Estetica del cinema
L'espressione estetica del cinema (come ogni altra espressione che leghi la parola estetica a un'arte particolare: estetica della pittura, della musica, e così via) è usata dagli addetti ai lavori (per es., già negli anni Venti, da Ricciotto Canudo nella sua Esthétique du septième art, trad. it. in "Bianco e nero", 1939, 2, come, più tardi, da M. Pezzella, Estetica del cinema, 1996, e da E. Bruno, Del gusto, 2001) come se individuasse un campo sufficientemente omogeneo di oggetti e problemi. In realtà può essere usata, e di fatto talvolta è usata, senza le necessarie cautele, così da generare interni contrasti, tensioni e vaghezze che possono dar luogo a equivoci e a veri e propri errori.
La ragione non consiste direttamente nella latitudine semantica della parola estetica, quanto invece nella pretesa di usare un termine solo presuntivamente univoco entro un campo ritenuto altrettanto presuntivamente omogeneo, si tratti di cinema, di pittura, di musica, e così via, anzi dell'arte stessa, senza specificazioni. Tale latitudine infatti è propria di ogni parola, in quanto non fissata come termine tecnico all'interno di un linguaggio speciale e provvista quindi di un'area semantica costituita non da una 'classe' di significati, i cui membri abbiano tutti, a titolo di rilevante criterio di appartenenza, almeno un tratto pertinente in comune, ma da una 'famiglia' di significati (nel senso di L.J. Wittgenstein), i cui membri sono privi anche di un solo tratto pertinente comune a tutti, ma tali che sia sempre possibile collegare due elementi qualsiasi mediante un numero finito di elementi ordinati in modo che abbiano, ciascuno, almeno un tratto pertinente comune con il precedente. Secondo l'immagine di Wittgenstein: qualcosa come un filo le cui fibre si sovrappongono via via l'una sull'altra (Philosophische Untersuchungen, 1953; trad. it. 1967).
In altre parole: accade non infrequentemente che si creda di avere a che fare con un termine che designi una classe di significati, sia pure articolati in varie accezioni, mentre si ha a che fare piuttosto con una parola che designa solo una famiglia di significati. Il che comporta il rischio di passare nel corso dell'esposizione da un significato all'altro e di trasformare un risultato della ricerca, legittimo rispetto al primo significato di estetica, in un risultato illegittimo rispetto al secondo.
La questione non è infatti di mere parole. Anzi, da questo punto di vista, l'espressione estetica del cinema e altre sono del tutto corrette, se usate nel senso che via via compete loro. Ma appunto bisogna esserne consapevoli e non cedere all'illusione di disporre già di uno scenario pacifico entro cui sarebbero possibili estetiche per un verso assai diverse, ma per altro verso pur sempre legate l'una all'altra da un'omogeneità di fondo. Per es., è necessario tenere ben distinte, nonostante tutti i loro mediati rimandi reciproci, l'estetica della tradizione filosofica dalle estetiche delle singole arti. Un'estetica filosofica in quanto riflessione sulla condizione estetica dell'esperienza, cioè di qualsiasi esperienza (condizione che I. Kant chiamava sentimento o senso comune), non si occupa esclusivamente di una singola arte e neppure dell'arte in genere, in senso estetico moderno, la cui nozione è parimenti una famiglia e non una classe, ma appunto di qualsiasi esperienza; e di opere d'arte si occupa solo in quanto queste sono esempi caratterizzati dalla dominanza di quella condizione (che, per Kant, era il loro 'principio di determinazione'). Un'estetica delle singole arti invece dovrebbe occuparsi proprio di questa o quell'arte, non necessariamente in senso estetico moderno, e il suo modo di trattarla deve tener conto empiricamente e pragmaticamente dei suoi procedimenti operativi. La prima rientra in una riflessione sui principi dell'esperienza (intellettuali, pratici, estetici), la seconda è invece un'analisi empirico-pragmatica e un organamento teorico dei procedimenti della singola arte considerata. Scambiare l'una con l'altra significa per un verso perdere di vista il problema paradossale, ma ineludibile, dello statuto dell'esperienza in genere e per altro verso trasformare una teoria particolare, forse valida nella sua particolarità, in una eterogenea teoria filosofico-empirica, generalizzante e in definitiva normativa, inaccettabile già solo per l'incompatibilità dei suoi componenti. E giustamente F. Casetti (1993) e, ancora prima, G. Aristarco (1951, 1960²) hanno usato rispettivamente le parole teoria e teorica (forse intenzionalmente più debole di 'teoria'; v. anche teorie del cinema per questo aspetto e per tutti i successivi argomenti trattati).
Per il cinema l''intenibilità' di quello scambio è particolarmente appariscente. Della pittura, che almeno tecnicamente sembra essere sempre esistita, si può più facilmente immaginare che sia una forma espressiva in qualche modo originaria della natura culturale dell'uomo. Sotto questa presupposizione le ricerche sulla pittura, in quanto modo espressivo, che possono essere dette solo in senso lato estetiche, condotte per esempio da un punto di vista purovisibilistico (H. Wölfflin e altri), iconologico (A. Warburg e warburghiani), percettivo-gestaltico (R. Arnheim), percettivo-transazionale (E.H.J. Gombrich), si muovono entro un campo sufficientemente ben delineato, siano poi in tutto o in parte accettabili o no, mentre nel caso della pittura come arte in senso estetico moderno una teoria filosofico-empirica e normativa sarebbe del tutto inadeguata: una tale estetica della pittura, nella misura in cui è lecita, suppone una certa arte pittorica o un certo modo di considerarla. Il cinema invece è nato tardi e in occasione dell'affermarsi di uno strumento tecnico prima impensato: è quindi tanto più evidente che un'e. del c. non è materialmente possibile se non come analisi empirico-pragmatica e teorizzazione sempre rinnovabile degli adattamenti dello strumento alle variabili esigenze espressive del cinema in genere e in particolare del cinema come arte cinematografica, dalla formazione lenta e faticosa. Anzi, nel caso del cinema, sul carattere empirico di un'estetica s'impone come prevalente il suo carattere pragmatico, vale a dire: ciò che si fa e si vuole fare dello strumento tecnico come mezzo per realizzare un'arte cinematografica o, quanto meno, un 'linguaggio', capace di organizzare un qualche 'discorso' (espressioni da intendere qui in senso debole). Non a caso l'estetico-teorico del cinema forse più importante e finora insuperato, Sergej M. Ejzenštejn, fu anche un grande autore di cinema: esempio altamente significativo della indisgiungibilità non solo ideale, ma nel suo caso anche effettiva, del comprendere il cinema, del saperlo fare e del farlo effettivamente.Questa non è affatto una svalutazione delle teorie empirico-pragmatiche. Al contrario, senza teorie del genere, che si presentano implicitamente anche attraverso le stesse opere cinematografiche, non s'intenderebbe affatto né il senso del cinema né la sua storia. Lo stesso spettatore medio tiene più o meno conto ogni volta che assiste alla proiezione di un film qualsiasi del formarsi del cinema mediante un certo modo di fare, che va dai primi esperimenti, l'attualità ricostruita, le minimali ricostruzioni storiche, le riprese di scene reali o umoristiche, L'arrivée du train o L'arroseur arrosé dei Lumière, al documentarismo alla Flaherty e ai film comici di Buster Keaton o Charlie Chaplin, dal film fantastico alla Méliès, fondato sui cosiddetti trucchi, ai primi ambiziosi kolossal, dal cosiddetto teatro cinematografato al cinema di montaggio, dal film scientifico