ESTETICA
La riflessione sull''estetico' nel pensiero medievale non coincide con l'enucleazione di un aspetto in concezioni sistematiche che, come in quell'età fu proprio più che in ogni altra, abbiano a loro centro l'essere dell'uomo e il darsi del mondo nel rapporto a Dio. Ovvio è perciò che tale riflessione non abbia mirato a porre un'autonoma forma spirituale o categoria assumente a predicato la c.d. attività estetica diffusa, o in modo specifico ciò che la modernità ha considerato arte. Questo giudizio circa il darsi di un'e. implicita è andato unito alla ormai indubbia convinzione che i contenuti pensati dalla cultura moderna come costitutivi dell'esteticità e dell'arte, pur con tanta varietà di accezioni e di prospettive, vengono tematizzati e si collegano a vicenda incidendo non superficialmente nella coscienza medievale. Sebbene carente della istanza di una unità categoriale, il bisogno di chiarire elementi di tanto rilievo nella realtà non si limita ad asserzioni impressionistiche, ma piuttosto elabora plessi logici, quelli appunto che meglio s'inquadrano nella prevalente inclinazione metafisica delle maggiori scuole di pensiero, o comunque in modi argomentativi razionali che, piuttosto che contrastare, suffragano gli stessi slanci mistici.Temi 'estetici', nel senso già così delimitato, da un lato ricorrono con insistenza in una meditazione che, nell'area delle tre grandi confessioni monoteistiche, quasi sempre è, per sua natura, filosofico-teologica, cosicché si identificano solo all'interno di questa, dall'altro sorreggono, o contribuiscono a orientare, le trattazioni sulle arti, numerose in seno a opere enciclopediche, o, per la poesia, la retorica e la musica, come nuclei di specifiche esposizioni mancanti viceversa nell'Alto Medioevo per le arti visive. Più tardi, in questo secondo caso, ebbero poi carattere pratico-normativo o illustrativo delle arti, come progetti oppure come tecniche della costruzione e manipolazione di oggetti, in rispondenza allo spazio semantico della parola arte, diverso e più esteso di quel che essa e il suo plurale avrebbero coperto più tardi.Il darsi di simili disposizioni fondamentali consente di non ritenere un'immaginaria escogitazione pseudo-storiografica che un evo pur così lungo persegua una tendenziale unità. Anzi il nisus unitario che si avverte nella vasta gamma di rapporti con cui l'età di mezzo vive e percepisce l'attività artistica è un buon motivo a sostegno della sia pur relativa validità del tanto discusso periodizzamento all'incirca nell'estensione tradizionale pur con le molteplici e forti scansioni che vi si verificano. E questa convergenza trova conferma nell'universalismo di cui la civiltà di quasi un millennio è permeata anche attraverso contraddizioni e attriti. Forse proprio la conflittualità è stata una potente ragione di unità, poiché vi persiste la fede armonizzatrice che l'esistenza si risolva nella salvezza, culminando in una realtà più alta ed eterna.L'aspirazione unitaria dell'intera età ha origine dunque da tensioni opposte, ne è pervasa e le prospetta in forti differenze da una scuola all'altra, le quali al loro interno mirano a una continuità coerente. Lo scontro non riguarda certamente il tributo di reverenza e di ammirazione verso la natura. Esso rimane intatto perché nella natura si esprime l'onnipotenza infallibile della creazione, esaltata come ostensione di un ordine, di un magistero, di un modello perfetti. Oggetto di dissenso può essere, e di fatto è, la definizione e il fine dell'insieme di opere in cui si manifestano le capacità, i tentativi, la sensibilità dell'uomo.La disputa sul culto delle immagini raggiunse forme ereticali e produsse alterni divieti e legittimazioni nei conflitti e nelle intese tra l'impero bizantino e il papato, quasi segni premonitori dello scisma d'Oriente, sancendo temporanee vittorie ora dell'una ora dell'altra dottrina