Con il termine “esternalizzazioni” si definisce la tecnica di gestione imprenditoriale di acquisizione dei fattori produttivi da una fonte esterna. Le esternalizzazioni hanno rilevanti ricadute sui rapporti di lavoro ed è per questo che l’ordinamento ha previsto una serie di tutele individuali e collettive. Tali tutele risultano applicabili quando vi è un trasferimento d’azienda o di parte dell’azienda (art. 2112 c.c.) o quando vi è subentro nell’appalto (art. 29 del d.lgs. n. 276/2003).
Tutele molto più blande sono previste in caso di delocalizzazione. La delocalizzazione come ”ultima frontiera” delle esternalizzazioni si concretizza nel trasferimento delle attività economiche all’estero. La delocalizzazione ha messo in evidenza l’impotenza delle legislazioni nazionali e delle regole poste a livello internazionale nel dare tutela ai lavoratori.
La globalizzazione o mondializzazione dei mercati ha indotto le imprese ad adeguare le modalità di produzione al nuovo contesto economico. Le imprese per sopravvivere debbono trovare nuove modalità organizzative finalizzate a ridurre i costi di produzione e, tra questi costi, il costo del lavoro particolarmente elevato nei paesi progrediti dell’occidente (Kaufmann, C., Globalisation and labour rights, Oxford-Portland, 2007, 7).
Tra queste nuove modalità organizzative vi è l’esternalizzazione. Secondo gli studi di organizzazione aziendale con il termine esternalizzazione (o outsourcing), s’intende la tecnica di gestione imprenditoriale che si avvale di una fonte produttiva esterna per lo svolgimento di una specifica funzione (out =fuori; source = fonte; v. Purcell, K.-Purcell, J., «In-sourcing». «out-sourcing» e lavoro temporaneo, in Dir. rel. ind., 1998, 3, 343 e ss.).
Attraverso l’acquisto all’esterno delle funzioni aziendali, l’impresa riduce i costi operativi interni e, conseguentemente, i rischi di gestione che gravano, a seguito dell’esternalizzazione, su un altro imprenditore.
I fenomeni di esternalizzazione si sono andati evolvendo nel corso del tempo.
Le forme più risalenti riguardavano la sola manodopera. Basti pensare al lavoro a domicilio (Mariucci, L., Il lavoro decentrato: discipline legislative e contrattuali, Milano, 1979, 22; Zanelli P., Decentramento produttivo, in Dig. civ., IV, 1989, Torino, 226 e ss.) o al distacco. L’evoluzione più moderna dei fenomeni di esternalizzazione della manodopera è rappresentata dalla somministrazione di lavoro che consente la fornitura di lavoro per il funzionamento di interi reparti dell’azienda utilizzatrice (staff leasing; v. Ichino, P., La disciplina della segmentazione del processo produttivo e dei suoi effetti sul rapporto di lavoro, in Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo, in Atti delle Giornate di Studio di diritto del lavoro, Trento 4-5 giugno 1999, Milano, 1999, 7) e che pone una serie di problemi riguardanti la protezione dei lavoratori a causa dell’utilizzo indiretto della manodopera.
I fenomeni di esternalizzazione più imponenti riguardano l’organizzazione dell’impresa. Secondo una dottrina che si è occupata del tema nell’ambito di tali fenomeni sono annoverabili i processi di esternalizzazione in senso stretto, di internalizzazione, di terziarizzazione, di delocalizzazione (Romei, R., Cessione di ramo di azienda e appalti, in Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo, in Atti delle Giornate di Studio, cit., 139-149).
L’esternalizzazione in senso stretto può essere definita come quel processo che comporta il trasferimento di una parte dell’organizzazione del cedente. Tale forma di esternalizzazione è realizzata, di solito, attraverso il trasferimento di parte dell’azienda (infra § 4.1).
Da questa prima forma di esternalizzazione si distinguono la terziarizzazione e la internalizzazione.
Per terziarizzazione del ciclo produttivo si intende il fenomeno di dismissione e affidamento a terzi di un’attività senza il trasferimento delle strutture e dei mezzi ad essa necessari .
Alla fase di esternalizzazione, il più delle volte, segue la fase di internalizzazione. L’impresa cedente, può decidere di recuperare una determinata funzione attraverso la stipula di un contratto finalizzato a tale scopo (appalto, somministrazione di lavoro, subfornitura ecc.), anche chiedendo a terzi di gestirla direttamente all’interno dei propri locali, senza che vi siano spostamenti di elementi organizzativi all’esterno (infra § 4.2).
L’ultima frontiera dell’outsourcing è il trasferimento transnazionale di parte dell’azienda, detto anche, secondo una terminologia usata dall’economia aziendale, delocalizzazione (infra § 4).
L’esternalizzazione dell’organizzazione o delle attività economiche determina il sorgere di nuove forme di organizzazione dell’impresa.
L’impresa si organizza secondo un modello di tipo reticolare (Boari, C.-Grandi, A.-Lorenzoni, G., Le organizzazioni a rete: tre concetti di base, in Accordi, reti e vantaggio competitivo, Milano, 1992, 291; Benassi, M., Dalla gerarchia alla rete: modelli ed esperienze organizzative, Milano, 1993, 34).
