ESTETICA
. Etimologicamente, "estetica" (gr. αἰσϑητική da αἴσϑησις "sensazione") vale "dottrina della conoscenza sensibile", e può opporsi con ciò a "noetica", o dottrina della conoscenza intellettuale, in base all'antitesi, già fissata dai Greci, tra il mondo dei sensibili (αἰσϑητά) e quello degl'intelligibili (νοητά): ma il suo valore normale è ormai, senz'eccezione, quello di "dottrina dell'arte", fin da quando il Baumgarten, nel Settecento, le diede tale significato appunto in forza della sua identificazione del problema dell'arte con quello della conoscenza sensibile, o intuitiva. E se pure dopo il Baumgarten (come per es., nel Kant, che parlando da una parte, nella Critica della ragion pura, di estetica come dottrina della sensibilità e dall'altra, nella Critica del giudizio, di giudizio estetico come giudizio circa il valore artistico, manteneva distinti e irrelati i due valori storici del termine) continuò per qualche tempo ad aver vigore anche il primo e originario significato del concetto di estetica, più tardi, trasferitasi ormai l'accezione di dottrina della conoscenza sensibile stricto sensu nel termine più specifico di "estesiologia", a quello di estetica non rimase più se non l'altro, ormai definitivamente consolidato, valore. Anche, quindi, se alcuni teorici preferiscono a questo termine quello più universale di "teoria generale dell'arte" o "filosofia dell'arte" (Allgemeine Kunstlehre o Kunstwissenschaft; Philosophy of the art), ferma resta l'identità sostanziale di queste denominazioni con quel primo termine. Il quale si estende dunque in generale, teoricamente e storicamente, a tutto ciò che speculativamente si pensa, e si è pensato, intorno al problema dell'arte, al fine d'intenderne la natura: anche quando tali riflessioni abbiano avuto luogo pur senza professarsi specificamente filosofiche, o quando abbiano concepito l'arte prescindendo da quella identificazione di essa con la conoscenza sensibile, che giustifica storicamente l'uso del termine "estetica" (onde può ben parlarsi dell'estetica di Platone e di Aristotele pur fermo restando che essi non avrebbero capito chi avesse chiamato col nome di αἰσϑητικὴ o αἰσϑητικα le loro riflessioni circa la natura dell'arte). Quel che di tale natura si possa dire da un punto di vista moderno, è stato esposto nella voce arte (IV, p. 631): qui si cercherà di dare un'idea sommaria dell'evoluzione della scienza estetica nella storia del pensiero occidentale, rimandando, per l'esposizione complessiva di tale storia, alla voce filosofia, e, per notizie più particolari intorno a ciascuno degli autori che vi compaiono, alle singole voci.
È stato detto che la storia dell'estetica, differente in ciò da quella di altre discipline filosofiche, è cosa essenzialmente moderna, non riscontrandosi, circa il problema dell'arte, nel pensiero classico orientato piuttosto verso il mondo che verso lo spirito, se non alcune saltuarie e incerte idee, le quali non riuscirono in realtà a stringere la questione. Giudizio non del tutto esatto, perché in quelle idee erano pur contenuti, e chiariti nei loro contrasti e nelle loro difficoltà, i termini stessi dei problemi che poi, dopo la sosta medievale furono ripresi e sviluppati dal pensiero moderno. Quel che i Greci videro chiaramente nel mondo estetico (e cioè, in generale, in tutta quella sfera di realtà che essi poi, più o meno nettamente, distinsero in quelle del bello e dell'artistico) fu, intanto, l'antitesi del reale e dell'ideale, la superiorità di quel che dev'essere rispetto a quello che è: e cioè che tutto quello che essi sentivano indistintamente come oggetto del problema estetico e che delle loro riflessioni estetiche formava in realtà la base, fosse per un verso qualcosa di definito, di sensibile, di materiale, e con ciò di transeunte e corruttibile, e per altro verso manifestasse in sé un valore, un'idea, un vestigio di qualcosa di diverso e di superiore, alla stregua del quale esso doveva venir giudicato e dal quale attingeva la sua più profonda natura. Che era poi, s'intende, uno (se non l'unico, come potrebbe credersi) dei motivi fondamentali per cui il pensiero greco adottò così largamente, non solo nel campo estetico ma nella concezione generale del mondo, la distinzione dell'ideale dal reale, dell'intelligibile dal sensibile: ma ciò non toglie (anzi, se mai, implica) che esso subisse l'efficacia di quel contrasto, in modo tutto particolare, nel campo della concezione estetica. Ché, anzi, dal punto di vista della gnoseologia, della metafisica, dell'etica, la distinzione dell'ideale dal reale è essenzialmente, per il Greco, un'attribuzione di ogni valore al primo a scapito del secondo, anche se viene poi sentito come problema quello del modo di partecipazione del secondo al primo: di fronte alla perfezione dell'idea il mondo non ha valore, è intrinsecamente negazione, e persino per Aristotele la realtà più perfetta, in quanto atto puro, è esclusione di ogni materia e potenza terrena. Ma la realtà estetica rilutta a tale esclusione: non c'è bellezza che non sia, insieme, idea e cosa, forma e materia, universale e particolare, significato e significante: qualcosa, insieme, di individualissimamente determinato, e di tale che soverchia, comunque, i limiti della sua singolare e materiale realtà. Di qui la fondamentale tragedia dell'estetica classica, condotta dalla sua logica a sceverar l'ideale dal reale, e con ciò a perdere di vista la più profonda e generale natura del bello e dell'arte.
Platone. - Così, nel pensatore che, dopo gl'incerti preludi della sofistica e della socratica, si pone per la prima volta ex professo il problema estetico, l'esigenza di quella distinzione dei due mondi conduce addirittura alla contrapposizione della sfera della bellezza a quella dell'arte, nel più aperto e problematico conflitto di valori. Platone è, tutti sanno, il negatore rigorista della poesia e dell'arte, non solo perché i poeti, come già diceva Senofane, fanno troppo umano il divino, degni con ciò di essere esclusi dal perfetto Stato, ma anche perché, più in generale, l'arte, imitatrice di realtà materiali che a lor volta riflettono per imitazione la realta superiore delle idee, produce cose che nella gerarchia universale occupano il terzo e infimo grado. Ma è anche (come non sempre si rammenta), il teorico entusiasta della Bellezza, che nel Simposio e nel Fedro canta l'inno all'idea eterna del Bello, incorruttibile e uniforme, che non appare tale in un certo aspetto e in un certo tempo, ma lo è sempre e dappertutto; e che la pone come termine ideale dell'er0s, e quindi dell'ascesa spirituale dell'anima, giungendo a dire che "se mai momento della vita merita d'essere vissuto dall'uomo, questo è quello che egli vive quando contempla la bellezza in sé" (Simposio, 211 d). Da una parte, dunque, il bello, dall'altra l'arte: l'uno assolutamente ideale, l'altra intrinsecamente reale; l'uno iperuranio e perciò sottratto a ogni divenire e a ogni particolarità, l'altra terrena e perciò svalutata già in forza di questa sua posizione. Per Platone, si può dire, il valore estetico non si fa, appunto perché c'è: la negazione dell'arte corrisponde all'affermazione del bello, la cui universalità non ha bisogno di farsi particolare. E se, da un certo punto di vista, il bello particolare, la singola cosa bella, possedendo tale natura in forza di una partecipazione, più o meno lontana e approssimativa, alla bellezza ideale, serba in sé una scintilla di quel valore e verso quel valore orienta lo spirito, ciò è piuttosto opera dell'idea agente sulla cosa che non dell'uomo conformante la cosa alla stregua dell'idea. Arte è mimesi: e, in quanto artista, l'uomo non imita neanche l'idea, ma la cosa, e sempre più si allontana da quel che veramente è. L'arte lega l'uomo al senso, estraniandolo dall'intelletto: e incorre quindi nello stesso errore della conoscenza sensibile, dell'opinione, la quale crede di sapere e in realtà non sa. Per poetare, e per giudicare dei poeti, i rapsodi dovrebbero conoscere e saper giudicare di tutte le cose, essere esperti di tutte le arti e di tutti i mestieri. Ciò non accade: di qui il carattere fittizio e sofistico della conoscenza artistica. Ma nell'Ione, dov'è principalmente sostenuto questo concetto, sono anche alcune tra le più commosse pagine che mai Platone abbia dedicato al tema del fascino poetico, che dall'autore si trasmette al cantore e agli uditori come attraverso una catena magnetica, tutti invasando di furor divino, di ϑεία μανία. Al tempo in cui scriveva l'Ione, Platone non era ancora lontano dalla giovine età in cui aveva scritto poesie e composto musica sensibile, come Socrate nel carcere: più tardi, divenuto più prepotente ed esclusivo il suo rigore filosofico, egli poté in certo modo staccare dall'ambito dell'umano anche quella divina mania, considerando anch'essa come semplice riflesso dell'eterno, indizio e anelito dell'ideale, e condannando senz'altro tutto ciò che nell'arte fosse opera indipendente dell'uomo. I dialoghi più maturi continuarono sì, talora, a tradire un senso del quid divinum, che non solo l'ideale contemplazione del bello, ma anche l'esercizio concreto dell'arte, come quello della musica, ingenerava nell'animo dell'uomo: ma sempre come tumulto, βακχεία, esaltazione coribantica, divina follia. Tema di religione dionisiaca, non ancora illuminabile dalla luce apollinea della ragione.
