una visione piuttosto schematica, credo si possa rilevare che con il termine Rialto, nel IX secolo, si debba intendere press'a poco l'attuale sestiere di San Marco con una piccola aggiunta verso est nel sestiere di Castello. Quest'ultimo prende nome dal castello che doveva esistere ad Olivolo, nell'area dove successivamente si costruirà l'arsenale. Quando si effettuò il trasferimento a Rialto della sede ducale, da circa cinquant'anni era stato fondato il primo episcopato autenticamente veneziano con sede ad Olivolo, pertanto nell'area di un castello probabilmente già esistente: non è invece assolutamente chiaro quale fosse la chiesa episcopale, poiché il San Pietro in Castello, cattedrale di Venezia fino agli inizi del sec. XIX, fu costruita nell'isola, in prossimità del Castello, successivamente al trasferimento della sede ducale a Rialto.
È probabile, inoltre, che un castello fosse già stato costruito nell'area del palazzo ducale e che Agnello Parteciaco abbia costruito il suo palazzo ducale entro la struttura preesistente del castello. Avremmo così un sistema difensivo, da datare ad età precedente alla scelta di Agnello, imperniato su due castelli, quello di Olivolo, nel quale o presso il quale si era insediata l'autorità vescovile, e il secondo nel quale, successivamente, si era costituita l'autorità ducale.
L'insediamento di Agnello nella nuova sede comporta uno sviluppo urbano con fatti emergenti, quali le strutture di chiese e di monasteri: ma è da dire subito che i resti archeologici di monumenti architettonici risalenti ai secoli IX e X sono o totalmente assenti o di scarsa rilevanza, ragione per cui è possibile soltanto suggerire ipotesi di lavoro, puntando sulla tipologia e su notizie storiche, che però spesso sono scarsamente significative per la ricostruzione della struttura architettonica.
Prendo in considerazione, oltre al palazzo ducale, alcune delle fondazioni dei Parteciaci, come S. Ilario e il monastero di S. Zaccaria che furono costituiti in una forma di esenzione dal potere patriarcale e vescovile, e ovviamente la prima basilica marciana con il suo ipotetico precedente, nella funzione ducale, di S. Teodoro.
In terraferma, in prossimità della laguna, nella zona intorno all'odierna Fusina, i Parteciaci avevano estese proprietà terriere: secondo alcune fonti quivi nel 784 Agnello Parteciaco avrebbe fondato una cappella ducale, notizia certamente errata almeno per quanto riguarda l'aggettivo "ducale", infatti Agnello divenne duca soltanto agli inizi del secondo decennio del IX secolo. È in ogni caso documentata l'esistenza di tale cappella nell'819, quando Agnello e suo figlio Giustiniano decisero di concederla ai monaci benedettini di S. Servolo, insieme con notevoli proprietà terriere (1). In occasione, anzi in previsione, di detto trasferimento, si dovette procedere alla ristrutturazione dell'esistente o, forse più esattamente, all'ampliamento delle strutture edilizie, appunto perché esse fossero idonee ad accogliere la comunità benedettina. Tali lavori non erano stati ancora portati a termine dieci anni dopo: infatti Giustiniano Parteciaco, nel suo testamento dell'829, tra l'altro, decideva che le pietre che egli aveva a Jesolo (Equilo) fossero usate per il completamento del monastero di S. Ilario (2).
Per la prima volta nell'883 (3) Si fa riferimento a due chiese, di S. Ilario e di S. Benedetto con la precisazione geografica, anch'essa nuova e che poi si ripeterà quasi come un "topos ", in finibus Rivoaltensis iuxta fluvium Une. La presenza di queste due chiese è documentata per un tempo assai lungo: non vale infatti l'osservazione di Marzemin (4) che la costruzione di una grande unica chiesa - come appare da un rilievo grafico, del quale tratterò tra poco - debba datarsi tra il 1110 e il 1136, in quanto in un documento del 1110 si citano ancora due chiese mentre in uno del 1136 si farebbe riferimento a una sola chiesa dei SS. Ilario e Benedetto. Tale conclusione di Marzemin è dovuta ad una erronea lettura documentaria di Gloria, infatti tale documento del 1136 cita, tra l'altro, Ugerio abate "delle chiese [ecclesiarum e non ecclesiam, come lesse Gloria> di Sant'Ilario e Benedetto" con la solita specificazione de partibus Venetie in finibus Rivowaltensi iuxta flucium Une. Pertanto si può concludere che i documenti conosciuti non sono di certo illuminanti per la storia delle vicende architettoniche del complesso monastico di S. Ilario, se non per la data di donazione della cappella di S. Ilario, già costruita evidentemente nell'819, ai monaci di S. Servolo, e per la testimonianza della presenza di due chiese a partire dall'883. Altre notizie documentarie ci informano che a partire dal sec. XI era cominciato un insediamento dei monaci di S. Ilario nel già esistente monastero di S. Gregorio, in Venezia; ma è soltanto intorno alla metà del sec. XIII, probabilmente a seguito delle incursioni di Ezzelino da Romano, che avviene il trasferimento ufficiale dell'abate e del capitolo nella sede veneziana di S. Gregorio. Fin qui ciò che è possibile reperire dai documenti storici.
E che cosa conosciamo dai resti archeologici?
Il complesso monastico di S. Ilario non esiste più: si conoscono soltanto resti di pavimenti musivi e di sculture (raccolti ora al Museo Archeologico di Venezia). Tra il 1875 e il 1883 si eseguirono alcuni scavi, i cui risultati sono stati pubblicati da Marzemin (5), ma precedentemente a lui venne alla luce la Raccolta di scritti ed atti uffiziali relativi agli escavi fatti e da farsi nel sito della celebre abazia di Sant'Ilario (6). Per uno studio dei risultati di tali scavi non c'è che la possibilità di prendere in considerazione la citata Raccolta e il testo di Marzemin che pubblica i rilievi di Eugenio Gidoni, che assistette agli scavi. Da ambedue i testi risulta chiara l'esistenza di una grande basilica tripartita in navate e triabsidata. La Raccolta non riporta relazioni di notevole interesse: mi sembra più rilevante, per la storia del complesso edilizio, il rilievo planimetrico della basilica e lo spaccato trasversale che delinea le scoperte fatte a seguito di scavi eseguiti sulla linea segnata AB nella pianta. Da tale spaccato risulta l'esistenza di tre pavimenti, il primo definito a terrazzo, un secondo, più profondo di cm. 42, definito anch'esso a terrazzo con l'aggiunta "bene eseguito": lo strato tra i due primi pavimenti è di "terra e muriccie": quindi, al di sotto di quest'ultimo di cm. 53 e mezzo si è scoperto un terzo pavimento, eseguito "a mosaico". Tra questi due pavimenti lo strato intermedio è di "ruderi di fabbriche distrutte". Al di sotto della sezione grafica sono rappresentati due schizzi relativi al pavimento a mosaico, il primo affine ad alcuni resti ilariani ora al Museo Archeologico di Venezia, il secondo invece del tutto diverso, tanto da dubitare della sua origine altomedievale (naturalmente se il frammento musivo è stato individuato in posizione stratigrafica analoga all'altro, si pone un problema difficilmente risolvibile).
Il rilievo planimetrico eseguito da Gidoni e pubblicato da Marzemin offre una soluzione dell'impianto della basilica analogo a questo appena esaminato, con l'aggiunta di un vano annesso alla basilica all'inizio del lato occidentale, e con la specificazione della presenza delle colonne che dividevano la basilica in tre navate, presenza documentata da una foto. Altra specificazione importante è data dalla segnatura del luogo di reperimento dei frammenti del pavimento musivo, che sono tre: il primo, il più esteso, nella cappella di sinistra ma che si estende oltre tali limiti fino alla base del campanile, un secondo circa a metà della basilica nella navata di sinistra e un terzo nella zona compresa tra l'abside centrale e quella di sinistra. Nella sezione stratigrafica aggiunta alla medesima planimetria, Gidoni ha riconosciuto quattro diversi livelli, l'ultimo dei quali, però, presente solo parzialmente nell'area della basilica, sviluppandosi tra questa e la base della torre o campanile, soprattutto nell'area della cappella laterale. Non si fa cenno invece delle scoperte citate nell'altra planimetria, in quanto il mosaico trovato sotto la navata di sinistra sembra essere posto più a sud della sezione AB dell'altra pianta, dove si sarebbero eseguiti gli scavi che hanno permesso di riconoscere i tre diversi strati citati precedentemente. Per concludere, le due testimonianze concordano nel riconoscere l'esistenza di tre strati, di cui il più antico a mosaico, nell'area della basilica e di un quarto strato nell'area della cappella laterale. La relazione del 25.4.1 874 (7) tra l'altro così afferma: "Negli scavi fatti si ravvisano gli orli dei pavimenti, gli uni agli altri soprapposti, tre nella chiesa e quattro nella cappella, con distanza tra l'inferiore e il superiore di circa settanta centimetri". Si apre a questo punto il problema delle misure: nelle due sezioni stratigrafiche le misure sono tra loro compatibili, in quanto la differenza tra il primo e il terzo pavimento è nella planimetria della Raccolta di m. 1,15, compresi lo spessore del primo e del terzo pavimento, mentre nel disegno Gidoni risulta di m. 1,04, perciò con una differenza di cm. 11, che potrebbe essere determinata dallo spessore non considerato del primo o del terzo pavimento o di tutti e due.