La realtà industriale odierna, ci pone di fronte a quella che è stata efficacemente definita come «fabbrica multisocietaria» (De Luca Tamajo, R., I processi di terziarizzazione «intra moenia» ovvero la fabbrica «multisocietaria», in Dir. merc. lav., 1999, I, 49 ss.).
L’impresa-madre esegue le attività concorrenzialmente più vantaggiose, affidando le altre a terzi. In tal modo essa può assumere la funzione di general contractor, cioè di coordinatrice delle attività delle diverse imprese subfornitrici (da qui la nascita di strutture organizzative reticolari) o, addirittura, gestisce solo il marchio e i rapporti con il mercato.
Le diverse fasi del ciclo produttivo dell’impresa possono essere dislocate in luoghi diversi e affidate a più imprenditori che le dirigono con assunzione in proprio del rischio.
Nell’impresa-rete le singole parti o articolazioni esternalizzate dall’impresa-madre, sono ricondotte ad unità da una serie di contratti commerciali di appalto, di somministrazione, di subfornitura (Treu, T., Trasformazioni delle imprese: reti di imprese e regolazione del lavoro, in Mercato, concorrenza e regole, 2012, 8).
Non è più il potere organizzativo esercitato dal datore di lavoro ma le relazioni contrattuali tra imprese a costituire l’organizzazione per la realizzazione dei fini economici dell’imprenditore (Corazza, L., «Contrattual integration» e rapporti di lavoro, Padova, 2004).
Ciò porta al superamento del classico modello dell’impresa fordista, ovvero dell’impresa geograficamente collocata in un unico luogo, dotata di un solo edificio o di un solo complesso di edifici e organizzata secondo modalità gerarchiche (o verticali) (Giugni, G., Una lezione sul diritto del lavoro, in Gior. dir. lav. rel. ind., 1994, 209).
In conclusione al modello gerarchico e piramidale introdotto dall’art. 2104 c.c., co. 2, si sostituisce un modello orizzontale basato sull’integrazione contrattuale tra imprese. Per qualche autore tali nuove modalità organizzative sostituiscono sempre di più il mercato alla gerarchia (Del Punta R., Mercato o gerarchia: il disagio del diritto del lavoro nell’era delle esternalizzazioni, in Dir. merc. lav., 2000, 50).
Nell’impresa-rete si pongono in termini completamente nuovi le problematiche relative alla tutela dei lavoratori in termini di imputazione dei rapporti di lavoro e di correlativa responsabilità da questa derivanti. A fronte di un gruppo di imprese costituito dalla rete non sembra sia possibile identificare il datore di lavoro con il gruppo stanti le attuali normative, né possa essere fatta valere la codatorialità perché essa è anzi contraria ai principi del diritto del lavoro italiano che sono basati ancora sul divieto di interposizione (Razzolini, O., Contitolarità del rapporto nel gruppo caratterizzato da “unicità di impresa”, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona. IT – 89/2009, 3). Queste problematiche sono accentuate quando la rete di imprese supera i confini degli stati per diventare transnazionale.
In realtà, però, il termine esternalizzazione nell’ambito del diritto del lavoro ha riguardo soprattutto a quegli istituti che sono finalizzati a creare la rete e che attribuiscono protezione ai lavoratori e cioè il trasferimento di parte dell’azienda e l’appalto.
Quando l’esternalizzazione ha ad oggetto l’organizzazione delle vicende concernenti i rapporti di lavoro sono regolate dall’art. 2112 c.c.
Per i lavoratori coinvolti nel trasferimento l’ordinamento appronta una serie di tutele individuali quali la continuazione del rapporto di lavoro, la conservazione dei diritti, la responsabilità del cedente e del cessionario per i crediti maturati anteriormente al trasferimento (art. 2112, co. 1 e 2); e tutele collettive: qualora l’azienda del cedente abbia più di quindici dipendenti, il cedente e il cessionario sono obbligati alla procedura di informazione e consultazione con i sindacati alla stessa stregua di quanto è previsto in caso licenziamenti collettivi (art. 47 l. 29.12.1990, n. 428).
Sennonché, a bene vedere, più recentemente, a fronte delle sempre più frequenti operazioni di esternalizzazione la dottrina e la giurisprudenza in materia di lavoro hanno rivolto la loro attenzione alla nozione di azienda e, specialmente, a quella di parte dell’azienda e, dunque, all’ambito di applicazione delle tutele previste dall’art. 2112 c.c. (Cester, C., La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e comunitarie, in Scritti in onore di G. Suppiej, Padova, 2005, 186; Santoro Passarelli, G., Trasferimento d’azienda e rapporto di lavoro, Torino, 2004, 4).
L’interprete si è reso conto che la tutela del lavoratore passa attraverso una precisa delimitazione dei confini della parte dell’azienda effettuata attraverso parametri oggettivi fissati dalla legge.
