Abstract
Si analizza in questa sede la disciplina del procedimento espropriativo per pubblica utilità prevista dal d.P.R. 8.6.2001, n. 327 e s.m.i.
L’istituto attribuisce alla Pubblica Amministrazione il potere di acquisire coattivamente il diritto di proprietà privata ai fini della realizzazione di un’opera di pubblica utilità.
La nuova disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità viene alla luce con lo scopo di restituire centralità al procedimento di garanzia, riaffermando il principio in virtù del quale prima si acquisisce il diritto di proprietà e, solo dopo, si realizza l’opera prevista, così accantonando definitivamente le anomalie scaturite dall’applicazione di istituti giuridici di origine pretoria quali l’accessione invertita e l’acquisizione acquisitiva.
Il fine della novella legislativa è stato però in seguito parzialmente rinnegato con l’introduzione dell’occupazione anticipata che legittima, in talune fattispecie, l’avvio dei lavori prima che si sia prodotto l’effetto traslativo a favore della P.A.
Il d.P.R. 8.6.2001, n. 327 dichiara di regolare «l’espropriazione, anche a favore di privati, dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità».
Fra gli elementi oggettivi il legislatore opera una chiara distinzione, separando la categoria dell’opera pubblica in senso stretto dalla categoria dell’opera di pubblica utilità.
Se il concetto di opera pubblica non si presta a problematiche di tipo interpretativo, meno agevole appare l’inquadramento del requisito della pubblica utilità, mancando nell’impianto normativo del testo unico una classificazione tassativa delle opere che di pubblica utilità possano considerarsi.
La conseguenza è il riconoscimento alla P.A. di un ampio margine di discrezionalità nell’individuazione di quelle ragioni di pubblica utilità che lo scrutinio di legittimità del giudice amministrativo non sia in grado di sindacare; il problema si pone in particolar modo per le iniziative ablatorie attivate a favore dei privati, spesso scarsamente motivate nella fase prodromica della dichiarazione di pubblica utilità.
L’art. 8 del testo unico pone tre condizioni pregiudiziali all’emanazione del decreto di esproprio: che l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio, che vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità, che sia stata determinata, anche in via provvisoria, l’indennità di esproprio.
La necessità del vincolo preordinato all’esproprio riflette in modo significativo la connessione esistente tra pianificazione urbanistica e procedimento espropriativo.
Infatti l’art. 9 dispone che «un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un opera pubblica o di pubblica utilità».
È dunque nelle scelte amministrative concernenti il governo del territorio che il procedimento espropriativo affonda le sue radici; scelte amministrative che si traducono nella categoria dei cosiddetti vincoli ablatori diretti ad incidere sulle sorti del diritto di proprietà, svuotandolo dei suoi contenuti essenziali.
Il legislatore ha inteso garantire il necessario equilibrio fra le ragioni di interesse pubblico e la rilevanza del diritto di proprietà attraverso la temporaneità del vincolo espropriativo; decorso il termine di cinque anni senza che sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità il vincolo decade ed il diritto di proprietà affievolito si riespande nella pienezza dei suoi effetti. La giurisprudenza amministrativa tuttavia ha individuato nel genus dei vincoli comportanti limitazioni al diritto di proprietà due diverse tipologie restrittive: accanto ai vincoli di natura espropriativa soggetti al termine di decadenza quinquennale si pongono i vincoli conformativi aventi durata illimitata (Cons. St., sent. 28.12.2012, n. 6700).
Il criterio distintivo si fonda sul contenuto della scelta urbanistica prevista nel vincolo: laddove lo strumento urbanistico contempli attraverso la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblico interesse il compimento di una procedura espropriativa, nei cinque decorrenti dall’apposizione del vincolo deve necessariamente intervenire la dichiarazione di pubblica utilità; sfugge alla decadenza quinquennale quel vincolo che per mezzo della zonizzazione vada a configurare il modo d’essere di un’area e, consequenzialmente del diritto di proprietà in essa presente.
La connessione esistente fra vincoli espropriativi e localizzazione e la portata lesiva dei vincoli stessi comporta l’obbligo per l’Amministrazione di agire nel rispetto dei termini di decadenza quinquennale, non potendo il diritto di proprietà essere esposto ad una paralisi sine die.
