Estetica
(XIV, p. 402; App. IV, i, p. 725)
La ricerca filosofica in ambito estetico presenta, nella seconda metà del Novecento, connotati vari e diversificati. Fenomenologia, ermeneutica e filosofia analitica ne costituiscono i principali orientamenti teoretici, influenzando la produzione dei singoli autori, a seconda delle specifiche tradizioni filosofico-culturali che prevalgono nelle rispettive aree geografiche. La presente rassegna cercherà di delineare gli orientamenti prevalenti e i contributi di maggior rilievo nella riflessione estetica europea e statunitense, con particolare attenzione per quella tedesca e italiana, senz'altro le più ricche per approfondimenti e articolazioni.
L'estetica in Germania
Fino agli anni Settanta il dibattito filosofico tedesco è stato dominato dal confronto tra ermeneutica e critica dell'ideologia anche relativamente all'ambito estetico. Dalle posizioni risalenti a M. Heidegger, Th.W. Adorno e W. Benjamin sono derivate alcune prospettive in cui le questioni estetiche hanno assunto un ruolo di assoluto rilievo. H.G. Gadamer, per es., ha scorto nell'esperienza estetica l'ambito primario in cui si rende accessibile un attingimento della verità ontologicamente connotata in chiave ermeneutica; l'opera d'arte attesterebbe pertanto la possibilità di un'esperienza della verità più originaria rispetto a quella di matrice scientifico-tecnica, in quanto atta a salvaguardare la dialettica tra 'svelamento' e 'occultamento' che contrassegna già per Heidegger la verità (a-letheia), di cui, invece, la correttezza metodica ricercata dalle scienze sarebbe solo una particolare e unilaterale derivazione. Analogamente, sebbene con marcati tratti di originalità dovuti all'interesse per la cultura dell'Umanesimo italiano e per la retorica, anche E. Grassi (1902-1991) ha insistito sulla dimensione ontologico-veritativa dell'esperienza artistica; l'analisi di tipo ermeneutico dovrebbe quindi al meglio corrispondere al momento ermeneutico del rapporto con la verità ontologica dell'accadimento dell'essere che costituisce il tratto specifico dell'esperienza dell'uomo. In netta contrapposizione con tale concezione ontologico-veritativa dell'esperienza estetica, sul versante della critica dell'ideologia e con riferimento tanto agli scritti di Adorno quanto alle riflessioni di Benjamin, si è affermata un'idea di arte come possibile momento di critica rispetto all'ideologia prevalente nella società contemporanea, e dunque come risorsa estrema di un pensiero 'critico' volto a mettere in luce l'autentica struttura che sostiene la cultura dominante.
Oltre che in questo dibattito, di cui è denominatore comune la tensione verso la definizione dei momenti essenziali che costituiscono strutturalmente l'esperienza estetica come rivelazione di una verità originaria (ontologica o socio-culturale), il pensiero estetico tedesco degli ultimi decenni ha referenti importanti in un arco di posizioni in cui confluiscono motivi che risalgono anche alla fenomenologia e, in maniera meno palese, alla filosofia delle forme simboliche di E. Cassirer e alla "metaforologia" di H. Blumenberg (1920-1996). Il gruppo che, dalla fine degli anni Sessanta, ha animato gli incontri della rivista Poetik und Hermeneutik ha utilizzato tali motivi cercando di non trascurarne le conseguenze sul piano del concreto esercizio della critica. Il riferimento all'ermeneutica si è così caratterizzato per una minore enfasi ontologico-veritativa, sulla scorta anche della lezione di P. Szondi (1929-1971), e la fenomenologia è stata intesa prevalentemente come atteggiamento metodologico in grado di rispettare quanto più possibile le relazioni e le strutture dell'opera d'arte e, più in generale, dell'esperienza estetica. Tale tendenza ha trovato un particolare e proficuo luogo di elaborazione nella 'estetica della ricezione', di cui H.R. Jauss (1921-1997) e W. Iser (n. 1926) sono gli esponenti di maggior rilievo. Jauss ha sviluppato, anche teoricamente, gli elementi più spiccatamente ermeneutici di tale prospettiva, tentando di precisare gli aspetti dell'esperienza estetica connessi all'ambito della comunicazione e della produzione del senso, oltre che della ricezione e della sensibilità. D'altro canto, Iser ha particolarmente insistito sui momenti che determinano la struttura 'ideale' dell'esperienza estetica, svolgendo temi e problemi in parte già evidenziati dal fenomenologo R.W. Ingarden (1893-1970). Seguendo anzitutto il filo conduttore dell'atto della lettura, egli ha delineato un originale orizzonte antropologico come punto di approdo possibile per l'e. della ricezione.
