Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’estetica novecentesca, nelle sue molteplici e spesso irriducibili configurazioni, ha privilegiato una riflessione sul significato epocale dell’arte e sulla diffusione del paradigma estetico nel mondo della vita, ovvero – in ambito analitico – il dibattito circa la definibilità dell’“estetico”, il suo statuto, le sue proprietà, ribadendone variamente l’autonomo valore normativo. A ciò si è di recente affiancata la problematica rinascita di un’“estetica della natura”, nell’intento di ricostruire la dimensione estetica dell’esperienza; mentre nel dialogo con le scienze umane l’estetica si è venuta sempre più costituendo come un peculiare osservatorio filosofico, in grado di integrare competenze diverse: la dimensione riflessiva del giudizio di gusto teorizzata da Kant si è così riproposta da più parti quale spazio aperto al confronto fra stili filosofici differenti.
L’eredità ottocentesca
Nelson Goodman
Sistemi simbolici e rappresentazione
Se un quadro debba essere o no una rappresentazione è un problema assai meno cruciale di quanto potrebbe sembrare dalle aspre battaglie che continuano a dividere artisti, critici e divulgatori. Nondimeno, in qualsiasi analisi filosofica dei modi in cui i simboli funzionano all’interno e al di fuori dell’arte, è necessario uno studio preliminare sulla natura della rappresentazione. Il fatto che la rappresentazione sia frequente in alcune arti, come la pittura, e insolita in altre, come la musica, è fonte di gravi difficoltà per un’estetica unificata; e, quando non siano chiari quali rapporti di affinità e di distinzione intercorrano fra la rappresentazione pittorica, in quanto modo di significazione, e la descrizione verbale da una parte, e, poniamo, l’espressione facciale dall’altra, qualsiasi teoria generale dei simboli è impossibile. Il modo più ingenuo di concepire la rappresentazione potrebbe forse essere formulato così: “A rappresenta B se e solo se A somiglia apprezzabilmente a B”, ovvero “A rappresenta B nella misura in cui A somiglia a B”. Tracce di questa concezione, variamente modificata e corretta, restano in gran parte della letteratura sulla rappresentazione. Sarebbe tuttavia difficile concentrare una maggior quantità d’errore in una formula così breve.
Alcune inconseguenze sono abbastanza ovvie. Un oggetto somiglia a se stesso al massimo grado, ma raramente rappresenta se stesso; la somiglianza, diversamente dalla rappresentazione, è riflessiva. [...] La verità è che un quadro, per rappresentare un oggetto, deve essere un simbolo di esso, “stare per” esso, riferirsi ad esso; e che nessun grado di somiglianza è sufficiente per instaurare la relazione di riferimento richiesta. Né la somiglianza è necessaria per il riferimento; pressoché ogni cosa può stare per pressoché ogni altra.
N. Goodman, I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1998
Benedetto Croce
Il bello come espressione riuscita
Epperò ci è parso conveniente di scansare finora studiosamente l’uso della parola “bello” a designare l’espressione nel suo valore positivo. Ma, dopo tutte le spiegazioni che abbiamo fornito, essendo ormai dissipato ogni pericolo di fraintendimenti, e non potendosi, d’altro cento, sconoscere che la tendenza prevalente così nel linguaggio comune come in quello filosofico è di restringere il significato del vocabolo “bello” per l’appunto al valore estetico; ci sembra lecito e opportuno definire la bellezza espressione riuscita, o meglio, espressione senz’altro, perché l’espressione, quando non è riuscita, non è espressione. Conseguentemente, il brutto è l’espressione sbagliata.
B. Croce, Breviario di estetica, Bari - Roma, Laterza, 1912
La morte di Nietzsche suggella per così dire simbolicamente la stagione dell’estetica ottocentesca; anche perché, se il metodo genealogico e il positivismo del Nietzsche maturo (che è comunque insieme il poeta dello Zarathustra) rivelano che dietro la maschera delle cose non si cela un segreto essenziale, ma la loro desolante mancanza di essenza, a ragione Heidegger ha potuto scorgere nella gratuità dell’arte il modello anche dei frammenti della tarda Volontà di potenza (1901).