Aristotele. - Il grande scolaro di Platone, che nell'eredità speculativa del maestro sentì come problema capitale quello dell'unificazione dell'inferiore e del superiore, del transeunte e dell'eterno, cercò anche nel campo della dottrina estetica di sanare la scissione che contrapponendo la realtà dell'arte alla realtà del bello tendeva a dissolvere la prima nella seconda. E, riprendendo il concetto platonico della mimesi, non la considerò più operante sulle realtà materiali, ma direttamente su quelle realtà ideali che per lui tralucevano concretamente nelle cose, in quanto vi inerivano. Forma suprema dell'arte era, per Aristotele, il dramma: e questo, rappresentando un'azione, un brano di vita, non imitava di necessità qualcosa di realmente accaduto, né considerava come suo massimo ed unico fine il perfetto adeguarsi della rappresentazione al rappresentato. Alle persone dei drammi si sarebbe potuto mutare il nome, senza che l'azione ne avesse ricevuto danno: che i casi sceneggiati nell'Edipo re fossero propriamente accaduti al figlio di Laio e di Giocasta era circostanza accidentale, perché protagonista del dramma non era tanto Edipo che uccide Laio per congiungersi con Giocasta, quanto il Figlio che uccide il Padre per congiungersi con la Madre. Cosi le statue di Fidia non erano ritratti di nessuno, e il cavallo di Selene non s'incontrava per le strade, essendo piuttosto il più perfetto modo in cui era possibile raffigurarsi la bellezza d'un cavallo. Di qui il concetto aristotelico, che l'arte fosse essenzialmente rappresentazione dell'universale e del possibile, e si distinguesse con ciò dalla storia, rappresentazione dell'individuale e del realmente accaduto: un concetto, nel quale la determinazione del carattere d'idealità dell'intuizione estetica in contrasto col carattere di realtà dell'intuizione storica era nettamente compiuta.
Con tale concetto Aristotele superava di fatto la svalutazione platonica, riferendo la mimesi direttamente all'idea e orientando cosi vigorosamente la sua estetica verso il motivo dell'idealità dell'arte. Ma conoscenza e significazione dell'universale era poi per lui, come per il suo maestro, la perfetta scienza, il vero sapere: l'arte veniva così a identificarsi tendenzialmente con la filosofia. Né a tale difficoltà egli poteva sfuggire se non insistendo, appunto, su quel carattere di tendenza, che faceva mirare l'arte piuttosto all'universale, mentre la storia mirava al particolare, e rendeva così la prima più filosofica e seria della seconda, presentandola quasi come la sua riduzione a universale, che contemplasse il verosimile (εἰκός), il necessario (ἀξαγκαῖον), il possibile (δυνατόν) dello stesso accadere storico: una soluzione, che era in realtà semplicemente l'accentuazione dei termini stessi del problema, e cioè di quei valori di realtà e d'idealità che nell'arte trovavano la loro sintesi. Ma, per ciò stesso, si può considerare la formulazione aristotelica come la più alta a cui sia giunta tutta l'estetica antica, appunto in quanto coglie nella forma più netta i termini del problema, esprimendo insieme le difficoltà essenziali della sua posizione teorica. Tutto il resto, nell'estetica aristotelica, può dirsi in realtà secondario, o almeno subordinato alle esigenze di quella fondazione: non esclusa la famosa dottrina della catarsi (v.) tragica, che nella sua generale impostazione risponde anch'essa all'esigenza di giustificare, contro Platone, l'emozione artistica, ma è poi nella sua concezione particolare così sommaria e oscura da giustificare solo assai debolmente la scoperta, che vi si è voluta fare, di un'anticipazione dell'idea moderna della funzione catartica dell'arte, liberatrice dalle contemplate passioni.
I postarisiotelici. - Con la sua altezza speculativa, questa estetica aristotelica, nata dal ceppo platonico, s'impose al pensiero antico, il quale non seppe più opporle altro che potesse starle anche di lontano alla pari. Dall'elaborazione unilaterale dei contrastanti motivi che avevano operato nello sviluppo dell'estetica platonico-aristotelica sorsero bensì quelle correnti minori, che tennero con varia fortuna il campo della dottrina dell'arte in tutto il periodo della tarda antichità. Aristotele aveva, in certo senso, difeso l'arte contro Platone riconoscendole un valore intellettivo: e gli stoici, basandosi esclusivamente su questo concetto, portarono il loro moralismo anche al campo dell'estetica, giustificando l'arte solo in funzione della sua capacità pedagogica. All'estremo opposto, gli epicurei, partendo dalla condanna platonica dell'arte come mero strumento di piacere, diedero, dal loro punto di vista, valore positivo a tale determinazione, propugnando così un'estetica schiettamente edonistica. In quest'antitesi dell'ideale del monere (e con ciò del prodesse, in senso moralistico) e di quello del delectare (o, come è stato detto dal Croce, dell'Arte-pedagogo e dell'Arte-meretrice) si determinò così tipicamente il problema estetico della tarda antichità: e ne derivarono tutte quelle antinomie, che poi rimasero quasi costitutive della stessa dottrina dell'arte. Dall'opposizione dell'utile al dulce discendeva infatti direttamente quella del contenuto alla forma: ché come chi badava all'utile pedagogico che dalle opere d'arte potesse trarsi doveva restare indifferente alla loro veste esteriore, e anzi procurar di rimuoverla (onde l'allegoresi stoica delle opere poetiche), cosi chi dell'opera d'arte badasse semplicemente a godere doveva interessarsi non tanto di quel che fosse detto quanto del modo in cui fosse detto. E da tali antinomie fu anche condizionata l'estetica peripatetica dei tardi seguaci di Aristotele, che tra quegli estremi cercò di mediare, proponendo l'ideale di un'arte che dilettando educasse: omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, lectorem delectando pariterque monendo, come è detto nell'Arte poetica di Orazio, che di tale estetica è il documento più notevole, derivando nella sostanza dalle trattazioni del peripatetico Neottolemo di Pario.