con norme che ne rendessero stabile l'osservanza. Il decreto iconoclastico di Leone III l'Isaurico (726), la vittoria dell'iconofilia dal concilio di Roma del 731 durante il papato di Gregorio III, la rivincita proibizionistica nel concilio di Hieria (754) voluto da Costantino V Copronimo sulle orme del padre Leone III, la riaffermata legittimità delle immagini nel secondo concilio di Nicea (787) voluto dall'imperatrice Irene, il ritorno iconoclastico con gli imperatori Leone V e Teofilo, la nuova vittoria degli iconoduli nel concilio di Costantinopoli (843) ispirato da Teodora, reggente per il figlio Michele III, sono tappe di una lunga contesa. Ma nei riguardi del bello risultante dall'impegno umano il rigorismo moralistico presenta posizioni diverse che, come non nacquero dalla lotta iconoclastica, non indenne da motivi politici ed economici, così non si esaurirono in essa. Un'ostilità radicale investe l'oggettualità delle immagini e la loro contemplazione, perché entrambe segnate dal male per loro intrinseca natura, quali che ne siano i contenuti, seduzioni mondane che una pura coscienza deve respingere; a fortiori se si tratta di contenuti religiosi - quasi tutti allora erano tali, o al sacro si riconducevano - perché nella raffigurazione del divino s'insinua l'idolopoiesi. È un atteggiamento autorizzato dalla tradizione veterotestamentaria, che sul piano filosofico viene corroborata dal platonismo, per cui la verità delle idee risulta indebolita e falsificata dalla mimesi delle apparenze naturali, per se stesse degradate rispetto al mondo ideale. L'energica condanna intellettualistica e moralistica propria della tarda maturità di Agostino (Confessioni) sarebbe stata reiterata ben oltre le contese dell'8° e del 9° secolo. I Cistercensi dal sec. 11° al 13° non si limitarono a vietare sculture, pitture, vetrate, ma furono intransigenti verso ogni alterazione della nudità strutturale delle chiese, come alcuni complessi elementi tettonici e perfino i campanili, tanto da venire in polemica contro la moderazione dei Cluniacensi, appartenenti anch'essi all'Ordine benedettino. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) fu il maggiore rappresentante di questa forma estrema di mistico ascetismo.Con il procedere del tempo le rigide interdizioni moralistiche si attenuano e la loro flessione si riscontra spesso in pronunce ufficiali, le quali, d'altra parte, sono esse medesime manifestazioni di una concezione delle cose e hanno alle spalle una situazione culturale o cooperano a promuoverla. Il bisogno di contemperare e riaccostare arte e culto è attestato, nell'opera degli scrittori che affrontano questo problema o soltanto vi accennano, da giudizi in apparenza contraddittori, tuttavia la volontà di superare le contrapposizioni esclusive è in loro evidente. Il presupposto mai dimenticato è che l'arte, affinché sia un bene, stia a servizio della Chiesa, dunque svolga il compito di farsi strumento morale non meno che intellettuale. Le memorie della classicità, residue anche nel periodo - del resto non così lungo come un tempo si presumeva - di maggior rarità dell'istruzione letteraria, non sono spente in queste prospettive etico-pedagogiche, dove l'arte non è per sé ma per altro. La nozione teoretica di autonomia è squisitamente moderna e il pensiero antico, anch'esso fondamentalmente eteronomo, ora per subordinazione all'etica ora a motivi edonistici, non era stato certo immune, perlomeno episodicamente, da posizioni censorie.Boezio (480-524/525) e Cassiodoro (480/490-580 ca.) vissero quando l'Antico era ancora il caposaldo della formazione retorica più che la lontana suggestione di una realtà scomparsa. Per Boezio chi ammiri il bello cede alla lusinga dei sensi (De institutione musica). Il suo pitagorismo lo induce ad apprezzare la musica strumentale che utilizza i suoni della natura ma guarda all'armonia cosmica come a una