Nella filosofia dell’arte del primo Novecento le eredità del XIX secolo sono comunque numerose. Al tentativo d’indagare per via sperimentale il piacere estetico – idea altrimenti ripresa nell’ Estetica (1954) di Max Bense – risale l’estetica dell’empatia di Lipps e Worringer, mentre l’analisi dei rapporti formali dell’opera trova prosecutori nel “purovisibilismo” e nella cosiddetta “psicologia della forma”, per poi ritornare in Hildebrand, Wölfflin, Riegl e segnare ancora il dibattito sulla “scienza dell’arte”, che Dessoir e Utitz distinguono dall’estetica (intesa come riflessione sulla soggettività del bello) in quanto studio del fatto artistico nelle sue diverse componenti (tecnica, sociale ecc.).
Quanto alla psicanalisi, già l’Interpretazione dei sogni (1899) di Freud contiene un modello per la decodificazione dei fenomeni artistici: l’analogia tra “lavoro” del sogno e “lavoro” dell’arte si mostra nell’interpretazione, intesa come riduzione delle costruzioni atte a mascherare il desiderio. Ma l’eredità forse più interessante dell’estetica freudiana – Il poeta e la fantasia (1907), Il perturbante (1919) – deriva dal riconoscimento delle pulsioni distruttive: per Melanie Klein e la sua scuola, la bellezza artistica è allora da intendersi come risultato di processi di “riparazione”. Contro il riduzionismo di Freud, Carl Gustav Jung ravvisa invece nell’opera d’arte un punto di contatto tra i differenti ritmi temporali della sfera cosciente e dell’inconscio collettivo, sottolineandone l’inesauribilità simbolica.
In Italia, il XX secolo si apre con l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) di Benedetto Croce, secondo cui l’arte non è hegelianamente “superata” dalla filosofia, ma è una delle quattro forme coessenziali dello spirito, distinta dalla logica in quanto pura rappresentazione intuitiva dell’individuale, indipendente dal concetto. Poiché si costituisce nell’atto di esprimersi, l’intuizione è insieme espressione: non si dà vera intuizione che non sia anche artistica, né opera d’arte che non sia intuizione ed espressione, mentre il bello si dirà allora “espressione riuscita”.
Croce sarebbe tornato a più riprese sulle tematiche estetiche, intendendo l’arte vieppiù come intuizione lirica o pura (La poesia, 1936). Per contro, la Filosofia dell’arte (1931) di Giovanni Gentile fonda sulla nozione di sentimento la propria audace tesi dell’inattualità dell’arte. Come condizione del pensiero e dell’esperienza in generale, essa è onnipresente, ma i concreti prodotti artistici non sono mai esclusivamente arte. Allo stato puro l’arte non c’è: per attuarsi deve entrare nella dialettica concreta dello spirito, perdendo la sua purezza. Dunque l’arte non muore storicamente per far posto alla filosofia, ma sono le singole opere a trapassare di continuo nel pensiero, perché viva il soggetto come spirito assoluto.