Una più esplicita presa di distanza dalle posizioni che risalgono direttamente a Heidegger e Adorno, sulla scorta spesso di un confronto con gli esponenti dell'e. della ricezione reso possibile dagli incontri di Poetik und Hermeneutik, si può invece riscontrare in altri autori. R. Bubner (n. 1941), prendendo spunto dalla polemica sia verso la critica dell'ideologia sia verso la concezione estetica derivata da Heidegger e Gadamer, propone un'analisi dell'esperienza estetica tesa a salvaguardarne l'irriducibilità a exemplum dell'esperienza della verità teoreticamente definita. La qualificazione essenziale dell'estetico consiste, a suo parere, nello statuto di mera apparenza, fatto che indurrebbe a superare la nozione stessa di opera d'arte (in quanto rinvio a una permanenza che trascende la mera apparenza) al fine di enucleare una concezione dell'estetico capace di adeguarsi anche alle più recenti performances artistiche. Mutuando da J. Ritter (1903-1974) la nozione di "compensazione", e utilizzando spunti che risalgono alle analisi della modernità e del mito svolte da Blumenberg, O. Marquard (n. 1928) ha elaborato una posizione per certi aspetti vicina a quella di Bubner. Una volta che l'esperienza estetica venga colta nella sua caratteristica 'apparenza', risulta possibile estendere l'estetico anche al di là del territorio delimitato dalle arti. Come Bubner, Marquard sottolinea perciò la tendenziale pervasività dell'estetico nel 'mondo della vita' e la sua specifica modalità d'esperienza in seno alla condizione moderna e contemporanea dell'uomo. Ma se in Bubner tale estensione si avvale semplicemente del rilievo di un irriducibile e crescente momento di apparenza nell'esperienza dell'uomo moderno nel passaggio alla postmodernità, in Marquard (che critica la nozione stessa di postmodernità) essa viene esaminata ponendo in contrasto l'ambito dell'esteticità col rischio crescente di 'anestetizzazione' dell'esperienza. Nell'arte, come in ogni momento di emersione dell'estetico, l'uomo moderno potrebbe dunque trovare una compensazione, una sorta di risarcimento, a fronte di quella perdita di univoche certezze di riscatto escatologico alla quale sembra approdare la modernità a causa dei suoi connotati originari. Alla luce delle affinità ricordate, non appare dunque accidentale l'esigenza riscontrabile in Bubner come in Marquard di cercare nella Critica del giudizio di Kant alcuni capisaldi utili per interpretare gli snodi principali del problema estetico. Questi temi (superamento delle contrapposizioni teoriche astratte; questione della 'estetizzazione del mondo della vita'; problema della modernità; recupero di alcuni aspetti della terza Critica di Kant) si trovano anche nella prospettiva del "pragmatismo simbolico" di F. Fellmann (n. 1939), in cui inoltre i riferimenti a Cassirer e a Blumenberg, oltre che alla fenomenologia e alla filosofia della vita, giocano un ruolo non marginale. Sebbene tale prospettiva non si presenti come e. in senso stretto, essa muove dal riscontro della diffusa presenza di elementi tradizionalmente etichettati come estetici nel processo di costituzione dell'esperienza umana in generale; significativo, al riguardo, il ricorso costante agli scritti estetici di W. Dilthey al fine di elaborare un'analisi strutturale del processo dell'esperienza imperniato sulla dimensione creativa e 'mediale' (costituita, cioè, per immagini) di atti solitamente ascritti a un'astratta dinamica concettuale, come, in primo luogo, l'attribuzione di significato e l'identità del Sé.
Tradizioni di pensiero assai differenti si incrociano così nell'analisi di temi come quelli dello stile, dell'immagine, della forma di vita e dell'esibizione (Darstellung), centrali per evidenziare i tratti peculiari della condizione attuale, postmoderna ovvero della tarda modernità. Proprio questo insieme di problemi ha costituito il contenuto tematico di alcuni simposi e convegni; i contributi che sono emersi tendono ad ampliare l'orizzonte in cui i diversi argomenti si collocano, nel tentativo di farne risaltare la portata teorica non disciplinare. Tale tendenza ha determinato lo spostamento progressivo del fuoco dell'analisi dall'evento artistico alla più generale esperienza estetica e, infine, alla esteticità dell'esperienza. E andranno anche ricordati sia i numerosi interventi che di recente hanno riguardato il concetto di 'stile', tra cui spiccano quelli di H.U. Gumbrecht (n. 1948) e di M. Frank (n. 1945), sia la riflessione relativa al problema dell'immagine particolarmente caro a G. Boehm (n. 1942). Analogo per la prospettiva di ricerca tesa a rilevare la portata extra-estetica di nozioni elaborate principalmente in sede di riflessione estetica è, poi, lo studio di alcuni problemi in chiave storico-antropologica svolto da autori riuniti nel Forschungszentrum für historische Anthropologie della Freie-Universität di Berlino; esemplare, in proposito, è la ricerca svolta da G. Gebauer (n. 1944) e C. Wulf (n. 1944) sulla nozione di mimesis, di cui si è evidenziata la peculiarità poietica e la funzionalità relativa all'ambito dei rapporti sociali e, in senso lato, culturali, prendendone in esame le relative occorrenze e le specifiche pronunzie nell'intero arco del pensiero occidentale (sempre nell'ottica di un suo recupero che giovi alla descrizione dell'esperienza della 'postmodernità'). Secondo un'impostazione prettamente antropologico-filosofica, G. Frey (n. 1915) ha proposto invece un'interpretazione dell'attività artistica come elemento necessario al completamento dell'essere umano in quanto tale, essendo le arti la manifestazione della capacità produttiva che caratterizza l'uomo nel suo complessivo rapporto col mondo.