meta inattingibile; ciò che è fattura di mani umane (artificium) rimane inferiore all'ars intesa come attività intellettuale, comprensione teorica che sovrasta e orienta l'operare. Per quanto Boezio sia un filosofo assai più originale, le considerazioni di Cassiodoro sull'arte appaiono più incisive, perché maggiormente connaturate alla sua personalità. Le Institutiones attingono largamente a fonti greche; oltre a essere legate alla generale impostazione retorica e, al pari di Boezio e di tanti altri scrittori prescolastici, ad Agostino, avvicinano l'arte alla scienza, cioè al sapere, attribuendole il compito dell'insegnamento, non disgiunto dal diletto che ne qualifica la natura. Essa ha un potere catartico: le emozioni che a quel diletto vanno unite liberano dalle passioni e purificano i sentimenti. Tra la bontà dell'anima e la bellezza del corpo vi è una corrispondenza che Cassiodoro interpreta facendone derivare un distinto significato allegorico a ciascun organo. Sebbene non venga messa in dubbio l'infinita distanza del creare, proprio della divinità, dal fare dell'arte, che è attività umana, la concezione cassiodoriana dell'arte presenta marcate note positive.L'enciclopedismo è un'ambizione tipica della mente medievale, rispondendo al bisogno di esporre ordinatamente l'intero scibile: è naturale che in questa generale e a suo modo gratificante sistemazione abbiano un loro posto anche le questioni relative all'arte. Così è nei venti libri delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560 ca.-636), poveri di pensiero, ancorché fortemente debitori della filosofia agostiniana, come prova fra molte altre cose il riferimento al pulchrum e all'aptum in evidente connessione con il perduto De pulchro et apto di Agostino. L'opera, tuttavia, non è priva di spunti di un certo interesse, come quando Isidoro si sofferma sull'illusorietà del ricordo quale necessaria base del fare con arte, o sulla grazia elegante con cui identifica la venustas, che egli reputa non doversi richiedere come carattere primario alla struttura degli edifici, ma piuttosto agli ornamenti.La rinascita carolingia agì efficacemente nel restituire prestigio e nobiltà all'arte, riscattandola dall'esecrazione iconoclastica, nella misura che il cristianesimo occidentale poteva allora concedere, contraddistinta da un prudente equilibrio. Ciò che la giustifica sono le funzioni morali, didascaliche, intellettuali cui può e deve adempiere. La vittoria iconodula nel sec. 9° ne è un momento; i credenti possono accedere più facilmente alla verità della fede con l'ausilio della forma che le dà chiarezza. Le pregiudiziali diffidenze verso l'arte vengono a grado a grado rimosse dall'intensa utilizzazione a questi scopi delle effigi sacre e dei fatti pittoricamente narrati in singoli episodi o in sequenze di storie, tanto che i grandi eventi delle Sacre Scritture creano un lessico iconografico cui le successive rappresentazioni si uniformano. La pittura viene definita laicorum litteratura dal sinodo di Arras (1025) e Onorio Augustodunense (sec. 12°) parla di biblia pauperum. Il raccoglimento in preghiera e nella contemplazione ha nel contenuto delle opere offerte dal luogo del culto potenti modelli di retta condotta umana e assidui stimoli di acculturazione. Simbolismo e allegoria diventano usuali forme di comunicazione semantica. Il reciproco integrarsi delle arti, pur l'una dall'altra rigidamente distinte da una radicata diatesi classificatoria, fa delle cattedrali romaniche e gotiche vere 'foreste di simboli', un codice visivo la cui lettura trasmette un corredo di nozioni ecclesiali e storiche vasto e organico. L'alternarsi della presunzione di demonicità e sacralità nei riguardi delle opere d'arte, per lo più superato, pure per qualche aspetto viene tenuto in vita dall'antitesi dualistica di corpo e anima e ha riflessi nell'ambiguità terminologica limpidamente accennata