Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il termine “estetica” nasce nel 1735 con il filosofo Alexander Gottlieb Baumgarten, seguace di correnti leibniziane, che riprende tuttavia elementi presenti nella filosofia classica. Questo battesimo si incontra con gli studi che, per l’intero Settecento nell’intera Europa, hanno al loro centro i temi del gusto, del genio, del bello, dell’immaginazione. In quello che è stato definito “il secolo dell’estetica” si incrociano dunque, sino a Kant e al romanticismo, i problemi essenziali che renderanno l’estetica parte integrante e attiva del pensiero filosofico.
Il battesimo dell’estetica
La parola “estetica” nasce nel 1735, nel momento in cui Alexander Gottlieb Baumgarten, vicino a Leibniz e Wolff, definisce, con questo termine tratto dal greco antico aisthesis, la scienza della conoscenza sensibile o gnoseologia inferior nelle sue Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus , e, in modo più ampio, con l’Aesthetica del 1750. Con questo termine, che non esiste come sostantivo in greco o latino, Baumgarten si riferisce agli orizzonti della sensibilità, della poesia, del bello e dell’arte. Al tempo stesso, l’intera Europa del Settecento, anche prima di Baumgarten o là dove non lo si conosce, è attraversata da studi sul gusto, il genio, il bello, il sublime, l’espressione, l’arte, la poesia, a volte rigorosamente differenziati, a volte uniti in un solo e spesso confuso insieme.
La bellezza ha per lui tre aspetti: è accordo di pensieri che si unificano in fenomeno sensibile; è accordo dell’ordine interno che deve essere “sentito”; è infine l’accordo che dà il significato che si istituisce tra i pensieri e le cose. Il contesto generale di Baumgarten è retorico-poetico, inserito tuttavia in una grande tradizione metafisicaquale quella leibniziana, che pone l’intera questione sotto il sigillo di una filosofia fortemente connotata in una direzione conoscitiva, che mette in secondo piano il ruolo delle singole arti e le questioni di un’espressività extrapoetica.
L’estetica tuttavia vive anche prima di essere battezzata, nascendo nel luogo stesso in cui è nato il pensiero occidentale, cioè nella Grecia classica. Il termine estetica, che nella società contemporanea ha assunto un significato vicino alla cosmetica, e alla capacità di rendere “bello” il corpo, nasce con la filosofia stessa. In greco, pur non essendovi la parola “estetica”, si conoscevano infatti funzioni e significati dell’aisthesis (“sensazione”) e dei suoi correlati, cioè degli aistheta, le cose sensibili. È a questa tradizione terminologica, in primo luogo aristotelica, che si richiama Baumgarten nel momento in cui battezza la nuova disciplina. E, con la terminologia, vi è l’intero insieme di problemi cui essa allude: gli aistheta, le cose sensibili, sono componenti conoscitive, non la totalità del conoscere. Infatti, accanto a esse, o a esse contrapposte, si pongono gli oggetti del pensiero, strumenti e prodotti della logica, cioè i noeta. Così, parlare di “sensazione” conduce, sin da Aristotele, a delineare i suoi rapporti con i meccanismi generali della conoscenza e, in particolare, con le leggi del pensiero così come esse sono universalmente delineate nella “logica”.
Il bello non entra direttamente da protagonista nella nascita moderna dell’estetica, ma si inserisce come possibilità di incontro tra i campi dell’estetico e dell’artistico, assumendo nella sua storia settecentesca un legame antico con le arti. Un’ampia trattatistica cinquecentesca ne aveva già saldato la terminologia, tra loro collegando, alla ricerca di un ideale armonico e simmetrico, capace di incarnare l’idealità sovrastorica della bellezza, termini “poietici” come invenzione ed espressione.
L’estetica è dunque, nella sua intricata storia, una serie di percorsi che non sempre si incontrano, e che a volte sono anche sentieri interrotti. Se infatti le scarne indicazioni presocratiche sulla bellezza sono forse poco significative, le elaborazioni platoniche sul ruolo del sensibile, del bello e dell’arte costituiscono un punto essenziale dell’intera storia che seguirà: la centralità metafisica della bellezza, il ruolo conoscitivo della poesia, la svalutazione gnoseologica delle arti in quanto “copia di copia”, così direttamente legata alla convinzione del carattere illusorio del sensibile, sono i parametri di riferimento di discorsi che domineranno, a partire dalla prima parte del Medioevo cristiano, l’intera storia della disciplina.