specialistico alla cinematografia d'avanguardia, dai 'film d'autore' alla produzione cinematografica industriale e di larghissima diffusione. E quindi non può non tener conto implicitamente e inconsapevolmente della stessa teoria sottesa, trapelante dal lavoro produttivo-creativo e dal continuo e parallelo proliferare, almeno fin dagli anni Venti, di teorie del cinema, che accompagnano, seguono e talvolta addirittura anticipano progettualmente la produzione stessa. In realtà il cinema, senza questo lavoro teorico, che gli specialisti conoscono direttamente e il pubblico di solito conosce quasi solo indirettamente attraverso il suo riflesso nei film, non sarebbe stato e non sarebbe così come è variamente stato ed è.Tuttavia i due campi, quello dell'estetica filosofica e quello dell'estetica di un'arte singola, non vanno divisi nettamente da un punto di vista materiale, dal momento che qualcosa di filosofico non può non trovarsi implicitamente dappertutto, e in particolare in una teoria empirico-pragmatica del cinema, così come nella stessa filosofia non può non trovarsi qualcosa di empirico-pragmatico, almeno quale occasione di partenza realizzata poi in riflessione. Così, le e. del c. si muovono tra due estremi significativi, entrambi legittimi e utili: tra una teorizzazione più propriamente operativa, in sostanza più vicina a una poetica, e una teorizzazione più disinteressata volta a comprendere il cinema come mezzo d'espressione, di significazione, di comunicazione, e proprio tale teorizzazione, oggetto specifico di questa voce, non può non riferirsi mediatamente anche 'a', e 'trarre vantaggio da', una riflessione estetica generale e generarne a sua volta una, e non solo, come si vedrà, in frammenti e intuizioni sparse. E in ogni autore e in ogni testo si troveranno istanze dell'un tipo e dell'altro, pur restando ferma, in linea di principio, la distinzione formale già detta. Anzi, nel corso degli anni Ottanta, ma con significative e ben note anticipazioni in Walter Benjamin (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936), si è sviluppata un'estetica teorico-filosofica, interessata ad analizzare il nesso tra mezzo tecnico, nella sua evoluzione operativa, e il modo di percepire e fruire del prodotto (opera d'arte o no) che ne risulta. Si vedrà qualcosa del genere negli ultimi autori da esaminare.
Un'ultima osservazione sulle ragioni, per così dire, 'sociopsicologiche' della nascita di un'estetica del cinema. Bisogna considerare che il mezzo cinematografico, essendo nato alla fine del 19° sec. per interessi tecnici (la riproduzione del movimento) e come inedito strumento osservativo (l'osservazione di fenomeni dinamici non facilmente analizzabili con lo sguardo, quale per es. il galoppo del cavallo), e avendo alle proprie spalle, nelle invenzioni strumentali che lo precedettero e lo prepararono, quasi esclusivamente usi ludici, dedicati in particolare ai bambini, non disponeva agli inizi dei caratteri minimi del mezzo comunicativo. Era naturale che si manifestasse dapprima come puro stimolo di curiosità, di sorpresa, di divertimento. Per sollecitare l'interesse del pubblico, dovette affidarsi inizialmente e senza troppe finezze o all'imitazione esterna di mezzi comunicativi già costituiti (pittura, teatro, letteratura) o alla piatta ripresa di eventi quotidiani. Non a caso ebbe i suoi luoghi originari di presentazione al pubblico addirittura nei baracconi e solo più tardi in vere e proprie sale dedicate alla proiezione di film. È quindi altrettanto naturale che la sua promozione, insieme operativa e teorica, fosse perseguita innanzi tutto a partire dall'esigenza di superare una duplice tara presunta, motivata dalla sua novità e dalla sua marginalità culturale: la non-specificità comunicativa e il carattere di mera riproduzione della realtà quotidiana tale e quale. In realtà, né il cinema può essere in tutti i sensi specifico (v. oltre), né può riprodurre tale e quale la realtà quotidiana, ma sempre la riprende, per ragioni anche solo strettamente tecniche, prima ancora che creative, da un certo punto di vista, con un certo obiettivo, con una certa profondità di campo, privilegiando questo o quel carattere della scena da riprendere. E tuttavia proprio questi due problemi (specificità del linguaggio cinematografico e suo carattere non meramente riproduttivo) stanno di fatto all'origine della stragrande maggioranza delle estetiche o teorie del cinema (almeno fino alla fine degli anni Trenta e agli inizi degli anni Quaranta del 20° sec.), con effetti per un verso utili alla sua crescita e per altro verso tali da dar luogo anche a inevitabili unilateralità. Un'estetica o teoria del cinema, quando non sia una semplice poetica di un autore o di un gruppo di autori, nasce anche sull'occasione di un'insicurezza, cioè dalle domande, per le quali si richiede una risposta rassicurativa: 'che cos'è (cioè che cosa deve essere) il cinema?', 'qual è il suo linguaggio?', 'a quali condizioni può produrre un'opera d'arte?'
Negli anni Venti l'istanza teorica, sempre più esplicita rispetto alla produzione e alla ricerca concreta che era già universale (da questo punto di vista gli Stati Uniti furono in primissimo piano e la Germania ebbe un posto di tutto rispetto), cominciò ad assumere qua e là un ruolo decisivo. Per es. in Francia, ricorda G. Aristarco (1951, p. 132), uscì nel 1925 un numero di "Cahier du mois" dedicato al cinema, con articoli fin troppo entusiastici, ma in qualche misura anche innovativi di Jean Tédesco, Marcel L'Herbier, Germaine Dulac, Jacques de Baroncelli, André Beucler e altri. Quindi: non solo nacque, in concreto, già negli anni Dieci il montaggio; nacque nello stesso tempo una teoria del montaggio, per es. con Jean Epstein tra il 1920 e il 1922. Ma la delineazione di una vera e propria estetica o teoria del cinema circostanziata e di ampio respiro si ebbe negli anni Venti in Unione Sovietica.
Lev V. Kulešov, Vsevolod I. Pudovkin, Dziga Vertov, S.M. Ejzenštejn e altri operarono nell'ambito di un movimento teorico e operativo colto e assai ampio, in un ambiente ricco di fermenti non solo nei riguardi del cinema, ma, oltre che del teatro (dominato già da tempo dalle grandi e quasi antitetiche personalità di Konstantin S. Stanislavskij e di Vsevolod E. Mejerchol′d), anche dell'arte in generale e della letteratura in particolare (v. avanguardia sovietica). Da ricordare soprattutto i molti autori gravitanti intorno al movimento dei cosiddetti formalisti russi (v. formalismo) e, in particolare, per il discorso qui affrontato, Jurij N. Tynjanov e Boris M. Ejchenbaum.
Non va taciuto neppure il ruolo notevole che ebbe Béla Balázs, emigrato dall'Ungheria prima in Germania e poi in Unione Sovietica, autore tra l'altro di Der sichtbare Mensch (1924) e di Der Geist des Films (1930), dedicati rispettivamente al cinema di montaggio e al montaggio sonoro. A lui risale la famosa definizione di 'forbici poetiche'. E sta il fatto, segno di un'influenza non sottovalutabile, che non c'è quasi autore di quegli anni che non lo citi con rispetto. Fu in ogni caso in Unione Sovietica, e soprattutto in Russia, che nacquero propriamente il montaggio e una teoria del montaggio, cioè qualcosa che è e non è il successivo e più intransigente 'specifico filmico', come si dirà poi comunemente. Lo è se e quando è una teoria del cinema che ritiene i procedimenti resi possibili dal mezzo cinematografico come omogenei ed esclusivi del cinema, ma non lo è se e quando essi sono intesi invece come molteplici ed eterogenei, tali da ammettere inoltre equivalenti formali, diversamente specificati, in procedimenti propri di altri campi espressivi e artistici.