Ma come queste dottrine non rappresentavano in realtà che sviluppi unilaterali e formalistici di singoli motivi dell'estetica platonico-aristotelica, così neanche è da attribuire troppa importanza alle critiche che all'estetica peripatetica furono mosse dall'epicureo Filodemo di Gadara, contemporaneo e amico di Orazio. Acutamente, polemizzando contro Neottolemo, Filodemo rilevava le difficoltà della distinzione di un contenuto e di una forma nell'opera d'arte, e dell'attribuzione, ad essa, di un fine pedagogico e moralistico, che si opponesse al semplice diletto estetico e potesse quind; far preferire i contenuti serî, e corrispondenti realtà, alle pure immaginazioni e finzioni poetiche. Ma al disotto di queste critiche non era, in Filodemo, che il piatto edonismo estetico degli epicurei: del tutto inadeguato è quindi il considerarlo una specie di precursore delle identificazioni più modeme, desanctisiane e crociane, di contenuto e forma, realtà artistica e fantasia, diletto estetico e scopo espressivo dell'arte. Anche ammesso l'acume della sua polemica, questa non aveva da sostituire, alla criticata estetica aristotelica, alcuna estetica superiore, e non ne costituiva quindi il superamento. Allo stesso modo, inesatto è l'attribuire una vera e propria originalità, in fatto di dottrina dell'arte, al neoplatonismo, che con Plotino avrebbe operato la fusione delle distinte sfere dell'arte e del bello, rimaste fino allora separate, concependo l'esercizio dell'arte come la stessa ascesa mistica dell'anima verso il bello ideale. In realtà, tutta l'estetica di Plotino, quale appare tipicamente nel suo trattato Sul Bello (Enn., I, 6: che è del resto, secondo la cronologia di Porfirio, il suo scritto più giovanile), non è che trascrizione e amplificazione delle frasi platoniche del Simposio, descriventi l'ascensione dell'anima che dalla contemplazione delle cose belle sale a quella della bellezza in sé: trascrizione, in cui di originale è soltanto il tentativo di giustapporre Aristotele a Platone, prospettando anche l'esercizio dell'arte in quello stesso aspetto di tendenza alla realtà ideale, in cui era stata giustificata dallo Stagirita. L'intento di conciliare Platone con Aristotele fu d'altronde caratteristico di tutto il neoplatonismo, preoccupato di costituire, sincretisticamente, il fronte unico della cultura classica contro il prevalere sempre crescente del cristianesimo: com'è manifesto anche nell'ultimo dei suoi maggiori rappresentanti, in Proclo, la cui estetica si riduce anch'essa a una faticosa combinazione di tesi platoniche e aristoteliche.
Il Medioevo. - Ancora meno che l'estetica della tarda antichità uscì dall'ambito di tali filosofie quella del Medioevo. Estetica del cristianesimo teologizzato, essa non poteva veramente interessarsi alla terrena realtà dell'arte: di qui le riegazioni dei primi padri e apologeti (Origene, Minucio Felice, Arnobio, Lattanzio), che culminarono nella nota condanna di Tertulliano, opponente alla natura opera di Dio l'arte opera del demonio, e prepararono il terreno per il futuro movimento iconoclastico. Attenuatasi, d'altronde, questa tendenza rigoristica nei padri della Chiesa orientale del sec. III-IV (Basilio, i due Gregorî, Giovanni Crisostomo), e fattosi nuovo luogo all'arte quale terrena glorificatrice della bellezza divina, umana propedeutica alla contemplazione religiosa, essa non fu comunque giustificata, per es. in S. Agostino, che attraverso le formule dell'estetica platonico-neoplatomca. Tale (come poi, anche più nettamente, negli scritti dello Pseudo-Dionigi Areopagita) la considerazione agostiniana della bellezza del mondo come emanazione e riflesso della bellezza di Dio; e tale anche la più specifica concezione della bellezza (a prescindere dalla sua distinzione in divina ed umana) come data da una convenienza o congruenza di parti, tendenti all'armonia e all'unità: dove attraverso i motivi platonico-neoplatonici tornava in luce il pitagorismo che li aveva compenetrati. Insieme, risorse e grandeggiò su ogni altra la concezione didascalico-pedagogica dell'arte, con tutto l'allegorismo che già gli stoici vi avevano logicamente collegato: un allegorismo, che ebbe le più diverse specificazioni e applicazioni, e mutò volto non solo alle opere d'arte che dovevano nascere ma anche a quelle che c'eran già. Si finì col leggere nelle scritture ben quattro significati, il letterale, l'allegorico, il morale e l'anagogico: Virgilio divenne, attraverso il De continentia Virgiliana di Fulgenzio (che dell'allegorismo medievale è il documento più tipico) "il savio gentil che tutto seppe", e dall'allegorismo non si salvò la poetica di Dante, e neanche, in certa misura, la sua poesia.
Persino la maggior sistemazione dell'estetica medievale, che è quella data da S. Tommaso nella sua gran costruzione filosofico-teologica, resta tutta conchiusa nei limiti del pensiero classico. Trascritta dalla nota distinzione aristotelica (e generalmente greca) del πράττειν dal προιεῖν è quella tomistica dell'age, azione morale retta dalla prudentia, dal facere, azione modificatrice del mondo esterno, retta dall'ars, onde sotto il concetto di arte viene sussunta ogni forma di tecnica produttrice; e attinta dall'aristotelismo, e dal platonismo in esso implicito, è la concezione del processo estetico come imitazione delle eterne idee delle cose, che, manifestandosi in re nel mondo, sono tuttavia ante rem nella mente di Dio, e permettono così all'artista di assomigliare la sua opera a quella stessa compiuta da Dio nella creazione. Ma in questo ritorno all'aristotelismo, prepotente ormai nell'Aquinate, è in realtà l'apporto (più che nelle singole e pur sagaci osservazioni intorno all'indipendenza, dalla morale, dell'arte, in quanto pura tecnica) di San Tommaso all'estetica: ché questo aristotelismo non fu dimenticato, e preparò la via ai trionfi cinquecenteschi della Poetica, richiamando comunque l'attenzione sul valore creativo, e per un certo aspetto quasi divino, dell'opera artistica. Nelle correnti mistiche, invece, l'arte non poteva apparire che come forma inferiore di conoscenza e d'illuminazione, diretta all'esteriorità delle cose: in San Bonaventura, per es., sono tutti gli elementi negativi del neoplatonismo, accentuati in senso schiettamente platonico e accresciuti da una sostanziale insensibilità per il valore dell'arte, che vi è equiparata a ogni altra operazione meccanica della vita di tutti i giorni.
L'Umanesimo. - L'Umanesimo, col suo rinnovato interesse per le cose di questo mondo, cominciò ad aprire la via per un nuovo godimento e intendimento dell'arte. Se ancora medievali quanto Dante restavano, nelle loro vere e proprie intuizioni, il Petrarca e il Boccaccio, nel crescente gusto dell'antico del loro ambiente erano già le premesse per nuovi orientamenti estetici, che quell'antico sapessero intendere. Da una parte, il platonismo tornò a mostrare quei suoi aspetti, in cui era implicito il senso della divinità misteriosa dell'arte: l'idea del furor estetico fu ripresa dal Bruni, e preparò la via al neoplatonismo del Ficino e alle sue celebrazioni dell'eros. Dall'altra, il gusto umanistico della vita e dei suoi artistici diletti si colorò di edonismo, richiamarido in vita un'estetica di stampo epicureo: contro le negazioni rigoristiche di un Savonarola, si affermò sempre più il diffuso edonismo della cultura fiorentina e del Pontano. Insieme, il gusto e lo studio del bello stile ciceroniano, allo stesso modo che, in altro campo, i molti trattati di tecnica delle arti figurative, ricondussero l'attenzione . ai valori formali dell'arte; e la risorta Arte poetica di Orazio assuefece di nuovo le menti all'estetica del tardo peripatetism0, con la sua dottrina ancipite dell'arte, dilettosa insieme ed educatrice. Ma di novità vere e proprie, in fatto di teoria dell'arte, l'Umanesimo ne vide tanto poche quanto il Rinascimemo: le sue parole più alte sono forse quelle di Leonardo (pur così discontinuo e asistematico nella sua ossessione tecnicistica), sul pittore padrone di tutte le cose che possano cadere in desiderio dell'uomo, perché signore di generarle.