Giurisprudenza risalente aveva individuato nell’art. 2112 c.c. accanto alla fattispecie dell’azienda anche l’ipotesi del suo «trasferimento parziale» (Cass., 18.7.1953, n. 2383; Cass., 15.3.1945, n. 179; Pret. Roma, 22.1.1970 in Dir. lav., 1970, II, 334 e ss.; App. Cagliari, 21.5.1963, in Foro it., 1963, I, 782; Grandi, M., Le modificazioni soggettive, Milano, 1971, 293; Fontana, A., La successione dell’imprenditore nel rapporto di lavoro, Milano, 1970, 131). Secondo questa giurisprudenza poteva essere considerato un «trasferimento parziale di azienda», cioè un trasferimento di ramo d’azienda, il trasferimento da un primo ad un secondo imprenditore di un insieme di beni organizzati «suscettibili di attività autonoma e capaci di produrre beni e servizi» (Jannuzzi, G., In tema di trasferimento parziale dell’organizzazione aziendale, in Mass. giur. lav., 1956, 146 e ss.).
Con il d.lg.s 2.2.2001 n. 18 è stata introdotta per la prima volta la nozione di parte dell’azienda.
Forse nella consapevolezza che le esigenze di tutela dei lavoratori non potessero essere soddisfatte compiutamente da una nozione commerciale ed anche per la circostanza che la norma sul marchio di fabbrica era stata abrogata il legislatore ha introdotto la fattispecie dell’articolazione funzionalmente autonoma.
Secondo la nuova norma la nozione di azienda e di parte dell’azienda sono dettate «ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo» cioè ai fini dell’applicazione dell’art. 2112 c.c. (art. 2112, co. 5). Inoltre la rubrica di questa recita «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda»; da ciò si può dedurre, con buon margine di certezza, che la nozione ha come fine principale la tutela dei lavoratori. La norma tutela i lavoratori garantendo loro la continuazione del rapporto di lavoro e la conservazione dei diritti.
In altri termini occorre comprendere quali siano le caratteristiche che differenziano la nozione di parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma dall’azienda ex art. 2555 c.c. (Ciucciovino, S., La disciplina del trasferimento d’azienda dopo il d.lgs 18/2001, in I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici, De Luca Tamajo, R., a cura di, Napoli, 2002, 86), tenendo comunque presente che l’articolazione deve essere rilevante anche dal punto di vista del valore di avviamento (Carnelutti, F., Valore giuridico della nozione della azienda commerciale, in Riv. dir. comm., 1924, I, 166; Buonocore, V., Il «nuovo» testo dell’art. 2112 c.c. del codice civile e il trasferimento di un ramo di azienda, in Giur. comm., 2003, 316-319).
Non v’è dubbio che non può esserci l’autonomia funzionale senza che vi sia anche l’autonomia organizzativa (Lepore, A., Ancora in tema di trasferimento ramo d’azienda e tutela dei lavoratori, in Lav. giur., 2004, 1237; Cester, C., Trasferimento d’azienda e rapporti di lavoro, la nuova disciplina, in Lav. giur. 2001, 510). Pertanto l’articolazione deve essere prima di tutto un’organizzazione. L’organizzazione è il mezzo attraverso cui si realizza il fine, o meglio, la funzione (per usare la terminologia della norma) per il quale è stata creata dall’imprenditore l’articolazione.
L’organizzazione che costituisce l’articolazione deve essere autonoma dal resto dell’organizzazione dell’impresa del cedente. Deve essere cioè indipendente e separabile dal resto dell’organizzazione del cedente. Tuttavia, l’ambito di applicazione della nozione risulta essere più ampio rispetto a quello di ramo d’azienda. Tale maggiore ampiezza è stata ulteriormente accentuata dalle ultime riforme.
Nell’ampia riforma del mercato del lavoro attuata con il d.lgs. 10.9.2003, n. 276 è stata inclusa anche la modifica dell’art. 2112 c.c. Tra i punti oggetto di revisione vi è stata la nozione di parte dell’azienda attraverso l’abrogazione dei requisiti della preesistenza della conservazione dell’identità nel trasferimento. Secondo l’art. 32 del d.lgs. 276/2003 l’articolazione funzionalmente autonoma deve essere «identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».
La norma ha un notevole grado di ambiguità. Essa infatti accosta ad un requisito oggettivo (autonomia funzionale), un requisito soggettivo e cioè l’identificazione ad opera della parti al momento del trasferimento (Perulli A., L’autonomia privata individuale e collettiva nella determinazione dell’articolazione funzionalmente autonoma in Trasferimento di ramo d’azienda e rapporto di lavoro, Dialoghi fra dottrina e giurisprudenza, Milano, 2004, 118).
Secondo un’interpretazione, particolarmente ampliativa, la norma consentirebbe al cedente e al cessionario di aggregare la parte trasferenda, a proprio piacimento, fino al momento della cessione e solo e soltanto in quel preciso momento di identificarla così com’è (Maresca, A., Commento all’art. 32 del d.lgs. 276 del 2003, in Il nuovo mercato del lavoro, Milano, 2004, 393). Secondo altra interpretazione l’inderogabilità dell’art. 2112 c.c. sarebbe attenuata solo, però, nei confronti dei lavoratori (Santoro Passarelli, G., Trasferimento d’azienda e rapporto di lavoro, 2004, Torino, 26); secondo altri la circostanza che siano stati espunti i requisiti della preesistenza e dell’identità nel trasferimento, non modificherebbe l’ambito di applicazione della norma (Perulli, A., Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, in Argomenti dir. lav., 2003, I, 483).