Da questo punto di vista il legislatore offre un’occasione di rinnovo procedimentale all’Amministrazione, stabilendo al comma 4 che «il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza può essere motivatamente reiterato con la rinnovazione dei procedimenti previsti al comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfazione degli standard».
Il potere di rinnovo del vincolo, per scongiurare il rischio di una violazione del diritto di proprietà inutile, è stato subordinato alla presenza di due condizioni essenziali: la previsione di un indennizzo che compensi il perdurante sacrificio del diritto dominicale e l’estrinsecazione delle ragioni di pubblico interesse che giustifichino la reiterazione del vincolo decaduto.
Trattandosi di una scelta amministrativa dalla natura evidentemente discrezionale, essa non può prescindere dal coinvolgimento del privato proprietario cui va riconosciuto il diritto di partecipazione al procedimento; infatti in assenza di solidi presupposti giuridici in grado di assicurare la legittimità della reiterazione, il privato ha diritto ad una ritipizzazione urbanistica di quella proprietà che l’inerzia dell’Amministrazione espropriante abbia trasformato in una zona bianca.
Qualora la volontà dell’Amministrazione sia quella di riproporre il vincolo scaduto diventa necessario dimostrare le permanenti ragioni di pubblico interesse in nome delle quali l’opera pubblica ancora non realizzata, debba essere portata a compimento.
Ciò premesso, la connotazione evidentemente lesiva del vincolo preordinato all’esproprio, comporta per il proprietario leso un diritto alla partecipazione anche in assenza di previsioni urbanistiche decadute.
L’art. 11 infatti stabilisce due ipotesi nelle quali il proprietario debba essere notiziato dell’avvio del procedimento di approvazione del vincolo.
La prima ipotesi corrisponde all’adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno venti giorni prima della delibera del consiglio comunale.
La seconda ipotesi si verifica quando l’opera da realizzare non sia prevista nello strumento urbanistico generale ed in tal caso la stessa, ai sensi dell’art. 10 del testo unico, può essere individuata all’interno di una conferenza di servizi, con un accordo di programma, con un intesa o con il ricorso alla variante semplificata.
Sull’inderogabilità dell’obbligo di comunicare al privato interessato l’avvio del procedimento amministrativo la giurisprudenza ha espresso nel tempo un indirizzo univoco rifiutando l’approccio sostanzialistico della partecipazione inutile da atto vincolato: nemmeno presunte ragioni di urgenza possono giustificare una procedura ablatoria che prescinda dalle garanzie partecipative; del resto esaurita la fase di apposizione del vincolo con conseguente dichiarazione di pubblica utilità, il prosieguo del procedimento appare il mero momento attuativo di scelte amministrative e presupposte che in quanto tali devono essere compiute nel rispetto del contraddittorio procedimentale (Cons. St., sent. 9.12.2010, n. 8688).
Il processo di affievolimento del diritto di proprietà avviato con l’apposizione del vincolo, si perfeziona con l’intervento della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che può essere espressa o ricavabile implicitamente dall’approvazione di uno degli strumenti urbanistici individuati al comma 1 dell’art. 12.
La dichiarazione deve essere disposta in un provvedimento amministrativo emanato entro cinque anni dalla fissazione del vincolo preordinato all’esproprio; diversamente il procedimento risulterebbe compiuto in carenza di potere e si delineerebbe quello che è stato definito comportamento della pubblica amministrazione.
La dichiarazione di pubblica utilità condivide con il vincolo predeterminato la connotazione lesiva tipica degli atti presupposti a fronte della quale la successiva attività amministrativa che comprende lo stesso decreto di esproprio costituisce mera fase attuativa, priva di valenza giuridica autonoma, benché in teoria è solo con il decreto di esproprio che si produce l’effetto traslativo.
La rilevanza giuridica della dichiarazione di pubblica utilità si manifesta sia nella fase fisiologica del procedimento sia nell’ipotesi di contestazione in sede giurisdizionale della legittimità dell’azione amministrativa ablatoria.