Estetica, pensiero della vita e storia
Contemporaneamente, in vari contesti europei, si manifesta il nesso fra estetica, pensiero della vita e storia. In Francia, l’idea di Henri Bergson che l’arte sia prodotto dello “slancio vitale” influenzerà profondamente l’arte e la letteratura del tempo (simbolismo, surrealismo). In Spagna risalgono a questi anni la teoria del tragico di Miguel de Unamuno e la “ragione vitale” di Ortega y Gasset. In Germania, dopo la stagione dello storicismo (segnata dalla nozione diltheyana di “esperienza vissuta”), Simmel dedica all’estetica numerosi saggi, e delinea una teoria della decadenza e del tragico nel contesto della più generale opposizione fra forme e vita. Anche nel giovane György Lukács – L’anima e le forme (1911) – le forme costituiscono strutture di senso nelle quali l’uomo cerca di trasformare il caos del flusso vitale in cosmo, in un processo tuttavia destinato al fallimento. L’Estetica matura lukácsiana (1963) sta invece sotto il segno del marxismo: qui il rispecchiamento designa il momento mimetico essenziale alla produzione artistica, secondo un realismo critico ove la mimesi non ha solo carattere riproduttivo, ma implica la partiticità dell’artista. Se Lukács interpreta l’irrazionalismo filosofico e le avanguardie come fenomeni di decadenza, espressione del capitalismo imperialista, lo Spirito dell’utopia (1918) di Ernst Bloch – che dopo le guerre mondiali si avvicina al materialismo dialettico – rappresenta invece lo sforzo di avvicinarli al marxismo. Anche nel pensiero di Walter Benjamin marxismo e messianismo ebraico si mescolano ad altre componenti. L’origine del dramma barocco tedesco (1928) studia un genere letterario in cui l’ allegoria esprime per così dire l’arbitrarietà del senso attribuito alle cose da parte di chi, come l’individuo moderno, cerchi di ricomporre una totalità. Il tentativo di spiegare un’esperienza estetica sempre più lontana dal culto, sullo sfondo di rinnovati rapporti fra produzione e fruizione, avrebbe poi indotto Benjamin a verificare la portata (inquietante ma potenzialmente emancipativa) della “perdita dell’aura” dell’opera, quando essa diventa tecnicamente riproducibile, e si affermano generi artistici nuovi come la fotografia e il cinema (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936).
L’estetica è al centro della speculazione filosofica di Theodor Adorno (1903-1969), che se riconosce il merito storico della dialettica hegeliana, intende tuttavia correggerne l’andamento positivo, sfociante nella conciliazione, e nell’assimilazione dell’eterogeneo e del negativo. Di qui la natura antisistematica del programma di Adorno, e anche la peculiarità stilistica della sua scrittura (paratassi). L’arte, che in sé è “promessa di felicità”, rischia di trasformarsi in processo meramente consolatorio: nella “cultura affermativa”, le modalità di comunicazione della società capitalistica e la massificazione ottundono infatti la coscienza critica. Nella Dialettica dell’illuminismo (1947), Adorno e Horkheimer rilevano che l’industria culturale non è che un gigantesco apparato in grado di operare, sotto una parvenza tollerante, una subdola manipolazione delle coscienze, humus del totalitarismo politico. Solo la grande arte non si limita a rispecchiare processi sociali: la sua forma da una parte ne è espressione, ma dall’altra conserva una possibilità di dar voce al negativo, gettando uno sguardo controluce sul mondo (Teoria estetica, 1970). Il valore dell’arte non consiste così nella sua capacità di esibire contenuti di impegno, quanto nel permettere a questi di agire in modo innovativo sulla stessa forma artistica. Fra i pensatori della Scuola di Francoforte, anche Marcuse ha indagato il ruolo dell’arte nella società del capitalismo avanzato, ritrovando nella dimensione estetica il luogo per un’esperienza di autentica libertà, sebbene la società “unidimensionale” della ragione e della tecnologia tenda a inglobare ogni ideale critico nel sistema e nel mercato.
Dopo Gramsci, in Italia, un progetto di estetica ispirata al materialismo storico è stato elaborato da Galvano Della Volpe – Critica del gusto (1960) – sulla base dell’analisi semiotica: il marxismo è scientifico nella misura in cui sia in grado di liberarsi dalle prospettive mitiche e romanticheggianti proprie dello storicismo.