Valutando le intenzioni del legislatore è evidente che l’eliminazione dei requisiti della preesistenza e dell’identità è stata posta in essere per ampliare l’ambito di applicazione della parte d’azienda, altrimenti non si comprenderebbe il fine della riforma (Cester, C., La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne e norme comunitarie, cit., 219).
Peraltro, il d.lgs. n. 276/2003 ha una finalità liberista, nel senso che è finalizzato ad agevolare le esigenze imprenditoriali di esternalizzare. La disciplina della somministrazione di lavoro (art. 20 e ss.) e dell’appalto (art. 29) ampliano le facoltà di utilizzo di istituti che erano già presenti nell’ordinamento. Quindi non si comprenderebbe perché il legislatore avrebbe dovuto dettare una nozione di parte dell’azienda in controtendenza rispetto alle finalità del d.lgs. n. 276/2003 (Romagnoli, U., Radiografia di una riforma, in Lav. dir., 2004, 38).
In conclusione una norma inderogabile nella forma diviene in sostanza derogabile e suoi effetti divengono disponibili ad opera del cedente e del cessionario dell’azienda.
Anche la giurisprudenza mostra un’applicazione non univoca della fattispecie. Alcune sentenze continuano ad interpretare la norma in senso oggettivo (Trib. Roma, 3.3.2008 e Trib. Milano, 29.2.2008, entrambe in Riv. giur. lav., 2008, II, 673 e ss.) altre ritengono, invece che la nuova disposizione lasci alle parti una maggiore libertà nell’individuazione della parte dell’azienda (Trib. Torino, 17.6.2005, Argomenti dir. lav., 2006, 1773).
Ad ogni modo la deriva della nozione di parte dell’azienda è ulteriormente accentuata dalla previsione dell’art. 32, co. 4, lett. c), l. 4.11.2010, n. 186 (il cd. «Collegato lavoro»; v. De Angelis, L., Collegato lavoro 2010 e diritto processuale, in Lav. giur., 2011, 157 e ss.).
La norma riduce la decorrenza dei tempi nei quali il lavoratore può invocare l’applicazione dell’art. 1406 c.c., anziché dell’art. 2112 c.c. Tale previsione infatti estende la disciplina in materia di termini di decadenza del licenziamento individuale (termine di 60 giorni) anche al caso del trasferimento di azienda con termine decorrente dalla data del trasferimento. Il fatto è che in caso di licenziamento il lavoratore riceve la comunicazione che è obbligatoria per legge e quindi ha il tempo utile per poter impugnare il licenziamento, mentre in caso di trasferimento di azienda non vi è un tale obbligo. Pertanto il tempo decorre dalla data del trasferimento senza che il lavoratore possa impugnare l’atto di trasferimento e invocare, così, in tempo utile l’applicazione dell’art. 1406 c.c., anziché dell’art. 2112 c.c. (Menghini, L., Il regime delle impugnazioni, in Riv. giur. lav., 2011, I, 133).
L’eccessiva dilatazione della nozione di parte dell’azienda faceva sospettare della sua non conformità alla direttiva (Lepore, A.,Trasferimento di parte dell’azienda, in Il nuovo lessico giuslavoristico, Pedrazzoli, M., a cura di, Bologna, 2010, 152) e, da ultimo, la giurisprudenza di merito ha sollevato questione pregiudiziale presso la Corte di giustizia (Trib. Trento, 20.9.2012, in Foro it., 2012, I, 3189).
La sentenza ha posto due quesiti alla Corte di giustizia:
a) se la direttiva osti ad una norma come l’art. 2112, co. 5, c.c. che consente che l’entità economica possa essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.
Questo primo quesito sorge dal dubbio che sia violato dalla norma il requisito della “stabilità” introdotto dalle sentenze “Rygaard” e “Suzen” (rispettivamente C. giust., 19.9.1995, C-48/94, Rygaard e C. giust., 11.3.1997, C-13/95, Suzen c. Zehnacker):
b) se la direttiva osti ad una normativa che consente la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente anche qualora l’impresa cedente eserciti dopo il trasferimento un intenso potere di supremazia nei confronti della cessionaria che si manifesti attraverso uno stretto vincolo di committenza e una commistione del rischio d’impresa.
A fronte di questa incertezza si potrebbe pensare di estendere anche al negozio di cessione di parte dell’azienda l’istituto della certificazione, già peraltro prevista nel caso di appalto (Bellocchi, P., Le procedure di certificazione, in Il diritto del lavoro a cura di Amoroso, G-Di Cerbo, V.-Maresca, A., Milano. 2009, 1471).