Invece più difficile da spiegare è l'osservazione fatta nella relazione del 1874, nella quale si definisce la distanza tra i pavimenti trovati in circa 70 centimetri. Questa indicata nella relazione è una distanza tra i vari pavimenti che non ha alcuna corrispondenza con la realtà come questa ci viene offerta dai rilievi. La distanza di circa cm. 70 potrebbe riferirsi a quella tra il secondo pavimento a terrazzo, cioè il più antico della basilica, e uno dei due pavimenti musivi, trovati anche al di fuori dell'area della basilica e pertanto da riferirsi a struttura edilizia precedente.
I quattro frammenti musivi provenienti da S. Ilario, ora al Museo Archeologico di Venezia, non si presentano come elementi chiarificatori della struttura per la quale furono eseguiti, anche per il motivo che non solo non conosciamo la loro collocazione originaria, ma nemmeno da quale area, delle tre indicate da Gidoni, siano stati recuperati. Poiché stilisticamente i mosaici possono essere attribuiti al sec. IX, si può giungere a un primo punto fermo: che essi siano da attribuire alla cappella ducale, che sappiamo esistente nell'819 e che, se nacque come "ducale", poté essere costruita dopo l'inizio del primo decennio dello stesso secolo. È possibile che tale cappella fosse situata nell'area compresa tra la torre e la navata di sinistra della successiva basilica, cioè dove si è scoperta l'estensione maggiore di pavimento musivo. Marzemin sostiene che la fondazione della torre "non può certo essere posteriore alla fondazione della Cappella Ducale: e in prova di ciò si ha il fatto che il suddetto pavimento a mosaico di quella terminava contro le fondazioni stesse, in guisa che la muraglia della torre faceva per un tratto da parete interna della cappella stessa" (8).
Se veramente il mosaico terminava, verso est, "contro le fondazioni" della torre, si dovrebbe aver conosciuto se il frammento terminale rappresentava una cornice, dato che si può presumere che tutto il pavimento musivo avesse al suo limite esterno una sorta di cornice, documentata anche in due frammenti dell'Archeologico. Questo purtroppo non lo si sa. I dati obbiettivi sono così scarsi, per non dire inesistenti, che si possono suggerire ipotesi diverse, ugualmente sostenibili. L'area pavimentata a mosaico, che sarebbe parte della cappella ducale, appare sì assai prossima al muro est della torre, ma supera il muro sud della stessa, il che significa che se la torre faceva da facciata alla cappella ducale - ammesso l'orientamento tradizionale est-ovest - o meglio di parte di facciata, dato che l'area musiva andava oltre il limite della torre, si dovrebbe ipotizzare l'esistenza di una sorta di Westwerk, che sembrerebbe però in questo caso ridotto a una sola torre. Alla possibilità che la torre sia successiva alla cappella ducale sembrerebbe ostare l'osservazione che per scavare le fondamenta si sarebbe dovuto aprire una fossa molto più estesa della base della torre stessa, e ciò avrebbe comportato la distruzione del mosaico in prossimità della medesima, mosaico che invece sembra ci fosse. Contro questa possibilità interpretativa, però, sta il campanile di Aquileia eretto nel sec. XI nell'area dell'aula settentrionale del IV sec.: la sua costruzione in essa non determinò la rovina del mosaico circostante, ancora oggi esistente.
Sulla testimonianza di Marzemin (9) dobbiamo ritenere i mosaici orientati analogamente alla torre. Tali mosaici, così frammentari, non permettono una ricostruzione plausibile del pavimento nel suo complesso: è da dire però che due di essi presentano analogie iconografiche e stilistiche abbastanza strette e anche tratti di una identica cornice; il terzo potrebbe avere un andamento curvilineo, il che potrebbe far pensare alla decorazione di un'abside, ma non è da scartare l'ipotesi che si tratti della parte centrale di un riquadro, che spesso era ad andamento circolare; il quarto presenta invece un'iconografia completamente diversa, tanto che si potrebbe pensare al pavimento di un altro edificio.
Sulla base delle poche notizie documentarie e dei risultati degli scavi condotti con scarso rigore scientifico come testimoniato da Gidoni (10), si potrebbe suggerire questa ipotetica cronologia: agli inizi del secondo decennio del sec. IX Agnello Parteciaco costruì una cappella ducale nelle terre dei suoi ricchi possedimenti. Nell'819 si decise la cessione della cappella con alcune proprietà ai Benedettini di S. Servolo: si iniziarono i lavori di adattamento alla nuova funzione, lavori non ancora terminati un decennio dopo (11). Questa prima cappella fu costruita probabilmente nell'area compresa successivamente tra la torre e la navata di sinistra, parte meridionale, della basilica triabsidata. Del pavimento di questo edificio potrebbero essere i tre frammenti musivi, tra loro simili. Come fosse questo edificio non è possibile dire, escludo però che si possa riconoscerlo nella cappella segnata nella planimetria di Gidoni, in prossimità dell'entrata, parte sinistra, della basilica, in quanto l'area pavimentata a mosaico appare più estesa di questa cappella. Oltre al monastero, di cui per altro non si conosce nulla, i monaci dovettero costruire una seconda chiesa, dedicata a s. Benedetto: le due chiese di S. Ilario e di S. Benedetto sono documentate a partire dall'883. Potrebbero far parte del pavimento di questa seconda chiesa i frammenti scoperti sotto la navata di sinistra, circa a metà dell'edificio, e all'altezza del muro divisorio delle due absidi centrale e di sinistra, perché nello schema stratigrafico pubblicato nella Raccolta si accenna all'esistenza di un solo pavimento a mosaico all'interno della basilica, il quarto strato sarebbe presente soltanto nell'area della cappella ducale. Il che potrebbe significare quanto segue: i monaci si insediano nel nuovo monastero e usufruiscono come loro chiesa della cappella ducale, successivamente essi sentono la necessità di costruire una chiesa forse più idonea alle necessità liturgiche o rituali o soltanto più grande. In questa occasione rifanno anche il pavimento della cappella ducale. Che la torre appartenga alla fase della cappella ducale mi sembra difficile ipotizzarlo. Si tenga conto delle sue misure: m. 10,30 per 8,40. Una costruzione dunque possente, che sembra possa non riferirsi a un edificio come la cappella ducale, che non doveva essere molto estesa. Che la cappella ducale sia riconosciuta ancora come tale almeno fino a tutto il sec. X è comprovato dal fatto che essa è luogo di sepoltura di tre dogi appunto del sec. X (12).
La planimetria della grande chiesa triabsidata può rimandare a tipologie diffuse in area veneziana nel sec. XI, dal rifacimento orseoliano della cattedrale di S. Maria Madre di Dio di Torcello (primi anni del sec. XI) fino al S. Nicolò di Lido, degli inizi della seconda metà del secolo. Se si tiene conto che la fine del sec. X e soprattutto il sec. XI rappresentano un periodo di grande prestigio e potere economico e politico, non apparirà fuori luogo che si decida di rinnovare completamente la struttura delle chiese monastiche: si sarebbe distrutta per prima la chiesa di S. Benedetto, per costruire anche sulla sua area il nuovo edificio, secondo un nuovo orientamento, che potesse successivamente - ma nella stessa idea progettuale - comprendere anche la vecchia cappella ducale. Un volta terminata e resa officiatile la nuova chiesa - che mantenne il titolo di S. Benedetto - si sarebbe proceduto alla ricostruzione, in area più limitata, della vecchia cappella ducale, individuabile nel vano a pianta rettangolare, all'esterno dell'inizio della navata di sinistra. Più che una cappella della chiesa, sembra una costruzione a sé stante, con entrata sì dalla chiesa ma anche con una dal l'esterno, mantenendo la vecchia dedicazione a s. Ilario: il che giustificherebbe la documentata presenza di due chiese, di S. Ilario e di S. Benedetto, ancora nel sec. XII. La grande chiesa dovette subire danni notevoli nel sec. XIII (e ciò avrebbe indotto i monaci al trasferimento dell'abbaziato e del Capitolo nel monastero di S. Gregorio di Venezia) se un testamento del 1247 concedeva un lascito "di cento lire di denari veneziani, destinati all'esclusiva riedificazione dell'illustre chiesa" (13). A questo rifacimento dovrebbe risalire il primo, cioè più recente, pavimento a terrazzo, rinvenuto negli scavi del secolo scorso. Rimane ancora aperto il problema relativo alla costruzione della torre: gli elementi a disposizione sono talmente scarsi che è difficile suggerire ipotesi plausibili; forse, su base storica, si potrebbe pensare a una struttura difensiva in occasione degli attacchi degli Ungheri (fine sec. IX).
Ho preferito, in questo caso, trattare le varie vicende architettoniche del complesso ilariano, andando molto al di là dei limiti imposti a questo paragrafo, relativo all'età dei Parteciaci. Ma la difficoltà di un discorso che poggia su così labili per non dire inconsistenti basi mi ha indotto a un esame di tutto ciò che è emerso dagli scavi del secolo scorso. È opportuno, ora, riprendere l'argomento relativo ai Parteciaci ripetendo che una delle loro prime fondazioni dovette essere proprio la cappella ducale di S. Ilario: di cui, come ho notato, non si possiede nulla. È però senz'altro importante storicamente rilevare che il duca Agnello fonda una sua cappella (una Eigenkirche) lontano dal luogo ove aveva stabilito la sua sede (il palazzo ducale), in terraferma, nell'ambito delle sue proprietà che erano lì molto estese, simbolicamente, forse, per affermare l'origine prima del suo potere, quasi con una mentalità più occidentale, prefeudale, che bizantina.