L’estetica fenomenologica
Secondo Edmund Husserl (1859-1938), padre della fenomenologia, l’esteticità non è proprietà delle cose, ma prodotto di atti del soggetto che attribuiscono significato alle modalità della loro apparizione: l’opera d’arte è in primo luogo una cosa sensibile-materiale, ma insieme un oggetto costituito da atti intenzionali che ne fanno emergere il valore estetico (né oggettivo, né astrattamente soggettivo). Le indagini di estetica fenomenologica tedesca dei primi decenni del Novecento si sono quindi rivolte all’oggetto e alla fruizione estetici (in autori come Konrad, Kaufmann, Becker, Geiger, Hartmann; mentre il polacco Ingarden ha posto il problema dell’opera letteraria al centro di una fenomenologia di tipo ontologico-realistico, che la rivela come entità complessa, “polifonica” e stratificata). Anche per molti fenomenologi francesi (tra cui Merleau-Ponty) l’arte è uno dei luoghi principali dell’originaria esperienza del mondo. Michel Dufrenne ha per esempio elaborato un’estetica dello spettatore, volta a comprendere la percezione estetica piuttosto che la produzione artistica (lo stesso artista è “spettatore della propria opera via via che la crea”), per approfondire poi le implicazioni ontologiche dell’indagine fenomenologica e gli aspetti sociologici dell’arte (Fenomenologia dell’esperienza estetica, 1953).
In Italia la fenomenologia ha esercitato, nel secondo dopoguerra, una funzione polemica contro l’idealismo. Antonio Banfi ha integrato il metodo trascendentale con quello fenomenologico, individuando la sfera estetica non a partire dal problema dell’essenza dell’arte, ma in base all’idea di esteticità che si configura attraverso l’incontro di io e mondo, mentre l’ultima fase della sua riflessione è segnata dall’adesione al marxismo, e dall’attenzione ai processi legati alla funzione sociale dell’arte. Dino Formaggio ha riflettuto sulla contrapposizione fra esteticità e artisticità, in rapporto alla moderna storia dell’arte. L’arte che hegelianamente muore è quella ancorata a un’astratta concezione del bello; abbandonata la quale, l’artisticità rimane come esito felice di una prassi tecnica. Infine Luciano Anceschi ha indagato la relazione di Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), e proposto una Nuova Fenomenologia Critica di orientamento pragmatico: nelle poetiche e nel pensiero estetico si tende a isolare il fatto estetico, ma anche a fondare l’arte nelle sue relazioni con altre forme di cultura.
L’esperienza estetica
In Martin Heidegger, l’interesse per il fenomeno artistico cresce dopo la “svolta” degli anni Trenta (L’origine dell’opera d’arte; Hölderlin e l’essenza della poesia, 1936). Si tratta di una concezione inaugurale dell’opera, intesa come luogo in cui “accade” la verità dell’essere, evento in cui l’apertura di un mondo rende possibile l’esperienza stessa. In esso entrano in conflitto due elementi: il mondo e la Terra, ovvero l’orizzonte culturale, storico (nonché linguistico e assiologico) aperto dall’opera, e quella riserva di fisicità naturale (indisponibile a ogni esplicazione definitiva) che dell’opera costituisce il fondo oscuro e la condizione di possibilità. Il congedo dal linguaggio della metafisica e la consapevolezza del carattere istitutivo dell’arte spiegano anche l’interesse di Heidegger per il linguaggio della poesia (in primo luogo Hölderlin e Rilke). Solo la poesia può suggerire al pensiero alcunché sull’essenza del linguaggio, mentre ogni analisi linguistica è per sua natura già nel linguaggio, e richiede così una circolarità ermeneutica (In cammino verso il linguaggio, 1959).
Anche per Verità e metodo (1960) di Hans Gadamer , “l’essere che può venir compreso è il linguaggio”, e il comprendere è la dimensione fondamentale dell’esistenza umana. L’opera si apre con una “critica della coscienza estetica” moderna. La sacralizzazione dell’arte cui si assiste dal XIX secolo risale alla separazione kantiana dell’ambito estetico da quello teoretico e da quello pratico. Dalla perdita del contenuto ontologico dell’arte procede quella “differenziazione estetica” che sfocia nelle teorie romantiche dell’artista e del genio, e infine nella separazione dell’opera dal suo contesto originario. Gadamer invece intende l’incontro con l’opera come evento storico in cui si dà la verità, e intende l’“esperienza estetica” come quella “trasmutazione in forma” che costituisce un “accrescimento ontologico” di tutti gli elementi in gioco: fruitori, creatore, l’opera stessa.