Il Rinascimento. - Nel Rinascimento, il platonismo trionfò, dopo i preludî dei neoplatonici dell'Accademia fiorentina, nella gran fioritura dei trattati intorno alla natura del bello e dell'amore (Equicola, Nifo, Bembo, Firenzuola, Varchi e moltissimi altri minori: maggiore fra tutti, Leone Ebreo coi suoi Dialoghi d'amore). L'importante, in questa rinascita platonica, era, come si è già detto, che il platonismo non si presentava più nei suoi aspetti di negazione rigoristica, ma di avvertimento dell'infinito valore estetico della suprema realtà e quindi anche, per converso, del divino valore del bello. Il tono non batteva più tanto sul motivo della trascendenza quanto su quello delle attività umane che, mediando fra terra e cielo, riuscissero a superarla: di qui la grande valutazione del più tipico di tali motivi mediatori del platonismo, e cioè del concetto dell'eros. E platonicamente orientati erano, nella loro riflessa, e sia pure vaga, esperienza dell'arte, i maggiori artisti del Rinascimento. Ma più fecondo, anche questa volta, doveva essere l'aristotelismo. La Poetica dello Stagirita apparve per le stampe, nell'originale, nel 1536; e diede luogo a un'ingente fioritura di commenti e di studî, che se da un lato, anche per reazione del peripatetismo classicistico di Orazio sul peripatetismo classico di Aristotele, giunse a schematizzare in angustie formalistiche le dottrine dello Stagirita (come accadde, per citare il più insigne esempio, nella famosa teoria delle unità d'azione, di luogo e di tempo, che traduceva alcune constatazioni empiriche di Aristotele in una ferrea norma ideale, per così lungo tempo imposta poi all'arte), contribuì anche, d'altro lato, a rimettere in viva circolazione e discussione le più profonde idee a cui era giunta l'estetica aristotelica e cioè, in primo luogo, quelle aggirantisi intorno al problema dell'imitazione dell'universale, onde l'arte si distingueva dalla storia. Da ricordare specialmente, tra questi commentatori aristotelici, il Fracastoro, il Castelvetro, il Robortello, il Piccolomini, il Patrizi, che variamente interpretarono quei concetti e ne misero in luce le difficoltà, pur senza giungere a soluzioni veramente nuove.
Il Sei e Settecento. - Dopo il ricorso moralistico della Controriforma (luminosi, ma saltuarî, accenni di verità estetiche apparvero negli scritti del Bruno e del Campanella), che tanto preoccupò, per es., e in contrasto coi più profondi motivi della sua arte, la coscienza critica del Tasso, il problema estetico cominciò ad essere prospettato in aspetti nuovi col prender voga dei concetti d'ingegno, genio, gusto, immaginativa, fantasia, sentimento. Non che, nell'usare questi termini, i loro vari sostenitori fossero in grado di giustificarli speculativamente, di farne dei verî e proprî concetti estetici: ché anzi essi erano così chiaramente piuttosto richiami al problema della natura dell'arte che non soluzioni del problema stesso da indurre alcuni dei loro teorici (come per es., il Bouhours in Francia e il Feijóo in Spagna) a veder conclusivamente quella natura in un "non so che", razionalmente non determinabile. Ma l'importante, qui, era nel fatto che il punto critico del problema estetico veniva con ciò nettamente a spostarsi dal campo della cosa a quello dello spirito: non si trattava più d'intendere la natura di quel che in sé fosse bello, quanto di capire la funzione spirituale che belle facesse e avvertisse le cose. Al che contribuirono largamente anche i due grandi sistemi filosofici che in questa età tennero successivamente il campo, quello del Descartes e quello del Leibniz. Il cartesianismo, da una parte, con la sua intonazione razionalistica, favoriva l'intellettualismo: e il suo più tipico riflesso, in questo senso, era l'estetica del Boileau, onde discendeva anche il formalismo del Crousaz e dell'André, come, per certi lati, quello del Muratori, del Gravina e del Quadrio. Ma d'altra parte era del cartesianesimo quella determinazione dei valori di "chiarezza" e "distinzione" delle idee, che dava poi occasione al Leibniz di giustificare, nel suo sistema, anche le cognizioni "oscure" e "confuse", concependole tutte come gradi del continuo della conoscenza e apriva così la via alla considerazione dell'arte come forma di cognizione i cui oggetti fossero "oscuri" ma "distinti", e quindi intermedia fra il senso e l'intelletto. Concezione, che fu ripresa e sistemata dal suo scolaro Alessandro Amedeo Baumgarten, primo a dare il nome di aesthetica alla nuova scienza filosofica, che, scientia cognitionis sensitivae, gnoseologia inferior, vedeva nell'arte la perfezione della conoscenza sensibile. Il Baumgarten sistemava così il problema dell'arte proprio nei termini che avrebbe dovuto poi riprendere l'estetica più moderna: per quanto non giungesse più in là del Leibniz, e lasciasse ancora indeciso (o mascherasse con formulazioni aristoteliche) il vero motivo che, superando la semplice distinzione quantitativa del Leibniz, doveva giustificare l'autonomia della conoscenza estetica rispetto a quella intellettuale.
G. B. Vico. - La prima grande giustificazione di tale autonomia fu data di fatto, e già alcuni anni prima che apparissero gli scritti del Baumgarten, da Giambattista Vico, che può così a buon diritto essere considerato il fondatore dell'estetica moderna. Già nella gnoseologia del De antiquissima Italorum sapientia era affermato il grande concetto che verum et factum convertuntur, e cioè che lo spirito umano tanto conosce quanto fa, e quindi perfettamente conosce quella storia che egli stesso produce, allo stesso modo che Dio conosce, nella natura, l'oggetto della sua creazione: un concetto, nel quale il soggettivismo della cartesiana certezza di sé riassorbe nel suo seno anche la verità delle cose, almeno in quanto queste fanno corpo col mondo operato dall'uomo. Di qui lo storicismo, che per la prima volta il Vico superbamente propugna contro il dominante razionalismo cartesiano: e che gli fa concepire lo spirito umano non più come statico complesso di facoltà, ma come eterno sviluppo e circolo di funzioni, su cui corre in tempo la storia reale. E la più originaria di tali funzioni è appunto quella dell'arte: la quale non si distingue più dal pensiero tutto spiegato, dall'intelletto o dalla ragione, solo quale facoltà inferiore dalla superiore, percezione confusa rispetto alla distinta o analogon rationis rispetto alla ratio stessa, e con ciò tale da subir di fronte all'altra una conclusiva svalutazione, bensì come momento eterno dello sviluppo spirituale, dotato, nella sua attualità, della sua piena autonomia. "Gli uomini prima sentono senz'avvertire; di poi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente, riflettono con mente pura". E la Scienza nuova è, nella sua maggior parte, il quadro grandioso della primitiva civiltà, in cui la fanciullezza dello spirito umano, reagendo con la passione all'immediato senso delle cose, crea, nella parola e nel segno, l'arte stessa. Poesia e linguaggio, che l'intellettualismo cartesiano respingeva ai limiti dell'irrazionale, divenivano così addirittura le basi della storia umana del mondo.
Concezione grandiosa, per quanto non potesse naturalmente non restarvi, nel particolare, molto di problematico, e anche dì incerto e di contraddittorio. Ambiguo era lo stesso concetto di una storia eterna dello spirito, su cui corresse in tempo la storia reale delle nazioni: perché poteva condurre a trasferire immediatamerite le distinzioni ideali della prima nei periodi cronologici della seconda. Al che m sfuggì il Vico, che concepì la primitiva civiltà come assolutarriente poetica, tentando di dedurre da tale atteggiamento estetico gli aspetti della sua attività in ogni campo, fino a quello del diritto e della politica: e trovandosi così continuamente alle prese con un rinnovato intellettualismo, che si rispecchiò in non pochi motivi e oscillazioni della sua dottrina. L'individuale contemplato dall'arte, tornò, per l'esigenza di una sua più larga capacità significante, a universalizzarsi in certa misura, e per non dissolversi di nuovo, d'altronde, nell'universale del concetto, fece sorgere l'ibrida teoria dell'"universale fantastico", quid medium tra quelle due reala. E analoga tendenza si manifesiava anche nell'idea che l'arte rappresentasse i tipi ideali, in contrasto con la storia che descriveva i particolari accaduti: per quanto a tale nuovo sopravvento del già superato aristotelismo il Vico stesso altrimemi reagisse, contraddicendosi, con l'identificare sostanzialmente la storia alla poesia, in quanto anch'essa storia primitiva.