Che il palazzo ducale sia una fondazione parteciaca è tradizione legata alla testimonianza di Giovanni diacono. Egli afferma che i Veneziani decisero il trasferimento della sede del ducato nell'isola di Rialto ed elessero duca Agnello, qui palatii hucusque manentis fuerat fabricator (14). Non si conoscono notizie relative alla costruzione.
L'attuale palazzo rivela alcune strutture murarie che sono del tutto diverse dal contesto in cui si trovano. Già nel secolo scorso Galli (15) aveva individuato due tratti di muraglia, all'altezza della settima e della nona colonna a partire da quella angolare del molo: la muraglia "è composta di due faccie in pietra viva, riempite di sassi e di mattoni gettativi ad opera incerta" (16) e "da massi informi di macigni, tolti ai colli Euganei, sovrapposti ad opera incerta ma regolare" (17). Dorigo osserva: "Il taglio di una porta operato nel 1962 consente di precisare che fra le due facce sono collocate, non gettate pietre minori annegate nel cemento" (18). Ancora: la struttura dell'attuale angolo sud-ovest della basilica di San Marco, dove ora v'è il tesoro e la muraglia tra la porta della Carta e l'arco Foscari, sono altri resti di una costruzione più antica, riusati nell'ultima edizione.
È possibile che la struttura che contiene ora il tesoro marciano sia parte di una torre angolare (nord-ovest) e che le muraglie trovate tra la settima e la nona colonna siano la base di un'altra torre (angolo sud-ovest del castello). E documentata una terza torre, quella orientale (19).
Come punto di riferimento si è assunto il palazzo di Diocleziano di Spalato: esso è stato considerato il modello per quest'altro veneziano, quanto a tipologia, non certo per le dimensioni, che sono di gran lunga diverse, essendo assai maggiore il dioclezianeo. L'edificio veneziano sarebbe stato, dunque, a base quadrangolare, con torri, e sarebbe risultato circondato dalle acque, in quanto sul lato meridionale sarebbe stato lambito dalla laguna e sugli altri tre lati da canali. Ma questo castello di Rialto fu costruzione di Agnello Parteciaco, come ricorda Giovanni diacono? Non si può escludere la possibilità che si tratti di una costruzione più antica: la tecnica rilevabile nelle strutture esistenti potrebbe risalire anche al tardoantico, e pure allo stesso palazzo di Diocleziano (20).
Ma allora come si può giustificare l'affermazione del cronista veneziano? Una possibile spiegazione è quella suggerita da Dorigo: Agnello avrebbe costruito il palatium nell'ambito del già esistente castellum (21). La proposta di Dorigo permette di eliminare la contraddizione sorta tra i pochi e incerti dati storici da una parte (la fondazione del palazzo da parte di Agnello, secondo Giovanni diacono) e archeologici dall'altra (i resti delle strutture murarie che sembrano datare ad età anteriore ai Parteciaci). Non so fino a che punto sia accettabile filologicamente la proposta di Dorigo: se cioè nel IX sec. sia chiara la distinzione tra "palatium" e "castellum ", tenendo soprattutto conto che proprio il supposto, anche per Dorigo, modello del castello veneziano è il palazzo di Diocleziano di Spalato, il quale si chiama tradizionalmente "palazzo" ma ha la tipologia di un castrum, però con circa la metà della sua struttura riservata agli appartamenti imperiali: pertanto se la definizione di palazzo data al castrum voluto da Diocleziano nei pressi di Salona, nel luogo dove solo successivamente nascerà una struttura urbana, quella di Spalato appunto, è documentata anche in epoca antica, l'aver assunto come modello la tipologia di tale palazzo potrebbe aver indotto alla scelta anche del nome "palazzo" per l'edificio costruito sulla riva della laguna a Rialto. D'altronde credo che intorno all'inizio del secondo decennio del sec. IX, quando avviene il trasferimento della sede del ducato da Malamocco a Rialto, quivi non c'era ancora stato alcun fenomeno di "inurbamento".
Che cosa indusse dunque i Parteciaci a cambiar sede? La risposta tocca agli storici: io posso soltanto arrischiare di suggerire qualche possibilità interpretativa. La nomina di Agnello è segno della vittoria degli "eracliani" filobizantini, pertanto che si voglia cambiar pagina anche con un trasferimento di sede ducale è ipotesi possibile: e a Rialto perché indubbiamente luogo più centrale rispetto a Malamocco, con un occhio di riguardo verso la terraferma dove il Parteciaco aveva, come si è visto trattando di S. Ilario, notevoli proprietà terriere, e in un posto strategicamente significativo, di fronte al principale passaggio al mare e all'imboccatura del Canal Grande. E dato questo significativo rilievo strategico non è impossibile che già precedentemente al trasferimento ci fosse una struttura difensiva cioè un castello: in questo caso Agnello vi si sarebbe insediato con quelle modifiche funzionali al nuovo uso, di qui il riconoscimento di "fondatore" attribuitogli dal cronista Giovanni; se invece il castello nel IX secolo non esisteva, si deve attribuire ad Agnello la nuova struttura edilizia.
Il fatto è che le strutture murarie antiche che conosciamo dell'odierno palazzo non sono così qualificanti per una distinzione cronologica tra VII o VIII o inizi del IX secolo, perché in qualsiasi caso si deve far riferimento a una tecnica tardoantica e, se si vuole, anche a un modello tardoantico: ma così lontani nel tempo che, per coerenza, si deve immaginare una continuità di gusto non necessariamente fermatasi alla fine del sec. VIII. In altre parole ritengo che non si possiedano, o meglio io non possiedo, elementi conoscitivi che permettano una distinzione cronologica tra strutture murarie o tecniche di tagliar la pietra tra VII, VIII e IX secolo a Venezia, anche perché questa distinzione sarebbe possibile ove ci fossero punti di riferimento precisi ed in qualche modo esemplari nella loro attribuzione cronologica: ma in questo caso l'unico riferimento possibile è quello al tardoantico, e poiché non abbiamo alcuna struttura edilizia in piedi che ci consenta di storicizzare tale riferimento, non ci rimane che affermare, per quanto riguarda il primo palazzo ducale, che poteva essere una struttura modellata sul "palazzo" di Spalato, e databile, per la conoscenza che si ha dei resti architettonici, sia al VII, sia all'VIII sia al IX secolo. Il discorso tipologico non porta a risultati migliori: la tipologia "dioclezianea" non permette una qualificazione cronologica specifica, tenuto conto soprattutto della continuità tardoantica di Venezia. La notizia più antica risale a Giovanni diacono ed è quella citata all'inizio: non ci rimane che affermare la pluralità di possibilità interpretative ugualmente giustificabili. Per conto mio, avanzerei l'ipotesi che il castello fosse già esistente al tempo di Agnello per queste ragioni: il processo di urbanizzazione di questa zona a me appare successivo all'insediamento del potere ducale, secondo modalità in parte storicizzabili, che vedremo più avanti; la non esistenza di un castello in un punto così importante per l'intera regione lagunare mi appare del tutto singolare, perciò che Agnello abbia scelto un "deserto" è assai poco plausibile. Per queste labili ragioni concordo, in ultima analisi, con l'interpretazione di Dorigo, che Agnello abbia fondato il palazzo, e che tale fondazione sia consistita nella ristrutturazione del precedente castello.
La tradizione vuole che San Zaccaria sia stato fondato da Magno, vescovo di Oderzo. Esiste un documento secondo il quale il monastero di monache benedettine di S. Zaccaria era stato fondato da Giustiniano, ipato imperiale e duca di Venezia, per ordine e con sovvenzione finanziaria dell'imperatore bizantino Leone, il quale avrebbe concesso ai veneziani le reliquie di san Zaccaria, insieme con tante altre. Tale documento è stato ritenuto da Cessi un falso, pur di data antica (22). Ma che il monastero di San Zaccaria sia una fondazione di Giustiniano Parteciaco è testimoniato dal già citato suo testamento (23): nell'829, dunque, tale monastero era già costruito. Fu un monastero di monache benedettine che ebbe notevole rilevanza in età medievale. Purtroppo però è assai difficile ricostruire la sua struttura originaria (24): unici resti, probabilmente del IX secolo appunto, un frammento di mosaico esistente a un livello più basso del pavimento dell'attuale cappella di S. Tarasio e, forse, un breve tratto di muro. Pertanto, per quanto riguarda l'Alto Medioevo, la rilevanza del monastero di S. Zaccaria è più nelle poche notizie che abbiamo, che nella sua struttura edilizia, il cui significato figurativo in pratica ci sfugge.
Che la chiesa di S. Teodoro sia esistita in prossimità della basilica marciana, è un dato di fatto documentato nel sec. X.
Una sua esistenza precedente è possibile ammetterla, ma non è documentata, perché non ritengo prova certa quella offerta dal documento dell'819 (25).
Problematico è il tentativo di una sua ideale ricostruzione; ma, in verità, addirittura l'individuazione del luogo preciso della sua costruzione non è del tutto certa.
Ultimamente Dorigo (26) ha ripreso, rielaborandola con nuove proposte, la vecchia ipotesi che parte della chiesa di S. Teodoro sia presente nella struttura contariniana della basilica marciana.