Negli ultimi anni, pertanto, il fulcro del dibattito tedesco si è spostato dalle questioni inerenti all'arte, come luogo esemplare della verità, a quelle inerenti alla più generale problematica dell'esteticità e dell'estetizzazione in rapporto all'esperienza della postmodernità. Sempre più esplicitamente l'e. tedesca si è misurata con questi problemi, indagandone le implicazioni anche etiche e sociali (non a caso J. Früchtl, 1996, ha parlato in proposito di una sorta di "riabilitazione estetica dell'etica" come orizzonte problematico di questo dibattito) e oscillando, per quanto riguarda il rapporto tra l'estetico e il non-estetico, tra soluzioni estreme, dalla sostanziale assimilazione alla netta demarcazione. Tuttavia, comunque venga risolto il dilemma tra un'e. confinata nell'ambito delimitato dall'esperienza connessa all'evento artistico e un'e. tentata dalla prospettiva di proporsi come sapere fondamentale dell'esperienza, il recente dibattito tedesco sullo statuto dell'e. sembra unanimemente riconoscere, ormai, la necessità di esaminare l'estetico come momento di estrema evidenza dell'attuale pluralità delle forme dell'esperienza e della ragione, ponendosi consapevolmente dopo il tramonto di ogni ipotesi di univoca sistematicità della ricerca filosofica.
L'estetica in Italia
Una ricognizione delle principali tendenze estetiche in Italia non può non prendere l'avvio dai contributi di L. Pareyson (1918-1991). Centrale, nella prospettiva di Pareyson, è l'idea dell'arte come "operazione specifica dotata di un proprio campo indipendente ed autonomo", un'"operazione specifica" che si identifica con un'attività che Pareyson chiama formatività: formare significa fare, ma "un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare" (Estetica. Teoria della formatività, 1954, 1974³, pp. 18-24). Formare è cioè un fare che si può trovare solo facendo, cioè inventandolo; e non c'è operazione produttiva - del pensiero come della vita pratica - cui non presieda l'esercizio di tale formatività. L'arte consiste per Pareyson in una formatività speciale, segnata dai caratteri distintivi della specificità, della purezza e dell'intenzionalità.
Per specificità dell'operare artistico Pareyson intende un'accentuazione della formatività per cui ogni altro scopo appare subordinato all'atto formativo. Da ciò anche la purezza della formatività artistica: "L'operazione artistica è un processo d'invenzione e produzione esercitato [...] solo per se stesso: formare per formare, formare perseguendo unicamente la forma per se stessa: l'arte è pura formatività". L'intenzionalità, infine, "è un atto con cui tutta la vita dell'artista vien posta sotto il segno della formatività; [...] tutti gli infiniti aspetti dell'esperienza assumono una direzione formativa, perseguono un intento formativo, acquistano una capacità formativa: l'artista pensa, sente, vede, agisce, per forme", il che implica anche la determinazione di un suo preciso modo di formare: da ciò il sorgere del gusto e dello stile. L'e. come teoria della formatività trova il proprio fondamento in una prospettiva ermeneutica (del tutto indipendente da quella di Gadamer) secondo cui la conoscenza umana è essenzialmente interpretazione e nell'interpretazione è fondamentale il momento della formatività. In ogni caso, se non è certo possibile qui segnare lo sviluppo della prospettiva ermeneutica di Pareyson fino all'ontologia della libertà, va ricordato che è proprio questo concetto di interpretazione che giustifica il duplice aspetto, ricettivo e attivo, della formatività umana e che permette a Pareyson di istituire, nell'operare artistico, una duplice polarità: una risultante dalla forma, che costituisce l'oggetto di quell'operare, e un'altra dalla persona, che ne costituisce il soggetto.
Tra i maggiori autori influenzati dalle concezioni estetiche di Pareyson vanno ricordati U. Eco (n. 1932) e G. Vattimo (n. 1936). Se Eco (La definizione dell'arte, 1968) si sarebbe poi orientato in una direzione prevalentemente semiotica, a sviluppare la prospettiva ermeneutica pareysoniana è stato soprattutto Vattimo, che, riprendendo temi heideggeriani, ha da un lato considerato la differenza ontologica un concetto imprescindibile per una comprensione adeguata del carattere ermeneutico dell'opera d'arte, mentre dall'altro è pervenuto a considerare l'ermeneutica come l'autentica koiné del nostro tempo. In tale prospettiva si riconosce il carattere non fondativo della filosofia, in breve un "pensiero debole" che non solo considera la tradizione, è stato detto, come "un fitto gioco di interferenze", ma, soprattutto, sembra spingersi fino al progetto di un'e. "di ispirazione ermeneutico-nichilista" che dovrebbe affrontare con maggiore ampiezza e analiticità il problema dell'"impressione di incompiutezza che si prova nei confronti dell'estetica ermeneutica" e che "può esser fatta risalire [...] alla mancata assunzione di tutta la concreta storicità dell'esperienza della verità che si dà nell'arte" (G. Vattimo, Oltre l'interpretazione, 1994, p. 77).
Altri importanti referenti dell'e. italiana sono le ricerche di E. Paci (1912-1976) e D. Formaggio (n. 1914). Di Paci, allievo di A. Banfi, deve essere ricordata la prospettiva 'relazionistica' di Tempo e relazione (1954) e di Dall'esistenzialismo al relazionismo (1957), dove il concetto di forma diviene imprescindibile per ogni considerazione filosofica dell'arte e dell'operare artistico. La natura è per Paci - che in ciò segue Goethe - una continua metamorfosi di forme, sicché il principio di tutta la realtà diviene quello della relazionalità. In base a tale principio, le forme delle cose sono contemporaneamente dei rapporti di comunicazione.