Dalla fine degli anni Sessanta, la Scuola di Costanza (Jauß, Iser) ha elaborato invece un’“estetica della ricezione”: non si tratta di intendere l’opera (il testo letterario) come se essa contenesse un messaggio immutabile, che il lettore debba estrapolare, bensì di riconoscere che il lettore è protagonista di un processo attivo e poietico. L’esperienza estetica, per Jauß, deve così rifarsi alla nozione intersoggettiva di “orizzonte”, inteso come struttura di attesa e sistema di riferimenti culturali per cui un fruitore entra in contatto con un testo. Ciò mette in questione i ruoli tradizionalmente definiti dal triangolo autore-opera-pubblico, secondo le esigenze di molta produzione artistica del Novecento.
Arte e interpretazione
Data l’essenziale appartenenza alla verità di ogni atto ermeneutico, l’arte è secondo Luigi Pareyson – Estetica. Teoria della formatività (1954) – luogo dell’interpretazione per eccellenza della verità. La sua analisi dell’esperienza artistica si colloca in una teoria generale del fare dell’uomo, quando esso si caratterizza in termini di “formatività pura, specifica e intenzionale”; l’arte è quel fare che “mentre fa, inventa il modo di fare”. Contro l’idea crociana di un risolversi dell’opera nell’intuizione, per Pareyson la lotta con la materia da formare è inoltre parte integrante del processo formativo e insieme dell’evoluzione dello stile dell’artista. La filosofia pareysoniana è poi sfociata da ultimo in un’ermeneutica del mito e in un “pensiero tragico” (Ontologia della libertà, 1995). Fra gli allievi di Pareyson a Torino, Umberto Eco – Opera aperta (1962) – elabora una teoria dell’interpretazione multipla dell’opera d’arte, poi limitata di fronte agli eccessi decostruzionistici in I limiti dell’interpretazione (1990). L’estetica di Gianni Vattimo – Poesia e ontologia (1967) – rivendica invece la portata ontologica dell’arte come porsi in opera della verità (Heidegger); una verità tuttavia che, nel farsi evento, si dona pienamente nel senso della differenza, ossia fonda al modo di una storicità debole e condizionata. L’ermeneutica di Vattimo si è così delineata in termini postmoderni e postmetafisici.
Con Paul Ricoeur , ne Il conflitto delle interpretazioni (1969), il rapporto fra ermeneutica e fenomenologia conduce all’analisi del linguaggio simbolico; nella Metafora viva (1975) si indaga la produzione di nuove dimensioni di senso attraverso l’immaginazione produttiva; mentre Tempo e racconto (1985) sviluppa il rapporto fra temporalità e discorso alla luce della nozione di narrazione, ossia mimesi, capacità di dar forma al mondo e all’agire. L’intento di equiparare a “grandi racconti” la credenza nelle visioni onnicomprensive e progressive proprie della modernità occidentale ha caratterizzato la proposta di Jean-François Lyotard, fra i principali teorici del postmoderno, che dall’estetica ricava spunti per sviluppare la pluralità dei discorsi, in chiave di una razionalità aliena da pretese universalistiche. Anche nella più recente produzione dell’americano Richard Rorty si ricorre infine ampiamente all’idea di narrazione del discorso filosofico (che Rorty non esita a equiparare a un genere letterario).