da Tatarkiewicz (1970) quando ricorda che figura è volto, ma anche simbolo; forma tanto essenza quanto ornamento; imago è copia, ritratto, ma per contro rappresentazione allegorica di un essere incorporeo, e di conseguenza imaginatio percezione di oggetti presenti, ma anche istanza mentale di oggetti lontani o di esistenze soprannaturali; visio visione naturale, ma anche apparizione e profezia; sensus senso come esperienza di cose sensibili, ma anche sentimento, pensiero, significato intelligibile e profondo; species categoria logica, ma anche forma esteriore, apparenza, aspetto gradevole o, senz'altro, bellezza.Alcuino, Rabano Mauro, Giovanni Scoto Eriugena, eminenti figure della cultura carolingia, hanno lasciato tracce durevoli circa la situazione dell'arte in un quadro delle attività umane rispettoso dell'ortodossia. L'irlandese Alcuino di York (post 730-804), vescovo di Tours, sostenne una posizione moderata, autorevole nei suoi effetti, attenendosi a una gerarchia di valori che colloca la bellezza visibile su un gradino molto inferiore e diverso dalla bellezza eterna. Il bello artistico in sé non è capace di rendere morale e veridico un contenuto che non lo è. Occorre perciò che trasfonda significati degni, in cui l'interiorità subordini a sé la grazia sensibile, ossia che le rappresentazioni scultoree e pittoriche si attengano al vero espresso dai testi sacri e fissato dall'interpretazione teologica. Il concilio di Tours (813) e il sinodo di Aquisgrana (816) recepirono essenzialmente l'indirizzo, del resto non del tutto nuovo, del già scomparso vescovo, insistendo sulla necessità di anteporre il bene morale alle eleganze formali, ma l'ammonimento a diffidare di queste è volto al fine di farne buon uso, non di interdire la rappresentazione. Su questo solco di prudente accettazione procede Valafrido Strabone (808 ca.-849), precisando (De imaginibus et picturis) che le immagini esposte nei luoghi del culto non devono essere venerate, per la nota presunzione che dalla venerazione all'idolatria il passo è breve, ma semplicemente fruite come memoria del passato, illustrazione delle verità di fede negli atti che le hanno testimoniate, ricordo, si sarebbe detto in seguito, di vite esemplari.Rabano Mauro (784-856), arcivescovo di Magonza, fu anch'egli autore di trattazioni enciclopediche secondo il piano delle arti meccaniche e di quelle del trivio e del quadrivio e i problemi delle cose e del loro significato per l'istruzione degli ecclesiastici (De institutione clericorum; De rerum naturis). Diede rilievo all'eloquenza e all'allegoria con i suoi sensi mistici, alla letteratura e alla poesia, senza per questo sottovalutare l'importanza delle arti visive, anzi nella sua azione pastorale favorì la costruzione e la rifinitura ornamentale di parecchie chiese della sua regione. Le arti ebbero per lui gli stessi fini loro attribuiti quasi unanimemente entro l'orizzonte dottrinario del tempo nelle terre dove si diffuse la cultura carolingia.Irlandese come Alcuino, Giovanni Scoto Eriugena (810 ca.-877 ca.), certamente il filosofo più acuto e influente del sec. 9°, diede più libero risalto all'arte, accentuando il motivo teoretico della contemplazione. Questa non potrebbe tuttavia essere disinteressata, ossia pura, se si lasciasse attrarre da desideri mondani (De divisione naturae; Commentarium super Hierarchiam coelestem). Il rapporto con l'emanatismo plotiniano, e neoplatonico in genere, qualifica l'avvaloramento dell'aspetto estetico attraverso la concezione teofanica che impone di risalire alla cause prime. Quel che è dato vedere e che trova rispecchiamento nelle opere d'arte è metafora del mondo spirituale, delle idee divine da cui deriva, immagine di un'armonia in cui tutte le parti convengono a fondersi in unità: la loro corporeità procede dall'anima, creatura ab aeterno di Dio.Nelle implicazioni estetiche di queste e di successive