Da Vico a Kant. - Queste (e altre) incertezze dell'estetica vichiana erano d'altra parte i naturali ondeggiamenti di un pensiero che al problema dell'arte apriva così nuovi e insoliti orizzonti e non toglievano che, nell'ambiente culturale della sua età, essa grandeggiasse solitaria. A livello senza paragone inferiore rimasero infatti le pur copiosissime trattazioni che nel'700, in Italia e fuori, furono dedicate al problema dell'arte. Acuto senso dei problemi, ma incapacità di soluzioni veramente nuove, era per es. in Antonio Conti; mentre il Cesarotti, il Bettinelli, il Pagano riprendevano le idee del Vico sul carattere primitivo ed entusiastico della poesia, limitandosi ad adattarle e combinarle variamente. In Germania, largo successo ebbe l'estetica baumgarteniana, intorno a cui si affollarono divulgatori e continuatori (G. F. Meier, M. Mendelssohn, G. G. Sulzer, per ricordare soltanto i più notevoli): più alti, e più vicini al Vico nell'idea, appassionatamente sentita ed espressa, della primitività dell'arte (per quanto sia incerto se propriamente ne dipendessero), il Herder e il Hamann, il primo dei quali, specialmente col suo entusiastico scritto sulla Origine del linguaggio, esercitò anche influsso sullo sviluppo della nuova scienza linguistica. Il neoplatonismo dell'assoluta bellezza rinacque cpl Winckelmann, che trasferiva sul piano della teoria il suo senso della serenità ultraterrena della scultura greca, avendovi per seguace il Mengs; e influiva anche sul Lessing, che, così interessante nelle sue distinzioni delle facoltà delle singole arti, nella sua conclusiva concezione estetica potenziava in quel senso l'aristotelismo delle sue particolari dottrine del verosimile e della catarsi. A tale rinascita neoplatonica reagì la concezione dell'arte come espressione del "caratteristico", sostenuta in Italia dallo Spalletti e in Germania dal Hirt, e poi discussa dal Goethe. Altri autori infine (C. Batteux, G. Hogarth, F. Burke, E. Home) combinavano le più disparate idee: il Platner giungeva a considerare il piacere estetico come mero riflesso e richiamo del piacere sessuale.
E. Kant. - All'altezza del Vico tornò invece, sulla fine del Settecento, il pensatore che, riprendendo idealmente i suoi problemi, doveva segnare così vasta orma mlla storia universale del pensiero. Si è cercato di restringere il valore dell'estetica kantiana, rintracciando i minuti elementi arcaici delle lezioni universitarie e della stessa Critica del giudizio e concludendo che essa non uscì, in realtà, dall'ambiente intellettualistico del baumgartenismo; e si è posposta quella stessa critica all'Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, in cui Kant avrebbe realmente intravisto la giusta collocazione sistematica della dottrina dell'arte, pur rendendola poi sterile con la sua angusta riduzione delle intuizioni pure alle forme astratte dello spazio e del tempo. Ma, storicamente e teoricamente, conviene piuttosto credere al Kant, e vedere la sua estetica là dove egli la indica, in quella Critica del giudizio che non s'intende nel suo vero significato quando se ne analizzino soltanto i membra disiecta. Com'è noto, l'ultima delle tre Critiche (1790) è mossa dal grandioso intento di stabilire un ponte di passaggio tra gli opposti mondi delle due prime, e di coronare così il sistema mostrando il principio della sua interna coerenza. Da una parte, nel sistema, il mondo della conoscenza, che è quello stesso della natura, in quanto le leggi del fenomeno sono quelle stesse che l'intelletto, conoscendo, impone alla cosa in sé: mondo il cui valore è quello di un Müssen, di un non poter essere altrimenti, e in cui quindi impera una necessità che esclude la libertà. Dall'altra, il mondo della volontà morale, in cui ciò che accade deve accadere, ma non per la inevitabile forza della legge bensì per la libera obbedienza alla legge: dove quindi impera non un Müssen ma un Sollen, una necessità che presuppone la libertà. Quel che è valore per un mondo, è disvalore per l'altro: se la volontà dell'uomo obbedisse a leggi naturali, sarebbe distrutta ogni libertà e moralità, e se la natura agisse liberamente, non sarebbe più possibile conoscerne le leggi. Ma vi sono due aspetti della realtà, nella natura e nell'uomo, in cui questa antitesi appare superata e la necessità delle cose si sposa con la libertà dello spirito. Uno è l'aspetto che la natura stessa mostra quando la si consideri, teleologicamente, come orientata verso un fine, e si giustifichi cosi la bruta contingenza, che rimane al margine e al fondo di ogni legge naturale, quasi inserendola nel piano di una universale volontà. L'altro è l'aspetto che a noi mostrano le cose, in quanto sono giudicate belle: un giudizio che non appartiene alla ragion teoretica, perché non accresce propriamente la nostra conoscenza della cosa oggettivamente pensata, e non appartiene alla ragion pratica, perché non detemnna il valore della cosa in quanto oggetto della nostra facoltà di desiderare, e cioè in quanto possiamo valercene nell'azione, utilitaria o etica che questa sia: e che quindi è figlio di una diversa e intermedia facoltà dello spirito, il "sentimento di piacere e di dispiacere", o puro "sentimento".
Tale giustapposizione Kantiana dell'estetica alla teleologia è veramente la prima origine di gran parte di quelle difficili ambagi in cui si aggira la Critica del giudizio, e che, richiamando l'attenzione, hanno indtitto a ridurne fortemente il valore. Distinzione di bello e di sublime, di bello e di arte, di bellezza pura e di bellezza aderente, definizione del bello come ciò che ha la forma della finalità senza la rappresentazione del fine e dell'arte come attività che tende a un fine inconsapevolmente come la natura, derivano in realtà, nella concezione kantiana, dal flusso, più o meno immediato, della teleologia sull'estetica: e pur essendo, anch'esse, di alto interesse teorico, rischiano di far restare in ombra quelle altre determinazioni che della Critica del giudizio sono i punti più luminosi e fecondi. Queste sono soprattutto contenute nell'Analitica del bello: nella definizione di questo come ciò che è oggetto di un puro piacere non legato ad alcun interesse, di un piacere, cioè, che si risolve nella contemplazione della cosa e rispetto a questa non si traduce nell'interesse reale dell'azione, é in realtà determinata per la prima volta la singolare e misteriosa natura dell'esperienza estetica, contemplazione in cui nulla propriamente si conosce e praticità in cui nulla propriamente si vuole. L'antica e nubilosa catarsi di Aristotele riappare trasfigurata, e speculativamente giustificata, nella kantiana Interesselosigkeit: ed è asserita una volta per sempre l'unità teoretico-pratica dell'atto estetico, di là da ogni determinazione unilaterale di tali suoi caratteri.
Da Kant a Croce. - Questo motivo fondamentale dell'estetica kantiana dominò lo sviluppo della grande estetica idealistica dell'Ottocento. Lo Schiller insisté sul concetto dell'Interesselosigkeit, nella sua considerazione dell'arte come puro giuoco, Spiel, in cui il contenuto passionale è "cancellato" dalla bellezza impassibile della forma, e l'uomo vive in una sfera di serenità indifferente. Più in là si spinsero altri romantici, come Federico Schlegel e il Tieck, che videro quella superiorità formale dell'atto estetico rispetto al suo contenuto nella forma di una suprema "ironia", che l'Io dimostrasse di fronte al mondo dopo averlo fichtianamente creato. L'arte diveniva così qualcosa di nettamente superiore alla stessa filosofia: un concetto, che era già implicito nella posizione sistematica della terza critica kantiana rispetto alle altre, ma che trovò la sua piena affermazione solo nel Sistema dell'idealismo trascendentale (1800) dello Schelling. Questi considerò infatti l'arte addirittura come organo dell'Assoluto, che solo potesse cogliere la totalità del reale al disopra dell'antitesi delle identiche sfere dialettiche della natura e dello spirito: seguito in ciò dal Solger, che meglio cercò di specificare tale esaltazione mistica dell'atto estetico. Hegel, invece, mantenne sì l'arte nella sfera dello spirito assoluto, ma la pose come prima e più elementare delle tre forme di questo, inferiore cioè alla religione e alla filosofia; e considerando insieme il bello come l'apparizione sensibile del vero, o dell'idea (nel che riappariva l'influsso della distinzione baumgarteniana dell'arte come cognizione intuitiva e sensibile dalla cognizione intellettuale), giunse di necessità alla conclusione del carattere transitorio, e sufficiente solo fino a un certo grado dialettico, dell'attività estetica, pronosticando, sul piano storico, la fine dell'arte. Divinizzata in un sopramondo, l'arte spariva così, in concreto, dalla faccia del mondo.