Egli ritiene che i muri che attualmente delimitano verso sud, est ed ovest la cappella di S. Isidoro, i due pilastri con l'arcone verso nord della stessa cappella, il muro ovest della cappella dei Mascoli e il vano ad est della cappella di S. Isidoro siano i resti della parte meridionale della chiesa di S. Teodoro, che egli ipotizza fosse a pianta a croce inscritta, con al centro una grande cupola, cioè la cuba delle cronache antiche, che la ricordano con l'iscrizione tam ad honorem ducis quam olivolensis episcopi (27).
Un punto di riferimento importante per questa ipotesi è la scoperta di cui dà notizia Giovanni Saccardo (28): nel muro, che ha uno spessore di m. 1,40, che ora divide la cappella di S. Isidoro dal braccio settentrionale del transetto della basilica marciana, si è trovata, sotto le lastre marmoree, una finestra di cm. 60 x 70, all'altezza del pavimento di circa m. 2,80. Questa finestra è con sguanci che "divergono verso S. Isidoro" e con un'inferriata a cm. 20 dal limite del muro verso il transetto.
Saccardo concluse che questo muro doveva essere più antico del resto delle strutture della basilica e che il lato verso il transetto si presentava come la faccia esterna dell'edificio di cui faceva parte: "conferma quest'opinione lo stato della muraglia verso la chiesa, che [...> presentò tutti i caratteri di aver guardato all'esterno per lungo tempo" (29). E questo edificio sarebbe la vecchia chiesa di S. Teodoro, che, da Dorigo, come appena osservato, è stata ricostruita con pianta a croce inscritta, con cupola centrale: dunque un edificio che rimanda a tipologie di origine bizantina, una iscrizione che accomuna l'autorità politica con quella vescovile, secondo modalità anch'esse di tradizione bizantina.
Questo "bizantinismo" induce Dorigo a ritenere la chiesa fondata nell'ambito della politica appunto filobizantina del ducato, nel secondo decennio del sec. IX, come cappella ducale e insieme chiesa vescovile.
Ma non mancano dubbi sull'interpretazione suggerita da Dorigo. Prima di tutto l'esistenza di questo edificio nell'819 non è documentata, anche se questa data è sostenuta da numerosi storici e paleografi, a cominciare dal Gloria. E sulla testimonianza dell'Origo che si riconoscono l'esistenza della chiesa di S. Teodoro nel sec. IX e la sua funzione di cappella ducale, non sul documento dell'819, che attesta soltanto l'esistenza del "primicerio della nostra cappella", e poiché quell'aggettivo possessivo "nostra" si riferisce ai duchi, si deve necessariamente pensare ad una cappella ducale, ma che questa debba essere S. Teodoro non è scritto in nessuna parte del documento stesso (30). Così come non si fa cenno alla stessa chiesa, in un altro fondamentale documento degli anni compresi tra il secondo e il terzo decennio del IX secolo: il testamento, dell'829, del duca Giustiniano Parteciaco. Questa assenza non prova ovviamente nulla, ma è certo che appare strano che non vi sia nemmeno un accenno a questo edificio "ducale" nel momento in cui si danno le disposizioni per la costruzione della basilica marciana che si sarebbe dovuta costruire proprio lì accanto.
E le prove "archeologiche"? Il muro che attualmente divide il transetto settentrionale (di sinistra) dalla cappella di S. Isidoro ha, sotto i marmi, una finestra rettangolare con sguanci verso la cappella, ad un'altezza dal pavimento di circa m. 2,80; inoltre la faccia verso il transetto di questo muro appariva come se fosse stata per lungo tempo la parete esterna dell'edificio di cui faceva parte. Questo essere stata parete esterna in verità non è provato, è solo affermato, pertanto non ci sono elementi per accettare o respingere questa ipotesi. Infatti Giovanni Saccardo fu alquanto generico, affermando che quel muro "presentò tutti i caratteri di aver guardato all'esterno per lungo tempo" (31). Raffaele Cattaneo vide questo muro, spogliato dei marmi, e così lo descrisse: " [La muraglia> mostrò la sua nuda faccia in mattoni annerita dalle intemperie e aperta, all'altezza di metri 2,80 dal pavimento, da una finestrella rettangolare di centim. 70 per 60 di luce, incorniciata di pietra viva e intrarotta da una inferriata a bastoni incrociantisi, legati da archi di ferro ingegnosamente ripiegati" (32).
Dunque il muro divisorio tra S. Isidoro e il transetto avrebbe la faccia meridionale annerita dalle intemperie e pertanto è da considerare che sia stato l'esterno di un edificio. Non ritengo che il discorso di Cattaneo sia convincente: la presenza del "nero" sulla parete può essere motivata in altri modi. Qualche altra possibilità è lecita anche perché non si conosce che tipo di nero si è trovato sulla parete. Rimane il fatto della presenza della finestra rettangolare, con sguanci verso S. Isidoro, il che ha fatto presumere che questo muro sia anteriore al resto dell'edificio in cui si trova ora. Si consideri che il muro nord della cappella dei Mascoli, che, secondo Dorigo, avrebbe dovuto segnare insieme con l'orientale della stessa cappella (o con l'occidentale della cappella di S. Isidoro) uno degli angoli morti della croce inscritta, è molto più sottile degli altri: ha lo spessore di circa cm. 40, rispetto al m. 1,40 degli altri muri; mentre il muro settentrionale della cappella di S. Isidoro, quello che dà all'esterno, dove si è sistemata nel secolo scorso la tomba di Daniele Manin, ha lo spessore degli altri, cioè di m. 1,40 circa, e ha due finestre rettangolari, che solo all'esterno appaiono risistemate in occasione dei lavori del sec. XIX, mentre con i loro profondi sguanci non possono non essere contemporanee ai muri stessi. E qui non sarebbe dovuto essere presente alcun muro, nel supposto edificio teodoriano, secondo l'ipotesi di Dorigo. D'altronde è ben noto che le due cappelle di S. Isidoro e dei Mascoli non sono nate come tali, bensì sono state costruite come vani, adibiti successivamente a cappelle. Pertanto non fa meraviglia che il vano, ora cappella di S. Isidoro, avesse delle finestre non solo verso l'esterno ma anche verso l'interno, e finestre tra loro simili, che si aprivano in muri messi pure affini tra loro, mentre la parete settentrionale dell'attuale cappella dei Mascoli ha un muro molto leggero perché è di tamponamento, al posto di una soluzione progettata diversamente: non poteva qui aprirsi la porta settentrionale della basilica quando ancora non era stata aperta quella che dà sul braccio settentrionale dell'atrio, perché questo braccio ancora non esisteva? E questa un'ipotesi suggeritami da Fulvio Zuliani e mi sembra che si presenti come una concreta possibilità. D'altronde non è questa un'ipotesi nuova, dato che la si legge in un vecchio testo di Pietro Saccardo, da poco tempo ripubblicato; infatti trattando della cappella di S. Isidoro così egli si esprimeva: "La cappella aveva un tempo un uscio che dava all'esterno sotto l'androne e che fu chiuso nel 1430 quando l'androne fu ridotto a sacello dedicato alla Vergine col titolo di cappella Nova, detta più tardi della Madonna dei Mascoli" (33).
Vi possono essere dunque altre interpretazioni dei dati tecnici fornitici da Giovanni Saccardo e da Cattaneo, rispetto alla loro stessa lettura o a quella recente di Dorigo: il problema di S. Teodoro può, forse, ancora considerarsi aperto.
Il duca Giustiniano Parteciaco, nel suo testamento dell'829 (34), commissionava a sua moglie la realizzazione di una basilica in onore di san Marco, da costruire nel territorio di S. Zaccaria.
È probabile che la vedova abbia eseguito la volontà del duca subito dopo la morte di lui: dunque già nell'829 si potrebbe fissare la data di inizio della costruzione marciana.
Questo, del testamento, è l'atto formale di commissione: ma per coglierne il significato politico si deve fare riferimento a due episodi precedenti: al sinodo di Mantova dell'827 e al trafugamento del corpo di san Marco da Alessandria (dell'828).
Il sinodo di Mantova fu convocato su pressione del patriarca di Aquileia Massenzio, che mirava alla riunificazione dei due patriarcati, quello di Aquileia e quello di Grado, ovviamente nel suo: Grado sarebbe dovuta essere una plebs di Aquileia. E le decisioni finali del sinodo mantovano furono a favore di Massenzio. Se tali decisioni fossero diventate operative, la chiesa di Grado sarebbe scomparsa come sede metro-politica e pertanto tutta la chiesa veneziana sarebbe stata gerarchicamente sottomessa al patriarca di Aquileia e pertanto all'Impero d'Occidente, in quanto il patriarca di Aquileia era strettamente legato alla corte carolingia. Nei documenti del sinodo (35) appare chiaro che è san Marco evangelista il fondatore della chiesa aquileiese, su mandato di san Pietro.
L'opposizione di Venezia alle decisioni sinodali si realizzò con il trafugamento del corpo dell'evangelista da Alessandria e con la nascita del mito marciano, che successivamente avrà con la praedestinatio o vaticinatio (cioè con il sogno di san Marco che il suo corpo avrebbe avuto definitiva dimora in terra lagunare) la sua ideale conclusione. L'operazione del trafugamento fu scelta politica: il corpo del santo venne depositato nel palazzo ducale e fu il duca, Giustiniano, che, non avendo potuto realizzare di persona la costruzione della nuova basilica, diede mandato alla moglie di concretare questo suo progetto, suggerendo anche che si dovevano utilizzare le pietre di Equilo che non fossero servite per il completamento del monastero di S. Ilario, e quelle della casa di Teofilatto di Torcello.