Quanto al primo aspetto si osserva che le deduzioni partecipative del privato, per ottenere un diritto d’ascolto devono essere rivolte avverso l’atto che dichiari in modo espresso o implicito la pubblica utilità dell’opera; solitamente tale fase corrisponde alla delibera di approvazione del progetto definitivo attraverso la quale l’Amministrazione acquisisce il potere espropriativo in concreto.
Da tanto discende che il confine fra procedimento espropriativo ed espropriazione senza potere vada individuato proprio nell’esistenza e nella legittimità della dichiarazione di pubblica utilità cui è connessa la riconducibilità dell’attività ablatoria all’esercizio di un pubblico potere.
Il comma 1 dell’art. 20 del d.P.R. 327 del 2001 prevede che «Divenuto efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità, entro i successivi trenta giorni il promotore dell’espropriazione compila l’elenco dei beni da espropriare, con una descrizione sommaria dei relativi proprietari e indica le somme che offre per le loro espropriazioni»; la fase di stima dell’indennità provvisoria affidata all’Autorità espropriante riconosce in ogni caso al privato espropriando un ampio diritto di intervento.
Infatti i commi 2 e 3 del citato art. 20 stabiliscono che «ove lo ritenga opportuno in considerazione dei dati acquisiti e compatibilmente con le esigenze di celerità del procedimento, l’autorità espropriante invita il proprietario e, se del caso, il beneficiario dell’espropriazione a precisare, entro un termine non superiore a venti giorni ed eventualmente anche in base ad una relazione esplicativa quale sia il valore da attribuire all’area ai fini della determinazione della indennità di esproprio.
Valutate le osservazioni degli interessati, l’autorità espropriante, anche avvalendosi degli uffici degli enti locali, dell’ufficio tecnico erariale o della commissione provinciale prevista dall’art. 1, che intende consultare, prima di emanare il decreto di esproprio, accerta il valore dell’area e determina in via provvisoria la misura della indennità di espropriazione».
Lo spazio di intervento che il legislatore concede al privato proprietario favorisce la possibilità di una celere definizione del procedimento; se infatti il dialogo procedimentale concepisce un punto d’incontro fra la proposta dell’Amministrazione e le pretese del privato, l’iter procedimentale può concludersi con l’emanazione del decreto di esproprio; in questo modo l’Amministrazione scongiura le lungaggini della fase eventuale di stima dell’indennità definitiva che contempla il coinvolgimento di un’autorità terza, diversa dall’organo cui spetta il potere di emanare gli atti del procedimento.
L’art. 21 del testo unico prevede infatti che «se manca l’accordo sulla determinazione dell’indennità di espropriazione, l’autorità espropriante invita il proprietario interessato, con atto notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, a comunicare entro i successivi venti giorni se intende avvalersi, per la determinazione dell’indennità del procedimento previsto nei seguenti commi. Nel caso di comunicazione positiva del proprietario, l’autorità espropriante nomina due tecnici, tra cui quello eventualmente già designato dal proprietario e fissa il termine entro il quale va presentata la relazione da cui si evinca la stima del bene».
L’attività valutativa degli esperti si realizza in collaborazione con i privati interessati; il comma 8 sancisce che «gli interessati possono assistere alle operazioni anche tramite persone di loro fiducia, formulare osservazioni orali e presentare memorie scritte e documenti, di cui i tecnici tengono conto».
Siamo di fronte ad uno dei rari passaggi all’interno del testo unico dove sia possibile individuare un livello adeguato di garanzie per il privato espropriato, attraverso previsioni che si affiancano per contenuti alla norma della legge fondamentale 25.6.1865, n. 2359 che già prevedeva la nomina del collegio peritale; l’obiezione che è stata mossa da più parti a questa modalità di determinazione dell’indennità è quella di allungare eccessivamente i tempi del procedimento, soprattutto nelle ipotesi in cui l’esproprio riguardi più aree appartenenti a diversi proprietari, con la conseguenza di un’attività contemporanea di differenti collegi portatori di diversità di vedute.
