ESTETICA (XIV, p. 402)
Se guardiamo al numero altissimo di trattati e saggi dedicati formalmente all'e. nel secolo scorso e nei primi decenni del Novecento, pubblicati appunto sotto l'etichetta ufficiale di "estetica", lo confrontiamo con il numero assai più esiguo di opere analoghe apparse negli ultimi venti-trent'anni, la sproporzione appare subito significativa. Non si tratta, com'è noto ed è stato più volte rilevato, di un mutamento soltanto terminologico, per cui al nome tradizionale semplicemente si preferirebbero dizioni diverse ed equivalenti: "filosofia dell'arte", "stilistica", "poetica" (in senso teorico), "psicologia dell'arte", "semiotica o semiologia dell'arte", e così via. C'è stato anche questo, con la semplice calata del nome "e." dal rango di etichetta disciplinare al livello di termine speciale, circolante nel testo insieme ad altri termini speciali. Già questo fatto, del resto, indica che il termine è divenuto più flessibile, che l'"estetico" - per così dire - è un aspetto della ricerca, più che la ricerca stessa nella sua unità e sistematicità. Si tratta insomma di un mutamento più profondo, che investe lo stesso statuto teorico dell'estetica. Ciò non significa neanche, come pure si è supposto, che - dopo l'arte - sarebbe morta la stessa e. e che le le varie estetiche, note e meno note, ancora classiche o già del tutto dimenticate (molte di esse, per la verità, giustamente dimenticate) costituirebbero soltanto o in linea di principio una letteratura fatua, irreparabilmente datata e priva insomma di significato. Questa sarebbe una ipersemplificazione superficiale, analoga a quella che, in ambiente neopositivistico, decretò a suo tempo la fine, in ogni senso, della metafisica in generale. Le condanne "in generale" hanno in generale poco senso. Così, in quanto l'e. filosofica si è occupata dei problemi dell'arte e dell'esperienza estetica, delle loro connessioni con questioni gnoseologiche, epistemologiche, scientifiche (psicologiche, sociologiche, e così via), essa ha assolto bene o male un compito conoscitivo reale, ancora oggi aperto, in divenire. Non solo aveva, ma ha ancora un senso - non può non avere un senso - domandarsi che cosa significhi ciò che diciamo "bellezza" o "esperienza estetica"; come possa o debba essere delimitata la sua sfera, quali siano le condizioni che permettono d'identificarla in qualche modo, quali siano i suoi rapporti con l'insieme delle attività umane, con il sentimento, con le emozioni, con il desiderio, con i complessi meccanismi della dinamica psichica, con la percezione e la rappresentazione in generale, con l'agire pratico e la stessa conoscenza, con la vita economica, etico-politica e culturale in senso ampio; in che senso si possa parlare di "asserzioni" o "giudizi" nel campo della poesia e della letteratura creativa e come queste si distinguano e si accomunino, nello stesso tempo, da e con la letteratura scientifica; che cosa sia il cosiddetto "giudizio estetico" (che, qualunque cosa se ne pensi, resta tuttavia un fatto da spiegare), quale sia il suo statuto nell'ambito dell'attività giudicante, quali le sue condizioni di possibilità e i suoi limiti; quale sia il compito della critica letteraria-artistica e quali siano le sue adeguate presupposizioni teoriche, nonché i suoi metodi pertinenti, e così via. Solo uno scientismo ormai superato, estremamente ristretto, tale da lasciare il più ampio spazio all'intuizionismo più sfrenato, può ritenere che problemi del genere non esistano e che non valga la pena di tentare di chiarirli.