Nella prospettiva di questa generale relazionalità del reale, l'espressione artistica viene a configurarsi come una totalità attraverso un mezzo particolare: in ciò consiste la 'specificità' dell'arte, che per Paci "costituisce il collegamento tra le forme", lo esprime ed esprimendolo crea nuove forme. Il 'significato' dell'arte, tuttavia (cfr. Qualche osservazione filosofica sulla critica e sulla poesia, in aut-aut, 1961, 61-62), non è riposto nella risposta alla domanda che cosa è l'arte?, se è vero che "il significato delle espressioni è un farsi e un trasformarsi della nostra vita nel farsi e nel trasformarsi della vita del mondo e della vita della storia". La poesia e l'arte finiscono così per apparire come il risultato di operazioni "di una vita che è di tutti gli uomini e che è, per tutti, costitutiva e contribuisce, in tutti, all'attuazione del senso della verità nella storia. Le operazioni poetiche sono compiute nello stesso mondo concreto, nella stessa Lebenswelt, nella quale sono compiute le operazioni scientifiche o giuridiche, nello stesso mondo nel quale l'uomo è soggetto a causalità materiali, nel quale mangia e lavora[...], nasce e muore". Il significato delle forme poetiche e artistiche sta per Paci "nella loro origine da un mondo nel quale io vivo sempre con tutto me stesso", sicché come l'uomo "non è solo l'essere della poesia anche se esiste una attività critica che studia le forme della poesia", così la poesia "ha un significato perché costituisce un mondo storico nel suo orientamento di verità" (pp. 15 e segg.).
Esponente anch'egli della cosiddetta scuola milanese, Formaggio, allievo di A. Baratono e di Banfi, afferma invece recisamente che tutta l'esperienza dell'arte contemporanea autorizza una così netta separazione dell'estetico dall'artistico da poter "avanzare l'ipotesi che non l'esteticità costituisca il principio fondamentale di organicità costruttiva dell'arte, e che perciò l'arte non sia solo attualità concreta dello spirito estetico, ma che essenzialmente consista in un'attività distinta dall'estetico, secondo una distinzione non solo di fatto, ma di principio"; sicché l'arte sembra fondare "il suo criterio sopra una idea di artisticità" in modo che la sua esperienza risulta "rilevabile in un ciclo autonomo come tecnica, la quale in se stessa può realizzare e compiere l'estetico come ogni altro valore". Insomma, per Formaggio "i moti stessi dell'arte e della riflessione culturale spingono a non più considerare l'arte come attualità concreta dello spirito estetico, ma come svincolata rispetto al mondo dell'estetica anche quanto al principio" sicché l''idea di artisticità' basta a "fondare l'intera sua legge di sviluppo" (Fenomenologia della tecnica artistica, 1953, pp. 217-18). E in che cosa consista questa idea di artisticità, Formaggio lo esprime chiaramente: essa va intesa come "legge minima di campo capace di unificare il molteplice divenire di tutta quanta l'esperienza artistica, quella attuale e quella possibile, senza paralizzarla o dogmatizzarla mai" e nel cui riconoscimento l'e. riconosce anche la propria possibilità di porsi in forma di scienza, se non addirittura di "scienza rigorosa" (Introduzione all'estetica come scienza filosofica, in Rivista di estetica, 1967, 2, p. 184).
L. Anceschi (1911-1995) portò da Milano a Bologna la lezione del suo maestro Banfi. La fenomenologia critica di Anceschi si origina propriamente dall'incontro di due direzioni di cultura: "una direzione di cultura poetica che chiedeva di essere chiarita storicamente e teoricamente sistemata, e cioè la tradizione più autorevole della poesia contemporanea in Europa[...], e una direzione di pensiero[...], la fenomenologia quale appariva nella prospettiva del razionalismo critico italiano che offrì, come forma di organizzazione speculativa e, insieme, di descrizione critica, i suoi accorgimenti metodologici[...]. Un certo modo di leggere Valéry s'incontrò con un certo modo di leggere (o correggere) Husserl" (Progetto di una sistematica dell'arte, 1962, pp. 16-17).