Opera d’arte, ambiente e pubblico: la teoria estetica negli Stati Uniti
Negli Stati Uniti, sviluppando alcuni aspetti dell’estetica di George Santayana , John Dewey (1859-1952) ha sostenuto la continuità tra l’arte e le forme normali di esperienza (Arte come esperienza, 1934). L’attività dell’uomo prolunga quella naturale; l’arte e in generale l’esperienza estetica favoriscono l’integrazione armonica fra l’uomo e l’ambiente naturale e sociale. Insomma: l’arte è “esperienza riuscita”, ove il contingente si armonizza con il generale, la libertà con la necessità, lo strumento con il fine. L’esperienza estetica non si riduce però alla contemplazione delle grandi opere: ogni attività, in quanto produce un’interazione riuscita tra l’uomo e l’ambiente od oggetti capaci di suscitare un piacere immediato, è estetica. A differenza di alcuni francofortesi, Dewey approva così sia la diffusione globale della produzione artistica con le moderne tecniche di riproduzione, sia la popolarizzazione dell’arte.
Nell’ambito della filosofia analitica, hanno guardato a Wittgenstein sia quanti, influenzati dal neopositivismo hanno sostenuto posizioni eliminativistiche (escludendo l’estetica dalle questioni filosofiche: Richards, Ayer), sia quanti hanno invece tematizzato la definizione dell’esperienza estetica, delle sue proprietà e categorie. Allontanatosi dal neopositivismo, Nelson Goodman ha per esempio difeso l’esistenza di sistemi simbolici con cui descrivere non la verità assoluta, ma semplicemente diversi aspetti del mondo. Sulla scorta di alcuni teorici della “psicologia della forma” (Gombrich, Arnheim), per Goodman anche la percezione va intesa come un’attività, perché l’occhio non è mai “innocente”: il modo con cui vediamo, ma anche ciò che vediamo, varia in rapporto all’esperienza, agli interessi e alle disposizioni. Esaminando i problemi tradizionali dell’arte attraverso il filo conduttore di una teoria dei simboli, Goodman perviene quindi a un approccio funzionalista (I linguaggi dell’arte, 1968; Vedere e costruire il mondo, 1978), e sostituisce alla domanda sull’essenza dell’arte l’interrogazione sulla sua funzione simbolica in un’epoca e in una società definite. Anche Richard Wollheim – L’arte e i suoi oggetti (1968) – ha argomentato contro l’identificazione delle opere d’arte con oggetti materiali e contro la “teoria ideale dell’arte”, sostenuta per esempio dal crociano inglese Robin George Collingwood – I principi dell’arte (1938) – secondo cui l’opera d’arte è qualcosa di privato, perché il suo statuto ontologico è quello dell’idea o dell’immagine nella mente dell’artista. Diversamente da Goodman, per Wollheim “arte” non è però un concetto funzionale, ma una speciale forma di vita che produce nuove connessioni di elementi (stati mentali, oggetti) preesistenti al lavoro dell’artista.
Infine, secondo la “teoria istituzionale dell’arte” dell’americano Arthur Danto la differenza fra un’opera d’arte e un qualsiasi altro oggetto non è estetica in senso etimologico (come sostiene invece per esempio la teoria presentazionale di Susanne Langer (1895-1985), rifacendosi peraltro alla teoria del simbolo elaborata da Cassirer) ma filosofica: infatti fra un prodotto commerciale e lo stesso prodotto esibito in una galleria d’arte e trasformato in opera non c’è differenza di tipo percettivo. L’interpretazione di un prodotto come opera d’arte implica piuttosto l’esplicito riferimento al pubblico, alla rete delle pratiche sociali del cosiddetto “mondo dell’arte” (esposizioni, mostre, conferenze, mercato, ma anche istituzioni, storia dell’arte). Nel volume La destituzione filosofica dell’arte (1986) Danto afferma altresì che l’arte va liberata dalla filosofia, e quest’ultima dalla schiavitù del concetto. La recente storia dell’arte non sarebbe di fatto altro che il tentativo dell’arte stessa di riaffermare la propria identità cessando di essere il medium dell’autocomprensione della filosofia.