L’ampliamento della nozione di trasferimento di parte dell’azienda e la conseguente incertezza su di essa è determinato anche dall’estensione dei possibili elementi costitutivi della stessa, anche detti secondo una terminologia di tipo aziendalistico fattori produttivi.
Sulla base dei principi comunitari la disciplina protettiva in materia di trasferimento d’impresa deve essere ritenuta applicabile anche quando la parte dell’azienda sia costituita da soli rapporti di lavoro v. art. 1, co. 1, dir. 12.3.2001 n. 23).
Tale ricostruzione trova, peraltro, conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione che ha applicato i principi espressi sul punto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (Cass., 23.7.2002, n. 10761; Cass., 30.12.2003, n. 19842; Cass., 8.8.2008, n. 17434; Cass., 5.3.2008, n. 5932). Conseguentemente non sono più necessarie le “cose”, ma sono sufficienti i rapporti giuridici e i rapporti di lavoro (Minervini, G., L’imprenditore. Fattispecie e Statuti, Napoli, 1966, 129).
Quando, l’esternalizzazione riguardi solo l’attività sono utilizzati altri negozi tra cui il più rilevante è sicuramente l’appalto. Nell’esternalizzazione attraverso contratto di appalto (o di successione nell’appalto) è continuata dall’appaltatore (o dal nuovo appaltatore) la stessa attività senza la cessione dell’organizzazione (Vallebona, A., Successione nell’appalto e tutela dei posti di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 217; Cass., 2.3.2012, n. 3301).
Questa distinzione è rinvenibile nella disciplina comunitaria. Essa ha infatti distinto tra subentro nell’attività e cessione dell’entità economica che, invece, si concreta nella cessione dei mezzi organizzati e neppure la riforma ad opera del d.lgs. n. 276/2003 ha modificato tale distinzione.
Ma la distinzione tra cessione di parte dell’azienda e successione nell’appalto, in linea di principio abbastanza chiara, si è andata appannando nel corso del tempo, con un progressivo avvicinamento e sovrapposizione tra le due fattispecie.
Con il diffondersi di nuove forme di organizzazione dell’impresa la legge sull’interposizione (l. 23.10.1960, n. 1369) è stata abrogata ed è stata introdotta una nuova disciplina dell’appalto. Secondo l’art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003 (che si discosta dalla nozione dettata dall’art. 1655 c.c.) ricorre un appalto legittimo quando l’appaltatore organizza i mezzi necessari o quando esercita il potere direttivo e organizzativo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto nonché quando assume il rischio d’impresa (Cass., 28.3.2011, n. 7034).
Pertanto secondo l’art. 29 è sufficiente che i lavoratori impiegati nell’appalto siano diretti dall’appaltatore (Ichino, P., Somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco, in Il nuovo mercato del lavoro, cit., 267); nel caso in cui, invece, essi siano diretti dall’appaltante o, promiscuamente dall’appaltante e dall’appaltatore ricorrerà un’ipotesi di somministrazione irregolare ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. 276/2003.
Ma questa distinzione è tanto più importante in quanto le tutele che l’ordinamento riconosce ai lavoratori nel caso di cessione di parte dell’azienda sono diverse da quelle che riconosce nel caso di successione nell’appalto.
Nel primo caso ai lavoratori ceduti è riconosciuta la continuazione del rapporto di lavoro e la conservazione dei diritti (art. 2112, co. 1, c.c.), nel caso di successione nell’appalto la legge grava l’appaltante e l’appaltatore della responsabilità solidale di due anni dalla cessazione dell’appalto per i crediti maturati nello svolgimento del rapporto di lavoro presso l’appaltatore (art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003). Quando pertanto vi è successione di un secondo appaltatore nello svolgimento dello stesso servizio o della stessa attività eseguita dal primo appaltatore non è garantita ai lavoratori la continuazione del rapporto di lavoro ma questi sono, di solito, licenziati per motivi organizzativi (per giustificato motivo oggettivo o a seguito della procedura per licenziamento collettivo).
Com’è stato già evidenziato sopra l’appalto è un vero appalto solo nel caso in cui i dipendenti dell’appaltatore siano “eterodiretti” dallo stesso appaltatore. Sennonché la nuova disciplina dell’appalto pone una serie di problemi quando applicata alle singole situazioni concrete e, in particolare, agli appalti interni, perché in questa ipotesi vi è una vicinanza stretta o una stretta connessione tra l’organizzazione dell’appaltatore e quella dell’appaltante. In questi casi il criterio del potere direttivo non è sempre valido per distinguere le ipotesi di appalto legittimo da quelle, invece, illegittime, proprio per la stretta connessione tra le due organizzazioni dell’appaltante e dell’appaltatore. Né può soccorrere il criterio del rischio d’impresa richiamato dallo stesso art. 29.
Questo è uno dei problemi centrali che si pongono dal punto di vista statico nella gestione dell’appalto, da un punto di vista dinamico, invece, può accadere che i lavoratori adibiti allo svolgimento dell’appalto presso il primo appaltatore siano riassunti dal secondo appaltatore.