Dunque la basilica marciana nacque su commissione del potere politico nell'829: d'altronde è ben noto che essa fu la chiesa del duca e dello stato veneziano; divenne cattedrale della città qualche anno dopo la fine della Serenissima Repubblica, agli inizi del secolo scorso.
La basilica marciana subì un grande incendio nel 976 e fu poi ricostruita nella seconda metà del sec. XI.
Per l'edificio del IX secolo si sono offerte diverse possibilità di ricostruzione ideale. Dopo un primo tentativo di Pietro Selvatico, verso la fine del secolo scorso Raffaele Cattaneo suggerì l'ipotesi che la primitiva chiesa di San Marco fosse a pianta basilicale, a tre navate, secondo lo schema ravennate (36). Si può dire che, in linea di massima, questa ipotesi fu l'unica fino alla metà di questo secolo, quando Ferdinando Forlati, sulla base di scavi effettuati all'interno della basilica, giunse a queste conclusioni: non rinvenne resti di fondamenta dei muri laterali della supposta basilica ravennate, scoperse invece che le fondamenta di due pilastri meridionali della basilica attuale (la contariniana, della seconda metà del secolo XI) presentano pietre databili al IX secolo, ragione per cui ipotizzò che la basilica del IX secolo fosse a pianta a croce con cupole e concluse che la pianta della basilica contariniana avrebbe dovuto ricalcare quella parteciaca. La cripta, anzi, parte dell'attuale cripta, sarebbe struttura di questo edificio del IX secolo (37).
Un'altra ipotesi è stata recentemente suggerita da Dorigo (38); la riassumo nei suoi termini principali: la cripta di San Marco non sarebbe nata come tale, bensì la sua struttura di fondo corrisponderebbe all'edificio del IX secolo, che sarebbe apparso dunque assai più piccolo dell'attuale, a pianta a croce con cupola centrale. Pertanto questo edificio sarebbe nato a un livello assai più basso rispetto a quello della basilica contariniana.
Insisto sul livello, perché a me sembra che proprio esso crei delle difficoltà alla validità dell'ipotesi di Dorigo. Se veramente la prima basilica marciana aveva il pavimento al livello dell'attuale cripta, si deve, per coerenza, ipotizzare allo stesso livello, almeno approssimativamente, il pavimento dell'attigua e già esistente, secondo Dorigo, chiesa di S. Teodoro, accanto alla quale si costruì la basilica marciana. Se il muro che ora divide il transetto della basilica dalla cappella di S. Isidoro in S. Marco è veramente parte di muro della chiesa di S. Teodoro, si deve immaginare che tale muro fosse molto più alto dell'attuale, in quanto sarebbe dovuto iniziare, come struttura in alzato, al livello del pavimento della cripta marciana: così la finestra del muro di S. Teodoro, che si trova a m. 2,80 dall'attuale pavimento, si sarebbe dovuta trovare ad un'altezza spropositata sulla parte alta di un muro altrettanto spropositato: il che mi crea seri dubbi sulla validità delle ipotesi di Dorigo.
Di recente anche Volker Herzner (39) ha presentato un'altra ipotesi. Egli parte dalla considerazione di Dorigo che la cripta e l'abside contariniana non abbiano lo stesso asse; però, mentre ciò aveva portato Dorigo - grazie anche ad altri elementi - ad individuare nella cripta la struttura di base della chiesa del IX secolo, le conclusioni di Herzner sono del tutto diverse. Egli nota una quasi perfetta assialità tra la cripta e il braccio occidentale dell'attuale chiesa, mentre tutto il transetto è coerente, dal punto di vista dell'assialità, con l'abside. Dalla concordanza assiale tra cripta (parteciaca) e braccio occidentale deriva la proposta che ambedue queste strutture architettoniche appartengano alla stessa fase di costruzioni e precisamente a quella parteciaca. A prova di ciò Herzner riprende la proposta di Demus (40) che il muro occidentale - cioè dell'attuale facciata della chiesa - sembra contenere parti della vecchia chiesa parteciaca, in quanto la nicchia dell'entrata principale in basilica rimanda a prototipi quali il c.d. Palazzo di Teodorico di Ravenna e l'entrata del duomo di Aquisgrana, cioè della cappella palatina di Carlo Magno. Ai lati di questa porta vi sono due piccole finestre, che danno luce alle scale che sono ricavate nello spessore del muro. Secondo Herzner questa struttura risale al tempo dei Parteciaci e pertanto anche le scale risalgono all'edificio del IX sec., e queste scale provano l'esistenza originaria delle tribune. Dalla parte opposta, ad oriente, la struttura doveva essere quella che aveva la sua proiezione nella cripta: pertanto tre absidi. Herzner a questo punto ha ricostruito la parte absidale e il braccio occidentale, gli manca di proporre la soluzione per il raccordo tra queste due zone. Egli esclude due possibilità: che i muri longitudinali del braccio occidentale continuassero fino alla zona presbiteriale e che alla fine del braccio occidentale si aprisse un transetto delle dimensioni dell'attuale. A questo punto non gli rimane che suggerire l'ipotesi dell'esistenza sì di un transetto, ma di dimensioni più limitate rispetto all'attuale, in quanto l'attuale ingloberebbe parte della chiesa di S. Teodoro e tale inglobamento non può essere avvenuto prima dell'XI secolo. Per concludere l'edificio parteciaco sarebbe stato una basilica a tre navate, con tribune, transetto, tre absidi e ampia cripta, secondo una tipologia, dunque, non molto diffusa (e approfondita, storicamente, dallo stesso Herzner).
In territorio lagunare esistono agli albori del IX secolo più sedi episcopali che sono il frutto di trasferimenti da centri più antichi. Il primo episcopato nato in terra lagunare fu quello di Olivolo, fondato intorno al 775-776. La fonte di questa notizia è Giovanni diacono, il quale ricorda che il duca Maurizio, nell'undicesimo anno del suo ducato, con il consenso del papa istituì un nuovo episcopato presso l'isola di Olivolo, ordinando vescovo un certo chierico di nome Obeliebato (41). È ben noto, e anch'io ho avuto modo di ricordarlo più volte, che la cattedrale di Olivolo fu S. Pietro in Castello, che, però, non fu fondata nell'VIII secolo in occasione dell'istituzione del vescovado, bensì nel IX, sulla fonte ancora di Giovanni diacono. Egli dapprima ci attesta che, press'a poco ai tempi in cui si cacciò dalla sua sede il patriarca di Grado, Fortunato, nominando al suo posto Giovanni abate di S. Servolo, "presso l'isola di Olivolo si cominciò ad edificare la chiesa di S. Pietro" (42), successivamente, ai tempi in cui Obelerio fu ucciso, "la chiesa di S. Pietro di Olivolo, la cui costruzione era durata nove anni, fu consacrata" (43). Si può dunque datare la consacrazione della chiesa ai primi anni del quarto decennio del sec. IX e a circa nove anni prima la fondazione della chiesa stessa. Una notizia più precisa ci viene offerta dal vescovo di Olivolo, Orso, che nel febbraio dell'853 dettava il suo testamento (44), nel quale tra l'altro si legge che fu lui a edificare dalle fondamenta la sua chiesa, che subito dopo specifica essere dedicata a s. Pietro apostolo. Orso divenne vescovo di Olivolo nell'822: pertanto la fondazione della nuova cattedrale può essere fissata intorno agli anni 822-823 e la consacrazione, come si è detto prima, ai primi anni del decennio seguente intorno all'83 1-32.
Dunque, le notizie più antiche, precedenti alla fondazione della cattedrale di S. Pietro, fanno riferimento al titolo olivolense, anche se talora si unisce la definizione di vescovo di Rivoalto. A questo proposito un esempio concreto viene offerto dal già citato atto di donazione di Agnello Parteciaco ai benedettini di S. Servolo della cappella di S. Ilario dell'819: esso menziona, subito dopo il patriarca di Grado Fortunato, Cristoforo "venerabile vescovo della chiesa di Olivolo"; più avanti, il duca ordina "ai patriarchi della sua sede di Grado e ai vescovi della sua sede di Rivoalto" di non interferire sul monastero (45). Tutto ciò permette di concludere che, anche prima della fondazione della cattedrale di S. Pietro, la sede episcopale doveva essere ad Olivolo e che Olivolo, pur essendo in zona decentrata rispetto alla sede ducale, era considerata in zona rivoaltina (il che non meraviglia se si pensa che anche S. Ilario sarà nella seconda metà del IX secolo considerata in zona rivoaltina) e che, quando si fa riferimento alla sede vescovile di Rivoalto, non si deve intendere tale sede come luogo di titolo vescovile: il titolo è di Olivolo. Se nel secondo quarto del secolo IX si costruisce e si consacra la nuova cattedrale di S. Pietro in Castello, poiché l'istituzione del vescovado di Olivolo risale agli anni 775-776, si deve ipotizzare l'esistenza di una precedente chiesa episcopale, che potrebbe essere quella dedicata ai ss. Sergio e Bacco, presso la quale o al posto della quale si sarebbe poi costruita la chiesa di S. Pietro. Della originaria cattedrale fatta costruire dal vescovo Orso nulla c'è rimasto, se non, forse, un piccolo frammento musivo, ora nella cappella Lando della stessa chiesa di S. Pietro in Castello (46).