Tra gli estremi - armonia metafisica e piacere sensibile, inganno e maestria costruttiva di effetti gradevoli - si sviluppano le prime meditazioni sul bello e sull’arte, inseparabili da più generali considerazioni sui limiti e il senso del “sapere sensibile”: si ritrovano in età ellenistica, nel mondo romano, nei molteplici tentativi di applicare parametri filosofici alla specificità delle varie arti. Per esempio, Orazio, con l’Ars poetica , Quintiliano con l’oratoria o Vitruvio con l’architettura cercano di “istituzionalizzare” questi ambiti civili e sociali. Vitruvio, in particolare, è forse il primo a teorizzare con grande lucidità non solo il ruolo centrale dell’architettura tra le arti, ma anche, e soprattutto, la differenza tra “teoria” e “prassi” dell’artisticità, auspicando una loro paritetica collaborazione. È infatti con Vitruvio, dove elenca le sei categorie essenziali per l’architettura (ordinatio, dispositio, euritmia, simmetria,decor, distributio), che si fa evidente sia la centralità della retorica quale modello estetico per le arti sia l’importanza che questo vocabolario retorico-poetico avrà per la meditazione teorica non solo sulle arti, ma anche sulle loro modalità ricettive. Dal I secolo a.C., in cui si situa Vitruvio, sino al III dell’era cristiana, in cui domina il neoplatonismodi Plotino, la visione metafisica e quella retorica della bellezza convivono, a volte entrando in contrasto per le ambiguità che il “piacere”, legato alla retorica, porta con sé, generando così i tormenti di Agostino e la sua osservazione che a nulla valgono i piaceri letterari se ancora si è schiavi delle passioni.
Questi temi si incrociano e sviluppano, assumendo una direttrice unitaria, anche se non certo sistematica, tra Seicento e Settecento.
In primo luogo, come sarà in Baumgarten, ciò accade grazie al pensiero filosofico, subendo l’essenziale influsso delle diverse interpretazioni di Cartesio presenti nel pensiero di Locke e di Leibniz, interpretazioni che giocano la propria differenza intorno al tema “aristotelico” del sentire. La centralità conoscitiva della sensazione in Locke, a partire dalla ripresa del motto aristotelico “nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi”, fa incontrare l’iniziale assoluta passività della “tabula rasa” della coscienza, su cui si incidono le tracce sensibili del mondo esteriore, con la capacità di rielaborazione attiva, e riflessiva, di tali tracce in una costruzione di complessi apparati di idee. L’esperienza sensibile ha lo scopo primario di opporsi all’innatismo dei cartesiani: le idee sono sempre il prodotto di un’attività che ha però un avvio passivo e meramente ricettivo.
Leibniz, nel suo grandioso tentativo di ripresa critica di Locke, vuole invece salvaguardare la presenza, nei processi conoscitivi, di un principio virtuale capace di ordinare il divenire stesso della conoscenza. Così, se è vero che nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi, è vero anche che l’intelletto, con la sua attiva forza formativa, precede la realtà passiva del sensibile. La coscienza è sempre attiva, non conosce passività, anche se, nei gradi inferiori del suo percorso, questa attività può essere “inconscia”. Leibniz costruisce allora un “albero della conoscenza” all’interno del quale le cartesiane percezioni chiare, distinte e adeguate sono un punto d’arrivo che passa attraverso l’inconscio, il confuso, l’oscuro, tendendo, per un principio di convenienza, o perfezione, intrinseco al processo stesso, verso il meglio, verso una sempre maggiore adeguatezza e perfezione. Esistono delle percezioni che sono del tutto “chiare” - percezioni di suoni, colori, sapori - ma che non hanno la proprietà della “distinzione”, cioè confondono in un’unità indistinta le loro componenti specifiche. Saranno proprio queste percezioni inconsce, o piccole percezioni, nella loro confusa chiarezza, il punto di avvio della estetica baumgarteniana. Portare a “perfezione” questo ordine di sensibilità, questa conoscenza originaria, chiamata da Baumgarten, per i suoi legami con i sensi, gnoseologia inferior, è l’orizzonte scientifico che egli si propone. Ma questo orizzonte ha il suo privilegiato campo applicativo nell’ambito della poesia, dell’oratoria, della retorica, che si trovano immediatamente inserite nel quadro scientifico dell’estetica. Né, d’altro lato, è casuale che quegli studiosi che sono all’origine della moderna teoria dell’arte, come Winckelmann, Lessing o Herder, vedano in Baumgarten un imprescindibile punto di avvio filosofico per le loro specifiche ricerche di teoria dell’arte.