Né a simili apoteosi dell'arte rinunciavano gli stessi nemici dell'"idealismo universitario", come lo Schopenhauer, che considerò le idee, oggetto dell'arte, quali oggettivazioni della volontà universale, cristallizzata e placata nelle cose della natura, e nella musica vide addirittura l'espressione di quella volontà: concependo così l'arte come fonna di liberazione dello spirito, in cui il contemplante si affrancava dall'universale giogo del volere. Più temperatamente, lo Schleiermacher tornò a indagare l'attività estetica come fatto puramente umano, cercando di determinarne i caratteri rispetto a quelli del pensiero logico e del linguaggio: ma il buon senso di qualche sua osservazione non compensava la modestia dei suoi voli speculativi. E il pensatore che, opponendosi alle costruzioni metafisiche dell'idealismo, volle condurre anche l'estetica verso il suo ideale di realistica e matematica esattezza, il Herbart, cadde in una minuta analisi delle relazioni che dovevano determinare oggettivamente la bellezza, dando origine al più immaginoso e infecondo dei formalismi. Ma tale formalismo si presentava nel Herbart nel solenne aspetto di un'estetica della forma: di qui la gran lotta, che si svolse d'allora in poi in Germania, fra teorici dell'estetica della forma (Formaesthetik) e teorici dell'estetica del contenuto (Gehaltsaesthetik), e che in realtà coprì sotto di sé le più diverse antitesi, varî essendo i modi in cui vi furono intesi i concetti di forma e di contenuto, talora finendo l'uno per prendere il posto dell'altro. Il Herbart fu continuato dal Griepenkerl e dal Bobrik, e più grandiosamente, nella seconda metà del secolo, dallo Zimmermann; mentre l'estetica schellinghiana e hegeliana si p-rpetuò nelle opere di una serie di epigoni (Krause, Thrahndorff. Weisse, Deutinger, Oersted, Zeising, Eckardt), che a furia di rielaborarla e adattarla, tentando tutte le possibili combinazioni del rapporto tra arte religione e filosofia, la ridussero in caricatura. Massimo tra questi epigoni il Vischer, che polemizzò con lo Zimmermann, e nella sua gigantesca Estetica inaugurò tra l'altro la Fisica estetica, trattandovi del bello di natura, il cui problema (insieme con quello delle modificazioni del bello e cioè delle trasformazioni onde il puro bello passava nel sublime, nel comico, nell'umoristico) costituiva una delle preoccupazioni più vive di questa sopravvissuta estetica metafisica. La quale aveva infine eco anche in Italia, nelle costruzioni speculative del Gioberti e nell'"estetica esistenziale" del bizzarro e giocondo Tari.
Alla noia che provocava il macchinoso formalismo di questi metafisici della forma o del contenuto (e di coloro, come il Köstlin. lo Schasler il von Hartmann, che fra tali estreme tendenze cercavano in vario modo di mediare) reagì nel modo più esplicito il positivismo estetico della seconda metà del secolo, trattando dell'arte con una brutalità che ebbe un benefico effetto di scandalo. Al problema dell'arte si rivolse gente, come lo Spencer, che non possedeva neanche le più elementari nozioni della storia di quel problema. Altri (Allen, Helmholtz) portarono l'arte nei gabinetti di fisiologia, e analizzarono da tal punto di vista il fenomeno del gusto, nei suoi riflessi fisiopsichici: obbedendo così a quell'ideale di un'estetica induttiva, empirica, sperimentalmente accertata, a cui aspirarono anche coloro (come il Taine e il Fechner) che tuttavia, in concreto, nei concetti che dovevano pur mettere a norma delle loro osservazioni ed esperienze, presupposero il più antiquato formalismo o edonismo estetico. E non altro che moralisti pedantissimi, mascherati da impassibili tecnici, erano coloro (Nordau, Lombroso) che parificando genio e degenerazione videro nell'arte una specie di sottoprodotto della società umana. Anche quelli, del resto, che non scoprivano nell'arte così tetro sembiante, non sapevano tuttavia vedervi che una sorta di piacevole soddisfazione, la quale poteva tutt'al più adornarsi di un certo pregio morale quando fosse stata considerata come derivante da una simpatia, che nell'atto estetico si celebrasse tra l'uomo e il mondo (Guyau, Lipps): per non dire di quelli i quali consideravano l'arte in funzione della vita sessuale e traducevano così quell'estetica del simpatico addirittura in un'estetica del gran simpatico.
B. Croce. - Da così basso loco l'estetica fu riscattata, sulla fine del secolo, dall'opera di Benedetto Croce, che rinnovò, rendendolo europeo, l'insegnamento critico di Francesco De Sanctis. Questi, dopo essere stato scolaro del Puoti, aveva subito l'influsso del hegelismo, che cominciava a diffondersi trionfante nell'Italia meridionale: e particolarmente aveva assorbito le sue concezioni estetiche, attraverso la traduzione francese del Bénard, delle Lezioni e poi con lo studio diretto del Hegel. Ma, più tardi, era venuto sempre più correggendo alcuni aspetti dell'estetica hegeliana, e prima di tutto quello onde l'arte appariva come la forma sensibile dell'idea: insistendo perciò sul concetto dell'indipendenza della forma, principio assoluto dell'arte, in cui il contenuto ideale era "calato, fuso, dimenticato e perduto". E su tale concetto della forma, risolvente in sé (pur senza poterne prescindere) il mondo umano dell'artista, il De Sanctis aveva fondato la sua mirabile opera di critico letterario, rinunciando peraltro a dare, di quel concetto, una vera e propria giustificazione teorica. Seguace reverente ed entusiasta del De Sanctis, il Croce cominciò, nel 1893, col saggio sulla Storia ridotta al concetto generale dell'arte, a cui avevano dato origine le discussioni, che si ripetevano nei manuali di metodologia storica, intorno al problema se la storia fosse arte o scienza. Nella netta risposta del Croce, che la storia fosse arte, non era da vedere, per grande che fosse analogia generica della cosa, una ripresa e correzione del noto concetto aristotelico: perché in essa il rapporto tra arte e storia non era stabilito partendo dagli oggetti da esse rappresentati, che anzi apparivano qui egualmente individuali di contro all'universalità degli oggetti della scienza. La storia veniva bensì sussunta sotto il concetto generale dell'arte in quanto partecipava della sua stessa forma espressiva, mirante alla rappresentazione individuale: pur distinguendosene per il carattere di realtà, di esistenza oggettiva, essenziale alla sua rappresentazione.
Chiaramente implicita in questa concezione era già, quindi, l'idea che l'arte si identificasse con la stessa forma espressiva, e quindi, in ultima analisi, col linguaggio considerato nella sua perenne novità di creazione: idea che da una parte rinnovava la concezione desanctisiana della forma e dall'altra si riconnetteva alla gran tradizione vichiana, idealmente ripresa, almeno in certa misura, anche dai migliori filosofi del linguaggio dell'Ottocento tedesco, come Guglielmo di Humboldt e lo Steinthal. Tale idea fu sistematicamente sviluppata dal Croce prima nelle Tesi fondamentali di un'estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, lette nel 1900 all'Accademia Pontaniana, e p0i, in forma più compiuta, nell'Estetica (1902), che conservò lo stesso sottotitolo. Fondamentale, qui, era la critica con la quale veniva escluso tanto l'intellettualismo quanto l'edonismo estetico, e l'attività artistica veniva analizzata nel suo vero momento spirituale, rispetto a cui si staccavano come secondarî quelli miranti al fine mnemonico dell'estrinsecazione fisica. Mezzo e risultato, insieme, di tale distinzione era l'asserita identità d'intuizione e di espressione, intesa quest'ultima come immagine pienamente espressa e definita, e quindi identica all'oggeito della conoscenza intuitiva. Nello stesso tempo, la determinazione del carattere d'individualità della conoscenza intuitiva importava la sua netta distinzione dall'universale conoscenza logica: distinzione che era per altro verso anche implicazione, nel senso che, se l'intuizione poteva sussistere senza il concetto, questo non poteva vivere senza essere espresso in un'intuizione, allo stesso modo che, nella parallela sfera della pratica, l'economia volontà dell'individuale poteva vivere senza l'etica volontà dell'universale, ma questa non poteva attuarsi senza prender corpo nella prima. Così, già nell'Estetica, erano accennate le prime linee di quel sistema, in cui anche la dottrina dell'arte doveva assumere sempre più adeguata ed armonica fisionomia.