La Corte di giustizia ha ricondotto al trasferimento d’impresa il caso in cui il nuovo appaltatore del servizio «riassuma, in forza di un contratto collettivo di lavoro, una parte del personale del subappaltatore, a condizione che la riassunzione (…) riguardi una parte essenziale, in termini di numero e di competenze, dei dipendenti che il subappaltatore destinava all’esecuzione dei lavori subappaltati» (C. giust., 24.1.2002, C-51/00, Temco Service Ind. c. S. Imzilyen).
Il diritto interno italiano prevede che l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d'appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte dell’azienda (art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003). Secondo l’interpretazione più plausibile la norma costituirebbe una deroga all’art. 2112 c.c.: la disposizione esclude che la riassunzione dei dipendenti dal primo al secondo appaltatore integri un trasferimento d’azienda o di parte dell’azienda anche quando questi costituiscono il nucleo essenziale dell’organizzazione preposta allo svolgimento dell’appalto (Alvino, I., La tutela del lavoro nell’appalto, in, Il diritto del lavoro, Amoroso, G.-Di Cerbo, V.-Maresca, A., a cura di, Milano, 2009, 1261) e questo sulla base della circostanza che manca una relazione diretta tra primo e secondo appaltatore.
La norma vuole scongiurare che la riassunzione dei lavoratori imposta dalle clausole del contratto collettivo o dal capitolato di appalto possa integrare un trasferimento d’azienda o di parte dell’azienda (Vallebona, A., Successione nell’appalto e tutela dei posti di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1999, I, 217 e ss.; Carinci, M.T., La fornitura di lavoro altrui, Milano, 2000, 489).
Letta in questi termini questa è in contrasto con la disciplina comunitaria, né è possibile al fine di implementare il principio espresso nel diritto comunitario una sua interpretazione conforme perché il contrasto pare insanabile.
Ad ogni modo la norma interna resta applicabile sino a quando non sarà sollevata questione pregiudiziale dinanzi alle Corte di giustizia e quest’ultima non condanni l’Italia per non adeguata attuazione della direttiva in materia di trasferimento d’impresa.
Di solito alla fase di esternalizzazione segue una fase di internalizzazione finalizzata al recupero della funzione economica che il datore di lavoro realizzava precedentemente “in proprio” e che a seguito della cessione è eseguita dal cessionario della parte ceduta. Queste due fasi si concretano in una fattispecie complessa derivante dal collegamento di più negozi.
Generalmente il collegamento negoziale è tra contratto di compravendita o contratto di affitto del ramo di azienda e contratto di appalto. Non è comunque esclusa la possibilità che siano utilizzati per la fase dell’internalizzazione altri contratti (subfornitura o somministrazione commerciale, per rimanere solo a due esempi.)
La modalità di utilizzo congiunto dei due negozi, di cessione di parte dell’azienda e di appalto, è talmente diffusa che il legislatore con il d.lgs. n. 276/2003 ha introdotto una nuova fattispecie tipica denominato dalla dottrina «contratto di esternalizzazione» (De Luca Tamajo, R., Le esternalizzazioni tra cessione di ramo di azienda e rapporti di fornitura, in I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici, cit., 66).
In questa particolare figura il cedente è pertanto anche appaltante e il cessionario è l’appaltatore.
L’oggetto del contratto di trasferimento è la cessione dell’azienda o di parte dell’azienda, quello del contratto di appalto l’attività eseguita con l’organizzazione trasferita.
La stipula del cd. “contratto di esternalizzazione” è resa ancora più facile con l’ultima versione dell’art. 2112 c.c., in quanto prevede che l’articolazione è dotata di autonomia funzionale «nel momento del trasferimento».
Come abbiamo visto la disposizione oramai consente la riorganizzazione di parti che non costituiscono nuclei organizzativi autonomi, fino ad un istante prima del trasferimento, in vista dell’esternalizzazione.
L’effettivo svolgimento dell’appalto da parte del cessionario è garanzia di continuazione dell’attività economica e dunque anche di continuità senza soluzione dei rapporti di lavoro presso il nuovo imprenditore. La continuazione dell’attività economica, infatti, costituisce la dimostrazione tangibile che il trasferimento di azienda non è stato attuato ai fini della dismissione dell’organizzazione e quindi con intento frodatorio.
L’esternalizzazione può essere anche all’estero. Tale forma di outsourcing è definita, con termine aziendalistico, oramai in voga anche tra i giuslavoristi, delocalizzazione.
La delocalizzazione è uno dei fenomeni più strettamente correlati alla globalizzazione. L’abbattimento delle barriere tra stati consente la libertà di commercio e un più facile spostamento dell’impresa o di parti dell’impresa verso paesi terzi nei quali i costi di produzione sono meno elevati.
La delocalizzazione è un fenomeno unitario ma, al contempo, di carattere composito. È un fenomeno unitario perché implica l’esternalizzazione delle imprese è, però, altresì, un fenomeno composito poiché prevede diverse forme di realizzazione.
Come nel caso delle esternalizzazioni nelle delocalizzazioni le imprese attraverso contratti commerciali (di somministrazione, appalto, subfornitura) o collegamenti societari creano una rete transnazionale di imprese. La transnazionalità fa sorgere problemi sulla disciplina applicabile alla relazione commerciale tra imprese facenti parte della rete e sulla disciplina applicabile ai rapporti di lavoro transnazionali.
