Virtuale, estetica del
Il termine
L'aggettivo virtuale, dal latino medievale della scolastica virtualis, derivato a sua volta da virtus, ovvero facoltà, potenza, si presenta generalmente nel linguaggio filosofico come sinonimo di ciò che, esistendo soltantoo in potenza, si contrappone all'attuale, all'effettivo. La categoria di virtualità, assimilata a quella di possibilità (con riferimento alla dynamis aristotelica), trova spazio nella riflessione teorica come modalità di esistenza differente dalla realtà. In questo senso, questo concetto viene applicato talvolta anche all'estetica nei suoi tentativi di definire il modo di essere peculiare dell'opera d'arte: nella prima metà del Novecento, per es., il filosofo N. Hartmann nel suo testo Möglichkeit und Wirklichkeit (1938) descrive la dimensione dell'arte e della bellezza come l'unica regione dell'essere che, pur non essendo completamente irreale, appare caratterizzata da una possibilità pura, rappresentando un allontanamento e una totale separazione dai condizionamenti e dalla 'durezza' del reale. Qualche anno più tardi, S. Langer nello scritto Feeling and form (1953) definisce 'esperienza virtuale' ogni forma di fruizione artistica, il cui oggetto è e rimane una semplice parvenza (hegelianamente, uno Schein), ossia un'illusione. Tale virtualità dell'opera d'arte, di cui anche la Langer sottolinea il suo non essere totalmente irreale, ha un carattere di alterità rispetto alla "solida realtà del mondo naturale", del quale partecipa tuttavia come "uno strano ospite" (trad. it. 1965, p. 66).
Nella seconda metà del 20° sec. il termine virtuale, utilizzato anche in senso assoluto come sostantivo, acquisisce un nuovo significato in primo luogo nel linguaggio comune. Ciò accade con l'avvento di quella che è stata definita la rivoluzione della riproducibilità digitale (Le arti multimediali digitali, 2004, p. 11), dopo le svolte della riproducibilità tecnica (fotografia, cinema) descritta da W. Benjamin e infine della riproducibilità tecnica a distanza in diretta (telefono, radio, televisione) analizzata da M. McLuhan. L'evento fondamentale è la nascita, all'interno del Dipartimento della Difesa statunitense nel 1967, della rete telematica, estesa negli anni Settanta a tutte le università americane e poi nel mondo con il nome di Internet, sulla quale si basa il world wide web (v. web), l'ipertesto globale che permette ai computer di tutto il mondo l'accesso a una comunicazione interattiva in un 'luogo' virtuale, un cyberspazio che trascende lo spazio e il tempo reali.
In modo più specifico, la locuzione realtà virtuale (v. virtuale, rappresentazione) va a designare l'espressione più avanzata della cibernetica, ovvero un ambiente costituito dal 'fenomenizzarsi' di una memoria digitale (un algoritmo in sistema binario), in cui sono simulate condizioni di esperienza reale, sperimentabili dal soggetto attraverso appositi strumenti tecnologici (le cosiddette interfacce, dai guanti, alle tute, ai caschi, fino agli impianti direttamente collegati ai nervi ottici).
Teorie del virtuale
Già in questa prima, breve definizione di realtà virtuale sono presenti molte delle caratteristiche che pongono non pochi problemi teorici in merito al suo statuto ontologico, come sottolinea R. Diodato nella sua Estetica del virtuale (2005). Tali questioni chiamano in causa la filosofia, e in primo luogo l'estetica, esigendo una nuova riflessione su alcuni dei suoi concetti tradizionali, quali la categoria di mimesis, la nozione di illusione e il rapporto tra reale e immaginario. Innanzitutto, l'immagine digitale non è 'rappresentazione di qualcosa', imitazione di una realtà preesistente, né tanto meno è un'icona, un'immagine originaria, bensì il risultato di un processo matematico, un'immagine autonoma che è quindi causa di sé stessa. D'altra parte, l'esperienza che può farne un soggetto colpisce realmente e direttamente i sensi, è un'esperienza sensoriale effettiva, sperimentabile attraverso l'avatar, ovvero l'alter ego digitale dell'utente che all'interno dell'ambiente virtuale può agire, produrre cambiamenti e interagire con altri avatar. L'esperienza della realtà virtuale è dunque multimediale (in modo differente a seconda della ricchezza della rappresentazione e della quantità di sensi coinvolti), interattiva e immersiva, poiché implica un totale coinvolgimento e un'identificazione dell'utente con il medium. Lo spazio e il tempo di questa immersività alle volte così persuasiva non aspirano tuttavia a una riproduzione perfetta, poiché l'utente è consapevole di percepire una realtà soltanto immaginaria, sebbene essa non sia una mera fantasia del suo mondo interiore ma un ambiente fruibile e 'navigabile' da altri soggetti. In questa realtà l'identità dell'utente viene, ancora una volta, messa in questione, "è al tempo stesso de-corporeizzata e ipersensibilizzata" (2005, p. 20), poiché il corpo virtuale, sebbene oggetto di molteplici sensazioni, non è una cosa, bensì un evento, cioè non esiste se non come interazione.