Dalla disputa tra antichi e moderni all’estetica filosofica
È a questo punto che si annoda un altro filo che genera la vicenda moderna dell’estetica. Ancora una volta l’avvio si pone nel contesto delle dispute poetico-retoriche: in questo caso, in quell’episodio chiamato “querelle” tra antichi e moderni. Avviata da Perrault nel 1687, riprende paradigmi cinquecenteschi e ha chiari principi informatori, ma complesse (e contraddittorie) linee di sviluppo. Infatti, nel momento in cui il dibattito sulla funzione dell’arte nella modernità incontra i temi filosofici, le questioni poetiche assumono alcuni connotati che si ritrovano all’interno delle posteriori tradizioni leibniziane tedesche. I “moderni”, pur sospettandone i contenuti, e ignorando il sospetto che a sua volta Cartesio aveva nei confronti del valore conoscitivo dell’arte, sostengono l’importanza di applicare il metodo cartesiano anche al campo artistico. Vi è infatti un progresso non solo nella scienza, ma anche nell’arte, nelle arti e, soprattutto, la chiarezza e la distinzione devono essere introdotte in un campo apparentemente confuso come quello delle passioni e della bellezza, in modo da poterle controllare e regolamentare. Tuttavia, malgrado queste premesse, il partito moderno avrà un successo limitato negli studi estetici, utile forse solo per allontanarli dalla retorica, mentre le vere tappe importanti per la genesi dell’estetica si avranno nelle varie accezioni con cui sarà intesa l’appartenenza al variegato mondo degli “antichi”. Da un lato, infatti, essi sono rappresentati da una posizione “classicista”, guidata da Boileau, cioè dall’autore dell’Art poétique (1674), vero maestro di quel classicismoaccademico che domina il mondo pragmatico delle arti alla fine del Seicento e per gran parte del Settecento: non si nega la presenza delle emozioni nell’arte, presenza che ne garantisce il senso “eterno” al di là delle variazioni della storia, ma si ritiene che queste emozioni debbano venire ricondotte in apparati regolistici, immutabili e tramandabili nella loro immutabilità anestetica. D’altro lato, invece, ci si riconnette, inizialmente con evidente intenzione anticartesiana, alla filosofia di Locke: l’arte è l’espressione di emozioni e la superiorità degli antichi sui moderni è data proprio dal fatto che le emozioni che suscitano in noi le opere degli antichi hanno dimostrato la capacità di costruire, attraverso la storia, il senso di un percorso “estetico” che mai perde il proprio valore. Autori come Charles Du Bos, con le sue Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura, sono all’origine di questo atteggiamento. Atteggiamento di cui sono però particolarmente interessanti gli sviluppi, che prendono come loro obiettivo polemico non le posizioni dei “moderni”, bensì quelle degli eredi del “classicismo” regolistico di matrice boileauiana, cui si contrappone un empirismo antiregolistico, attento alla dinamicità empirica delle arti, alla loro forza simbolica e comunicativa. Anche quando, come in Charles Batteux, si tenta un “sistema delle arti”, i criteri non sono sottomessi a regole estrinseche, bensì scaturiscono dalle specificità espressive e simboliche delle arti stesse, dal rapporto che esse instaurano con le forze naturali che le costituiscono e di cui sono un’interpretazione espressiva. La medesima forza “geroglifica” dell’arte, che ne scardina gli apparati tradizionali, si ritrova in Denis Diderot, che vede nell’arte una via espressiva per interpretare la natura. Per cui, da una disputa accademica scaturisce un percorso che segna un superamento filosofico dei parametri che legavano l’arte alla retorica: le regole non sono immutabili vincoli, bensì derivano dall’adesione alle specificità del materiale che l’arte lavora ed interpreta per renderlo espressivo e comunicativo sul piano emotivo, storico, sociale, culturale. Quest’asse, che genericamente potremmo chiamare “anticlassicistico”, corre attraverso la cultura europea e, al di là delle differenze filosofiche specifiche, ha sempre in Locke un punto di riferimento unitario, che si ritrova in Francia ma anche, e in modo particolarmente ricco, nello studio sul sublime di Edmund Burke sino agli scritti di Winckelmann e Lessing, che cercano appunto modi nuovi per entrare in rapporto con la “classicità” dell’arte, modi che non potessero venire confusi con quelli del classicismo del Seicento francese.