Non è possibile restituire qui la complessa trama della riflessione di Anceschi, quale si offre da Autonomia ed eteronomia dell'arte (1936) a Gli specchi della poesia (1989), né certi mutamenti di prospettiva di cui egli stesso ebbe a parlare. Per Anceschi, come per Banfi, la fenomenologia sembra offrire al sapere un principio di integrazione, giustificando e regolando l'apporto di sempre nuovi e più profondi elementi di esperienza; ancora, per entrambi, il 'trascendentale' consiste in un principio metodologico che "valga a dipanare il concreto intreccio e riconoscere la tensione e il movimento dell'esperienza" (A. Banfi, I problemi di un'estetica filosofica, 1961, p. 151). D'altronde, la ricerca di Anceschi muove direttamente da situazioni problematiche storicamente determinate, dal piano delle poetiche, sviluppandosi in una continua tensione storico-teorica, sicché lo stesso criterio di 'integrazione fenomenologica' prende senso e rilievo al livello di un continuo e concreto processo di recupero e di verifica di significati. La stessa legge 'autonomia-eteronomia dell'arte' non è attinta al termine di un puro processo teoretico di riflessione, ma individuata attraverso un concreto processo di recupero e di 'risignificazione' dei complessi meccanismi della poesia. Insomma, in Autonomia ed eteronomia dell'arte sembra già profilarsi una nozione di fenomenologia come metodologia; e se la legge autonomia-eteronomia appare valere tanto per la riflessione estetica quanto per l'attualità concreta della vita dell'arte, essa, con ciò stesso, sembra dichiarare il suo carattere 'trascendentale', la sua struttura dialettica, il suo rilievo metodologico. Si chiarisce qui, anche, un atteggiamento di metodo fenomenologico che sembra mettere in crisi definitivamente la nozione del "sistema che significa le strutture" e dà fondamento all'altra del "sistema che si significa attraverso le strutture" (Progetto di una sistematica dell'arte, 1962, p. 18) dell'esperienza estetica e artistica; sicché i vari momenti della riflessione pragmatica (poetiche, e tutte quelle strutture relative al fare artistico che si configurano come "orizzonte di scelta") assumono di nuovo significato e valore per un "orizzonte di comprensione" nella cui disposizione teorica (metodologica) tutti gli "orizzonti di scelta" acquistano, attraverso un preliminare atto di epoché sui loro significati parziali e dogmatici, nuovo e più vero senso in un'organicità di contesto. A ben vedere, l'idea di una fenomenologia come metodologia dell'esperienza estetica e artistica è davvero costitutiva di tutta la prospettiva di ricerca di Anceschi, come struttura di ogni suo particolare momento e del suo intero processo. E ciò nella misura nella quale, appunto, ne motiva la duplice tensione dialettica storico-critica e teorica, sicché sempre il rilievo teorico cerca conferma in 'assaggi' della realtà storica e operativa, tendendo a verificarsi a contatto con le concrete strutture del mondo dell'arte, e il rilievo storico-critico tende a garantirsi "in un contesto teorico interpretativo, comprensivo appunto, e tale da assicurare[...] tutto il movimento delle relazioni". Ma se tra i due campi vi sono relazioni, connessioni e reciproca verifica, ciò non significa che chi si mette dall'angolo della ricerca storica non operi e non debba operare diversamente da chi si mette dall'angolo della ricerca e della riflessione teoretica; e ciò proprio perché "una teoria fenomenologica comprende una fenomenologia della storia, (ma) la fenomenologia della storia non esaurisce la sistematicità fenomenologica" (Le istituzioni della poesia, 1968, p. ix). Ne risulta pertanto che l'adeguatezza teorica di una prospettiva consiste essenzialmente nella sua struttura metodologica (dove è chiara l'influenza dello Husserl della Krisis). Sicché, se per un verso la struttura di tale prospettiva esige che essa si verifichi continuamente nelle concrete strutture dell'esperienza estetica e artistica, per altro verso proprio la struttura metodologica sembra sottrarla a un destino meramente documentario o definitorio, a misura che le garantisce un piano di comprensione (teorico) in cui tutti i movimenti e le posizioni del piano pragmatico possano 'criteriarsi' nel rilievo delle intenzioni, della varietà, delle relazioni secondo cui si determinano. In breve, si potrebbe dire che l'adeguatezza teorica delle prospettive anceschiane propriamente non è, ma si costituisce, coincidendo col suo aperto progetto di attuazione della sistematicità fenomenologica. D'altronde, il carattere di progetto, di ipotesi che Anceschi riconosce alla sua prospettiva, non ha affatto un significato metaforico: l'apertura e la flessibilità di essa designano i modi propri di un atteggiamento teorico per cui la sistematicità fenomenologica non è mai un traguardo della ricerca, che può essere definitivamente raggiunto, ma un suo compito infinito.
Tra gli studiosi maggiormente influenzati da Anceschi ricordiamo R. Barilli (n. 1935), che all'interesse per l'e. affianca quello per la letteratura, la retorica e le arti visive. In Barilli agisce liberamente la lezione anceschiana nella prospettiva di una 'culturologia' (Culturologia e fenomenologia degli stili, 1982; Corso di estetica, 1989) capace di coordinare e sviluppare esperienze estetiche e culturali di varia natura per una comprensione sempre maggiore delle dinamiche culturali e materiali del mondo umano. In questo senso, devono essere segnalate le ricerche di retorica (Poetica e retorica, 1969; La retorica, 1979), in cui un'adeguata impostazione metodologica "sembra in grado di sanare la dissociazione della sensibilità apertasi tra le 'scienze dello spirito' e le 'scienze della natura'" (A. Battistini, E. Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, 3° vol., 1° t., 1984, p. 337). A studi di poetica e retorica e di traduttologia si è anche volto E. Mattioli (n. 1933; Luciano e l'Umanesimo, 1981; Studi di poetica e retorica, 1983; Interpretazioni dello Pseudo-Longino, 1988; Contributi alla teoria della traduzione letteraria, 1993), in cui la lezione di metodo anceschiana, arricchita soprattutto dagli stimoli della grande cultura classica e umanistica, conduce a esiti di grande rilievo sia sotto il profilo ermeneutico che storiografico. Per quel che riguarda L. Rossi (n. 1930), si muove in una prospettiva tesa non tanto a "specificazioni del metodo fenomenologico in riferimento alla storiografia estetica" (D'Angelo 1997, p. 182), quanto alla definizione, nei modi propri della fenomenologia critica, di un'e. come modalità della ricerca teoretica.
