Essere o non essere Charlie
L’attacco terroristico del 7 gennaio 2015 al giornale satirico ha prodotto un eccezionale momento di solidarietà globale contro la violenza ma anche riaperto il dibattito sulla libertà di espressione e sulla libertà religiosa.
Il massacro di Parigi del 7 gennaio 2015, quando 12 persone sono state freddate col kalashnikov nella redazione di Charlie Hebdo, verrà ricordato per l’efferatezza dell’esecuzione da parte del commando islamista, per la determinazione degli autori, convinti di adempiere a un mandato di vendetta e di giustizia divina, per la ferocia antiebraica con cui un complice del commando ha colpito ancora, nei 2 giorni successivi, facendo altre 4 vittime in un supermercato kosher. Ma resterà nella memoria collettiva anche un eccezionale momento di solidarietà contro la violenza. E questo momento porterà per sempre le insegne dello slogan – un hashtag e un’immagine: «Je suis Charlie» – inventato in quelle ore da Joachim Roncin, un giornalista, art director della rivista parigina Stylist. Un segno che ha fatto il giro del mondo in poche ore. «Ci hanno colpito perché siamo un paese di libertà», ha detto il presidente Hollande alla fine di quei giorni di tensione e di sangue.
«E nulla ci deve dividere». L’unità nella reazione contro il terrorismo jihadista ha tenuto insieme in quelle ore posizioni assai diverse. Al corteo di Parigi hanno partecipato anche il leader israeliano Netanyahu e quello palestinese Abu Mazen. Difficile immaginare che questo secondo provi simpatia per quello che Charlie Hebdo è stato ed è. Ma in verità è verosimile che nessuno dei capi di Stato presenti quel giorno possa annoverarsi tra i seguaci di una rivista satirica che ha fatto della irriverenza e dello scherno irreligioso, e non soltanto contro l’islam, la sua caratteristica fondamentale.
Del resto negli anni precedenti, già in occasione delle pubblicazioni delle vignette danesi del Jillands-Posten, riprodotte da Charlie Hebdo, proteste si erano levate da parte del Conseil français du culte musulman e del rettore della moschea di Parigi, Dalil Boubakeur (un moderato sempre molto criticato dall’ala islamica fondamentalista), espressioni di un islam rispettoso della legalità dello Stato francese e antitetico allo jihadismo del Daesh.
La libertà che la Francia e in generale tutta l’Europa difendono non è solo quella propria di tutte le democrazie liberali, vale a dire la libertà di criticare il potere, ma anche la libertà della provocazione, dell’offesa al senso comune e anche ai sentimenti religiosi, in una parola: la blasfemia. Chi ricorda più quando sui mezzi pubblici di trasporto placche metalliche stampate recavano la scritta «vietato bestemmiare»? In Italia la sanzione contro la blasfemia è stata degradata in tempi recenti a ‘illecito amministrativo’. Nel decennio scorso sia il Parlamento europeo sia il Consiglio d’Europa hanno approvato raccomandazioni indirizzate ad affermare il primato della libertà di espressione. In questo l’Europa si è avvicinata agli Stati Uniti, dove l’introduzione di una pena contro la blasfemia sarebbe decisamente in conflitto con il Primo emendamento. Ma proprio la discussione seguita al massacro parigino di gennaio ha rivelato differenze di valutazione importanti su cui è bene che in Europa si rifletta.
Il numero di Charlie Hebdo con in copertina una caricatura di Maometto che tiene sul petto il cartello «Je suis Charlie» sotto il titolo «Tout est pardonné» ha avuto un successo senza precedenti: 7 milioni di copie. Ma già il 9 gennaio David Brooks firmava un articolo sul New York Times dal titolo «I’m not Charlie Hebdo».
Dubbi o riserve sulla solidarietà con Charb, Cabu, Wolinski e i colleghi assassinati? No di certo.