dottrine all'incirca analoghe sono immanenti dunque le suggestioni platoniche, plotiniane, neoplatoniche, agostiniane, spesso percorse da tensioni interne e stimolanti nuove tensioni, finché il pensiero arabo-islamico e la Scolastica fecero balzare a primaria efficacia le fonti aristoteliche, alcune delle quali già operanti; ma non viene meno l'influenza delle precedenti, cui quei pensatori connettono per più di un verso, più o meno sincreticamente, le stesse derivazioni aristoteliche. La tematica dominante lo mostra soprattutto per il modo in cui viene teorizzata con argomenti dei quali può dirsi che l'inconfondibile impronta della civiltà medievale non sarebbe qual è se non si istituisse assai spesso, di fatto, in forma di interpretazione e in continuità ora preterintenzionale, ora volutamente perseguita con il pensiero classico. Solo i contenuti e l'ispirazione religiosa approfondiscono la differenza dal mondo pagano e rendono coesa l'inconfondibile natura dei secoli di mezzo.Simbologia e allegoresi inquadrano il tutto in un inventario di rimandi significativi. Tutte le forme si prestano a esserne oggetto. Figure immaginarie, cose inanimate, piante, fiori, colori, nei testi sacri, nelle scritture teologiche e filosofiche, nelle arti visive, vengono concepiti come illustrazioni di altro, nascondono e insieme disvelano sensi diversi da quelli del linguaggio ordinario. Nasce in tal modo una sorta di parallelismo psicofisico. Più cose possono alludere a un medesimo referente. Tali, per eccellenza, i multiformi simboli di Cristo: unicorno, pellicano, agnello, colomba, pavone, ariete, grifone, gallo, lince, palma, ognuno dei quali evoca una sua distinta e talvolta complessa specificità. La densa polisemia che dal senso istoriale si protende verso l'allegoria, la morale, l'anagogia, compone una visione del mondo intesa a celebrare l'universo nella sua creaturalità armoniosamente bella in quanto perfetta opera d'arte di Dio.Trattati filosofico-teologici e poemi didascalici hanno ideato strutture argomentative e rappresentative sul presupposto della pluralità dei significati, mentre gli artisti prestavano a quel linguaggio un corpo visibile. Beda il Venerabile (672/673-735) nel De schematibus et tropis, Giovanni Scoto Eriugena, Alano di Lilla (m. nel 1202 ca.), Onorio Augustodunense (Speculum ecclesiae; Imago mundi), Guglielmo Durando (1230 ca.-1296; Rationale divinorum officiorum), la Scuola di Chartres, Sigieri di Brabante (1240 ca.-1281/1284), lo stesso Tommaso d'Aquino (1225-1274), si sono serviti di modi simbolici che spiccano maggiormente nella metafisica vittoriniana. Ugo di San Vittore (1096 ca.-1141) insiste sull'elemento formale della bellezza visibile in cui traluce quella dell'invisibile (pseudo-Dionigi, Commentarii in Hierarchiam coelestem), e il simbolismo è lo strumento che permette di rivendicare all'arte la capacità di esprimere la bruttezza del male rendendo più efficace con l'evidenza formale la designazione delle cose da cui rifuggire: si introduce così il riconoscimento della possibile artisticità del brutto. La distinzione tra accidentalità ed essenzialità del bello all'oggetto che ne è caratterizzato consente anche a Ulrico di Strasburgo (m. nel 1278) una simile estensione della bellezza.Le nozioni di pondus, mensura, ordo, proportio, identitas, congruentia, decor, aptum, lux, claritas, splendor formae ricorrono di continuo in questa vasta e diramata letteratura; quasi tutte di origine classica, sarebbero proseguite nel Rinascimento. Nel Medioevo è più frequente la compresenza, nella medesima opera, dell'analisi speculativa, così abbondante particolarmente nella prima e nella seconda Scolastica, con l'indagine tecnica sulle arti. Il De ordine e in genere quegli scritti di Agostino in cui l'attività artistica ha parte si erano valsi di un fascio di discorsive definizioni di termini, riecheggianti dopo di lui