Pioniere della teoria del montaggio, alla fine degli anni Dieci, fu L.V. Kulešov. Il montaggio è, per lui, composizione temporale di brevi, nette e significative inquadrature di particolari di un oggetto (per es., di un personaggio, che può essere interpretato anche da attori diversi), i quali restituiscono allo spettatore solo indirettamente l'immagine dell'intero oggetto ed escludono per ciò, in linea di principio, sia l'imitazione della pittura o del teatro sia la riproduzione di una realtà già data al nostro sguardo. È quindi costruzione di uno spazio specificamente cinematografico. Per Kulešov, pur con qualche ripensamento successivo, la scena, l'ambiente, gli oggetti che lo riempiono, gli attori stessi sono soltanto puri materiali che attendono di essere costruiti cinematograficamente, come si costruisce una macchina che prima non c'era, un'opera insomma inconfondibile e con la vita e con il teatro. È ciò che sta alla base del cosiddetto effetto Kulešov, cioè il trasferimento di senso da un'immagine a quella contigua, con la conseguente trasformazione della significazione complessiva. Ed è di Kulešov un'idea che in quegli anni ebbe una larga diffusione, anche se ancora in forma esplicitamente e saggiamente metaforica, come nei formalisti: che il film, proprio perché non passivamente riproduttivo, sia un vero e proprio discorso, un linguaggio, costituito da inquadrature che funzionerebbero al modo di lettere dell'alfabeto.
Si ritrova la medesima idea, ma in un'accezione abbastanza singolare, in Dz. Vertov, il quale pensa addirittura che il cinema (così come ha scritto P. Montani, che giustamente rifiuta per lui l'etichetta di 'documentarista') sia un linguaggio "da usare e non da subire, un di-spositivo in tutto e per tutto analogo alla capacità di leggere e scrivere", tale da richiedere una "cinematizzazione", cioè una sorta di "alfabetizzazione", delle masse (Nota introduttiva a Dz. Vertov, L'occhio della rivoluzione, 1975, p. 17). Nel manifesto My del 1922 (trad. it. Noi, in L'occhio della rivoluzione, pp. 27-30), egli dà una prima, singolare e sintetica caratterizzazione del linguaggio cinematografico: "L'organizzazione del movimento è l'organizzazione dei suoi elementi, cioè degli intervalli in frasi. In ogni frase si possono distinguere l'ascesa, il culmine e la caduta del movimento […]. Un'opera è fatta di frasi allo stesso modo in cui una frase è fatta degli intervalli del movimento" (p. 29). E la singolarità consiste in questo: che si tratta di un linguaggio che fa tutt'uno con la realtà colta sul fatto, forse qualcosa che può essere avvicinato, tenendo in debito conto le differenze storiche e culturali delle due epoche, alla cosiddetta lingua della realtà del Pasolini degli anni Sessanta, non mancante tuttavia, questa come quello, di elementi soggettivi e patetici, nonché di forti inclinazioni liriche. In ogni caso il "fatto" e una poetica "fattografica", come in quell'ambiente si diceva, s'impongono in Vertov non come riduttivo realismo, ma come un antidoto attivo e creativo contro la lebbra dei "vecchi film, romanzati, teatralizzati e simili" (il suo bersaglio era il film "recitato") e forse, sotto la spinta di un entusiasmo rivoluzionario, macchinistico e antiburocratico (Entuziazm, Entusiasmo, è il titolo di un suo film del 1930), che non fu mai condiviso dai funzionari sovietici (proprio quel film fu l'occasione del suo licenziamento), contro lo stesso teatro e la stessa letteratura. Il suo scopo era di far parlare la realtà, come essa per sé stessa non fa mai immediatamente.
In entrambi i casi, in Kulešov e in Vertov, anche se in sensi diversi, hanno un forte rilievo sia il rifiuto della riproduzione pura e semplice della realtà quotidiana già data, sia la specificità del cinema, con un'indubbia tendenza allo specifico filmico, sia la sua linguisticità. Qualcosa di soltanto analogo si può dire per Ejzenštejn. Senza dubbio la metafora linguistica è presente nei suoi molti saggi, e sono presenti anche il rifiuto di un realismo riproduttivo (che per altro non è, e non può essere, semplicisticamente, proprio del cinema, come vide bene Ejchenbaum) e lo sforzo di manifestare con le opere e di teorizzare con gli scritti la specificità del cinema. Ma la metafora linguistica non si spinge al di là del plausibile, e la specificità non giunge a segregare (come forse in Kulešov e in Vertov) il linguaggio filmico dal linguaggio delle altre arti e dalle tante forme comunicative che appartengono alla cultura umana, e soprattutto a ritenerlo omogeneo. Al contrario, preoccupazione di Ejzenštejn è di collegare costantemente i mezzi specifici del cinema, quali si erano già andati delineando e via via erano stati messi a punto con sempre maggiore forza strutturante dalla scuola sovietica, a mezzi propri di altri linguaggi (la pittura, la musica, la letteratura), senza con ciò togliere al cinema la specificità che tecnicamente e comunicativamente gli compete. Si trattava non più di favorire imitazioni esterne o miscugli materiali, ma di comprendere la comunanza che i mezzi del cinema e i mezzi di altre arti hanno in forza di modelli formali comuni e variamente specificabili. Un solo esempio: proprio sul tema del montaggio, che nel caso del film ha caratteri specifici non esportabili in altri campi, Ejzenštejn conduce analisi precise e acutissime del parallelo montaggio letterario, che con diversa specificità realizza qualcosa di formalmente comune. L'esempio prediletto è quello di A.S. Puškin (cfr. Teoria generale del montaggio, 1985, che raccoglie in trad. it. molti importanti saggi del regista sull'argomento) che in Montaž 1938 (trad. it. Montaggio 1938, in Il montaggio, 1986) ha un'esemplificazione fulminante e stringente in quindici versi di Poltava, a ciascuno dei quali Ejzenštejn fa corrispondere una possibile inquadratura o piano, riformulando così l'intero brano come una vera e propria sequenza filmica. Il montaggio non è, inoltre, la creazione di una realtà altra rispetto a quella quotidiana, al modo di Kulešov, e neppure l'"occhio della rivoluzione" o, si può dire, il "linguaggio della realtà", al modo di Vertov. È interpretazione della realtà, di cui tende a mostrare il senso profondo oggettivo, storico, nonché il senso che l'autore gli conferisce, e con lui gli spettatori, in quanto egli è in interrelazione (patetica, intellettuale, pratica) con la realtà che rappresenta. In altre parole: la realtà, per Ejzenštejn, è essenzialmente tale interrelazione. E in questo senso il cinema è anche pensiero. Il montaggio infatti non è la somma delle inquadrature di cui la sequenza si compone, ma è il loro prodotto, cioè la loro unità sintetica, da cui scaturisce un senso nuovo e più complesso rispetto al senso di ognuna di esse: "due qualsiasi pezzi, disposti l'uno accanto all'altro, si fondono sempre in una nuova idea che emerge da questa comparazione come qualcosa di qualitativamente diverso", scrive in Montaž 1938 (trad. it. 1986, p. 90), mirando sempre all'"insieme", alla "totalità dell'opera". Esattamente come accade nella vita stessa, ma non quella che ci sta dattorno piatta e confusa, bensì la vita interpretata o, appunto, pensata.La grande libertà creativa e teorica di Ejzenštejn, che non si chiude mai in formule ne varietur, è dimostrata anche dalla sua reazione all'introduzione del sonoro e, poi, del colore: eventi che produssero in altri, anche insigni, come per es. l'Arnheim degli anni Trenta, sconcerto e ripulsa, in difesa appunto di una specificità filmica rigida, intesa come omogeneità figurativa esclusiva.