Accanto a queste strade, con i loro riferimenti filosofici definiti, si pone un percorso più frammentato, all’interno del quale si rielaborano sia le categorie del pensiero barocco (dal Wit all’agudeza, dall’esprit all’ingegno) sia quegli apparati concettuali tradizionali, in primo luogo della bellezza, che la storia del pensiero aveva considerato senza prestare attenzione ai legami con il mondo delle arti. Attraverso varie esperienze, che hanno storie filosofiche diverse, si crea, tra Seicento e Settecento, quel “vocabolario”, quell’insieme categoriale, che ha accompagnato la storia dell’estetica: il genio, il gusto, il sublime, l’espressione, il bello, l’immaginazione, il sentimento sono temi che possono venire ricondotti, pur nella loro varietà, a impostazioni unitarie. Da Cartesio a Pascal, da Leibniz aLocke vi è il tentativo di costruire quella che esplicitamente Hume chiamerà “scienza dell’uomo”. In essa, accanto alla logica, alla morale, alla politica, vi deve essere spazio per un orizzonte qualitativo che, al di là dei differenti punti di vista, sempre più si impone nella vita sociale settecentesca: questo orizzonte può venir chiamato “estetica”, come in Germania, o Criticism, come in Inghilterra, ma in ogni caso ha lo scopo di discutere la relazione dei soggetti con il mondo della varietà, delle qualità, dei sentimenti, di giudizi che, non avendo la certezza della scienza, siano almeno in grado di giustificare e fondare filosoficamente un diffuso “senso comune” intorno alla realtà teorica dell’emozionalità, in primo luogo connessa al mondo delle arti.
È infatti molto ampio il novero di temi, autori, correnti che il Settecento coinvolge nella definizione di un campo posto tra arte e bellezza. Sin dai primi anni del Settecento si hanno su questo tema due trattati, il Traité du Beau (1714-15) del ginevrino Jean-Pierre de Crousaz e l’Essai sur le Beau (1715) del gesuitaYves-Marie André. Crousaz è seguace della filosofia cartesiana e del partito dei “moderni” e, di conseguenza, cerca di ridefinire in modo chiaro e distinto i “caratteri reali e naturali del Bello”. Su questa strada si pone anche André, sempre legato alla filosofia cartesiana, che definisce il Bello non ciò che piace a prima vista all’immaginazione, nell’immediatezza corporea, bensì ciò che piace alla ragione e alla riflessione per sua propria eccellenza, per la sua propria intrinseca “luce”. André, con Crousaz, rappresenta dunque una corrente di ispirazione cartesiana, che mira in primo luogo a fissare sul piano metodologico e terminologico un campo attraversato da innumerevoli questioni teoriche e pragmatiche.
Diverso invece il ruolo rivestito da Anthony Ashley Cooper, Earl of Shaftesbury, che dedica ampio spazio alla questione della bellezza nella sua Inquiry concerning Virtue and Merit (1699). Partendo da presupposti platonici, Shaftesbury tende a conciliare il bello, il bene e il vero per mostrare come, attraverso l’arte, si possa giungere a cogliere la bellezza del mondo: l’universo è un insieme che tende all’unità e l’artista è il continuatore della creazione originaria, il costruttore di una totalità organica in cui dominano armonia e proporzione. L’artista è il virtuoso, cioè un conoscitore e amatore dell’arte che possiede un’energia costruttrice, un entusiasmo pervaso di forza morale, parente della mania platonica. La bellezza sensibile è dunque soltanto il primo passo per salire, grazie all’entusiasmo, verso un bello morale e razionale: la bellezza ha un carattere divino e sollecita in noi la parte divina, rivelata dalla vita del sentimento e delle passioni.
Se i paradigmi di Shaftesbury sono evidentemente ispirati a un’istanza metafisica che si oppone al nascente empirismo, il pensiero di Joseph Addison è invece fortemente debitore nei confronti del pensiero di Locke. Le sue idee estetiche ebbero ampia diffusione grazie al quotidiano “The Spectator” di cui pubblica, dal 1711 al 1712, ben 555 numeri, di cui undici, con il titolo The Pleasures of Imagination, sono integralmente dedicati a questioni di estetica. Addison è consapevole dell’ambiguità che circonda il termine “immaginazione” e cerca allora di qualificarla come un potere che “sta in mezzo” tra la sensibilità e l’intelletto, in grado di suscitare uno specifico sentimento di piacere. Questi “piaceri dell’immaginazione” possono essere “primari”, se generati da un oggetto fisicamente presente ai nostri occhi, o “secondari” se suscitati da cose assenti o riunite insieme attraverso la piacevole combinazione di elementi fittizi. In ogni caso, il piacere non è uno stato di confusione bensì il correlato del gusto, di una relazione sensibile con la natura e, secondariamente, con l’arte.