Determinazioni e modificazioni le vennero, infatti, per un verso dallo sviluppo delle dottrine logiche e per l'altro dalle esigenze che si manifestarono in funzione del concetto della circolarità dello spirito e del rapporto che in essa stringeva le sue due forme, teoretica e pratica. La dottrina crociana del concetto e del giudizio, svolta nei Lineamenti di una logica come scienza, del concetto puro (1904-05) e poi nella maggior Logica (1908), influì sulla teoria dell'intuizione attraverso la distinzione del giudizio individuale dal giudizio definitorio e, più largamente, con la generale concezione della filosofia come metodologia storiografica, poi particolarmente sviluppata nella Teoria della storiografia (1915). Concepito il giudizio definitorio come la forma propria del pensiero filosofico definente i suoi concetti puri e il giudizio individuale come la forma propria del pensiero storico giudicante con tali concetti le individue intuizioni del reale, alla primitiva idea dell'intuizione come veste espressiva del giudizio logico (individuale o definitorio che fosse) si sovrapponeva la nuova idea dell'intuizione come soggetto del giudizio storico, cioè come equivalente ad ogni individuo atto dello spirito e non più soltanto a quello estetico: con un conflitto di concezioni, che, se poteva parere per certi aspetti superabile in una constatazione dell'identità di quelle due dottrine dell'intuizione estetica, era in realtà per varie ragioni assai grave ed apriva la via a moltissime tra le difficoltà particolari del sistema. D'altro lato, il contenuto astratto dell'intuizione era ancora, secondo la prima Estetica, l'oggettività della natura, l'intuizione apparendo rispetto ad essa come il primo momento dello spirito, che nella sua ascesa tendeva sempre più ad allontanarsene. Ma sostituito a questo concetto dello sviluppo lineare dello spirito quello più concreto della sua eterna circolarità (o, meglio, della sua eterna ascesa a spirale, secondo l'immagine geometrica in cui piacque al Croce di allegorizzarla), e dissoltasi affatto, nel maggiore approfondimento che il Croce era venuto facendo dei suoi generali presupposti idealistici, l'idea dell'esistenza di una natura al di fuori dello spirito, l'astratto contenuto dell'intuizione non poté più essere che quella stessa vita pratica, in cui culminava il circolo spirituale precedente a quello che s'iniziava con tale intuizione. Con questo concetto (che, espresso per la prima volta nella conferenza heidelbergense del 1908 L'intuizione pura e il carattere lirico dell'arte, permeò poi di sé il Breviario di esteiica, gli altri Nuovi saggi di estetica e la recente Aesthetica in nuce, nei quali la dottrina crociana dell'arte appare nella sua forma più matura) l'estetica dell'intuizione abbandonava quel che d'unilateralmente intellettualistico persisteva nelle sue prime formulazioni, in cui l'arte appariva solo come forma conoscitiva e poteva pienamente giustificare il carattere insieme passionale e contemplativo, pratico e teoretico dell'arte, conciliando estetica del contenuto ed estetica della forma, romanticismo e classicismo in una sintesi superiore, che ne inverava, collocandoli al loro luogo, gli opposti motivi. Nello stesso tempo, la giusta comprensione del luogo che alla praticità, al sentimento, spettava in seno all'intuizione, rendeva possibile la netta distinzione dei casi in cui tale praticità invece soverchiasse, non restando contemplata e quindi superata nell'opera d'arte ma al contrario riducendo la stessa intuizione estetica a semplice mezzo del suo fine pratico: cioè quella distinzione dell'oratoria dall'arte, che è certo tra le più feconde per l'analisi critico-estetica e per la stessa scienza del linguaggio.
G. Gentile. - L'estetica crociana ebbe, fin dagl'inizî, largo successo, e ad essa in primo luogo è dovuto l'eccezionale risveglio e innalzamento della critica letteraria italiana di questo primo trentennio del secolo. Ma, come le altre culture europee non seppero opporle migliori dottrine dell'arte, e anzi ne subirono sempre più l'influsso (il che è da dire particolarmente dell'inglese, per certi rispetti più preparata delle altre nazioni ad accoglierla), così non vi fu propriamente, in Italia, chi proseguisse e approfondisse le concezioni del Croce, e si travagliasse a risolvere le non poche difficoltà che esse lasciavano aperte: al rigoglio dell'applicazione critica non fu pari quello della discussione teorica. E non continuazione di quella crociana, ma costruzione parallela e indipendente è l'estetica dell'altro grande rappresentante dell'idealismo italiano contemporaneo, il Gentile. Il quale non cominciò, come il Croce, dalla riflessione su problemi di estetica, ed è anzi venuto alla discussione particolare del problema dell'arte solo dopo aver ampiamente trattato del problema gnoseologico-metafisico, fondamentale nel suo sistema: e questo suo esser passato piuttosto dalla filosofia all'estetica che non alla filosofia attraverso l'estetica, se da una parte fa comprendere un certo minore interesse per i problemi particolari, rispetto alla dottrina crociana, spiega d'altra parte la solidità senza paragone superiore dei suoi generali presupposti filosofici. Di fronte alla rigorosissima gnoseologia del Gentile non poteva reggere una gnoseologia che giustapponesse una conoscenza intuitiva a una conoscenza logica: l'estetica crociana non poteva quindi serbar per essa validità, almeno in tutta quella parte più teoretizzante, che ne costituiva senza dubbio, come il lato più primitivo, così anche quello più debole. Dal problema gnoseologico, peraltro, partiva inizialmente anche l'estetica gentiliana (quale appariva in varî scritti critici minori e poi, più chiaramente, nel saggio del 1920 su Arte e religione), in quanto riportava anche il momento artistico in seno all'assoluta dialettica gnoseologica dello spirito. In tale dialettica, realizzantesi in un'eterna monotriade, primo momento è, per il Gentile, quello della pura soggettività, in cui lo spirito pone il suo puro conoscere senza ancora dargli alcun contenuto oggettivo: secondo, quello della pura oggettività, in cui l'oggetto del conoscere è posto come assolutamente reale, e assorbente in sé la realtà stessa del soggetto; terzo, quello della sintesi delle precedenti tesi e antitesi, e cioè dell'effettivo conoscere, in cui soggetto e oggetto sono insieme mantenuti, nella loro dialettica relazione. Ora, come il terzo momento, che è quello della concreta realtà, corrisponde alla filosofia, e il secondo, in cui il soggetto misticamente si annulla di fronte alla trascendente oggettività, corrisponde alla religione, il primo momento, che è quello della libera affermazione del soggetto, costruentesi nel sogno un mondo senza immediato fondamento nella realtà, è appunto quello dell'arte.
Una dottrina, della quale solo estrinsecamente poteva dirsi che riprendesse quella hegeliana delle tre forme dello spirito assoluto, perché in realtà la rinnovava profondamente nella sua costituzione intrinseca e la trasferiva da una sfera di relativa trascendenza alla realtà affatto immanente dell'atto spirituale. D'altra parte, nella più matura formulazione data dal Gentile alla sua estetica, nella Filosofia dell'arte (1931) e, in compendio, nella voce arte (IV, pp. 631-633) l'aspetto immediatamente soggettivo del momento estetico della dialettica spirituale ha integrato il lato propriamente gnoseologico, che nella forma originaria della dottrina esso manifestava in primo piano, con una concreta determinazione del suo valore pratico e sentimentale. In questa più recente forma dell'estetica gentiliana l'arte si presenta infatti anche come sentimento puro: quel sentimento, cioè, che nell'ultima estetica crociana rappresentava la rivalutazione del mondo passionale rispetto alla pura teoreticità della conoscenza intuitiva, e che qui invece s'impadronisce totalmente del campo, dimostrata l'insostenibilia teorica di quella forma di conoscenza inferiore. L'arte diviene con ciò il più puro sensus sui, precedente a ogni distinzione dell'io dal mondo e quindi a ogni concreta sua cognizione teorica e modificazione pratica, ma per ciò stesso immanente e imprescindibile in ognuna, e cioè sempre presente, della stessa eterna presenza dell'atto spirituale. Il che rinnova, tra l'altro, il concetto hegeliano dell'ideale mortalità dell'arte ma sottraendolo a quella traduzione temporale in cui esso veniva tuttavia a decadere nello stesso sistema di Hegel: ché questa perenne mortalità è insieme vitalità perenne, onde ciò che l'atto spirituale supera è pure eternamente presente perché esso possa eternamente superarlo. Dottrina, le cui particolari determinazioni non possono naturalmente essere esposte in questa sede, come non possono esserne discussi gli elementi problematici, sui quali d'altronde difficilmente si potrà discettare in modo fecondo quando non s'intenda ed accolga quella fondamentale impostazione teorica che dell'attualismo gentiliano è la maggior gloria e che può a buon diritto considerarsi come un punto di passaggio obbligato per ogni filosofia ventura, che voglia veramente esser tale. Anche la più ovvia, e nota lippis et tonsoribus, delle immediate difficoltà dell'estetica gentiliana, e cioè quella dell'immanenza del valore estetico a ogni atto spirituale, e cioè all'universo senza eccezione, potrà essere superata solo da chi accetti anzitutto il punto di vista gentiliano dell'assoluta unità e presenza dello spirito.