in variazioni marginali. Così se il pondus definisce una tendenza, un'inclinazione, l'ordine e la misura rappresentano delle delimitazioni rapportuali. La proportio è luogo di convergenza e di collegamento anche più ampio di significati e di inflessioni speculative che trasfigurano, ma per ciò stesso anche echeggiano, la loro radice, se non nel momento dell'operare artistico certamente in quello della sua compiuta esibizione. Così il ritmo, fatto non solo di consonanze, ma anche del contrario, stringe in relazione le parti, così la dolcezza (suavitas) deve essere pregio dei colori e dei suoni. L'armonia compositiva (Boezio) si presenta nelle osservazioni sulla musica del benedettino Rodolfo di Saint-Trond (m. nel 1138), nella Scuola di San Vittore, in Reginone di Prüm (m. nel 915). Fondamentale nell'architettura, la proporzione non lo è altrettanto nella scultura, dove deformazioni e diseguaglianze vengono quasi di regola imposte da esigenze tettoniche, meno ancora nella pittura, dove contano la nettezza delle partiture cromatiche e la linearità del disegno. Ma in pittura, come nei rilievi e nella statuaria, la commisurazione tra le figure è un indice gerarchico.A Roberto Grossatesta vescovo di Lincoln (1175-1253; De luce) e a Tommaso di York (m. nel 1260), la cosmologia matematica suggerisce canoni estetici basati su rapporti aritmetici. Analoga disposizione a canoni empirici manifesta la mente scientifica e naturalistica di Ruggero Bacone (1214 ca.-1292 ca.), fra i maggiori esponenti della seconda Scolastica. Notevole a questo proposito la funzione di tramite, ma anche di profonda rielaborazione, dal neoplatonismo plotiniano alla fisica ottica e alle dottrine dell'intuizione, svolta da filosofi arabi, come Alhazen (Ibn al-Haytham, m. nel 1039; De aspectibus; Liber de intelligentia). Guglielmo d'Alvernia (1180 ca.-1249) esemplifica con i rapporti di luce che si verificano in natura la sua teoria dell'ascesa dalla conoscenza sensibile all'intellettuale, luce suprema. Anche lo slesiano Witelo (1220/1230-post 1277) è autore di una Perspectiva, dove la dottrina dell'intuizione trova termini di confronto nella considerazione delle fonti luminose che servono a identificare contrapposizioni e convergenze. Sia in Alberto Magno (1206-1280) sia nel suo grande discepolo Tommaso, luce, claritas, splendor formae hanno un rilevante statuto teoretico, in cui si determina un ulteriore sviluppo della metafisica della luce. In Alberto Magno lo splendore oggettivo rispecchia quello ontologico poiché è l'anima intellettiva a dar forma alla sensitiva. Per Tommaso il vedere comporta l'apprendimento, che egli distingue dalla percezione (visa). E se alla bellezza è intrinseco il riuscire gradita, essa non può essere priva di integritas, di una unitaria compiutezza (perfectio), di un attivo potere di conoscenza. È tale organicità del bello estetico a definirne la natura, altra dal semplice piacere sensibile. La bellezza è dunque forma essenziale caratterizzata da una vis cognitiva, superiore alla forma sostanziale intesa come assunzione plasmatrice della materia in un corpo. Per questi aspetti Tommaso si affianca all'ilemorfismo del tanto da lui diverso e strettamente contemporaneo Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274). Quest'ultimo, nutrito di suggestioni aristoteliche e neoplatoniche, è anche capace di note psicologiche e di osservazioni empiriche che, in inerenza a temi estetici, gli studiosi ritengono esaltate dall'affermazione dell'impassibilità dell'arte e della sua velocità di diffusione o, in altri termini, dal suo potere di pervasione interiore dell'anima umana (Itinerarium mentis in Deum; Breviloquium; De reductione artium ad theologiam; Commentarii in quattuor libros Sententiarum). D'altra parte i motivi psicologici e il fondamentale misticismo, vivaci sin dal sec. 12° nel pensiero dei Vittorini, erano stati presenti e potenti