estasi
Dal gr. ἔκστασις «turbamento o stato di stupore della mente», der. di ἐξίστημι «mettere fuori» o «uscire di sé». Il termine indica genericamente la separazione da sé stessi, l’astrazione dalle capacità naturali o, secondo una terminologia più specificatamente religiosa, lo stato mistico nel quale si trascendono i limiti della condizione umana per unirsi alla divinità. Il Socrate platonico collega l’origine stessa della filosofia a una sorta di rapimento da parte dell’amore poiché il filosofo, per avere accesso alla verità, deve estraniarsi da sé e dal mondo. Il tema torna in Plotino, per il quale lo stato di e. è proprio dell’anima che, distaccata da tutto, si unisce all’Uno. Nell’età tardo antica e medievale l’e. è perciò uno stato nel quale, sospese le normali facoltà, il soggetto è orientato verso una conoscenza divina e non razionale. Nella filosofia cristiana il tema si collega al problema della visione di Dio e, trovando spunti nell’esegesi delle diverse visioni bibliche, da quelle profetiche a quelle di Mosè e Paolo fino alla visione beatifica, implica soprattutto aspetti gnoseologici. Secondo Agostino, che traduce ἔκστασις con excessus mentis, può indicare paura (come il sopore che colpisce Abramo quando si addormenta) ma anche l’elevazione verso Dio, come nel caso del raptus di Paolo al terzo cielo. L’e. si può avere sia nel caso di visioni corporee, se si determina una sospensione delle facoltà sensibili, sia nelle visioni intellettuali o spirituali, nelle quali l’astrazione dai sensi è totale. Un secondo riferimento significativo per il Medioevo è nella concezione di Dionigi che distingue una duplice estasi. Da una parte quella di Dio che, per l’eccesso della sua bontà, esce da sé e si diffonde, dall’altra quella dell’anima che è spinta a riunirsi a Dio. Proprio commentando Dionigi, Alberto Magno distingue l’excessus mentis dal raptus in quanto quest’ultimo è una visione per speciem che va al di là delle facoltà naturali. Tommaso d’Aquino apporta decisive precisazioni terminologiche: l’elevazione delle facoltà può avvenire semplicemente per l’attrazione di queste da parte dell’oggetto esterno oppure con una astrazione totale, per vedere un oggetto soprannaturale. Si possono quindi distinguere la visione immaginativa di Dio, quella intellegibile e quella per essentiam. La teoria dell’e., giunta con la scolastica a un pieno sviluppo, trova precisi riferimenti nei fenomeni estatici propri della mistica cattolica. La proliferazione di questi nella prima età moderna si lega inoltre alla mediazio- ne rinascimentale delle concezioni neoplatoniche: tutti i grandi mistici del 16° sec. conoscono bene la terminologia gnoseologica come, per es., Teresa d’Avila, che utilizza consapevolmente la metafora della visione nello specchio. Sarà l’idealismo ottocentesco a riappropriarsi del significato filosofico del termine. Schelling, in partic., recupera l’intuizione intellettuale, già criticata da Kant, e ne parla in termini di «e. della ragione». L’esistenza in quanto fenomenica è estatica e, per poterla comprendere, anche il pensiero deve uscire dal logos e proiettarsi verso la scissione temporale, protesa all’avvenire. L’esistenza è dunque temporale e non è un caso che Heidegger utilizzerà il termine e. per caratterizzare proprio la temporalità nei suoi tre momenti costitutivi del passato, presente e futuro.