Non ancora riferito alle possibilità dei nuovi strumenti tecnologici, il virtuale è al centro della filosofia di G. Deleuze, e in particolare della lettura da lui compiuta del pensiero di H. Bergson, come nozione cardine della sua analisi della temporalità. Nel secondo capitolo di Matière et mémoire (1896) Bergson, descritto il riconoscimento come atto del percepire che utilizza l'esperienza passata in vista dell'azione presente, ne individua due modalità: il riconoscimento 'automatico' è un'abitudine che guida una reazione immediata; nel riconoscimento 'attento' invece lo spirito, esitando di fronte al suo presente, interroga il passato sulla base di un'ipotesi, alla luce della quale i singoli ricordi sono estratti dall'enorme distesa della memoria. Secondo Bergson tra le due dimensioni differenti per natura - l'attualità senso-motoria e percettiva delle nostre azioni e la virtualità del ricordo puro - vi sarebbe un continuo scambio. Già nel 1966, nel volume Le bergsonisme, Deleuze sottolinea come questo scambio tra presente e passato, che avviene attraverso un 'salto ontologico', un installarsi immediato, dimostri l'esistenza di una regione dell'essere - il virtuale, la memoria, la durata - che pur non essendo attuale né materiale si conserva e sopravvive in sé, laddove il presente come puro divenire è paradossalmente 'ciò che passa' di continuo. Deleuze tematizza in questo modo un'idea che avrebbe accompagnato tutto il suo percorso speculativo, fondamentale, per es., per la sua analisi del cinema moderno come arte in cui si mostra la temporalità in sé (L'image-temps, 1985). Proprio a causa di questa radicale affermazione dell'esistenza della dimensione del virtuale - che viene così totalmente emancipato dalla nozione di possibile in quanto non opposto al reale, ma soltanto all'attuale, con cui tuttavia coesiste - il pensiero deleuziano è stato considerato una sorta di prefigurazione della realtà virtuale che è creata dalle nuove tecnologie; i teorici che successivamente si sono occupati di tale questione hanno spesso trovato nella sua filosofia un antecedente e un punto di riferimento.
Uno dei testi più completi nel descrivere i 'nuovi mondi' generati dalla simulazione attraverso il computer è Virtual reality (1991) di H. Rheingold, che analizza in modo accurato le applicazioni della nuova tecnologia alle aree più varie (per es., la diagnostica medica, la progettazione architettonica, l'utilizzo militare), concentrandosi soprattutto sul suo potere di trasformazione della società. All'arte viene assegnato un ruolo conoscitivo, come strumento in grado di guardare alla nuova realtà con uno sguardo rinnovato e di decidere la modalità e il carattere delle esperienze che grazie alla simulazione virtuale possono essere ora create dal nulla. Una funzione conoscitiva, di mediazione tra la tecnologia e i cambiamenti sociali e psicologici da questa provocati, è affidata all'attività artistica anche da D. de Kerckhove (Brainframes, 1991), autore che riprende esplicitamente la tesi di McLuhan secondo cui il progresso della tecnica determina una modifica radicale dei nostri modelli mentali e della nostra percezione. Una delle conseguenze più decisive della creazione di realtà virtuali è lo spostamento della priorità dell'atto percettivo dal solo sguardo all'intero corpo, con l'esito di una rivalutazione del senso del tatto, dopo secoli in cui si è privilegiata la vista, e un'estensione delle nostre capacità sensoriali; un ulteriore superamento dei limiti della nostra percezione è rappresentato in modo evidente dal fatto che l'oggetto verso cui essa si dirige può non essere fisicamente presente o addirittura non esistere affatto nella realtà. All'interno di questa analisi, de Kerckhove sviluppa un'interpretazione 'funzionalistica' dell'arte, che avrebbe il ruolo di esplorare le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi mostrandone così l'impatto sulla nostra sensibilità, allo stesso modo in cui futurismo, dadaismo e surrealismo interpretarono le innovazioni tecniche della loro epoca.