Uno studioso che, in certo senso, rappresenta un trait d'union tra la 'scuola' di Milano (Paci, Formaggio) e quella di Bologna, è G. Dorfles (n. 1909; per una bibliografia di e su Dorfles, cfr. G. Dorfles, Itinerario estetico, 1987), per il quale l'e. si configura come "quella branca delle scienze umane che - attraverso lo studio delle diverse forme artistiche - mira a indagare gli sviluppi e le tappe antropologiche, psicologiche, linguistiche dell'umanità", cercando di "raggiungere una visione del mondo" attraverso lo studio "dell'elemento fantastico, simbolico, mitico, metaforico anche in quei settori del pensiero umano che potrebbero sembrare più lontani da tali elementi" (L'estetica del mito, 1967, p. 7). In questa concezione dell'e., Dorfles sembra riassumere il modo, l'oggetto e il senso della sua intera ricerca che, fin dagli inizi, si è articolata in una prospettiva dichiaratamente fenomenologica in cui, appunto, si giustificano i vari approcci alle questioni estetiche e artistiche mediante l'uso dei dati e dei linguaggi forniti dalle scienze. In ogni caso, lo specifico carattere fenomenologico della riflessione e della ricerca di Dorfles sembra farsi esplicito nella sua capacità di attingere un livello di aperta sistematicità in cui i dati e i risultati scientifici possono essere finalizzati a un recupero del senso autentico dell'obiettività dei fenomeni estetici e artistici, al riconoscimento del valore etico e sociale, oltre che estetico, di quei fenomeni stessi e cioè al rilievo di un loro possibile contributo all'evoluzione e alla maturazione della societas umana.
Infine, si deve qui far riferimento alla prospettiva estetica di E. Garroni (n. 1925). Tralasciando la critica radicale della semiotica strutturale (Semiotica ed estetica, 1968; Progetto di semiotica, 1972; Ricognizione della semiotica, 1977), che pure ha un rilievo non secondario nell'economia della ricerca di Garroni, e riprendendo soprattutto la prospettiva di Senso e paradosso (1986) e di Estetica: uno sguardo-attraverso (1992), va rilevato come, sulla base di un rifiuto programmatico della coincidenza tra e. e filosofia dell'arte e nel contesto di una "rinnovata filosofia critica" (cfr. La definizione dell'arte e lo statuto trascendentale dell'estetica: immagine, segno, schema, 1986; Kant e il problema estetico, 1989), Garroni sottolinei come l'interrogazione filosofica sull'esperienza avvenga sempre e necessariamente all'interno dell'esperienza stessa. Per definire questa situazione Garroni parla di paradosso fondante e di guardare-attraverso, mettendo in evidenza come la consapevolezza di ciò consista propriamente in un sentimento, in un sentire estetico. In questa prospettiva l'arte cessa di essere l'oggetto epistemico dell'e., divenendo tutt'al più un'occasione esemplare per porre il problema del senso; non solo, ma si ipotizza che l'arte stessa possa cessare di costituire quel "luogo privilegiato per cui transita l'esperienza estetica" (D'Angelo 1997, p. 287).
Nel panorama straordinariamente ricco dell'e. italiana di questi anni va ricordato anche G. Morpurgo-Tagliabue (1907-1997), che volendo fornire una completa fenomenologia dell'esperienza estetica, indica quattro fondamentali prospettive secondo cui considerarla: 1) una prospettiva storico-culturale, in cui l'opera d'arte viene considerata come "individuazione di un'intenzionalità costituita da significati convenzionali: cicli, stili, costumi, gusti, maniera" e nel suo condizionamento storico (economico, sociale, politico); 2) una prospettiva artistica, in cui l'opera d'arte si presenta come "esemplare di una classe realizzata da quel solo esemplare"; 3) una prospettiva poetico-culturale, in cui un'opera d'arte viene riconosciuta come "un possibile paradigma", la "sigla di una maniera" e le si riconosce la capacità di costituire un modello (anche di fantasia e di comportamenti); 4) una prospettiva culturale-storica, in cui la 'possibilità' di un'opera di costituire un 'eteroparadigma' viene confortata da concreti rilievi nell'ambito della storia e della cronaca della cultura (Rossi 1976, p. 167).
L'estetica in Francia
L'e. francese appare al presente dominata da tre grandi personalità quali P. Ricoeur (n. 1913), J.-F. Lyotard (1924-1998) e J. Derrida (n. 1930). Quanto a Ricoeur - in cui è possibile riscontrare le influenze di Husserl e di Heidegger, ma anche di K. Jaspers, M. Scheler e di G. Marcel (il tema ontologico del 'mistero' e della trascendenza come ambito insondabile mediante la descrizione fenomenologica) -, volendo limitare il discorso essenzialmente alla prospettiva estetica (La métaphore vive, 1975; trad. it. Milano 1981), va detto che se a tale prospettiva deve essere riconosciuto un carattere ermeneutico, essa risulta tuttavia alternativa all'ermeneutica gadameriana. Per Gadamer l'opera d'arte è una realtà le cui molteplici interpretazioni finiscono per modificare il suo senso e il nostro orizzonte di verità; ancora: è nel nostro rapporto con l'opera che si manifesta il carattere ontologico del suo 'linguaggio'; d'altronde, dandosi l'opera solo nel linguaggio e come linguaggio, si stabilisce un 'circolo' che ne manifesta una connessione essenziale con la tradizione ermeneutica. Per Ricoeur, al contrario, l'interpretazione consiste anzitutto nella ricerca di un superamento del puro rapporto segno-significato per attingere quell'irriducibile senso simbolico che caratterizza l'arte in modo essenziale.