Il pensiero di Addison delinea dunque un territorio specifico per i problemi dell’arte e del bello: ma la loro prima vera e propria “sistematizzazione” avviene nell’opera diFrancis Hutcheson, che nella sua Inquiry into the original of our idea of Beauty and Virtue (1725), stempera la polemica antilockiana del maestro Shaftesbury ipotizzando l’esistenza di un “senso interno” capace di afferrare la bellezza come“uniformità con varietà”. È questa una sfera in cui, lockianamente, dominano idee complesse, vagliate appunto da un senso interno. La definizione della bellezza non è quindi oggettiva, non si riferisce a una qualità intrinseca agli oggetti, bensì a un’idea che, di fronte a un modo di disporsi delle qualità delle cose, suscita quel senso interno che tale bellezza riconosce.
Con Hutcheson prende avvio la cosiddetta “scuola scozzese” che ha in David Hume uno dei suoi maggiori rappresentanti. Nel Of the standard of taste (1757) Humeafferma in modo esplicito il carattere soggettivo della bellezza e di conseguenza la difficoltà a trovare per essa una “regola”. Il problema è tuttavia risolubile sul piano empirico, richiamandosi a una sorta di generalizzazione abitudinaria dei singoli gusti soggettivi. Infatti, proprio come gli organi sensibili sono uniformi (vedono cioè gli stessi colori o hanno similari difetti), anche il gusto si modellerà in una tale direzione, sia pure esclusivamente presso gli esperti, cioè i critici, che potranno generalizzare il gusto, costituendo una serie di regole fondate su ciò che è stato in grado, nella storia, di suscitare costante apprezzamento.
Ma un ruolo particolare spetta a Edmund Burke e alla sua Philosophical Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757). Pur essendo in lui ricca ed evidente l’eredità empirista (dai poteri attribuiti all’immaginazione alle funzioni del gusto), il suo interesse è particolarmente rivolto alla ricerca del ruolo che le passioni e i sentimenti, e in primo luogo il piacere e il dolore, hanno nella loro connessione estetica con la natura e con l’arte. Se il piacere positivo viene tradizionalmente connesso alla bellezza, esiste tuttavia anche un piacere ambiguo, che si mischia con il dolore e origina quel che Burke, utilizzando un termine della retorica classica rimesso al centro dei discorsi sull’arte da Boileau, chiama sublime. Il sublime ha la funzione di spezzare il cerchio delle poeticheclassiciste e di mostrare le questioni delle facoltà soggettive di fronte all’oscurità del mondo delle passioni, che originano un universo espressivo che le regole del classicismo, o di una bellezza armonica, non sono più in grado di spiegare.
Pur in un contesto del tutto diverso, gli schemi “razionali” dell’estetica sono spezzati anche all’interno della tradizione italiana. Giambattista Vico, che almeno in certa misura è il prodotto di una tradizione autoctona di pensiero poetico-retorico in cui si ritrovano Della ragion poetica (1708) di Gravinao le Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti(1708) di Ludovico Muratori, nella sua Scienza nuova (che ebbe tre edizioni: 1725, 1730, 1744), pur parlando ancora in modo confuso di “fantasia”, segnala, con le sue critiche a Cartesio, che il razionalismo ha costruito un’idea di scienza che esclude da sé la storia, la fantasia, il mondo della qualità e della metafora. Si tratta dunque, sulla base di autori quali Platone, Tacito, Grozio eBacone, di costruire una scienza “storica”, capace di descrivere le età attraversate dal mondo, di coglierne le caratteristiche essenziali.
La lingua delle prime due età, quella degli dei e quella degli eroi, parla per immagini e metafore, è una lingua geroglifica vicina all’espressività dei gesti. La sapienza poetica che questa lingua esprime è radicata nel legame sensibile, e originario, tra la fantasia degli uomini e le qualità della natura: è una sorta di logica “muta” in cui si esalta la valenza espressiva del gesto, l’aspetto misterico del geroglifico, la forza mitica della creatività. Sensi e passioni sono dunque le basi del linguaggio mitico, che li traduce in metafore e in simboli, in quelli che Vico chiama “universali fantastici”, che solo la poesia può esprimere. Il soggetto è qui attivo, ha una relazione organica con la “natura numinosa”, è catturato da un’emozione che si manifesta“con animo perturbato e commosso” e che si traduce in forza costruttiva, in energia poetica.