L’art. 22 bis del d.P.R. 327/2001, introdotto dal d.lgs. 27.12.2002, n. 302 rinnega l’impostazione originaria del testo unico tesa a tutelare il procedimento di garanzia nella espropriazione per pubblica utilità attraverso la regola in virtù della quale la realizzazione dell’opera pubblica non possa aver luogo prima che l’Amministrazione abbia acquisito il diritto di proprietà dell’area.
La norma stabilisce che «Qualora l’avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza tale da non consentire in relazione alla particolare natura delle opere l’applicazione dei commi 1 e 2 dell’art. 20, può essere emanato senza particolari indagini e formalità, decreto motivato che determina in via provvisoria l’indennità di espropriazione e che dispone anche l’occupazione anticipata dei beni immobili necessari».
Ai fini della legittimità del decreto di occupazione il legislatore pone l’accento sulla necessità che l’onere motivazionale sia congruamente assolto attraverso l’esplicitazione delle ragioni di urgenza che giustifichino l’accelerazione procedimentale.
Su questo aspetto la giurisprudenza amministrativa non ha elaborato un indirizzo uniforme, dividendosi fra un orientamento garantista e maggioritario che ritiene ineludibile un impianto motivazionale in ordine alle obiettive ragioni di urgenza, avverso il quale il privato può ricorrere, richiedendo il sindacato giurisdizionale (Cons. St., sent. 8.7.2011, n. 3500) ed una interpretazione della norma in virtù della quale possa ritenersi sufficiente anche un generico riferimento all’urgenza di realizzare le opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità (Cons. St., sent. 29.5.2009, n. 3350).
Il rischio che si cela dietro una legittimazione dell’occupazione d’urgenza disancorata dal benché minimo onere motivazionale consiste nello svuotamento dei contenuti del diritto di proprietà consumato senza un’effettiva tutela procedimentale e processuale. Infatti l’attuale disciplina dell’istituto alla stregua di quella previgente, rende possibile la realizzazione di effetti irreversibili sull’area da espropriare prima che si sia prodotto l’effetto traslativo a favore dell’Amministrazione; tale anomalia giuridica è stata solo parzialmente ridimensionata, come vedremo più avanti, con l’introduzione dell’istituto dell’acquisizione sanante.
La connotazione decisamente lesiva che caratterizza l’istituto dell’occupazione ne avrebbe giustificato una disciplina dotata di maggiori garanzie: la portata eccezionale dell’istituto all’interno del procedimento ordinario crea di fatto un sub procedimento che anticipa nei tempi il pregiudizio prodotto nella sfera giuridica del privato proprietario cui tuttavia il legislatore non ha riconosciuto un diritto alla partecipazione.
Eppure il contraddittorio procedimentale pare essere l’unico strumento utilizzabile dal privato per esercitare un controllo sulle ragioni di urgenza addotte dall’Amministrazione.
Esaurita la fase prodromica necessaria comportante la fissazione del vincolo e la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e quella eventuale ad efficacia interinale della occupazione anticipata, il procedimento si conclude con l’emanazione del decreto di esproprio previsto dall’art. 23.
Tra i contenuti essenziali del decreto il legislatore inserisce, in primo luogo, l’indicazione della dichiarazione di pubblica utilità quale parametro della tempestività del decreto stesso.
La norma infatti si apre con la precisazione che «il decreto di esproprio è emanato entro il termine di scadenza dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità».
L’inosservanza del suddetto precetto normativo determina la carenza di potere dell’Amministrazione, configurando consequenzialmente una procedura espropriativa sine titulo; anomalia non del tutto risolta con l’introduzione dell’istituto dell’acquisizione sanante.
Abbiamo già avuto modo di anticipare che l’effetto traslativo prodotto attribuisca al decreto di esproprio una connotazione profondamente lesiva che giustificherebbe l’instaurazione di un subprocedimento autonomo dotato delle necessarie garanzie partecipative.
Eppure, benché l’art. 23 nel disciplinare contenuto ed effetti del decreto di esproprio precisi che il decreto stesso disponga, fra l’altro, il passaggio del diritto di proprietà, il legislatore non ha riconosciuto un diritto alla partecipazione.