Un problema che mi sembra gli storici non hanno affrontato, almeno in età recente, è quello dell'ubicazione della cattedrale di Olivolo, prima della fondazione di S. Pietro di Castello: ho accennato alla possibilità della sua esistenza nella chiesa dei SS. Sergio e Bacco, sempre ad Olivolo (secondo l'Origo il nome olivolo sarebbe derivato dall'albero di olivo che sarebbe esistito davanti alla porta della chiesa dei SS. Sergio e Bacco) (47).
Ma S. Teodoro fu anch'essa cattedrale? Ho già accennato al problema precedentemente. E stato Giovanni Saccardo lo studioso che ha portato il maggior contributo all'ipotesi che S. Teodoro sia stata anche cattedrale. Il punto di riferimento è il Chronicon Altinate, nel passo riguardante un fatto straordinario; Cristoforo, greco di nazione e fratello di Narsete, che risiedeva presso la chiesa di S. Moisè, fu consacrato vescovo. "Ma mentre interveniva alla messa solenne nella chiesa di S. Teodoro, al principio delle secrete fu invaso improvvisamente dal demonio, e venne colto da smanie, di modo che fu scacciato dalla sede episcopale, e ritornò alla sua chiesa di S. Moisè " (48).
Questo episodio sarebbe successo nell'822 (49) e confermerebbe il carattere vescovile della chiesa di S. Teodoro, e ciò sarebbe confermato da una cronaca del XV sec. che così si esprime: "Messer Orso Partizipazio vescovo, el qual aveva la sua chariega in la giexia de missier San Todaro, el dito vescovo con consentimento del conseio andò a star a San Piero Apostolo dito Chastel Holivolo" (50).
A mia conoscenza questo problema non è stato successivamente affrontato dagli storici, e nemmeno nell'ultimo studio dedicato alle Origini della Chiesa di Venezia (51) viene trattato questo argomento, che può essere affrontato soltanto da un punto di vista documentario, perché, come si è visto, dal punto di vista architettonico non si hanno punti di riferimento sicuri o, almeno, attendibili.
Dal punto di vista documentario, credo che si possa affermare che il titolo olivolense non è stato mai cambiato in altro, e anche quando si cita il vescovo di Rivoalto, s'intende il vescovo olivolense. Che costui abbia avuto la sua cattedra in S. Teodoro è, secondo me, del tutto infondato: perché mai ci fu trasferimento di titolo. Che per talune funzioni il vescovo abbia celebrato anche in S. Teodoro, come anche in altre chiese, è del tutto probabile. La supposta iscrizione "in onore sia del duca sia del vescovo di Olivolo" sta ad indicare, se ce ne fosse bisogno, che il titolo rimase sempre di Olivolo, che S. Teodoro non fu per questo cattedrale: l'iscrizione ricorda soltanto le due massime autorità civile e religiosa.
Il palazzo ducale, il monastero di S. Zaccaria, la basilica marciana, forse preceduta dalla vicina chiesa di S. Teodoro, sono i fatti emergenti del paesaggio urbano che si va delineando nell'area del centro del potere, diventando, in qualche modo, una sorta di polo urbanistico, attorno al quale va crescendo una struttura urbana.
Secondo Giovanni diacono (52) Pietro Tribuno (siamo negli anni tra la fine del IX e gli inizi del X sec.) fece costruire una città presso Rialto, e inoltre costruì un muro dal rio di Castello fino a S. Maria di Zobenigo completando il sistema di difesa, proprio di questo muro, con la deposizione di catene di ferro attraverso il Canal Grande, dalla stessa chiesa di S. Maria di Zobenigo fino alla chiesa di S. Gregorio. Questo impegno difensivo di Pietro Tribuno può essere connesso con il pericolo degli attacchi degli Ungheri, mentre la notizia della costruzione della città può essere correlata a quella, di poco precedente, che si riferisce al duca Orso (864-881), secondo la quale in Rialto gli uomini ebbero licenza di mettere a coltura le paludi e di costruire case verso est, cioè nella zona di Dorsoduro (53). La seconda metà del sec. IX sembra dunque essere caratterizzata da un processo di urbanizzazione della zona attorno al palazzo ducale-basilica marciana, e quell'affermazione di Giovanni diacono che Pietro Tribuno avrebbe fatto costruire una città presso Rialto, potrebbe significare, se letta in connessione con la frase seguente riferentesi alle mura, che la zona di Rialto, quella in prossimità del centro del potere, prese l'aspetto di città proprio grazie alle mura difensive. Si tratta però di verificare che estensione poteva aver avuto questa città: mentre per S. Maria di Zobenigo non ci sono difficoltà a riconoscerla nell'attuale S. Maria del Giglio, il problema è aperto per quanto riguarda l'individuazione del rio di Castello. Dal Monticolo (54) in poi quasi tutti gli storici hanno interpretato il castello come quello di Olivolo, pertanto, seguendo questa ipotesi, si dovrebbe immaginare un sistema difensivo di mura che va dall'attuale Arsenale fino a S. Maria del Giglio. Si deve, però, tener conto che esisteva alla fine del sec. IX, e da un certo tempo, anche il castello ducale: a me sembra che si possa interpretare come inizio del muro di città il rio di Castello sì, ma del castello ducale, cioè che Pietro Tribuno abbia costruito una città nel senso che racchiuse entro le mura la zona che già si era andata popolando - ovviamente con uno sviluppo edilizio - proprio nelle prossimità del castello-palazzo ducale, cioè dal castello stesso fino a S. Maria del Giglio (55).
Giovanni diacono riferisce della sommossa ordita contro Pietro IV Candiano (976) e, tra l'altro, c'informa che, non potendo i rivoltosi occupare il palazzo ducale, essi decisero di incendiare le case vicine, in modo che le fiamme potessero colpire il palazzo stesso. In questo modo non solo il palazzo s'incendiò ma anche le chiese di S. Marco, di S. Teodoro e di S. Maria di Zobenigo e ben trecento case presero fuoco (56). Pietro IV Candiano, sospinto dal calore del fuoco e dal fumo, tentò la fuga attraverso le porte dell'atrio di S. Marco, dove trovò i congiurati che lo uccisero, insieme con il figlioletto. Giovanni Gradonico portò i cadaveri del duca e di suo figlio nel monastero di S. Ilario. I cospiratori quindi si riunirono nella chiesa di S. Pietro, dove decisero di innalzare all'onore del ducato Pietro Orseolo, uomo "preclarum generositate et moribus" (57). Egli, tra gli altri impegni, si interessò di restaurare (redintegrare studuit), a sue spese, il palazzo ducale e la basilica di S. Marco (58).
Giovanni diacono visse alla corte del duca Pietro II Orseolo e pertanto fu conoscitore diretto, o per lo meno poté avere notizie di prima mano degli avvenimenti del ducato dell'ultimo quarto del sec. X: può pertanto, come uomo degli Orseolo, esprimere giudizi a vantaggio dei suoi duchi, ma non c'è motivo di negargli fiducia quando cita il fatto che ben trecento case avevano preso fuoco con l'incendio del palazzo ducale e delle chiese vicine di S. Marco, di S. Teodoro e di S. Maria di Zobenigo. Notizia che ci conferma l'ipotesi della definizione di un paesaggio urbano, delimitato da mura, a partire dalla fine del secolo precedente.
Ma la testimonianza di Giovanni diacono è preziosa anche per la storia della basilica marciana: Pietro I Orseolo "redintegrare studuit" la basilica. Osserva giustamente Demus che i termini redintegrare, redfichar, reparare, restaurare, compiere sembrano indicare che l'opera dell'Orseolo fu, più o meno, un restauro della chiesa originale e non una completa ricostruzione (reparavit ubi combusta erat) (59). Ed è assai probabile che si sia colta l'occasione per un rifacimento, si potrebbe dire un riammodernamento, dell'apparato decorativo della basilica stessa (60).
Un altro avvenimento importante, prima dello scadere del secolo, è la fondazione del monastero di S. Giorgio Maggiore. Il 20 dicembre 982 il duca Tribuno Memmo concede al monaco Giovanni Morosini la chiesa di S. Giorgio, "titolo che fu sempre della cappella del beato Marco, di pertinenza quindi del nostro [scil. del duca> palazzo" (61). Tale pertinenza ha indotto qualche storico a riconoscere in S. Giorgio Maggiore quel monasterium beati Georgii presso il quale serviva un prete, il Petrus peccator, che firmò l'atto di donazione ai monaci di S. Servolo della cappella di S. Ilario, dell'819 (62). Purtroppo anche del monastero di S. Giorgio Maggiore non si può dire nulla dal punto di vista della sua struttura edilizia medievale: i documenti ce ne illustrano le vicende, ma non certo quelle architettoniche.
Nel 1008, a seguito della morte di Valerio, vescovo di Altino, con sede a Torcello, fu nominato al suo posto Orso, figlio del duca Pietro II Orseolo, che, in occasione della consacrazione episcopale del figlio, volle ristrutturare la chiesa di S. Maria, ormai quasi fatiscente per l'età. Approssimativamente così Giovanni diacono conclude la sua cronaca (63): e che per S. Maria si debba intendere la basilica di Torcello è assai probabile proprio perché fu questa la chiesa cattedrale del vescovo Orso Orseolo. Costui fu poi nominato patriarca di Grado, e lasciò il suo posto di vescovo di Altino-Torcello al fratello Vitale.