L'irrompere del virtuale all'interno del sistema delle rappresentazioni visive elaborato nella storia della nostra civiltà è analizzato anche da T. Maldonado (Reale e virtuale, 1992), teorico dell'architettura che valuta i possibili rischi del fenomeno della virtualizzazione (per es., nel campo militare) come pure gli esiti positivi. È in particolare nel mondo dell'arte che l'esplorazione della virtualità rappresenta un arricchimento, anche della nostra conoscenza del reale. Grazie all'utilizzo delle nuove tecnologie della realtà virtuale, intesa in senso forte e immersivo o in senso debole e più generico, le tendenze artistiche della fine del 20° sec. possono inoltre confermare e realizzare i progetti delle loro poetiche, in una rinnovata unione tra arte e scienza. Il virtuale non è dunque "una fuga mundi, ma una creatio mundi" (p. 78). Le potenzialità conoscitive di un'esperienza di realtà virtuale sono centrali anche nell'interpretazione di E. Zolla, studioso del pensiero mistico, che nel fenomeno ha visto la possibilità propriamente pedagogica di sperimentare un percorso iniziatico di uscita dal sé (Uscite dal mondo, 1992).
A questi atteggiamenti di adesione e fiducia nel progresso delle capacità umane grazie alle tecnologie elettroniche si contrappongono le diagnosi pessimistiche di altri teorici. Una posizione nettamente critica verso la tecnologia e la realtà virtuale in particolare, è quella di J. Baudrillard, il quale sottolinea le conseguenze negative di questa clonazione e duplicazione del reale proprio in ambito artistico. Secondo il sociologo, la simulazione virtuale produce, paradossalmente, non una derealizzazione ma piuttosto un 'eccesso di realtà' e di informazioni, una 'trasparenza ineluttabile', divenendo la causa della fine dell'illusione, dell'immaginazione e, hegelianamente, dell'arte stessa. L'ipervisibilità e la perfezione mimetica che caratterizzano l'arte digitale, dove tutto è immanente e privo di difetti, hanno reso l'opera d'arte banale e indifferenziata dalla vita e dalla realtà che simula, provocando una perdita sia di significato sia di valore estetico (Le crime parfait, 1995). La stessa valutazione negativa della informatizzazione sempre più diffusa della nostra quotidianità viene offerta da S. Žižek e da P. Virilio: il primo, analogamente a quanto afferma Baudrillard, individua dietro la perdita di realtà che viene causata dal virtuale un'eccessiva pienezza ("la visione di un cyberspazio aperto a un futuro di possibilità senza fine […] nasconde il suo esatto opposto: il paradosso di un infinito di gran lunga più soffocante di qualsiasi altra restrizione effettiva", The plague of fantasies, 1997; trad. it. 2004, pp. 219-20); il secondo si scaglia contro il 'fondamentalismo tecnoscientifico' secondo il quale risulta ormai indesiderabile tutto ciò che è semplicemente umano e che sta trasformando la realtà in 'telerealtà' (Ce qui arrive, 2002).