Ma un distinguo rispetto alla loro cultura satirica, questo sì. Le vittime dell’attacco «sono martiri della libertà» – scriveva Brooks – «ma diciamo la verità: se avessero cercato di pubblicare il loro giornale satirico in qualsiasi campus universitario americano (...), questo non sarebbe durato più di 30 secondi (...) li avrebbero accusati di hate-speech e l’amministrazione (...) li avrebbe chiusi». Brooks, brillante editorialista, non è un liberal né un radical con tendenze
postmoderniste e neppure un cultore della political correctness, è piuttosto un conservatore. La sua voce riflette un punto di vista tipicamente liberale e americano, espressione di una società pluralista, multireligiosa, multiculturale nella quotidianità, nelle idee e nei fatti. Molti spocchiosi commentatori italiani accusano distinguo di questo genere come atti di ‘viltà’, come se le parole di Brooks fossero dettate dalla paura dei terroristi. Idea ridicola come l’indignazione che ha suscitato, tra i consueti tutori del ‘coraggio’, il fatto che il New York Times o il britannico Guardian non abbiano pubblicato le vignette di Charlie Hebdo, subito e in prima pagina. Autocensura? Perdita dell’‘orgoglio occidentale’ della libertà? Cedimento, magari, morale?
Queste reazioni, molto diffuse e ricorrenti in Italia, rivelano una incorreggibile cecità davanti alla complessità del mondo e alle legittime differenze culturali e storiche che separano l’Europa da una parte e gli Stati Uniti dall’altra (spesso insieme alla Gran Bretagna). Il Guardian per esempio ha sostenuto in un editoriale il diritto di Charlie Hebdo di stampare quello che vuole, ma anche il proprio rifiuto di mostrare le sue vignette, con un distinguo: «Difendere il diritto di qualcuno a dire quello che preferisce, non ti obbliga a ripetere le sue parole». L’Europa ha fatto suo il primato della libertà di espressione e dunque oggi somiglia un po’ di più agli Stati Uniti dal punto di vista legislativo, ma non ha (ancora) assunto le abitudini e i costumi di società religiosamente plurali e composite, che tendono ad affermare come etica e pratica condivise il rispetto delle differenze culturali e comunitarie.
Negli Stati Uniti, i comportamenti blasfemi, offensivi della propria o delle altre fedi, sono generalmente considerati assurdi e stigmatizzati dall’obbrobrio sociale, né di sinistra né di destra. Qualcosa del genere è lontano dall’affermarsi in Europa. Non è mancato anche in Italia chi di questo scarto culturale si è accorto. Claudio Magris ha infatti sostenuto, su una linea simile a quella del Guardian, che «la totale solidarietà con gli autori delle vignette in quanto vittime di una sanguinosa e inumana violenza non significa necessariamente osannare quelle vignette». Per difendere dunque la libertà di espressione non basta fare appello al coraggio, è bene integrare il coraggio con la responsabilità, come da vecchio suggerimento kantiano, evocato da Karl Popper già all’epoca della discussione sui Versetti satanici di Salman Rushdie e della fatwa di Khomeini. Una pratica della libertà di espressione senza senso del limite può produrre effetti negativi tali che incoraggerebbero il ritorno di restrizioni. Uno studioso che ha comparato lo stato delle legislazione internazionale sulla blasfemia, Silvio Ferrari, è giunto alla conclusione che «un uso responsabile del diritto di libertà di espressione è dunque il modo migliore di rafforzarlo».
Il rischio ‘islamofobia’
I giorni dal 7 al 9 gennaio del 2015 hanno segnato profondamente la Francia: l’attacco alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, l’uccisione di una poliziotta a Montrouge, l’attentato al supermercato kosher, i volti dei fratelli Saïd e Chérif Kouachi e quello di Amedy Coulibaly – nati e cresciuti nel paese che hanno poi colpito a morte – resteranno per sempre nella memoria collettiva di una nazione che si è sentita impotente e vulnerabile, con il terrore del ‘nemico in casa’. Il grande slancio di solidarietà che da tutto il mondo si è levato verso Parigi – plasticamente rappresentato dai cortei che hanno sfilato nella capitale francese e in tutto il paese l’11 gennaio – ha visto tuttavia come contraltare lo sviluppo di pericolose recrudescenze islamofobe tendenti a identificare una religione con i deprecabili attentati dei terroristi. Il presidente François Hollande ha voluto ribadire che i terroristi nulla hanno a che vedere con l’islam, sottolineando anzi che sono proprio i musulmani le prime vittime del fanatismo, del fondamentalismo e dell’intolleranza; parole che volevano essere sale sulle ferite ancora sanguinanti della Francia, e che miravano ad arginare una reazione anti-islamica tanto prevedibile quanto preoccupante. L’Observatoir nationale contre l’islamophobie ha certificato per il 2014 una notevole contrazione dei comportamenti islamofobi: 55 casi di azioni contro i 62 del 2013 e 78 casi di minacce contro i 164 del 2013, per un totale di 133 ‘atti anti-islamici’ rispetto ai 226 dell’anno precedente.