Senza dubbio una qualche preoccupazione (perdita del montaggio, e quindi della specificità del linguaggio filmico, e resa del cinema al teatro, alla letteratura e alla riproduzione della realtà tale e quale) fu di tutti i cineasti consapevoli dei pericoli insiti nell'uso che dell'innovazione tecnica si sarebbe potuto fare. Eppure, già nel 1928, Ejzenštejn, Pudovkin e Grigorij V. Aleksandrov firmavano un testo in cui, insieme alle preoccupazioni, si esprimeva anche l'idea che il suono, possedendo un'"alta significazione", potesse essere usato proprio in vista della "creazione di un nuovo contrappunto orchestrale" (Buduščee zvukovoj fil′my. Zajavka, in "Žizn′ iskusstva", 1928, 32; trad. it. Il futuro del sonoro. Dichiarazione, in S.M. Ejzenštejn, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, 1964, pp. 523-24). E del resto già Ejchenbaum aveva preso le distanze da eccessive preoccupazioni, sostenendo che il cinema muto non era affatto muto, ma solo sfornito di "parola udibile", largamente compensata dal linguaggio interiore sollecitato nello spettatore (Problemy kinostilistiki, in Poetika kino, 1927; trad. it. I problemi dello stile cinematografico, in I formalisti russi nel cinema, 1971, pp. 11-52). Non solo Ejzenštejn non rifiuterà successivamente il sonoro, ma lo incorporerà in una ben specificata e più ricca teoria del montaggio, in assonanza appunto con la musica. Così al "montaggio orizzontale", secondo la linearità, che è proprio secondo sue proprie specificazioni anche del linguaggio verbale (è il caso dell'esempio già citato di Puškin), viene integrato il cosiddetto "montaggio verticale", che è proprio della musica, con la sua organizzazione armonica e contrappuntistica (ma ancora una volta anche in Puškin è dato ritrovare un'armonia e un contrappunto, e quindi un montaggio verticale, tra struttura ritmica e montaggio orizzontale, come è detto in Teoria generale del montaggio). Ejzenštejn costruisce, per così dire, veri e propri spartiti visivo-musicali, anche in vista della produzione dell'Aleksandr Nevskij (1938) e della straordinaria collaborazione con Sergej S. Prokof′ev, e svolge analisi molto fini e calzanti del nuovo procedimento, conscio del suo carattere e teorico e creativo, essendo sensibile inoltre ai complessi rapporti di integrazione e anche di dominanza che di volta in volta si rendono necessari: ora, per es., è il montaggio orizzontale a determinare il montaggio verticale e talvolta accade il contrario, secondo le esigenze espressive e significative dell'opera che si va compiendo.
È chiaro infine che la specificità ricercata da Ejzen-štejn non è in alcuna maniera omogeneità esclusiva, ma è in accordo con la concezione che vari modelli eterogenei, sia pure secondo opportune specificazioni, concorrono alla formazione e del cinema e di altri modi comunicativi, così che l'opera d'arte filmica si configura, come ogni opera d'arte, quale luogo di conflitti, di integrazioni, di mutamenti, proprio come un organismo vivente. Nell'ultima, importante opera teorica, Neravnodušnaja priroda (trad. it. La natura non indifferente, 1981, 1992³), rimasta incompiuta, la cui stesura fu effettuata negli anni 1945-1947, ricchissima di letture critiche non filmiche (per es., di G.B. Piranesi o di El Greco), l'opera d'arte viene detta appunto "organica", tale da prevedere il passaggio continuo (la cosiddetta estasi) a registri sempre diversi e il conseguente "rimandare a qualcosa d'altro", all'"irrappresentabile". Ciò è legato a un forte pathos. Ma di nuovo ‒ secondo un'idea sempre presente in Ejzenštejn, sia pure in forme diverse, fin dall'avanguardistico Montaž attrakcionov (in "Lef", 1923, 3; trad. it. Il montaggio delle attrazioni, in Il montaggio, 1986, pp. 219-23) dedicato al teatro ‒ tale pathos contiene e sollecita anche un vero e proprio pensiero, non senz'altro pensiero esplicito e tanto meno logico, ma tale da fare tutt'uno con il fare e il sentire.
Negli anni Trenta e Quaranta l'effettivo sviluppo della cinematografia internazionale, soprattutto statunitense, tese nella stragrande maggioranza dei casi a usare il montaggio come una tecnica che doveva passare, per così dire, 'inosservata': l'uso del 'piano americano', nonché le regole di alternanza tra piani diversi, di campo e controcampo, e così via, dovevano assicurare un corretto legame che complessivamente desse però l'impressione di una continuità narrativa e visiva, come se le cose si svolgessero, pur secondo convenzioni e regole costruttive, ma senza salti apparenti, sotto gli occhi dello spettatore. L'avvento del sonoro contribuì a rafforzare questa tendenza e a perfezionarne l'effetto. Parallelamente il lavoro più propriamente teorico poté tendere invece a radicalizzare il tema dello specifico filmico. In parte, ma solo in parte, è il caso di B. Balázs, che scrive: "Nei recenti film americani i personaggi parlano troppo e spesso dicono cose superflue. Fatto sintomatico: dimostra che il film americano è ripiombato al livello del teatro fotografato" (1949; trad. it. 1952, 1987², p. 263). E ancora: "Il film sonoro […] è così ricco di rappresentazioni visive da concedere ben poco spazio alla parola. Anche il film sonoro è composto da una serie di immagini, e la parola appare 'dentro' l'immagine, ne costituisce uno degli elementi, come una linea o un'ombra. Il suono completa e sottolinea l'impressione suscitata dalle immagini. Ecco perché esso non deve imporsi in modo troppo sensibile allo spettatore" (p. 266). Il sonoro dunque come un elemento aggiunto a ciò che innanzi tutto è, anzi deve essere, immagine. Ma il caso esemplare, come si è già detto, è quello di Rudolf Arnheim.