Maggiormente orientati a indagare il fenomeno del virtuale nella sua essenza, nel suo statuto ontologico, sono alcuni studiosi che operano in ambito francese. R. Debray si occupa dell'arte virtuale in senso lato, ovvero non specificamente delle esperienze virtuali immersive, artistiche o meno, quanto piuttosto della nuova modalità di esistenza di tutte le immagini digitali (Vie et mort de l'image, 1992). Da un punto di vista descrittivo, egli mette in evidenza la perdita, implicita nel passaggio dall'analogico al digitale, del significato in primo luogo mimetico dell'immagine, che non è più "copia seconda di un oggetto anteriore" (trad. it. 1999, p. 230), ma 'stabilizzazione provvisoria' di un modello logico-matematico. La sua valutazione è che il tratto 'astorico e acosmico', dovuto alla matrice informatica, dell'arte digitale - si potrebbe anche dire, con Benjamin, il declino definitivo della sua aura - rappresenta la sua debolezza estetica, facendone "un codice senza messaggio o una sintassi senza semantica" (p. 233). Anche P. Lévy (Le virtuel, 1995), risalendo alle radici etimologiche di un termine in primo luogo utilizzato nel linguaggio filosofico, si propone di cogliere i tratti ontologici del virtuale, di cui rivendica la realtà in analogia con il pensiero deleuziano: il virtuale è un differente grado del reale, e non una dimensione totalmente astratta e fittizia. Per quel che riguarda le pratiche artistiche che sonolegate alle nuove tecnologie, Lévy pone in primo piano la necessità di un adeguamento alla nuova fluidità e 'deterritorializzazione' del mondo virtuale: l'esito più rilevante è quello del totale superamento della distinzione tra autore e fruitore, e la nascita di modalità di creazione completamente differenti (L'intelligence collective, 1994). Del virtuale come di un diverso stato della realtà, che va nettamente distinto dalla dimensione della pura possibilità, parla anche Ph. Quéau (Metaxu, 1989; Le virtuel, 1993), fondatore nel 1981 di Imagina, rassegna internazionale dedicata alla multimedialità e alla rappresentazione tecnologica. Le immagini virtuali, partecipando della realtà solo indirettamente, attraverso un processo di digitalizzazione, sono 'enti intermedi', "finestre artificiali che si aprono su un mondo intermediario, nel senso di Platone, su un universo di entità della ragione, nel senso di Aristotele" (Vertus e vertiges du virtuel, in Art press spécial, 1991, 12; trad. it. in Capucci 1993, p. 185). Per Quéau occorre dunque interrogarsi con rigore sulla natura del virtuale, valutando i percorsi artistici più adeguati alla sua esplorazione.
Il virtuale e l'arte contemporanea
Se i cambiamenti sociali dovuti alle innovazioni tecnologiche hanno suscitato una riflessione filosofica generale, in una prospettiva ontologica ma anche etica e politica, un ruolo centrale nell'indagare l'argomento della realtà virtuale viene imposto alla teoria estetica sia, come si è visto, dalla evidente novità dello statuto dell'immagine, sia dalla concreta esperienza artistica. Sebbene l'influenza di tali innovazioni riguardi, in modo differente, tutte le forme d'arte - basti pensare agli effetti del digitale sul cinema (v. digitale, cinema), sulla musica, o, per es., alle questioni che pone alla letteratura la creazione degli ipertesti nel Web, con la loro modalità di scrittura non lineare -, le arti visive sembrano essere particolarmente coinvolte in una sperimentazione che si rivela feconda anche dal punto di vista speculativo. All'interno delle cosiddette tecnoarti o arti tecnologiche, una delle tendenze più diffuse a partire dalla fine del 20° sec., accanto all'ibridazione tra corpo organico ed elemento tecnologico (presente, per es., nelle performances dell'artista Stelarc, che propone il suo stesso corpo come interfaccia collegato a Internet), è proprio l'arte virtuale, ovvero la creazione di ambienti virtuali come installazioni all'interno delle quali il fruitore può agire e interagire con altri avatar.