nello spiritualismo di Bernardo di Chiaravalle (Sermones super Cantica Canticorum) con il diffuso motivo affermante la superiorità della bellezza interiore e il risalto conferito allo 'splendore', pur senza nessuna concessione alla mondanità artistica.L'opera di Dante (1265-1321; Convivio; De vulgari eloquentia; Commedia) esprime, in argomentazioni analitiche nei trattati e in vigorose sintesi cui ineriscono le immagini nel poema, i motivi più ricorrenti nell'e. della sua età. Nella Scolastica del tardo Duecento e del Trecento l'attenzione agli stati d'animo comincia a diventare un motivo tale da dar fisionomia ai problemi dell'arte, portando al centro, com'è naturale, una positiva valutazione dell'individualità. Giovanni Duns Scoto (1263/1266-1308) relativizza la nozione della bellezza corporea nelle opere d'arte e lo stesso concetto di bene morale, che è un motivo di base del suo pensiero, mantenendone il rapporto con il bello: sono infatti necessari 'ornamenti' e proporzioni che rispondano alla recta ratio (Opus Oxoniense). Guglielmo di Ockham (1285 ca.-1347) conferma l'accostamento del bello al buono, ma la nota più incisiva e originale delle sue brevi considerazioni sull'arte consiste nell'analisi dell'immagine, che può essere non imitativa di una cosa realmente appresa, ma un processo di formazione libero da modelli. La mimesi comincia così a trasformarsi in uno sforzo di emulazione.Si è detto che parecchie trattazioni classificatorie delle arti sono inserite in quadri enciclopedici di vario respiro filosofico, oppure si presentano come dichiarazione di volontà della committenza. Oltre le personalità di cui si è fatto cenno (per es. Isidoro di Siviglia), alcune delle quali promotrici di atteggiamenti rigoristici che investono tanto l'architettura quanto le arti figurative (Bernardo di Chiaravalle, Pietro Abelardo, Bonaventura da Bagnoregio), possono citarsi in proposito progetti di cattedrali e altri edifici ecclesiastici più o meno addentrantisi in particolari, ispirati a criteri simbolistico-geometrici: per es. la forma della chiesa si rapporta alla crocifissione. La stessa figura umana è un centro di irradiazione simbolica, se ne traccino o no i possibili schemi geometrici come nave, come croce, come generale metafora antropomorfica, per Onorio Augustodunense, Suger de Saint-Denis (1081 ca.-1151), valorizzatore nel De consecratione ecclesiae S. Dionysii degli ornamenti e della luce come tramiti alla contemplazione del divino, e Sicardo (1160 ca.-1215) vescovo di Cremona (De ecclesiae significatione). Altri scritti sono invece puri 'ricettari', norme o guide ingegneresche, tecnico-artigianali per le costruzioni e per i procedimenti operativi della scultura e della pittura. Già all'inizio del sec. 13° il taccuino di disegni di Villard de Honnecourt, raccolta e descrizione di schizzi di architettura e disegni di fattezze e di volti umani, di corpi di animali, tende a rendersi autonomo da intenzioni estranee al momento fabbrile, conquistando così maggiore libertà ai contenuti stessi dell'opera. Più di un secolo dopo, il Libro dell'arte di Cennino Cennini si sarebbe allontanato ancor più dalle concezioni tipiche del Medioevo. Se nulla vi è di nuovo nell'affermare la derivazione della pittura dalla sapienza; ritenere che il sentimento abbia parte essenziale in quel che l'arte comunica significa però dare un volto nuovo, incoativamente 'umanistico', al rapporto con la tematica classica.La decadenza della Scolastica e l'emergenza di fini e motivi individualistici e di ideali formali che, pur non sopprimendolo, modificano il rapporto di imitazione verso l'arte classica e inaugurano una concezione non schematizzante dell'immagine, aprendosi maggiormente alla possibilità e legittimità dell'innovazione, segnano quella che di solito viene considerata la fine dell'età di mezzo.
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