Secondo Arnheim, autore di numerosi saggi sul cinema (il più importante dei quali è il famoso Film als Kunst, 1932), questo mezzo espressivo può e deve essere arte e non soltanto "un gioco nuovo, fantastico, curioso, aggressivo e sentimentale del muovere le ombre" (trad. it. 1960, p. 40) o una tecnica impressionistica e labile per restituire un quasi-doppione della vita di tutti i giorni. A parte il fatto che il mezzo cinematografico, per i suoi propri limiti, non riuscirebbe a dare un vero doppione, spetta al cinema come linguaggio artistico scoprire ciò che nella realtà quotidiana, non specifica e non semplice (quindi non omogenea), vi è invece di specifico e semplice. Non a caso egli fu sostenitore, da un punto di vista strettamente teorico, del film muto, di contro al quale il film sonoro sarebbe solo un espediente per completare la "resa della realtà quotidiana" (come ancora si ripete nella Nota personale del 1957). E parole ancora più severe vengono dette sul film a colori. In conclusione, se il cinema è arte, esso è, deve essere, specifico-semplice. Ecco un caso esemplare di teoria tra scientifica ed empirico-pragmatica che, trasformandosi in filosofica, diviene normativa. Infatti, l'unione di elementi eterogenei, quali l'immagine e il suono, scrive, "non basta a renderli omogenei, fondibili o scambiabili. Lo impedisce la loro diversità a livello elementare; e ciò che avviene a livello elementare è decisivo per tutta l'opera". Va riconosciuto che le idee manifestate in Film als Kunst vennero almeno in parte corrette dallo stesso Arnheim in Il nuovo Laocoonte (in "Bianco e nero", 1938, 8, pp. 3-33) poi aggiunto a quel libro: in questo testo infatti sembra che sia riservata una considerazione un po' meno negativa al carattere eterogeneo e composto di certi sistemi espressivi, con implicito indebolimento della cogenza dei presunti livelli elementari, anche se la "gerarchia dei mezzi espressivi" continua a stare, per il cinema, sotto il principio della funzione-guida dell'immagine. Di qui la sopravvalutazione del cinema astratto (cioè di un aspetto marginale, anche tecnicamente, del fenomeno che si vuole comprendere e che continuerà poi, in modo tecnicamente più coerente, con la futura computer art), indicato come "l'inizio di quella che sarà un giorno o l'altro la grande pittura in movimento". Resta quindi un qualche conflitto tra convinzioni scientifiche ed estetica, tra teoria e predilezioni artistiche, in qualche misura inevitabilmente pragmatiche.
Dunque: il cinema come arte figurativa e, dal punto di vista di Arnheim, addirittura astratta. Analogamente, ma al di qua dell'astrattismo, una nota opera di Carlo Ludovico Ragghianti s'intitola proprio Cinema arte figurativa (1952, 1957²), dove ci si spinge tanto oltre nell'assimilazione da dichiarare sorprendentemente: "Infatti, quale differenza si può indicare fra un quadro, ad esempio, e un film? Per quanto si guardi, per quanto si indaghi e si sottilizzi, non è possibile riscontrare, fra queste due espressioni, altra differenza tutt'al più di 'tecnica': il processo è il medesimo, e della stessa natura sono i modi (figurativi o visivi), generalmente intesi, attraverso i quali si coagula in 'forma' uno stato d'animo, un particolare modo di sentire" (1957², p. 44). Eppure già all'inizio degli anni Quaranta, sulla base della medesima idea della visività riproduttiva del cinema, era accaduto a qualcuno di negare recisamente che il cinema fosse arte e potesse accedere a una "formulazione d'immagine", cioè, più o meno, alla 'forma' di cui parla Ragghianti (cfr. C. Brandi, Carmine o della pittura, 1945). Evidentemente quell'assimilazione, oltre che inadeguata, e alla pittura e al cinema, non garantiva in nessun modo le potenzialità artistiche del cinema. Se il cinema le possiede, come in realtà le possiede, deve essere per tutt'altre ragioni. Sta il fatto che un filosofo come Galvano Della Volpe potrà poi schierarsi decisamente contro quella riduzione del filmico al figurativo sia nella sua Critica del gusto (1960, 1964²), sia in una Postilla sul cinema e le arti figurative (in Il verosimile filmico e altri scritti di estetica, 1962²) con queste precise argomentazioni: "1) che la bidimensionalità della pellicola o film è carattere meramente fisico ed esterno dell'opera cinematografica e però estraneo al segno e al valore artistico cinematografico; 2) che la bidimensionalità, invece, della tela pittorica è carattere quanto mai intrinseco del segno e dei valori pittorici; 3) che, difatti, un effetto spaziale artistico del tipo ad es. della linea retta che, nel giottesco 'Cristo davanti a Caifa', congiunge le due pareti laterali di una stanza, non può darsi né avrebbe senso in un'espressione filmica dell'interno di una stanza, espressione che, avendo come suo segno-base il fotogramma, caratterizzato dall'essere riproduzione ‒ cinematografica appunto ‒ della tridimensionalità delle cose reali del mondo, non può rendere mai altro che angoli reali prodotti dalle pareti di una stanza e così via: e quindi nessun effetto di stilizzazione spaziale di superficie come quello giottesco o pittorico in genere". E tuttavia, sottolinea, sia il film sia la poesia potranno essere arte in forza non di una loro specificità e semplicità esclusive, ma della loro "organicità semantica", cioè nell'essere i loro sensi determinati vicendevolmente nell'opera. Tale organicità verrà realizzata, naturalmente, con i procedimenti specifici della poesia o del cinema, che non escludono affatto, e anzi richiedono, modelli comuni. Il che viene esemplificato limpidamente nel caso della metafora, che si affida a un medesimo modello sia nel "dantesco leone "con la testa alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l'aere ne temesse"", sia nei tre leoni, che in sequenza danno l'impressione di essere un solo leone che si sveglia e si erge, di Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin), sebbene il primo non possa essere 'tradotto' in film e i secondi in poesia, senza perdere la loro appropriata specificità.
La Seconda guerra mondiale rappresenta un vero e proprio discrimine tra taluni eccessi delle teorizzazioni classiche e un modo molto più duttile, e anche più adeguato, di affrontare la questione della specificità del mezzo cinematografico. Da una parte le iniziali intenzioni di promozione erano venute in gran parte meno, il cinema essendosi conquistato ormai un posto tra le attività espressive; dall'altra, guerra e resistenza, le loro motivazioni, le loro conseguenze avevano spazzato via sia gli entusiasmi sospetti sia le remore residue, ancora legate all'idea di arte coltivata dall'estetica sette-ottocentesca, che avevano reso fino ad allora più arduo il riconoscimento senza complessi della funzione sociale del cinema, volta alla comprensione del mondo. In realtà, alla fine degli anni Trenta e poi nel decennio successivo, l'idea che il cinema fosse un'arte figurativa era in un certo senso già invecchiata, prima ancora di affermarsi in forma troppo drastica e, nello stesso tempo, di finire nel nulla. Molti, senza dubbio, continuarono per alquanto tempo a perseguire l'idea di una specificità del linguaggio cinematografico, ma essa si andava ormai spogliando dei radicalismi improduttivi ed era quindi disponibile a commerci proficui con altri modelli espressivi concomitanti. Né il carattere riproduttivo del mezzo cinematografico angustiava più i suoi cultori, liberatisi via via del peso, appunto, di un paragone preoccupante con le belle arti tradizionali, praticate in modo tradizionale. Si trattava semmai di vedere come un'opera cinematografica, in quanto fondata sulla ripresa del reale, potesse essere un'opera significativa e anche una vera e propria opera d'arte.