Il pensiero di Vico, pur nel suo ricco linguaggio immaginifico, potrebbe essere avvicinato a molti temi dell’estetica europea della seconda metà del Settecento: ma è evidente che la sua predominante ispirazione poetico-retorica ne problematizza i confini e gli ambiti. La stessa affermazione di Croce, che sarebbe cioè Vico, e non Baumgarten, il vero “fondatore” dell’estetica, rischia di confondere il suo ruolo storico e di nascondere il senso che, al di là dei differenti linguaggi, e delle ben diverse matrici filosofiche, comunque rivestono nel Settecento l’immaginazione, la sensibilità e l’espressione. Cercare ad ogni costo una sintesi, incarnandola in una figura storica, può far ignorare come quest’epoca tragga il suo fascino proprio dalla molteplicità dei percorsi, dalla confusione dei confini, dalla ricchezza dialogica intorno a temi relativamente unitari.
Queste strade sinteticamente delineate – tra le molte possibili che attraversano il Settecento – debbono tuttavia venire integrate da posizioni che segnano il vertice filosofico della nascente disciplina. La prima integrazione è quasi ovvia: non si può certo dimenticare che a fine Settecento si pongono la figura e l’opera di Immanuel Kant.
Kant e la critica del gusto
Il pensiero di Kant, che certo rappresenta il punto più alto dell’estetica settecentesca, e il suo inserimento nel quadro complesso della filosofia critica, non può essere riguardato come la tappa conclusiva di un percorso cosciente e autoconsapevole bensì, forse, come il momento teorico in cui la molteplicità, anche semantica, dell’estetica semplicementericonosce la propria irriducibile complessità. È infatti noto che Kant, nella Critica della ragion pura (1781), utilizza il termine esteticariferendolo alle forme a priori dell’intuizione pura, cioè spazio e tempo. Solo in seguito, nella Critica del Giudizio (1790), pur negando che dell’estetica possa darsi scienza, la connette al giudizio di gusto e alla questione della bellezza. Qui, inoltre, Kant inserisce il tema del giudizio estetico nel quadro del giudizio riflettente, cioè di una particolare funzione soggettiva capace di comprendere l’intrinseca unità finale della natura senza separarla in un’infinità di singoli fenomeni meccanici.
Il contesto generale dell’estetica kantiana è particolarmente complesso. Forse il suo tema portante va identificato ricordando che è qui centrale il problema del sentimento. È infatti un orizzonte che si presenta sia nel giudizio teleologico, quando è sentimento della finalità della natura, sia nel giudizio estetico, in cui si presenta come sentimento di piacere e dispiacere nei confronti del bello o del sublime. In ogni caso Kant vuole sottolineare che la connessione tra il sentimento e il giudizio non si riferisce mai all’oggettività della natura o dell’arte, bensì a ciò che il soggetto prova in sé nel momento in cui riconosce finalità e bellezza nella natura. Non si è allora di fronte a un giudizio teoretico-conoscitivo bensì a un “libero gioco” tra l’immaginazione e l’intelletto, che origina un giudizio di gusto, cui è correlato il sentimento di piacere del soggetto. Tale giudizio, in virtù di questa “giocosità” che lo rende immune da scelte scientifiche o morali, e pur rimanendo soggettivo, si presenta come universale e necessario.
D’altra parte, malgrado le rigide opzioni di partenza, l’estetica kantiana non è mai riducibile in un quadro sistematico: le funzioni estetiche del soggetto non si limitano a un’analitica formale ed entrano nell’intera complessità della vita estetica. Ne è prova ed esempio l’analitica del sublime, in cui Kant, riprendendo il termine di Burke, ne coglie l’ambiguità estetica: da un lato è infatti sentimento di dispiacere per l’incapacità della nostra immaginazione sensibile a contenere la grandezza di uno spettacolo naturale; dall’altro, tuttavia, è sentimento di piacere perché la contemplazione estetica della grandezza genera in noi il sentimento della “destinazione sovrasensibile” delle nostre limitate facoltà soggettive: perché, in altri termini, porta il fenomeno sul piano della ragione, arricchendolo di sfumature etiche.