Al di là di questi due grandi sistemi di estetica, che pur nelle loro tipiche differenza di atteggiamento hanno collaborato a portare la dottrina dell'arte a un'altezza non mai raggiunta, e dal ripensamento dei cui particolari problemi nessuna futura estetica potrà prescindere, non può dirsi che né in Italia né altlove siano state espresse altre dottrine estetiche, che meritino particolare menzione in un cenno rapido come il presente. Il Cesareo, per es., si è limitato a risuscitare la vecchia concezione romantico-schellinghiana dell'arte come attività suprema dello spirito, più alta della stessa filosofia; il Rensi ha nuovamente dissolto l'estetica in un relativismo scettico da sec. II a. C. L'unico che in Italia abbia forse avanzato qualche idea nuova, pur tra molte bizzarrie e intemperanze, è stato il Tilgher, anch'esso del resto seguace, volente o nolente, dell'idealismo. Per il resto, futurismo, espressionismo e simili sono stati non tanto estetiche quanto etichette d'ideologie letterarie: e lo stesso è da dire dei molti altri simboli, che di volta in volta gli artisti hanno scelto e scelgono per allegorizzare le loro preferenze tecniche e sentimentali (come per es. l'estetica del fanciullino, del Pascoli, o l'estetismo del superuomo, del D'Annunzio).
Bibl.: Per gli scritti degli e sugli autori ricordati v. alle singole voci che li concernono (e anche critica). Indichiamo qui solo le principali opere riguardanti la storia dell'estetica, nel suo complesso e nei suoi maggiori periodi.
Storie generali dell'estetica: R. Zimmermann, Geschichte d. Ästhetik als philos. Wissenschaft, Vienna 1858; M. Schasler, Kritische Geschichte d. Ästhetik, Berlino 1872; B. Bosanquet, A history of Aesthetics, Londra 1895; W. Knight, The philosophy of Beautiful, being Outlines of the History of Aesthetics, voll. 2, Londra 1895-98; G. Saintsbury, A history of criticism a. literary taste in Europe from the earliest texts to the present day, voll. 3, Edimburgo-Londra 1900-04; M. Menendez y Pelayo, Historia de las idéas estéticas en España, 2ª ed., voll. 5, Madrid 1890-901; B. Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, 6ª ed., Bari 1928, pp. 167-534 (con larga appendice critico-bibliografica, anche intorno alle precedenti storie dell'estetica). Corregge quel che di troppo negativo è in questa trattazione il saggio dello stesso Croce, Inizio, periodi e carattere della storia dell'est., in Nuovi saggi di est., Bari 1920, pp. 95-119.
Sull'estetica dell'antichità: E. Müller, Geschichte d. Theorie d. Kunst bei den Alten, voll. 2, Breslavia 1831-37; J. Walter, Die Geschichte d. Ästhetik im Altertum ihrer begrifflichen Entwicklung nach, Lipsia 1893; A. Rostagni, Aristotele e aristotelismo nella storia dell'estetica antica, in Studi italiani di filologia classica, n. s., II (1921) (e dello stesso v. anche le introduzioni alle edizioni della Poetica di Aristotele, Torino 1927, e dell'Arte poetica di Orazio, Torino 1930, come, per gli scritti concernenti in particolare l'estetica epicurea, la bibliografia alla voce filodemo); E. Panofsky, Idea, Lipsia 1924. Sulla filosofia antica del linguaggio: H. Steinthal, Geschichte der Sprachwissenschaft bei den Griechen u. Römern mit besonderer Rücksicht auf die Logik, 2ª ed., voll. 2, Berlio 1890-91.
Sul Medioevo (specialmente per la poetica): D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, I, 2ª ed., Firenze 1896; K. Vossler, Die göttliche Komödie, Heidelberg 1907-10 (delle prime tre parti trad. it., Bari 1909-13). Sull'Umanesimo e il Rinascimento: K. Vossler, Poetische Theorien in d. italienischen Frührenaissance, Berlino 1900; I. E. Spingarn, A history of literary criticism in the Renaissance, New York 1899 (trad. ital., Bari 1905); K. Borinski, Die Poetik d. Renaissance u. die Anfänge der litterarischen Kritik in Deutschland, Berlino 1886; G. Toffanin, La fine dell'umanesimo, Torino 1920.
Sull'estetica moderna: B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929 (sul Seicento); H. Quigley, Studies in the genesis of romantic theory, Londra 1923; H. von Stein, Die Entstehung der neueren ısthetik, Stoccarda 1886; E. Grucker, Histoire des doctrines littéraires et esthétiques en Allemagne, Parigi 1883; F. Braitmaier, Geschichte der poetischen Theorie u. Kritik von den Diskursen der Maler bis auf Lessing, Frauenfeld 1888-89; J. Koller, Entwurf zur Geschichte u. Literatur der Ästhetik, von Baumgarten auf die neueste Zeit, Ratisbona 1799 (è il primo tentativo di storia dell'estetica: su di esso Croce, Estetica, 6ª ed. cit., pp. 535-36); R. Sommer, Grundzüge einer Geschichte der deutschen Psychologie und Ästhetik von Wolff-Baumgarten bis Kant-Schiller, Würzbug 1892; Th. W. Danzel, Äber den gegenwärtigen Zustand d. Philosophie d. Kunst u. ihre nächte Aufgabe, in Gesammelte Aufsätze, Lipsia 1855, pp. 1-84 (sull'estetica kantiana e postkantiana); H. Lotze, Geschichte d. Ästhetik in Deutschland, Monaco 1868 (dal Baumgarten agli herbartiani); E. v. Hartmann, Die deutsche Ästhetik seit Kant, Berlino 1886 (dal Kant fino ai contemporanei dell'a.); R. Haym, Die romantische Schule, Berlino 1870 (per l'estetica dei romantici tedeschi, sulla quale v. anche O. Walzel, Il romanticismo tedesco, trad. Santoli, Firenze s. a. ma 1924; V. Santoli, Wackenroder e il misticismo estetico, Rieti 1929); G. Neudecker, Studien zur Geschichte d. deutschen Ästetik seit Kant, Würzburg 1878. Sull'estetica italiana: K. Werner, Idealistische Theorien des Schönen i. d. italien, Philos. d. neunzehnten Jahrhund., Vienna 1884 (in Sitzungsber. d. k. Ak. d. Wiss.); G. A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Napoli 1905; S. Caramella, Storia del pensiero estetico e del gusto letterario in Italia,,Napoli s. a. ma 1924; G. Curcio, L'estetica italiana contemporanea, Napoli 1921.
Per la bibl. dell'estetica, fino a tutto il Settecento v. Sulzer, Allg. Theorie d. schönen Künste, 2ª ed., in 4 voll., Lipsia 1792. Per l'Ottocento: Gayley-Scott, An introd. to the methods a. materials of lit. criticism, Boston 1899. La bibl. del Novecento è in La critica, diretta dal Croce (Bari 1903 segg.). Una Zeitschr. f. Ästhetik u. allg. Kunstwiss. dirige M. Dessoir (Stoccarda 1906 segg.)