In Italia, e non solo in Italia, i nomi di studiosi di cinema, quali Luigi Chiarini, direttore del Centro sperimentale di cinematografia, Umberto Barbaro, tra l'altro padre spirituale della rivista "Filmcritica", Cesare Zavattini, scrittore e uomo di cinema di primissimo piano, soprattutto nell'ambito dell'esperienza del Neorealismo, sono importanti a questo riguardo. Restava, sì, anche in loro, la non teatralità e non letterarietà del cinema, ma solo nel senso di non essere il cinema stretto teatro cinematografato o esterno scimmiottamento letterario; e restavano anche l'eredità del montaggio, ma non più così rigoristico come in Ejzenštejn, e la capacità di far parlare le cose stesse, ma non nella forma estrema e un po' utopistica di Vertov (molte, troppe cose erano intervenute dai tempi di Ejzenštejn e di Vertov). Nello stesso tempo si affermava sempre di più, in questi autori e in altri, la convinzione che il cinema potesse e dovesse essere opera d'arte non solo in quanto 'forma', nel senso in cui lo è la pittura, ma anche, e per ciò stesso, in quanto presa di contatto con la realtà e la quotidianità, ideologia, contenuto, discussione, e anche 'forma', sì, ma appunto sulla loro base e non su quella di una mera figuratività (v. anche realismo). Esempi significativi sono forniti anche da Guido Aristarco, prossimo a posizioni lukacsiane, e da Sigfried Kracauer, interessato a una critica politico-ideologica non propagandistica. Erano acquisizioni che si sarebbero di lì a non molto dimostrate irreversibili: denunciavano chiaramente che il cinema, nonostante il suo carattere industriale e il suo ruolo sempre attivo di strumento d'intrattenimento di massa, oltre che di propaganda, naturalmente, si era conquistato ormai un posto stabile nella 'cultura', in senso forte e non solo antropologico. Un esempio indicativo in questo senso è il fatto che Gilbert Cohen-Séat poté pubblicare già nel 1946 il suo notevole Essai sur les principes d'une philosophie du cinéma, un titolo che difficilmente si sarebbe azzardato appena dieci anni prima, dove tra l'altro si sostiene la tesi della molteplicità dei punti di vista critici e scientifici da cui il cinema può essere studiato, molteplicità che è un chiaro segno della sua complessità culturale.
L'ambiente culturale che meglio rappresenta questa tendenza è quello che si raccolse, sia pure in fasi distinte intorno alla rivista "Cahiers du cinéma", che fu fondata nel 1951 da André Bazin, insieme a Jacques Doniol-Valcroze e Jean-Marie Lo Duca, e subì nel 1963 e, poi, nel 1969 importanti mutamenti redazionali, dopo la morte del fondatore e la direzione di qualche anno di Eric Rohmer (pseudonimo di Maurice Schérer). A quell'ambiente si possono attribuire quasi tutti gli aspetti già menzionati del nuovo corso (cfr. De Vincenti 1980), e cioè: un grande interesse per la teoria, sempre unita però alle esigenze comunicative del cinema, una ripresa del tema del montaggio e nello stesso tempo una grande libertà nell'intenderlo, un forte interesse politico-conoscitivo e insieme l'ammirazione per il cosiddetto cinema classico hollywoodiano (che non veniva più avvertito come opposto al cinema d'autore, almeno nei suoi rappresentanti migliori, in primo luogo, come è naturale, Orson Welles e Alfred Hitchcock), e soprattutto l'insistenza sull''impressione di realtà' di Bazin che è propria del cinema e che è la base della costruzione di un'opera filmica. Bazin era anche convinto, fin dagli anni Quaranta, che alla vita del cinema è necessario il "pubblico colto che possiede abbastanza conoscenze tecniche e storiche da creare intorno all'opera un ambiente critico, affermare delle gerarchie, giudicare dello sforzo del creatore", e fu nello stesso tempo sostenitore, sull'esempio di Rossellini e De Sica, del "cinema della realtà", cioè di un realismo tecnico che si trasformi in realismo estetico, non dunque un puro e semplice realismo oggettivo, ma piuttosto (come ricorda De Vincenti nell'introdurre Cahiers du cinéma. Indici ragionati 1951-1969, 1984, pp. XIII-XV) quell'unità "della coscienza del mezzo", "della sua storia (il linguaggio)" e del "rispettoso interrogativo posto alla realtà, la sollecitazione a significare portata sull'ambiguità del reale", con, in più, l'intervento calcolato del "caso". Il che costituisce per Bazin il "paradosso estetico" del cinema. Sui "Cahiers" scrivevano critici di prim'ordine e, inoltre, cineasti che furono anche gli autori di film della cosiddetta Nouvelle vague: per es., Claude Chabrol, François Truffaut e soprattutto Jean-Luc Godard. La menzionata svolta del 1963 fu opera soprattutto di questi ultimi, e proprio in Godard è dato ritrovare il senso della nuova forma di montaggio praticato, diverso e dal montaggio che 'passa inosservato' di Hollywood e dal montaggio ejzenšteiniano, dato che ammette salti di piano apparentemente ingiustificati (come in Pierrot le fou, 1965, Il bandito delle undici), stasi apparentemente insensate (come in Une femme mariée, 1964, Una donna sposata), lunghezze assai variabili delle scene che si succedono e anche lunghe inquadrature fisse, una volta inconcepibili (come in Week-end, 1967, Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica), dialoghi che prima si sarebbero detti prolissi (come in La chinoise, 1967, La cinese). La lezione non passò inavvertita. Per portare un solo esempio notevole, forse Ingmar Bergman autore di Scener ur ett äktenskap (1973; Scene da un matrimonio), che nessuno oserebbe più tacciare di 'teatro cinematografato', e in generale di tutti quei film memorabili pensati per la televisione, ma che funzionano perfettamente anche sul grande schermo, non avrebbe potuto realizzare queste opere senza quei precedenti.
Nei dintorni dei "Cahiers du cinéma" trovò posto anche la versione migliore della semiologia del cinema. Negli anni Sessanta si diffuse infatti un interesse accentuato per la semiologia o semiotica, disciplina di tutto rispetto, che in genere però dette luogo nell'ambito delle arti a esiti alquanto improbabili. Il modello lontano era fornito da C.S. Peirce e da F. de Saussure, assai meno da Ch. Morris, ma l'occasione più prossima furono probabilmente i Saggi di linguistica generale di Roman Jakobson (scelti e tradotti in francese da N. Ruwet nel 1963, Essais de linguistique générale, e subito dopo tradotti in italiano, a cura di L. Heilmann, 1966), dove si fa per es., nel saggio Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia (pp. 22-45), la distinzione tra sistemi di segni linguistici e "sistemi di segni non-linguistici", tra i quali si cita in particolare il cinema e i suoi procedimenti metonimici (David W. Griffith) e metaforici (Charlie Chaplin). Proliferarono allora semiologie o semiotiche della pittura, dell'architettura, della musica, e così via, e il cinema, pur meno preso di mira in questo senso, non rimase indenne dalla moda.