Nelle 2 settimane successive all’attentato a Charlie Hebdo, i numeri sono vertiginosamente schizzati verso l’alto: 33 azioni e 95 minacce, per un totale di 128 atti islamofobi registrati dalla polizia tra il 7 e il 20 gennaio. Per i primi 3 mesi del 2015, le statistiche parlano di 222 manifestazioni di islamofobia, divise in 56 azioni e 166 minacce: una crescita del 500% rispetto ai comportamenti anti-islamici registrati nello stesso periodo del 2014, solo 37.
Secondo un’indagine pubblicata il 3 giugno 2015 dal Pew research center, tuttavia, il 76% dei cittadini francesi intervistati dichiarava di avere un’opinione positiva dei musulmani residenti nel paese, contro il 72% del 2014. Probabilmente, a testimoniare la percezione che – mutuando una frase del rapporto 2015 del Collectif contre l’islamophobie en France – tra i musulmani di Francia ci sono innanzitutto tanti Ahmed Merabet, il poliziotto ucciso dai fratelli Kouachi, e Lassana Bathily, il commesso-eroe del supermercato kosher.
I precedenti
- 1989
Salman Rushdie pubblica il romanzo I versetti satanici, ritenuto una bestemmia contro il profeta da parte dell’ayatollah Khomeini, il quale lancerà una fatwa con la condanna a morte dello scrittore, che da allora vive sotto protezione.
- 2002
Il politico olandese Pim Fortuyn, omosessuale dichiarato e fondatore di una lista anti-islamica che portava il suo nome, viene ucciso a Hilversum da Volkert van der Graaf, animalista ed estremista di sinistra.
- 2004
Il regista olandese Theo van Gogh, nipote del celebre pittore, è assassinato nel centro di Amsterdam da un islamico, un giovane marocchino con il passaporto olandese, per vendicare il film Submission, giudicato blasfemo e offensivo per l’islam.
- 2005
Il quotidiano danese Jyllands-Posten pubblica una serie di vignette su Maometto, che provocano disordini in gran parte dei paesi islamici e minacce di morte al disegnatore Kurt Westergaard.
Charlie Hebdo
- Settimanale satirico francese, nato nel 1970, che prende il nome da Charlie Brown, dal momento che in origine pubblicava anche le strisce dei Peanuts.
- Nel 2006 diverse organizzazioni musulmane francesi chiedono la messa al bando del giornale (che viene respinta) dopo la pubblicazione di una serie di caricature di Maometto, già uscite sul quotidiano danese Jyllands-Posten.
- Nel 2011 la redazione di Charlie Hebdo è distrutta da un attentato incendiario di matrice islamica alla vigilia della pubblicazione di un numero del giornale intitolato Sharia Hebdo, irridente nei confronti di Maometto.
- Nel 2012 un uomo viene arrestato a La Rochelle per aver incitato alla decapitazione dell’«infedele Charb» su un sito Internet jihadista, riferendosi al direttore della rivista Stéphane Charbonnier.
- Nel 2013 Charbonnier viene inserito da al-Qaeda nella lista degli uomini più ricercati per crimini contro l’islam, dopo aver pubblicato vignette satiriche su Maometto.
- Nella settimana precedente all’attentato del gennaio 2015, una vignetta di Charbonnier mostrava un terrorista islamico che all’affermazione «non ci sono ancora stati attacchi terroristici in Francia» rispondeva profeticamente: «Aspettate!... c'è tempo fino alla fine di gennaio per gli auguri!».