Il procedimento di garanzia fin qui descritto costituisce in realtà solo una delle opzioni riconosciute al pubblico potere per acquisire la proprietà privata.
L’ordinamento infatti, accanto al decreto di esproprio, contempla il provvedimento di acquisizione quale strumento di sanatoria delle espropriazioni sine titulo egualmente idoneo a produrre l’effetto traslativo.
L’istituto dopo una prima bocciatura della Consulta per eccesso di delega (Cons. St., sent. 8.10.2010, n. 293), è stato reintrodotto dal legislatore con l’art. 42 bis secondo il quale «valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità può disporre che esso sia acquisito non retroattivamente al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfettariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene».
Non può non rilevarsi come lo stesso tenore della norma ponga dei dubbi sull’effettivo ridimensionamento delle conseguenze ingiustamente pregiudizievoli prodotte dalle espropriazioni senza potere nella sfera giuridica del privato proprietario.
L’acquisizione sanante infatti tutela il potere amministrativo più che il diritto di proprietà, legalizzando le modalità di esercizio del potere ablatorio senza intervenire sul profilo delle garanzie da riconoscere al diritto di proprietà.
La norma infatti rende legittima a posteriori un’attività amministrativa che sorge viziata, senza considerare che la fisiologica conseguenza dell’annullamento in sede giurisdizionale di un procedimento ablatorio dovrebbe essere solo ed esclusivamente la restituzione dell’area al proprietario.
Al contrario la riespansione del diritto dominicale illegittimamente compresso costituisce, nell’ottica del legislatore, una mera ipotesi che concorre con altre all’interno di un potere decisionale dell’Amministrazione di tipo discrezionale.
La decisione dell’Amministrazione che può scegliere fra la restituzione dell’area e l’acquisizione sanante, deve avere infatti quale presupposto la valutazione degli interessi configgenti.
All’interno di un procedimento amministrativo dalla evidente connotazione autoritativa il legislatore ha previsto una figura giuridica ibrida quale la cessione volontaria non facilmente riconducibile né alla categoria dell’atto amministrativo né al genus del negozio di diritto privato.
L’art. 45 del testo unico stabilisce che «Fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell’opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell’espropriazione l’atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà».
La difficoltà di inquadramento dell’istituto è determinata dal lessico del legislatore che indicando una rinuncia volontaria al diritto di proprietà, sembra affermare la natura negoziale della cessione, incompatibile con la caratterizzazione coattiva del provvedimento amministrativo.
Tuttavia non può parlarsi di consenso puro da parte del privato, ma piuttosto di accettazione della rinuncia ad un diritto dominicale già affievolito a condizioni diverse da quelle ordinariamente imposte; si tratta in sostanza di una modalità di acquisto della proprietà privata alternativa al procedimento ordinario.
L’accordo infatti si inserisce in una dinamica procedimentale già avviata dall’Amministrazione, al fine di acquisire in modo coattivo la proprietà privata; da ciò può sostenersi che la cessione volontaria configuri un’ipotesi di accordo sostitutivo di provvedimento piuttosto che un negozio di diritto pubblico.
Infatti, di visione negoziale della cessione può convintamente parlarsi con riferimento alla previgente legge fondamentale n. 2359/1865 che contemplava la fissazione della indennità all’interno di una libera contrattazione di compravendita.
Nella concezione negoziale dell’istituto può cogliersi la differenziazione più significativa fra le normative succedutesi nel tempo laddove la vecchia disciplina legislativa lasciava alle parti piena libertà di negoziare, nella fiducia che l’accordo si sarebbe stabilito nel naturale punto d’incontro tra la domanda e l’offerta.
Le alterne fortune della cessione volontaria rispecchiano i mutamenti che, nel tempo, hanno caratterizzato la trasformazione della espropriazione per pubblica utilità.
Lo smarrimento graduale delle prerogative negoziali che avevano segnato la genesi della espropriazione per pubblica utilità ha ridimensionato gli spazi di autonomia riconoscibili nella cessione volontaria alle parti contraenti.
L’art. 46 del testo unico nel censurare possibili ipotesi di inerzia amministrativa stabilisce che «Se l’opera pubblica o di pubblica utilità non è stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrenti dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l’impossibilità della sua esecuzione, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo di indennità».