Gia nel 1970 M.W. Krueger, tra i primi artisti a sperimentare l'arte telematica, progettò Videoplace, un 'ambiente concettuale' che consente al fruitore di interagire con immagini digitali di oggetti o persone fisicamente non presenti, attraverso un computer che ne determina le modificazioni secondo un codice creato dall'artista. Krueger anticipò con questa ricerca gli sviluppi successivi della simulazione virtuale, che sarebbe divenuta sempre più interattiva e immersiva. Un esempio importante di questa tendenza è offerto dall'opera di Ch. Davis, Osmose (1995), un ambiente virtuale all'interno del quale si possono esplorare abissi marini, foreste, luoghi sotterranei, attraverso occhiali polarizzati stereofonici e un sistema di sensori che registra il respiro e i movimenti del fruitore. Durante l'esperienza virtuale due schermi rendono pubblico l'evento, mostrando l'uno l'ambiente tridimensionale attraversato dal visitatore, l'altro l'ombra del corpo di quest'ultimo che si muove reagendo agli stimoli. L'opera della Davis, che ha peraltro suscitato grande interesse, è un viaggio tra il naturale e l'artificiale, un'esperienza sensoriale che coinvolge la vista, il tatto e l'udito, ma anche un evento interiore, che vuole mettere al centro elementi simbolici come l'equilibrio e la respirazione. Come descrive Lévy: "Con un profondo inspiro, vi sollevate al di sopra della radura. […] Piegandovi, vi dirigete verso un grande albero […] Sorpresa: nel momento in cui entrate in contatto con la corteccia, penetrate all'interno del salice […] Sforzandovi di inspirare con forza, salite all'interno dell'albero fino a raggiungerne le fronde […]" (Cyberculture, 1997; trad. it. 1999, p. 43). Emergono con evidenza in quest'opera tutti i tratti caratteristici dell'incontro tra la realtà virtuale e l'arte: Osmose è un'esperienza virtuale, che provoca tuttavia una percezione sensoriale autentica; è una simulazione della realtà, ma l'ambiente simulato non è tanto la copia di qualcosa, quanto una creazione generata a partire da un processo matematico; l'esito non è un'opera finita, un oggetto, quanto un evento; viene a cadere, infine, il concetto tradizionale di autore, che qui è soltanto il regista, l'artefice di un insieme di relazioni, mentre emerge la nozione di autore collettivo, dal momento che per la produzione dell'evento è necessaria l'interazione dei fruitori.
Pur non essendo un ambiente immersivo, ma una videoinstallazione interattiva, l'opera del gruppo italiano Studio Azzurro Tavoli, perché queste mani mi toccano? (1995) offre la possibilità di un'interessante riflessione sull'interattività del virtuale. L'installazione è composta da sei tavoli di legno su cui sono proiettate delle immagini quotidiane come una candela, una donna sdraiata, una ciotola contenente del pane; attraverso un sistema di sensori nascosti, le immagini reagiscono al tocco del fruitore, creando così una sorta di microracconto: la candela incendia il tavolo, la donna scivola, il pane viene spostato. L'idea degli artisti è quella di sperimentare la relazione tra reale e virtuale utilizzando come interfaccia materiali del tutto usuali e ordinari, rendendo dei semplici oggetti di contemplazione una fonte diretta di esperienza.
Un ulteriore utilizzo delle nuove tecnologie in ambito artistico riguarda la possibilità della conservazione di eventi altrimenti soltanto effimeri, legati al luogo e al momento della loro esposizione. L'esempio più significativo è quello del padiglione progettato da Le Corbusier per contenere i prodotti della Philips durante l'Esposizione universale di Bruxelles del 1958, visitato da un numero enorme di spettatori e smantellato pochi mesi dopo essere stato inaugurato. Il padiglione, costituito dalle superfici architettoniche di Y. Xenakis, cui si aggiunsero la componente sonora organizzata da E. Varèse, un filmato proiettato su due pareti e numerosi effetti di luce, fu la prima vera e propria opera multimediale, definita dallo stesso Le Corbusier un 'poema elettronico'. Nel 2000, l'Unione Europea ha finanziato il progetto Virtual Electronic Poem (VEP), cioè la realizzazione di un ambiente virtuale che riproduca l'esperienza percettiva del Padiglione Philips, attraverso una ricostruzione filologicamente accurata dell'originale. L'installazione virtuale, la cui inaugurazione ha avuto luogo a Barcellona nel 2005, permette la conservazione di un'opera fondamentale con una modalità di fruizione interattiva e possibilità di accesso molto più ampie, aprendo la strada a un impiego delle tecniche digitali in ambito artistico che può rivelarsi produttivo anche in una prospettiva storica.
bibliografia
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