La cattedrale di Torcello, dedicata a s. Maria Madre di Dio, fu fondata nel 639, come attesta la famosa iscrizione torcellana (64). Fu successivamente restaurata a più riprese; ma il rifacimento più importante fu appunto questo commissionato dal duca Pietro II nel 1008 e portato avanti soprattutto da Vitale, che pontificò fino a circa la metà del secolo XI.
L'attuale struttura della basilica risale appunto al sec. XI: quando si costruirono le due absidi laterali, si completò la cripta con la costruzione della cupoletta che esorbita sul piano del presbiterio, coperta dal syntronon che va datato alla stessa impresa, e si innalzò tutta la costruzione. È soprattutto l'apparato pittorico che induce ad alcune di queste conclusioni. Ad esempio la presenza di resti di una pittura murale sull'abside, datata agli inizi del sec. XI, induce a ritenere che l'innalzamento dell'abside sia dovuto a una variazione del progetto originario, avvenuta in itinere: cioè che, intorno al 1008, si siano iniziati i lavori con il vescovo Orso, secondo un progetto che prevedeva una ristrutturazione più limitata, e che poi, forse con il vescovo Vitale, si sia deciso di realizzare un progetto più grandioso, consistente nell'innalzamento di tutta la costruzione, perché è impensabile si volesse realizzare l'innalzamento della sola zona absidale. L'attribuzione al vescovo Vitale è suggerita dal fatto che la decorazione a mosaico va datata, ovviamente per coloro che accettano le proposte cronologiche di Demus, Andreescu e Furlan (65), alla metà del sec. XI, mentre la pittura murale va datata agli inzi del sec. XI, pertanto a una data di poco posteriore al Ioo8, anno presunto di inizio dei lavori. Ma c'è anche un motivo storico che induce a confermare l'età del vescovado di Vitale per un ampliamento del progetto iniziale di ristrutturazione: il periodo del patriarcato di Poppo ad Aquileia. Orso patriarca "concorrente" di Poppo nella sua sede di Grado non poteva permettersi il lusso di emulare il suo avversario, dato il pericolo di un intervento di Poppo: questa concorrenza poteva essere svolta nella sede in cui gli Orseolo potevano realizzare i loro progetti di potenza, a Torcello appunto. Pertanto un cambiamento di progetto da datare al tempo di Poppo ad Aquileia (intorno agli anni '2o e '30 del sec. XI) mi sembra abbastanza attendibile. Come ho già avuto occasione di scrivere in altra sede (66), ritengo che nella prima metà del sec. XI il cantiere edilizio più importante nelle terre lagunari sia stato appunto questo degli Orseolo a Torcello, al quale cantiere andrebbe assegnata, secondo la mia proposta, anche la costruzione del martyrium di S. Fosca, che non sarebbe più da considerarsi un esito della cultura architettonica esemplata dalla S. Marco contariniana, bensì un precedente della stessa.
Il doge Domenico Contarini ha legato il suo nome anche alla riedificazione della basilica di S. Marco, che, secondo la tradizione, fu iniziata nel 1063. Non si tratta dell'unico suo intervento nell'edilizia religiosa veneziana: si deve infatti ricordare che, forse un decennio prima dell'apertura del cantiere marciano, lo stesso doge volle la costruzione del monastero di S. Nicolò di Lido.
Quale fu la ragione che indusse Domenico Contarini alla ricostruzione della basilica marciana? È da dire subito che la scelta non fu imposta da cause di distruzioni o danneggiamenti dell'edificio precedente, che era stato restaurato da poco più di sessant'anni. Si deve cercare altrove la motivazione della scelta ducale, scelta certamente assai onerosa dal punto di vista finanziario e pertanto di rilevante valenza per il committente.
È questa una sorta di processo alle intenzioni di Domenico Contarini, il che comporta, in mancanza di dati affermativi sicuri, una certa prudenza, che si manifesta in una rosa di possibilità interpretative, già in parte messe in luce da Demus (67). Egli accenna alla ricostruzione come "a national demonstration of power" (68) annotando poi che la data del 1063 corrisponde all'anno della fondazione della cattedrale di Pisa (69). Il discorso sulla dimostrazione del potere visto anche in rapporto con quanto succedeva in molte città italiane, dove le cattedrali erano state appena rinnovate o stavano per esserlo, è ripreso anche da Herzner (70); ma forse può essere un po' più precisato storicamente. Dopo prese di posizioni spesso tra loro contraddittorie e dopo anche un intervento armato (faccio riferimento all'occupazione e al saccheggio di Grado da parte del patriarca aquileiese Poppo), nel sinodo romano del 1053 Grado venne riconosciuta come sede metropolitica (Nova Aquileia totius Venetiae et Istriae caput et metropolis) . È da ricordare che le decisioni del sinodo romano furono assunte su insistenza del patriarca di Grado, Domenico Marango, e non del governo veneziano, che anzi prese le distanze dall'iniziativa del patriarca (71). Questi anni del primo decennio della seconda metà del sec. XI segnano non solo un distacco ma una vera e propria opposizione, più o meno esplicita, da parte del governo della repubblica nei riguardi del patriarcato gradese, ed è proprio in questo clima di ostilità che può nascere il progetto di rinnovare la basilica marciana: Domenico Contarini con tale scelta manda a dire a Domenico Marango che è lui la massima autorità, dalla quale non può prescindere nemmeno il patriarca di Grado, e per affermare ciò pubblicamente ordina che la chiesa di stato sia completamente rinnovata perché sia in forma ancora più esplicita il simbolo del potere ducale.
È notizia tramandata da una tradizione molto antica che il nuovo edificio contariniano abbia avuto come modello la basilica dei XII Apostoli di Costantinopoli: d'altronde, che per un edificio dedicato a san Marco si faccia riferimento a una struttura "apostolica" certamente non fa problema. Marco, in quanto evangelista, era equiparato agli Apostoli.
Problematico è invece il tentativo di verificare in che misura il prototipo, o il possibile prototipo costantinopolitano, abbia influito sulla costruzione veneziana. Una prima difficoltà è offerta dal fatto che, per il confronto, ci manca uno dei due termini di paragone, cioè l'Apostolion costantinopolitano. Una seconda difficoltà è data dalla possibile incidenza della prima chiesa nella definizione dell'edizione contariniana: se si accetta l'ipotesi Forlati, si deve considerare già l'edificio parteciaco costruito sul modello dell'Apostolion, pertanto, non trattandosi di ingrandimento, non esiste il problema dell'inserimento nella nuova struttura di parti della chiesa di S. Teodoro. Per Dorigo, invece, la costruzione della nuova basilica è molto più condizionata dalla preesistenza della cripta e soprattutto dalla preesistenza di S. Teodoro e palazzo ducale - in quanto nell'area compresa tra queste due strutture si costruì il nuovo edificio tanto che parte di esse sarebbero divenute a loro volta parti del nuovo edificio - che dal prototipo costantinopolitano (72). Per Herzner (73), invece, parte della struttura c.d. contariniana sarebbe parteciaca, a cominciare dal muro di facciata, con le relative scale di accesso alle tribune. Ma come mai c'è questa difficoltà di lettura dell'attuale edificio marciano?
Per suggerire una possibile risposta a questo interrogativo è forse utile premettere qualche osservazione generale: prima di tutto l'edificio marciano-contariniano ebbe la struttura muraria a mattoni a vista, e le attuali cupole interne avevano il loro estradosso all'esterno (74).
Probabilmente questo edificio aveva, sul lato della facciata, l'atrio. L'esterno di questa struttura era stato progettato e realizzato in funzione di una certa sistemazione urbanistica, che muta radicalmente nella seconda metà del sec. XII. A mio parere, questo mutamento urbanistico del centro del potere veneziano al tempo di Sebastiano Ziani rappresenta la causa principale del rinnovamento dell'esterno della basilica marciana. L'edificio voluto da Domenico Contarini, con le sue basse cupole, con la struttura a mattoni a vista aveva significato se visto da vicino. Nel momento in cui si rinnova completamente la sistemazione dell'area ducale con la costruzione di un nuovo palazzo ducale e soprattutto con il raddoppio dell'area della piazza (approssimativamente nella estensione dell'attuale, mentre la precedente si chiudeva all'incirca subito ad occidente del campanile) cambia il punto di vista della basilica, punto di vista che si allontana così tanto da far apparire del tutto insignificante il basso esterno a mattoni a vista dell'edificio contariniano. Con la nuova sistemazione urbanistica si deve necessariamente caricare di nuovo valore l'esterno della basilica: l'aggiunta di marmi, di mosaici, dei grandi estradossi delle cupole, che si prolunga nel tempo fino ai primi decenni del XIII sec. è il risultato di questo necessario progetto. Ma alcune di queste aggiunte hanno necessariamente inciso sulla struttura dell'edificio. Intendo fare riferimento alle grandi cupole esterne, coperte da lastre di piombo e sorrette da un telaio ligneo, frutto di un abile gioco di carpenteria. Mi sembra che non si sia mai messo in evidenza che l'aggiunta di tale peso comporta un adeguato rafforzamento della "resistenza" (l'invito a questa riflessione mi è venuto da uno scambio di idee con il collega Fulvio Zuliani).