Le relazioni tra immaginazione e ragion pratica che sono al centro del sublime tornano là dove Kant affronta il problema dell’arte e del genio, cioè quelle questioni che maggiormente influiranno sulle generazioni successive. Il genio non è certo un potere sregolato, bensì il talento naturale che dà la regola all’arte, costruendo “idee estetiche” capaci di mettere in movimento la complessità di tutte le facoltà soggettive. Una complessità, ed è forse la conclusione aporetica dell’intero percorso dell’estetica settecentesca, che non è più possibile contenere in un quadro armonico e regolato.
Saranno infatti proprio questi ultimi temi dell’estetica kantiana, cioè quelli che guardano all’ambiguità del sublime e alla ricchezza irrappresentabile dei pensieri suscitati dalle idee estetiche, ad aprire quelle prospettive su cui, insoddisfatti della separazione tra fenomeno enoumeno, e del ruolo rivestito dall’immaginazione, si porranno le ricerche del romanticismo e del primo idealismo tedesco.
Verso una nuova modernità dell’estetica
La formazione dei primi romantici tedeschi, che si raccolgono a partire dal 1798 intorno alla rivista “Athenaeum” dei fratelli August e Friedrich Schlegel, è infatti essenzialmente “filosofica”: Novalis, Tieck, Schelling, per non citare che i maggiori rappresentanti di questo “nucleo originario”, sono attenti lettori di Kant e Fichte, e vedono in quest’ultimo, o almeno nella tensione di superamento del finito che pervade la sua filosofia, un irrinunciabile punto di riferimento teorico, da interpretare in una direzione mistica e cosmologica, ma senza mai dimenticare che la verità è il risultato di una complessa dialettica tra finito e infinito, in cui la tensione e il limite sono tra loro in rapporto inscindibile. Rapporto che nella poesia, nell’idealismo magico novalisiano in primo luogo, diviene volontà di “romantizzare” il mondo, cogliendone l’autentico, profondo e originario significato veritativo, che è capacità, appunto, di entrare in sintonia con la magia del reale, con la rete di connessioni intime e segrete che lo caratterizzano nella sua stessa genesi storica e spirituale.
È in questo senso che Hegel va considerato, nella storia dell’estetica, uno straordinario punto di rottura: non solo nei confronti del romanticismo, di cui intende mostrare i limiti, e le potenziali (o reali) degenerazioni, ma anche verso quella prospettiva estetica che manteneva in Kant un esplicito o implicito punto di riferimento (e che continua a vivere anche nella stagione romantica). Alcune critiche hegeliane a Kant (il soggettivismo, la supremazia del bello di natura sul bello artistico, l’astrattezza del gusto, la disattenzione per la genesi storico-spirituale delle arti) sono il risultato delle posizioni teoriche del romanticismo. Romantici, peraltro, almeno nei loro retaggi, sembrano anche i termini, oltre alla centralità che attribuisce alla poesia nel sistema delle arti (centralità che peraltro già vi era in Kant). In primo luogo, infatti, dopo avere definito il bello (artistico e non certo naturale) come la forma sensibile dell’Idea, costruisce il percorso storico dell’arte sulla base del rapportarsi di forma (sensibile) e contenuto (espressione spirituale): si avrà arte simbolica quando predomina la materia, arte classica quando vi è perfetta commisurazione tra i due elementi e arte romantica quando il contenuto spirituale eccede la forma.
Gotthold Ephraim Lessing
Sulla pittura
Laocoonte
Ma voglio tentare di derivare la cosa dai suoi primi principî. Io argomento come segue: se è vero che la pittura adopera per le sue imitazioni mezzi o segni completamente diversi da quelli della poesia; ovvero quella figure e colori nello spazio, mentre questa suoni articolati nel tempo; e se i segni devono avere indubbiamente un rapporto adeguato con il designato, allora i segni ordinati l’uno accanto all’altro possono a loro volta avere solo oggetti esistenti l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una accanto all’altra, mentre segni che si susseguono possono esprimere oggetti che si susseguono o le cui parti si susseguono.
Oggetti che esistono l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una accanto all’altra, si chiamano corpi. Di conseguenza sono i corpi, con le loro qualità visibili, i veri oggetti della pittura. Oggetti che si susseguono l’un l’altro, o le cui parti si susseguono, si chiamano in generale azioni. Di conseguenza le azioni sono i veri oggetti della poesia.