La norma contempla una garanzia per il privato proprietario che esula dal novero delle fattispecie tipiche caratterizzate dalla carenza di potere.
Siamo di fronte infatti, a differenza di quanto accade nell’accessione invertita o nell’acquisizione sanante, ad un potere espropriativo esistente ma male esercitato.
La giurisprudenza sul punto ha osservato come sussista una incompatibilità sul piano logico e giuridico tra accessione invertita e retrocessione giacché «se si ritiene configurarsi accessione invertita non vi è stata espropriazione, e quindi non può esservi retrocessione; se invece si richiede la retrocessione, non si può che essere in presenza di un bene in precedenza espropriato e in tutto o in parte non utilizzato per le finalità di interesse pubblico legittimanti la precedente espropriazione» (Cons. St., 15.12.2011, n. 6619).
La norma tuttavia non sembra prevedere un automatismo che determini la restituzione del bene quale conseguenza dell’inerzia amministrativa.
Le condizioni fissate dal legislatore costituiscono il presupposto per la sollecitazione di una scelta dalla natura evidentemente discrezionale atteso che la restituzione del bene richiesta dal privato impone univocamente un processo valutativo decisionale da parte della Pubblica Amministrazione.
L’ipotesi della decadenza della dichiarazione di pubblica utilità può infatti essere vanificata da una novazione procedimentale che reiteri l’efficacia di una volontà ablatoria o comunque riproponga la volontà espropriativa.
Se si considera che la condizione posta dal legislatore ai fini della proponibilità della domanda è che l’opera non sia stata realizzata nel suo complesso, non può escludersi l’eventualità che permanga un interesse pubblico al completamento dell’opera e che i ritardi nei lavori non siano imputabili all’Amministrazione espropriante.
La giurisprudenza tuttavia ha qualificato come diritto soggettivo la pretesa azionata dal privato che aspiri alla retrocessione totale del bene, di fatto affermando quell’automatismo che la norma sembra escludere con la conseguenza di negare all’amministrazione qualsiasi percorso valutativo discrezionale (Cass., S.U., 5.6.2008, n. 14826).
Tale indirizzo peraltro è condiviso dalla giurisprudenza amministrativa che, dichiarando la propria giurisdizione, ha ritenuto che l’istanza di retrocessione totale configuri un diritto soggettivo, in quanto tale tutelabile dinnanzi al giudice ordinario (Cons. St, 4.7.2008, n. 3342).
A differenza di quanto argomentato sulla natura della retrocessione totale, la giurisprudenza ha costantemente e convintamente qualificato l’istanza di retrocessione parziale come situazione giuridica riconducibile alla categoria dell’interesse legittimo.
La norma che disciplina l’istituto, ossia l’art. 47 del testo unico, stabilisce che «Quando è stata realizzata l’opera pubblica o di pubblica utilità, l’espropriato può chiedere la restituzione della parte del bene, già di sua proprietà, che non sia stata utilizzata. In tal caso il soggetto beneficiario della espropriazione, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, trasmessa al proprietario ed al Comune nel cui territorio si trova il bene, indica i beni che non servono all’esecuzione dell’opera pubblica o di pubblica utilità e che possono essere ritrasferiti, nonché il relativo corrispettivo».
Sul punto non può non evidenziarsi come, almeno in teoria, l’accertata inutilità di una parte del bene ai fini dell’esproprio dovrebbe comportare l’obbligo alla restituzione da parte dell’Amministrazione, con conseguente affermazione di un’attività vincolata.
Eppure, come già anticipato, la tesi dominante nella giurisprudenza amministrativa è che sia «ugualmente tutelata la situazione del proprietario nel caso di retrocessione parziale, sia pure previa adozione da parte dell’amministrazione di un provvedimento dichiarativo della irreversibilità del bene espropriato di cui si chiede la restituzione, espressione di un potere discrezionale dell’amministrazione tutelabile avanti al giudice amministrativo» (Cons. St., 4.7.2008, n. 3342).
d.P.R. 8.6. 2001, n. 327 s.m.i..
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