Che significa ciò? Che in occasione della realizzazione degli estradossi delle cupole si dovettero rinforzare molti dei muri di sostegno perimetrali e non è da escludere che in tale occasione si siano, per esempio, rinforzati proprio i muri dei vani alla fine del braccio nord del transetto, e la parte superiore dell'atrio occidentale, cioè il suo sistema di copertura, creando quell'evidente stacco tra. facciata e parte superiore dell'atrio che ha indotto alcuni studiosi a suggerire soluzioni di diversa cronologia per le due parti. Il discorso in questa direzione non è certamente facile, anche per il fatto che ben pochi muri sono oggi, e da secoli, visibili nella loro struttura; ma è stata avviata un'impresa che, quando sarà stata portata a termine, permetterà certamente una lettura più approfondita del testo marciano: il rilievo fotogrammetrico (75).
È doveroso aspettare la fine di questo importante lavoro per suggerire nuove ipotesi di un complesso di così difficile lettura com'è la struttura architettonica di San Marco, e anche per la verifica delle ipotesi già avanzate, a cominciare da quella di Dorigo e ripresa da Herzner dello scarto assiale tra la zona presbiteriale della chiesa contariniana e la sottostante cripta, e per finire nell'atrio al quale ho fatto cenno prima, attraverso l'esame dei due nuclei strutturali a nord e a sud del transetto. Perché se fosse provato che la struttura dell'entrata Foscari era in origine del tutto simile alla struttura che le sta di fronte dalla parte opposta del transetto (cioè cappelle dei Mascoli e di S. Isidoro e sacello), sembrerebbe difficile da accettare l'ipotesi che questi due nuclei fossero parti di due strutture originali e indipendenti dall'edificio marciano. D'altra parte la tipologia tradizionale porterebbe a prevedere una struttura a continuazione delle navatelle laterali del transetto anche sui lati nord e sud (sul modello del S. Giovanni di Efeso, per intenderci), e i primi risultati dei rilievi fotogrammetrici confermano "la diversa declinazione, nel braccio nord del transetto, delle pareti nord ed est per adattarsi alla preesistente chiesa di S. Teodoro" (76).
Soltanto con tutti i dati che le levate fotogrammetriche metteranno a disposizione, sarà possibile suggerire ipotesi più fondate: aspettiamo con fiducia.
1. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, I, Secoli V-IX, a cura di Roberto Cessi, Padova 19422, pp. 71 ss.
2. Ibid., p. 98.
3. SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965, pp. 26 ss.
4. Giuseppe Marzemin, Le Abbazie veneziane dei SS. Ilario e Benedetto e di S. Gregorio, Venezia 1912, p. 58.
5. Cf. ibid., pp. 53 ss.
6. Raccolta degli scritti ed atti ufficiali relativi agli scavi fatti e da farsi nel sito della celebre Abazia di S. Ilario, Mestre 1880. Un'altra pianta del complesso ilariano è stata scoperta e pubblicata da Maurizia Vecchi, La Cappella palatina di S. Ilario: un problema di datazione, "Rivista di Archeologia", 3, 1979, pp. 117 ss. (pp. 117-121), pianta che non porta novità a quanto già si conosceva.
7. Raccolta, p. 8.
8. G. Marzemin, Le Abbazie veneziane, pp. 56-57.
9. Ibid., p. 56.
10. Cf. ibid., pp. 64-65.
11. Cf. il testamento di Giustiniano Parteciaco, in Documenti, I, p. 98.
12. Secondo antiche cronache (cf. G. Marzemin, Le Abbazie veneziane, pp. 15-16) in S. Ilario trovarono sepoltura nel sec. IX Agnello e Giustiniano Parteciaci e nel X Pietro Candiano IV, ucciso nella rivolta del 976, Vitale Candiano, doge tra il 978 e il 979, che si ritirò in quel monastero come monaco e, forse, Pietro Candiano III (942-959)
13. Cf. G. Marzemin, Le Abbazie veneziane, p. 61.
14. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, I, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), p. 106.
15. Roberto Galli, Una novità nella storia dell'arte. La
scoperta del primo palazzo ducale in Venezia (anno
814), "Nuova Antologia", 4, 1889, pp. 308-341.
16. Ibid., p. 325.
17. Ibid., pp. 322-323.
18. Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti,
ipotesi, metodi, Milano 1983, p. 535 n. 330.
19. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 162-163. 20. W. Dorigo, Venezia Origini, p. 535
21. Ibid., p. 539, n. 340.
22. Documenti, I, pp. 92-93.
23. Cf. ibid., pp. 93 ss.
24. Per un tentativo di ricostruzione delle strutture
antiche cf. W. Dorigo, Venezia Origini, soprattutto figg. 378-379, pp. 626-627. Per una sintesi
v. Silvio Tramontin, S. Zaccaria, Venezia 1980.
25. V. più avanti nel testo.
26. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 545 ss.
27. Origo Civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense) , a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), p. 67.
28. Giovanni Saccardo, L'antica chiesa di S. Teodoro in Venezia, "Archivio Veneto", 34, 1887, pp. 91 e ss. (pp. 91-113).
29. Ibid., p. 108.
30. Cf. Documenti, I, p. 74.
31. G. Saccardo, L'antica chiesa, p. 108.
32. Raffaele Cattaneo, Storia architettonica della basilica, in AA.VV., La Basilica di San Marco in Venezia illustrata nella storia e nell'arte da scrittori veneziani, II, Venezia 1890, p. 112 (pp. 99-219).
33. Pietro Saccardo, La cappella di S. Isidoro nella Basilica di San Marco, Venezia 1887, riedizione a cura della Procuratia di San Marco, Venezia 1987, p. 20.
34. Documenti, I, pp. 93 ss.
35. Cf. ibid., pp. 83 ss.
36. R. Cattaneo, Storia architettonica, pp. 109 ss.
37. Ferdinando Forlati, La basilica di San Marco attraverso i restauri, Trieste 1975.
38. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 568 ss.
39. Volker Herzner, Die Baugeschichte von San Marco und der Aufstieg Venedigs zur Grossmacht, "Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte", 38,
1985, pp. I ss. (pp. 1-58).
40. Otto Demus, The Church of San Marco in Venice, Washington D. C. 1960, p. 66.
41. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 98-99.
42. Ibid., p. 108.
43. Ibid., p. 110.
44. Cf. Documenti, I, pp. 114 SS.
45. Ibid., pp. 72-73.
46. Per un recente tentativo di ricostruzione cf. W. Dorigo, Venezia Origini, passim e p. 613 prospetto 46, nr. 54.
47. Origo, p. 75.
48. G. Saccardo, L'antica chiesa, p. 98. Per il passo qui citato in italiano, tratto dal Chronicon Altinate, v. Origo, p. 132.
49. Cf. G. Saccardo, L'antica chiesa, p. 104.
50. Cf. ibid., p. 104.
51. AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987.
52. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 131.
53. Ibid., pp. 126-127.
54. V. ibid., p. 131.
55. V. in proposito anche W. Dorico, Venezia Origini, p. 539.
56. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 139.
57. Ibid., pp. 139-140.
58. Ibid., p. 141.
59. O. Demus, The Church, p. 69.
60. Cf. Fulvio Zuliani, I marmi di San Marco, Venezia s.a., p. 39.
61. Giovanni Spinelli, I primi insediamenti monastici lagunari nel contesto della storia politica e religiosa veneziana, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, p. 161 (pp. 151-166).
62. Cf. Documenti, I, p. 74.
63. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 171.
64. Cf. Agostino Pertusi, L'iscrizione torcellana dei tempi di Eraclio, "Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano", 4, 1962, pp. 9 ss. (pp. 9-38).
65. Otto Demus, Zu den Mosaiken der Hauptapsis vonTorcello, "Zborniki Radojcica-Starinar", 20, 1969, pp. 53-57; cf. inoltre Otto Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, Washington D. C. 1984, passim; Irina Andreescu, Torcello, III, La chronologie relative des mosazques pariétales, "Dumbarton Oaks Papers", 30, 1976, pp. 245 ss. (pp. 245-341); Italo Furlan, Aspetti di cultura greca a Venezia nell'XI secolo : la scuola di Salonicco e lo stile monumentale protocomneno, "Arte Veneta", 29, 1975, pp. 28 ss. (pp. 28-37).
66. Giovanni Lorenzoni, Venezia medievale, tra Oriente e Occidente, in Storia dell'arte italiana, V, Torino 1983, pp. 387 ss. specialmente pp. 414-419 (pp. 385-443).
67. O. Demus, The Church, pp. 70 ss.
68. Ibid., p. 71.
69. Ibid., p. 72.
70. V. Herzner, Die Baugeschichte, p. 21.
71. Cf. Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 32-33.
72. W. Dorico, Venezia Origini, pp. 581 ss.
73. V. Herzner, Die Baugeschichte, passim.
74. Cf. Sergio Bettini, L'Architettura di San Marco (Origini e significato), Padova 1946; Fulvio Zuliani, Considerazioni sul lessico architettonico della San Marco contariniana, "Arte Veneta", 29, 1975, pp. 50 ss. (pp. 50-59).
75. Ettore Vio, Le levate fotogrammetriche della Basilica di S. Marco, "Venezia Arti", 2, 1988, pp. 157-162.
76. Ibid., p. 161.