Anche l’oggetto della delocalizzazione transnazionale può variare (Carinci, M.T., Le delocalizzazioni produttive in Italia: problemi di diritto del lavoro, in WP, C.S.D.L.E., “Massimo D Antona”. IT – 44/2006).
Una prima forma di delocalizzazione può essere quella della sola mano d’opera. Singoli lavoratori possono essere trasferiti o distaccati all’estero.
Una seconda tipologia comprende la delocalizzazione dell’attività o del servizio. In questa seconda evenienza l’imprenditore decide di continuare l’attività attraverso la gestione di un’impresa estera. In questo caso la ricaduta sui lavoratori è il licenziamento per ragioni economiche nel paese di origine.
Infine la delocalizzazione può concretarsi nel trasferimento di parte dell’azienda.
In realtà questo fenomeno è stato sino a tempi recenti raro. Il trasferimento dell’organizzazione all’estero comportava costi molto alti per gli imprenditori. La delocalizzazione all’estero si riduceva, pertanto, di solito, nella esternalizzazione della mano d’opera o della sola attività.
Con l’affermarsi di organizzazioni costituite da beni immateriali oppure di sola mano d’opera (cd. labour intensive) l’imprenditore può più facilmente trasferire l’azienda in un altro paese per godere di condizioni lavorative più convenienti (Orlandini, G., I lavoratori europei nell’impresa orizzontale transnazionale tra regole sociali e di mercato, in Riv. giur. lav., 2009, I, 557).
Per questa ragione è ritornata forte la necessità di concordare un qualche forma di protezione ai lavoratori interessati dal trasferimento d’azienda transnazionale, anche a seguito dell’ingresso nell’Unione europea dei paesi cd. “neocomunitari”.
La delocalizzazione pone una serie di problemi concernenti la tutela dei lavoratori, inimmaginabili qualche decennio fa, e mette drammaticamente in luce le carenze dell’attuale legislazione statale a tutela del lavoro.
Tutta la disciplina del diritto del lavoro è fortemente condizionata da questi fenomeni: se la disciplina interna dei singoli stati non è riformata nel senso di una riduzione dei costi di produzione e del lavoro le imprese trasferiscono la loro produzione all’estero in paesi che consentono il maggior risparmio possibile (Perulli, A., Delocalizzazione produttiva e relazioni industriali nella globalizzazione. Note a margine del caso Fiat, in Lav. dir., 2011, 347-348).
Per tale ragione la delocalizzazione è la principale causa del cd. race to the bottom e del dumping sociale tra paesi ricchi e paesi poveri.
Inoltre, a lungo termine, la delocalizzazione, a causa del trasferimento all’estero di grandi gruppi produttivi può portare all’impoverimento del tessuto produttivo con il conseguente depauperamento delle economie nazionali (Santoro Passarelli, G., Competitività e flessibilità del rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2009, I, 204).
Le questioni che le delocalizzazioni all’estero sono correlate, dunque, non solo alla tutela dei lavoratori, ma anche alla salvaguardia, più in generale, del tessuto economico dei paesi più avanzati.
La delocalizzazione pone il problema di tutelare i lavoratori nell’ambito di un’impresa che, oramai, è multinazionale e che geograficamente produce in paesi nei quali la protezione dei lavoratori è al ribasso rispetto agli standards dei paesi occidentali (Barbera, M. Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2010, 243).
Occorre distinguere tra le delocalizzazioni crossborder intracomunitarie che devono essere regolate dai principi dettati dall’ordinamento comunitario, da quelle extracomunitarie che richiedono l’applicazione di differenti tecniche di tutela.
Per quanto riguarda le delocalizzazioni intracomunitarie la direttiva comunitaria non detta una disciplina specifica. Le difficoltà tecniche dell’applicazione transnazionale della direttiva e le radici ideologiche alla base della creazione dell’Unione economica e monetaria europea hanno indotto il legislatore comunitario a non dettare una disciplina per i trasferimenti d’impresa transnazionali (McMullen, J., Some problems and Themes in the Application in Member States of Directive 2001/23/EC on Transfer of Undertakings, Intern. law journal ind. rel., 2007, 352).
Ne deriva che nel caso di trasferimento d’azienda o di parte dell’azienda transnazionale non potrà essere garantita ai lavoratori la continuazione del rapporto e la conservazione dei diritti maturati presso il cedente e, comunque, di solito, la ricaduta sui lavoratori è il licenziamento per motivi economici.
In mancanza di una disciplina specifica per il trasferimento d’azienda transnazionale le uniche norme applicabili ai lavoratori interessati sono quelle previste dal reg. CE, Roma I, n. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali che ha sostituito dal 17.12.2009 la Convenzione di Roma 80/934/EEC (Orlandini, G., Il rapporto di lavoro con elementi di internazionalità, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 137/2012, 3-40).