Il rapporto con la critica letteraria
La linguistica di Ferdinand de Saussure (il Corso era uscito nel 1913), ripresa negli anni Trenta dal Circolo di Praga, ha influenzato in profondità il pensiero estetico del Novecento. Individuati sei elementi-base della comunicazione (mittente, ricevente, codice, messaggio, canale, contesto), e sei funzioni che possono combinarsi in vari modi nel messaggio, Jakobson ha delegato per esempio alla funzione poetica il compito di manifestare l’autoriflessività del messaggio: quando il contenuto sembra rivestire meno importanza della forma, l’attenzione si focalizza sulle caratteristiche estetiche di quest’ultima ed emergono effetti di polisemia e ambiguità di senso. Il metodo dell’“antropologia strutturale” di Claude Lévi-Strauss ha ispirato per altro verso la critica letteraria strutturalista. Nella sua prospettiva, le narrazioni mitologiche danno corpo a un sistema simbolico che organizza le opposizioni su cui si fonda una data società. Il mito cioè tende a rispecchiare l’ordine che una società ricerca nell’universo, mentre il meccanismo di ripetizione rituale diviene produttivo di “differenza”; appare così evidente l’importanza di queste tesi per autori come Gilles Deleuze e Jacques Derrida.
Per quest’ultimo (La scrittura e la differenza, 1967; Della grammatologia, 1967) la decostruzione non mira tanto a stabilire finalmente il “che cosa” di un testo, quanto a esibire il “come” del suo funzionamento. Essa ha dunque i caratteri di una pratica, che riconosce la precedenza ontologica della scrittura e della traccia, unica condizione a priori del senso e della sua comprensione, come tale collocata nel segno della differenza ontologica. Espressioni derridiane quali ““non c’è un vero senso di un testo””, accompagnate a un’opera di consumazione e di lavoro sul linguaggio talora sperimentale e provocatoria, hanno suscitato numerose critiche, ma anche consensi, negli anni Settanta, specie fra i critici letterari di Yale – Paul de Man e Harold Bloom – in vista di un progressivo assottigliarsi della differenza fra critica e pratica letteraria.
Il dibattito di fine millennio
Se l’estetica di Hans Urs von Balthasar – Gloria (1961-1965) – che pone la teologia cristiana sotto il segno del bello, ha costituito l’ultimo grandioso tentativo di aggirare la filosofia dell’arte per riconnettersi alla tradizione premoderna, in generale è però difficile non riconoscere che l’odierna modificazione epocale del gusto mette in questione ogni idea tradizionale di estetica. In questo senso, un tema nuovamente impostosi nel dibattito, in primo luogo negli USA e in Germania, è stato a partire dalla fine del XX secolo quello della cosiddetta estetica ambientale, al cui centro si pone nuovamente lo statuto (da secoli bandito) del bello naturale. Negli ultimi anni del XX secolo l’estetica europea ha così avviato una riflessione globale sulla nuova percezione della realtà, sui fenomeni di massa legati allo sviluppo tecnologico e sulla diffusione del paradigma estetico nel mondo della vita (Ferry, Schaeffer), mentre Marquard, muovendo dall’affermazione che “l’arte estetica” è nata quale “compensazione” del moderno disincanto, ha messo in questione l’estetismo diffuso, al cospetto del quale il pensiero filosofico sembra oggi effettivamente riconoscere il proprio debito nei confronti dell’arte (Bubner, Welsch, oltre al già citato Danto).
Su questa strada, non pare casuale che alcuni pensatori abbiano inoltre congiunto l’indagine estetica aesteticaa quella storico-scientifica; mentre anche nel dialogo con le scienze umane (etnologia, antropologia) e i cosiddetti Cultural Studies, infine, l’estetica si va sempre più costituendo come osservatorio filosofico capace di integrare competenze diverse e ripensare limiti culturali e geopolitici tradizionalmente distinti, e come spazio di riflessione e confronto fra stili di pensiero e prospettive differenti.