Per quanto riguarda il contributo di Lyotard, per una definizione della sua prospettiva estetica è opportuno riferirsi a Discours, figure (1971; trad. it. Milano 1988), con la sua critica radicale della fenomenologia (soprattutto di M. Merleau-Ponty) e il suo rifiuto dell'io puro husserliano come della nozione dell'irriflessività del corps, che del Leib husserliano era la trascrizione. Su queste basi, Lyotard crea un nuovo rapporto tra soggetto e opera d'arte. In breve, per Lyotard "il dato non è un testo,[...] c'è in lui uno spessore o, piuttosto, una differenza costitutiva che non bisogna leggere, ma vedere;[...] questa differenza, e la mobilità immobile che la rivela, è ciò che non smette di dimenticarsi nel significare". Insomma, l'arte "indica una funzione della figura": "la trascendenza del simbolo è la figura, cioè una manifestazione spaziale che lo spazio linguistico non può incorporare[...], un'esteriorità che non può interiorizzare in significazione". L'arte, infine, che "vuole la figura" - "la bellezza è figura, non legata, ritmica" -, l'arte nella sua dimensione 'figurale', ha le sue radici nell'inconscio, in cui Eros e Thanatos incessantemente si affrontano (Discours, figure, 1971; trad. it. Milano 1988, p. 37 e segg.). Ma Lyotard è anche uno dei maestri del postmoderno: ne La condition postmoderne (1979; trad. it. Milano 1981) registra la conclusione dell'epoca moderna, del "sapere narrativo", della metafisica e delle ideologie; nella prospettiva del sapere postmoderno la scienza diviene "ricerca della instabilità" e alla filosofia non resta che cercare di districarsi in un sapere costituito da tracce, citazioni, frammenti.
Dell'altro influente protagonista della riflessione estetica francese, Derrida, andrà innanzitutto precisato, per una miglior comprensione del suo decostruzionismo, che il termine déconstruction traduce il tedesco Destruktion, usato da Heidegger in Sein und Zeit per caratterizzare la propria ontologia ermeneutico-fenomenologica contro la tradizione metafisica. Del resto, lo stesso Derrida riconosce il proprio debito verso Heidegger. Così, se da un lato il problema del testo ha una sua centralità nella prospettiva di Derrida, che in L'écriture et la différence (1967; trad. it. Torino 1971) ne rivendica l'autonomia e ne definisce il senso nel suo esclusivo rapporto con la scrittura, sicché nella sua polisemia esso si offre semplicemente come lettera o traccia, dall'altro, in tale prospettiva appare decisamente prevalente il problema del segno. Heidegger, come è stato rilevato da Habermas, non ha mai "indagato sistematicamente il linguaggio"; Derrida, che pure riprende la posizione heideggeriana, si interroga sul come e il dove di un'esperienza del linguaggio come linguaggio, cercando sia di definire le condizioni di possibilità dell'esperienza in generale sia gli effetti che esse determinano sul senso, sulla significazione, sulla comunicazione. Ma si fa chiaro allora che la prospettiva di Derrida si apre qui a interessi e questioni che trascendono l'ambito dell'e. e che esigerebbero anche un'analisi di Derrida sintaxier, qui non certo possibile. In conclusione, va rilevato come, se per Derrida l'esperienza del linguaggio si offre originariamente come scrittura, questa, nella sua materialità, resta aperta sia alla possibilità di un'ermeneutica che ai rischi di distruzione e smarrimento; e, in ogni caso, sono rischi connaturati a quella disseminazione che "è il concetto stesso di scrittura" (S. Petrosino, Introduzione a J. Derrida, La disseminazione, Milano 1989) nella sua implicita destinazione.
L'estetica in Spagna
Relativamente all'e. spagnola o di lingua spagnola, se è vero che E. D'Ors (1882-1954) e J. Ortega y Gasset (1883-1955) hanno introdotto in Spagna lo spirito della filosofia tedesca, congiuntamente con alcuni filoni della filosofia francese, soprattutto quello bergsoniano, va sottolineato tuttavia che la riflessione estetica spagnola ha avuto per lo più espressione al livello di quella che oggi si chiama scrittura di saggio. Dopo la morte di J. Camón Aznar (1979) si sono avute, certamente, ricerche di e. da parte di R. De La Calle, X. Rubert de Ventós o E. Trías, ma l'unica prospettiva che, al presente, sembra di dover considerare è quella di J. Jiménez (n. 1942), il quale ha sottolineato, in primo luogo, il carattere antropologico della dimensione estetica, sicché proprio la 'portata integrale' di esso non consente di escludere da tale dimensione sfere o significati menos nobles, come spesso è avvenuto nell'e. filosofica tradizionale.
La prospettiva di Jiménez appare chiara fin dall'inizio: "la virtualità del principio metodologico[...] dipende dalla sua capacità di integrare in uno stesso orizzonte concettuale i diversi livelli e fattori che integrano l'esperienza estetica nel suo complesso, nel suo senso più ampio e che mostrano in tutti i casi una stessa radice antropologica". In ogni caso, non servirebbe enunciare e definire un nuovo principio normativo dell'e., o 'traslare' genericamente a una dimensione antropologica ciò che prima si era situato nello spazio metafisico del 'bello'. In breve, la 'fondamentazione' del principio antropologico come base di una nuova e. filosofica esige una sua 'determinazione' attraverso tre sfere simultanee di confronto coincidenti con ciò che definiamo le 'fonti' della disciplina; in questo intrecciarsi il concetto filosofico uscirebbe dalla genericità per divenire una - è chiara la suggestione di G. Della Volpe - astrazione determinata. Quanto alle tre sfere di determinazione del principio estetico "che costituiscono la trama su cui l'Estetica contemporanea deve dimostrare che i suoi concetti non sono meri principi normativi o generici", esse sono: "le teorie estetiche storicamente formulate, le scienze umane, e il dispiegarsi pratico della propria esperienza estetica" (sul duplice piano: storico e strutturale). Insomma, come l'arte del nostro tempo, "e senza rinunciare al suo rigore concettuale", l'e. contemporanea "deve tentare di andare per le strade del mondo, spogliandosi di tutto ciò che nel suo linguaggio tradizionale è sterile accademismo, aspetto caduco da 'museo della idea'" (Jiménez 1986, pp. 17-19).