Tuttavia tutti i corpi non esistono solo nello spazio, ma anche nel tempo. Essi perdurano, e possono apparire in ogni momento della loro durata, e in combinazioni differenti. Ognuna di queste apparizioni e combinazioni momentanee è il frutto di una precedente, e può essere la causa di una successiva, e perciò, per così dire, il centro di un’azione. Di conseguenza la pittura può anche imitare le azioni, ma solo allusivamente, tramite i corpi. D’altra parte, le azioni non possono sussistere di per sé, ma dipendono da determinati agenti. In quanto questi agenti sono corpi, o vengono considerati corpi, la poesia rappresenta pure corpi, ma solo allusivamente, tramite azioni.
La pittura, nelle sue composizioni coesistenti, può utilizzare solo un singolo momento dell’azione, e deve perciò scegliere il più pregnante, sulla base del quale quel che lo precede e quel che lo segue si rende più comprensibile. Allo stesso modo anche la poesia può utilizzare nelle proprie imitazioni progressive solo un’unica qualità dei corpi, e deve pertanto scegliere quella che suscita la più sensibile immagine del corpo dal punto di vista di cui si serve. Da qui deriva la regola di un’unità degli attributi pittorici e della moderazione nella rappresentazione di oggetti corporei.
Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 1991
Immanuel Kant
L’uomo e l’immensità della natura
Critica del giudizio
Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del bello. Egli fugge la vista dell’oggetto che gli incute timore ed è impossibile di provar piacere in un timore effettivamente sentito. Perciò il senso di sollievo che ci dà il cessare di una minaccia è gioia. Ma questa, se deriva dalla liberazione di un pericolo, è gioia solo quando noi pensiamo che non ne saremo più minacciati; e si è tanto lontani dal cercare l’occasione di riprodurre in noi tale sensazione, che anzi non ci pensiamo mai volentieri.
Le rocce che s’elevano ardite e quasi minacciose, le nuvole temporalesche che s’ammassano nel cielo tra lampi e tuoni, i vulcani nella loro potenza devastatrice, gli uragani che lasciano dietro sé la devastazione, l’oceano senza limite sollevantesi in tempesta, l’alta cascata di un grande fiume, tutte queste cose riducono il nostro potere di resistere a tanta forza a un’insignificante piccolezza. Ma la loro vista ci esalta tanto più quanto più è spaventevole, se noi ci troviamo al sicuro, e noi diciamo volentieri questi oggetti sublimi giacché essi elevano le forze dell’animo nostro sopra la loro comune misura, e ci lasciano scoprire in noi un potere di contrastarvi che ci dà animo a poterci misurare con questa apparente onnipotenza della Natura.
Infatti come nell’immensità della Natura e nell’incapacità delle nostre facoltà a trovare una misura adeguata all’apprezzamento estetico delle grandezze, del suo campo, scoprimmo la nostra limitazione, ma, nel tempo stesso riconoscemmo nella ragione un’altra misura non sensibile, che abbraccia in sé, come unità, quell’infinità, di fronte a cui tutto in natura è piccolo, riconoscemmo cioè nell’animo nostro un principio di superiorità sulla Natura stessa nella sua immensità; così la sua forza irresistibile fa sì che noi riconosciamo, come esseri naturali, la nostra impotenza fisica, ma rivela nel tempo stesso in noi una facoltà per cui ci possiamo giudicare come indipendenti dalla Natura, e una superiorità su questa, che garantisce una facoltà di conservazione tutt’affatto diversa da quella che può essere minacciata dalla Natura esteriore, una facoltà di conservazione per cui l’umanità nella nostra persona rimane intatta, anche se l’uomo debba sottostare a quella violenza. In tal modo la Natura nel nostro giudizio estetico non è giudicata sublime in quanto essa è temibile, ma in quanto essa risveglia in noi quella forza (che non è natura) per cui consideriamo come insignificanti quelle cose di cui ci preoccupiamo (i beni, la salute, la vita) e riconosciamo quindi che la forza della Natura (a cui noi, per rispetto a tali cose, siamo assolutamente soggetti) non ha sopra di noi e sopra la nostra personalità, fuori di questo campo, un così assoluto dominio che noi ci dobbiamo piegare ad essa, come se essa si estendesse alla sfera dei principî supremi della nostra vita e riguardasse la loro affermazione o il loro abbandono.
in A. Banfi, Esegesi e letture kantiane, Urbino, Argalìa, 1996
Hegel, da un lato, ritiene dunque una concezione classica del bello il vertice della dimensione estetica, ma dall’altro apre, denunciando gli eccessi del romanticismo, il tema della morte dell’arte, arte che deve venire “superata” da forme filosofiche, spezzando così i paradigmi che avevano guidato la genesi dell’estetica tra fine Seicento e primi anni dell’Ottocento.