Ma queste regole applicano il trattamento del paese verso cui si esternalizza, favorendo il cd. “law shopping” (v. la dir. n. 96/71, il d.lgs. n. 71/2000; la dir. 2006/123/CE; l’art. 23 del d.lgs. 26.3.2010, n. 59; in dottrina v. Lo Faro, A., «Turisti e vagabondi»: riflessioni sulla mobilità internazionale dei lavoratori nell’impresa senza confini, in Lav. dir., 2005, 459; Galgano F., L’impresa transnazionale e i diritti nazionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 48).
È stato inoltre propugnato al fine di contrastare fenomeni di dumping sociale l’utilizzo di meccanismi volontari basati sull’informazione e consultazione (dir. 2009/38/CE; v. Scarponi, S., Comitati aziendali europei (CAE), in Il nuovo lessico giuslavoristico, Pedrazzoli, M., a cura di, Bologna, 2011, 57 e ivi nota 28); sui contratti collettivi transnazionali denominati National Framework Agreement (Sciarra S., Viking e Laval: diritti collettivi e mercato nel recente dibattito europeo, in Lav. dir., 2008, 245 e ss.) o sullo strumento della responsabilità sociale delle impresa. Ma questi soli proprio perché volontari non possono avere una portata risolutiva (di differente avviso sembra essere Treu T., Trasformazioni delle imprese: reti di imprese e regolazione del lavoro, in Mercato, concorrenza e regole, 2012, 29). Più efficace sembra essere la clausola sociale perché non si riduce a una mera dichiarazione di intenti priva di effetti vincolanti per le economie dei paesi (come invece, sono le Convenzioni OIL o altre forme di regolazione internazionale) ma è accompagnata da meccanismi di enforcement (Supiot, A., Giustizia sociale e liberalizzazione del commercio internazionale, in Lavoro e dir., 2011, 513).
Ad ogni modo parte della dottrina ritiene che a fronte dell’economia globale non è più sufficiente un’autocorrezione ma l’eterocorrezione attraverso misure coercitive e/o sanzionatorie che impongano il rispetto di determinati, standards di tutela (Perulli, A., Diritto del lavoro e globalizzazione, Padova, 1999, XXV).
L’ampliamento delle fattispecie delle esternalizzazioni dovuto all’utilizzo delle clausole generali e delle norme a precetto generico consente, oramai, l’intercambiabilità tra le diverse figure di esternalizzazione.
La parte dell’azienda può essere anche un gruppo organizzato di lavoratori, oltretutto può essere identificata sino al momento del trasferimento.
L’unico indice di distinzione tra appalto e somministrazione è l’esercizio del potere direttivo. Se l’appaltatore organizza i lavoratori nello svolgimento dell’appalto attraverso l’esercizio del potere direttivo (organizzativo e di controllo) allora significa che è titolare o gestisce l’organizzazione impiegata nell’appalto. Se, invece, questi sono diretti dall’appaltante se ne può dedurre che l’appalto è fittizio e che l’oggetto dell’appalto non è il compimento dell’opera o del servizio in favore dell’appaltante ma un appalto di mano d’opera. Solo se quest’ultimo è eseguito in assenza della autorizzazione richiesta dalla legge è considerato dalla legge una somministrazione irregolare (art. 27 d.lgs. n. 276/2003).
La somministrazione di lavoro può essere utilizzata in una serie indefinita di ipotesi («ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive anche relative all’ordinaria attività dell’impresa») e anche a tempo indeterminato.
Pertanto uno stesso servizio può essere fornito utilizzando una delle tre forme di outsourcing indistintamente.
Ad esempio, un servizio di pulizie può essere appaltato ad un impresa appaltatrice. Ma lo stesso servizio può essere eseguito anche da una squadra di lavoratori inviata da un’agenzia di somministrazione di lavoro oppure potrebbe essere eseguito da un gruppo di lavoratori di una parte dell’azienda ceduta in forza di un contratto d’affitto che si estingue alla cessazione del contratto di affitto di azienda.
Nell’utilizzo di ciascuno degli strumenti per esternalizzare messi a disposizione dall’ordinamento basta il rispetto dei requisiti formali imposti dalla legge.
Il contratto di somministrazione dovrà essere concluso con un’agenzia autorizzata. Dovrà essere redatto secondo le previsioni previste dalla legge.
Per quanto attiene all’appalto non vi sono attività che non possano essere appaltate. Occorre dimostrare che il potere direttivo è esercitato dall’appaltatore.
Dovrà essere dimostrato che si cede una parte dell’azienda sia pur identificata al momento della cessione.
In conclusione la normativa consente una maggiore libertà dell’imprenditore nella scelta della forma di esternalizzazione anche a scapito delle tutele dei lavoratori. Questo stato di cose comporta la necessità di trovare nuove regole o nuovi strumenti regolatori a fronte della crisi della norma statale che garantiscano tutele, ma le difficoltà da superare in tale direzione sono molte (v. Galgano, F., L’impresa transnazionale e i diritti nazionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 43).
Art. 2112 c.c.; art. 47 l. 29.11.1990, n. 428; d.lgs. 2.2.2001, n. 18; art. 29 e art. 32 l. 10.9.2003, n. 276.
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