Per il linguaggio cinematografico si arrivò addirittura a parlare di doppia, e perfino di triplice, articolazione. Si citerà qui il solo caso, già ricordato, di Pier Paolo Pasolini, scrittore e autore cinematografico di prim'ordine, che non seppe tuttavia resistere alla tentazione di parlare appunto di doppia articolazione (La lingua scritta dell'azione, in "Nuovi argomenti", 1966, 2). Un'analisi del genere ha senso solo se operata a precise condizioni definitorie (tali per cui, nel caso del linguaggio verbale, si avranno unità minime provviste di significato, i monemi, e unità minime sprovviste di significato, i fonemi) e non invece se è una linguisticamente insignificante segmentazione materiale. Secondo Pasolini, invece, la doppia articolazione del cinema sarebbe costituita dai 'piani' individuati in rapporto a un movimento, l'equivalente del 'monema', e dagli oggetti tra i quali il movimento si stabilisce, da lui detti cinèmi (cfr. a tale proposito quanto scritto da Emilio Garroni, 1968). Tale ipotesi semiologica venne difesa contro le critiche di Umberto Eco da Gilles Deleuze, che forse ne coglie l'aspetto 'più filosofico' o, se si vuole, 'più poetico', ma resta il fatto che il filosofo francese si muove al di fuori di un'analisi tecnica del linguaggio e che quell'idea è innegabilmente, presa per sé stessa, arbitraria e bizzarra. Ebbene proprio un autore, Christian Metz, che aveva collaborato ai "Cahiers du cinéma" ed era legato al pensiero di Bazin (il suo primo saggio sulla rivista era intitolato alla 'impression de réalité' baziniana, 1965, 166-167), elaborò negli anni Sessanta la semiologia del cinema più onesta e, entro certi limiti, più accettabile. Più tardi poi, forse anche perché deluso come tanti altri dalla semiologia, si è occupato sempre di cinema, ma da un punto di vista originalmente psicoanalitico (cfr. Metz 1975). In Le cinéma: langue ou langage? (in "Communication", 1964, 4, poi in Essais sur la signification au cinéma, 1968) il cinema viene considerato come "un linguaggio senza lingua", analizzabile soltanto in grandi unità significanti, cioè in sostanza in sequenze, per le quali soltanto è possibile, accanto a una sintagmatica, anche una paradigmatica. L'ipotesi presuppone l'affermazione di Roland Barthes (che sollevò a suo tempo osservazioni assai critiche, per es. da parte di G. Mounin, E. Buyssens, L. Prieto), secondo il quale, se "Saussure, seguito in ciò dai principali semiologi, pensava che la linguistica non fosse altro che una parte della scienza generale dei segni", bisogna invece pensare oggi alla possibilità di rovesciare l'affermazione di Saussure e dire invece che "la semiologia è una parte della linguistica: e precisamente quella parte che ha per oggetto le grandi unità significanti del discorso" (Présentation, in "Communication", 1964, 4; trad. it. Introduzione, in Elementi di semiologia, 1966, 1992², pp. 13 e 15). In effetti, l'esistenza di un linguaggio verbale è molto probabile che possa essere una condizione di possibilità per l'esistenza e il funzionamento di altre semiotiche umane (che si tratti di 'semiotiche umane' è essenziale).
Ma la lingua è anche strumento che ci permette di dar conto interamente di tali semiotiche, di decodificare interamente i messaggi formati sulla loro base e di restituirli nel loro genuino significato? Rispondere di sì è del tutto inadeguato, e nemmeno Metz avrebbe condiviso la risposta, ma rispondere di no equivarrebbe a riconoscere a esse un'au-tonomia almeno parziale dal linguaggio verbale e quindi aspetti che non ricadono affatto nell'ambito della linguistica. In altre parole: o si abbandona del tutto una prospettiva propriamente (tecnicamente) semiologica, e il percorso da compiere sarà allora un po' più complicato, oppure la frase "linguaggio senza lingua" è quasi un ossimoro. E questo fu appunto un motivo della di-scussione amichevole che lo stesso Metz ebbe con cultori di semiotica italiani: amichevole e proficua per tutte e due le parti, anche nel senso della confutazione, e dei limiti di questa, dello 'specifico filmico' (cfr., per es., Garroni 1968, 1972, 1973).
Almeno un altro nome, al di fuori dell'ambiente dei "Cahiers", ma non del tutto estraneo a una comune cultura, può essere citato: quello di Edgar Morin (v. teorie del cinema), autore di Le cinéma, ou l'homme imaginaire (1956) in cui viene sviluppato un esame antropologico-psicologico, leggero, elegante, ma non privo di acutezze, del rapporto tra lo psichico incorporato nel film (il film è psichico, aveva già sostenuto J. Epstein a suo tempo) e lo psichico dello spettatore, che si riconoscono nella comune mistione di menzogna e veracità, di lucidità e di mitomania, reale e immaginato: "In effetti il cinema unisce indissolubilmente la realtà oggettiva del mondo, tale quale la fotografia ce la riflette, e la visione soggettiva di questo mondo […]. Il cinema è quindi sì il mondo, ma a metà assimilato dallo spirito umano. Esso è, sì, lo spirito umano, ma proiettato attivamente nel mondo, nel suo lavoro di elaborazione e di trasformazione, di scambio e di assimilazione" (trad. it. 1962, pp. 270-71). Ma infine si deve citare anche Jean Mitry, autore più accademico e già molto noto di libri ponderosi, informatissimi, multidisciplinari, aperti a varie prospettive, forse troppo per essere sempre sufficientemente rigorosi, tali da confermare in ogni caso il nuovo corso culturale dell'estetica e della teoria del cinema.
Un risultato almeno apparentemente curioso, emerso da quanto si è appena detto, è che uno dei movimenti più interessanti del secondo dopoguerra, legato per di più a una cinematografia fortemente innovativa, non sembra essere caratterizzato a sua volta da un'altrettanto significativa 'innovatività' estetica o teorica. Ma in realtà non è affatto curioso. Il fenomeno conferma invece che un'estetica o teoria del cinema è stata in primo luogo occasionata dalla circostanza che il cinema come fatto tecnico non era nato per ciò stesso come mezzo espressivo e comunicativo, che non si sapeva ancora che cosa il cinema dovesse essere, qual fosse il suo linguaggio e a quali condizioni potesse produrre cosiddette opere d'arte. Ma, una volta che il cinema è divenuto un mezzo espressivo strutturato (comunque strutturato) ed è stato accolto, definitivamente e globalmente, nell'ambito della cultura, non più solo popolare, quegli interrogativi sono divenuti assai meno pressanti, lasciando il posto a una riflessione più pacata. Invece di costruire una teoria soprattutto o anche pragmatica, si è cercato di capire qualcosa di più di ciò che già esiste. È del tutto naturale quindi che l'estetica o la teoria del cinema vada declinando nelle sue pretese ontologiche (se c'è e che cos'è il cinema), fondative (che cosa gli permette di essere ciò che è) e operative (come debba esprimersi il nuovo mezzo comunicativo), e si risolva o in poetiche d'autore o di gruppo oppure in teorie della critica volte a mettere a punto gli strumenti più adatti al fine di analizzare, interpretare e giudicare il cinema che è stato già fatto o che si va facendo, nonché a capirlo nel quadro dell'esperienza su cui si accampa, e quindi in un quadro più accentuatamente filosofico che costruttivo. E, poiché tale compito è forse meno vistoso, ma forse più arduo, è altrettanto naturale che i contributi di questo tipo siano quantitativamente meno numerosi. Se ne citano qui due particolarmente significativi e, in qualche misura, opposti tra di loro.Il caso più tipico della nuova e. del c. è quello del filosofo francese Gilles Deleuze, autore di un'opera in due volumi, notissima e citatissima: Cinéma 1. L'image-mouvement (1983) e Cinéma 2. L'image-temps (1985). Si tratta di un'opera importante e, insieme, discutibile. Importante: perché Deleuze possiede non soltanto eccezionale competenza filmologica e capacità di analisi assai fini dei film esaminati, compresa quella di riordinare e ridefinire i vari tipi di montaggio, ma anche talento di filosofo, interessato, per così dire, alla 'concezione del mondo' implicita nel cinema e quindi ai contenuti di pensiero che gli appartengono almeno in modo implicito. Di qui si è diffusa e affermata l'inclinazione a considerare il cinema come qualcosa di analogo alla filosofia o filosofia tout-court: idea non in tutti i sensi pacifica, ma in ogni caso segnale indubbio del salto qualitativo fatto dalla cultura cinematografica (v. in partic. Bruno 1998). Discutibile: perché lo stile di pensiero di Deleuze è svariante nella compattezza (dalla filosofia alla psicologia, alla fisica, alla semiologia, e così via), capriccioso nel rigore (basterebbe pensare alle scorciatoie improvvise delle sue escursioni nel campo della linguistica), disinteressato alla precisione nell'ossessione della precisione (in che senso, per es., è possibile fare una distinzione di segni in 'opsegni', 'sonsegni', 'tatsegni', 'cronosegni', 'lectosegni', 'noosegni', se poi il cinema per Deleuze non è, forse, né lingua né linguaggio?), e infine più prossimo al pensiero dottrinario-metafisico del bergsonismo (H.-L. Bergson è oggetto di notevoli studi monografici da parte di Deleuze) che non alla tradizione del pensiero critico (Kant è guardato di solito con un certo sospetto, come se fosse più arretrato di Bergson: a un certo punto si dice, per es., e non a titolo di complimento, che Metz è "ancora kantiano").