L'estetica negli Stati Uniti
I maggiori rappresentanti dell'e. statunitense sono A.C. Danto (n. 1924) e J. Margolis (n. 1926). Nelle sue opere dedicate alla comprensione dell'arte e all'e. (The transfiguration of the commonplace: A philosophy of art, 1981; The philosophical disenfranchisement of art, 1986; The state of the art, 1987) Danto ha utilizzato in maniera originale spunti tratti da Wittgenstein. Per Danto la differenza tra due oggetti dapprima 'indiscernibili', ma dei quali solo uno viene ritenuto opera d'arte, è dovuta al diverso modo in cui, per loro tramite, ci si riferisce al mondo.
La modalità artistica di questo riferimento si evidenzia nello specifico carattere 'rappresentativo' dell'opera d'arte: oltre a riferirsi oggettualmente (come, per es., il linguaggio ordinario) a qualcosa, essa infatti comunica anche il 'modo' di vedere e di comprendere del suo produttore. E se pure sussiste una certa affinità tra l'arte e ciò che 'viene prima di essa' (così come affini - o apparentemente indiscernibili - sono gli oggetti d'arte di M. Duchamp e gli oggetti quotidiani), tra questi due ambiti sussiste per Danto una vera e propria differenza ontologica, dovuta cioè al loro specifico statuto, sicché risulta possibile parlare di un 'mondo dell'arte' dotato di una propria storia. Le opere d'arte sono infatti rappresentazioni in un senso particolare in quanto, a differenza delle altre rappresentazioni, esigono sempre un'attività di interpretazione. Tale caratteristica risulta ancor più evidente se si coglie l'intrinseca 'auto-referenzialità' che, per Danto, connota l'opera d'arte: essa non fa che "esprimere qualcosa sul suo contenuto", e dunque risulta essere un continuo commento di se stessa che si esplica nelle sue interpretazioni, mostrandosi perciò come una "rappresentazione trasfigurativa piuttosto che rappresentazione tout court". Da qui la caratteristica 'autonomia' che Danto ascrive all'opera d'arte, che implica, comunque, una concezione della fruizione intenzionalmente lontana dall'idea di contemplazione disinteressata sostenuta da molta filosofia dell'arte, poiché solo nell'impegno interpretativo diviene possibile afferrare un oggetto in quanto opera d'arte, sicché oggetti indiscernibili diventino tra loro differenti e, anzi, "opere d'arte distinte grazie a interpretazioni distinte e differenti" (The transfiguration of the commonplace: A philosophy of art, 1981, pp. 24 e segg.; The philosophical disenfranchisement of art, 1986, pp. 15 e segg.).
Le ricerche in ambito estetico di Margolis (The language of art and art criticism, 1965; Art and philosophy, 1980; Culture and cultural entities, 1983; The persistence of reality, 3 voll., 1986-89) prendono in esame i più diversi argomenti (dalla definizione dell'arte alla questione della metafora, dall'identità 'autografica' della danza alla natura della rappresentazione pittorica), non di rado sulla base di approcci via via differenti. La concezione di Margolis dell'opera d'arte come complesso di predicati tra loro irriducibili appare, per certi versi, una ripresa della prospettiva analitica risalente a P. F. Strawson. Per quanto le opere d'arte di necessità siano incarnate nel mondo spazio-temporale, la loro identità trascende tali fattezze fisiche. Queste proprietà irriducibili alla mera fisicità dell'opera d'arte coincidono in gran parte con la sua funzione significativa, che viene interpretata da Margolis in connessione con la situazione e il ruolo che essa riveste nel quadro del mondo della cultura e della storia dell'uomo.
Poiché il significato dell'opera d'arte appare costituito culturalmente, e poiché si rileva una continua mutevolezza storica delle culture, sembrerebbe fatale la caduta di Margolis in un relativismo non immune dalle critiche classiche di inconsistenza logica e di soggettivismo. E se dapprima, per evitare tali critiche, Margolis ha ricercato un nucleo determinato di proprietà descrittive dell'opera d'arte su cui basare le pur diverse interpretazioni e valutazioni, in seguito ha progressivamente accentuato il ruolo dell'interpretazione, sostenendo anzi che la stessa distinzione tra mera descrizione e interpretazione è, a sua volta, materia di interpretazione. Proseguendo su questa strada, Margolis ha poi reciso ogni residuo legame con la filosofia analitica, delineando una prospettiva in cui l'intero mondo culturale (di cui quello artistico è parte) è costituito da oggetti costruiti mediante sforzi interpretativi, ovvero mediante il linguaggio, tanto da ritenere ogni oggetto di cultura un testo da interpretare piuttosto che un fatto da descrivere.
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