Per ripensare globalmente il cinema, Deleuze parte appunto, come più corsivamente avevano già fatto molti altri teorici del cinema francesi, per es. il già citato A. Beucler fin dagli anni Venti, da un riesame della filosofia di Bergson, cui sono dedicati in particolare tre capitoli dell'opera citata. Deleuze sa benissimo che Bergson, nella sua esplicita valutazione del cinema, non considerava il movimento parcellizzato in fotogrammi del film come movimento continuo, tale da essere assimilato alla sua concezione del tempo come durata. Ma egli cerca di dimostrare che, se interpretato attentamente, Bergson avrebbe anche detto, soprattutto in Matière et mémoire (1896), qualcosa che disdiceva in anticipo i suoi successivi giudizi limitativi. Deleuze insiste in particolare sulla nozione di "coupes mobiles": non segmenti inerti, ma momenti appunto di una durata, in quanto essi stessi durata. L'aspetto forse più interessante del pensiero di Deleuze riguarda il particolare statuto dell'immagine-movimento del film, che non è affatto rinserrata in sé stessa, al modo di un lacerto di realtà, ma rimanda a ciò che resta al di fuori di essa, realizzando con ciò una totalità osservabile-inosservabile, cioè quel "tutto aperto", l'ouvert bergsoniano, che va distinto dall'"insieme", che è invece un tutto chiuso. Non si domanda tuttavia se tale statuto dell'immagine riguardi specificamente l'immagine filmica o se per caso non sia invece proprio dell'immaginazione stessa, come sembra inevitabile e come aveva già pensato Kant: segno appunto di un'estetica di tipo più dottrinario-metafisico, di un'estetica ad hoc, che non di tipo critico, anche se nello stesso tempo indizio del riconoscimento della pari, se non addirittura superiore, dignità culturale del cinema rispetto alle tradizionali attività espressive. Ma il carattere metafisico di certi tratti del suo pensiero emerge ancora più nettamente dall'idea che l'immagine sia non una produzione del soggetto, in quanto immerso nel mondo dell'esperienza, ma esista già, non riconosciuta da alcuno, nelle cose, anche prima che un occhio le guardi. L'immagine filmica insomma, come per Pasolini, autore amato e citato a questo proposito, non produrrebbe una 'impressione di realtà' alla Bazin, ma sarebbe la realtà stessa. Un idealismo o vitalismo mascherato? Forse sì. Infine: il pensiero di Deleuze ha movenze 'metafisiche' anche e soprattutto nel senso che è interessato all'essere nella sua totalità, come se questa non fosse per definizione indeterminata, e che dalla totalità indeterminata si pretende di inferire qualcosa che riguarderebbe le cose determinate, comprese le immagini che produciamo. Ma l'opera di Deleuze, ricca di contributi sollecitanti, spregiudicati e chiarificatori, rappresenta una svolta nelle vicende dell'estetica del cinema. E sotto tale profilo deve essere innanzi tutto riguardata.Va ricordato infine qui il notevole libro del filosofo italiano Pietro Montani, L'immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario (1999, non a caso premiato con il Premio Barbaro). La questione di partenza è propriamente 'critica', maturata su un'attenta rilettura del problema dell'immaginazione e dello schematismo kantiano, cioè la questione del rapporto, del reciproco condizionarsi, del transito incessante e originario di "rappresentazione" e "immagine" (per dirla nel linguaggio di Ejzenštejn), cioè di 'dati sensibili' e loro organizzazione, che costituisce la loro 'sensatezza', o appunto (nel linguaggio kantiano) tra il "sensibile" e l'"immaginazione", in quanto questa conferisce a quello unità e senso, disponendolo a "schematizzare" o "esibire" concetti (il cosiddetto libero schematismo della Kritik der Urteilskraft) o propriamente esibendo concetti determinati (il cosiddetto schematismo oggettivo della Kritik der reinen Vernunft). Si tratta di un modo universale di strutturarsi dell'esperienza, che non riguarda solo il cinema, come in un'estetica ad hoc, ma che il cinema, proprio per la natura del suo mezzo, ha il privilegio, per così dire, di mostrare a vista. Il cinema infatti non tende a polarizzarsi su uno dei lati di quella duplicità unitaria, nella forma dell'immagine, del senso conquistato o addirittura del concetto, come accade nelle arti tradizionali e nell'uso artistico (e, tanto più, scientifico) del linguaggio verbale, ma può indugiare precisamente nello stesso intervallo fluttuante della mobile unità della duplicità, tra dati sensibili e loro organizzazione. Entra dunque nell'opera filmica qualcosa che in un certo senso non è ancora opera e che la letteratura tende a espungere, pur senza eliminarlo senz'altro: entra il contingente e il fattuale che si va formando in necessaria sensatezza e in finzionalità creativa, e quindi la sua intrinseca e paradossale temporalità, insieme ai residui di datità e, in un certo senso, proprio al 'caso' di Bazin. Di qui la tesi centrale del libro: che il cinema va oltre i confini dello spazio letterario. Ciò che insomma sarebbe riuscito solo in parte a J. Joyce, si manifesterebbe pienamente invece nel Pierrot le fou di Godard, citato nell'esergo del primo capitolo: "Ho trovato l'idea di un romanzo. Non più descrivere la vita della gente. Ma soltanto la vita. La vita da sola. Quello che c'è tra la gente: lo spazio, il suono, i colori. Bisognerebbe arrivare a questo. Joyce ha tentato, ma si deve poter fare meglio". E meglio, appunto, si può fare solo con il mezzo cinematografico, sempre e inevitabilmente oscillante tra datità e finzionalità. La tesi viene esemplificata e approfondita via via attraverso discussioni di testi filosofici (Kant, P. Ricoeur, M. Merleau-Ponty) eanalisi di film di Krzysztof Kieślowski, Abbas Kiarostami, Alain Resnais, David Lynch, e anche di autori classici come Vertov e Ejzenštejn, qui considerati, in modo solo a prima vista paradossale, come complementari: le "cose stesse" vertoviane e la loro "immagine" ejzenšteiniana.
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