In questo senso preciso, per es., la voce estetica di questa Enciclopedia, firmata più di quarant'anni fa da G. Calogero, conserva tuttora - pur tenendo conto dell'inevitabile trascorrere del tempo e del mutato contesto culturale - non solo prestigio di testimonianza storica, ma anche valore teorico indubbio. Esiste del resto nel nostro secolo un'e. filosofica d'ispirazione fenomenologica che ha svolto, e ancora svolge in parte, un ruolo di prim'ordine. Basterà ricordare qui, tra i tanti, i nomi di R. Ingarden, M. Dufrenne, M. Merleau-Ponty, J. P. Sartre, ecc., e, in Italia, di A. Banfi, la cui scuola è spesso ancora attiva sul fronte del dibattito attuale (L. Anceschi, R. Cantoni, E. Paci, D. Formaggio, ecc.). A questo stesso indirizzo fenomenologico in senso lato possono essere ascritti, per certi versi, anche l'e. del Calogero delle Lezioni di filosofia (vol. III: Estetica, semantica, istorica, Torino 1947) e, in modo più netto, i contributi teorico-critici e soprattutto storiografici di G. Morpurgo-Tagliabue (Il concetto dello stile, Milano 1951), nonché l'opera - tra le più rilevanti nel panorama degli ultimi trent'anni - di C. Brandi, che si è costruita saldamente a partire dal Carmine o della pittura (Roma 1945) e ha avuto il suo coronamento ideale nella recente Teoria generale della critica (Torino 1974). Già dai nomi citati, però, si vede subito che non abbiamo a che fare con un complesso di studi omogeneo, nel senso dell'omogeneità di una "scuola" filosofica; ed è anzi probabile che la dizione "e. fenomenologica" indichi di solito - oltre e più che un rapporto diretto o mediato con Husserl - anche e soprattutto una caratteristica di flessibilità, di sensibilità alle trasformazioni della problematica estetica: per es. nelle questioni classiche del rapporto tra arte e l'altro dall'arte (L. Anceschi, Autonomia ed eteronomia dell'arte, Firenze 1936; Milano 19763), tra arte e tecnica (D. Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica, Milano 1953; L'idea di artisticità, ivi 1962), tra arte e significato (C. Brandi, Segno e immagine, ivi 1960; Le due vie, Bari 1966; Struttura e architettura,Torino 1967). Esigenza di flessibilità, cui non fu insensibile a suo modo neppure lo stesso B.. Croce, in particolare il Croce di La poesia (Bari 1935). Il che significa, nello stesso tempo, che una trasformazione c'è stata effettivamente, anche là dove il termine "estetica" è rimasto in primo piano, e che essa non è riducibile quindi a un puro "gusto" terminologico.
In realtà, la tradizionale e. filosofica - troppo fiduciosa della legittimità del discorso filosofico, quale si era delineato soprattutto in ambiente postkantiano e segnatamente hegeliano, nonché della stabilità di categorie culturali tutt'altro che univoche, a cominciare da quella di "arte" - aveva avuto in generale la tendenza a supporre che il suo oggetto fosse qualcosa di definito e omogeneo, tale da legittimare senz'altro, per es., la costruzione di un trattato di e. o di una filosofia estetica come parte distinta e integrante di un sistema filosofico. E, per ciò stesso, si presentava spesso come una disciplina eteroclita e sommaria, solo esternamente organizzata in modo sistematico, speculativa in senso restrittivo, incapace di fornire strumenti teorici adeguati, cioè coerenti e utili anche applicativamente. Il fatto rilevante, su cui all'inizio si è richiamata l'attenzione, va interpretato quindi come il segno - se non della fine dell'e. - della sua trasformazione, del precisarsi e distinguersi dei suoi problemi e, infine, del costituirsi del campo dell'e. - da oggetto di speculazione illusoriamente unitaria - in un campo problematico vasto ed eterogeneo, destinato a divenire oggetto, secondo punti di vista opportuni, di ricerche specialistiche distinte, anche se generalmente o in linea di principio interconnesse. Ciò che è finito, in altre parole, è il trattato di e., non i suoi problemi - che richiedono al contrario di essere affrontati in modo più preciso, non più meramente speculativo, in qualche modo più scientifico. Ma tale maggiore scientificità non deve far pensare che la filosofia, nel campo dell'e., sia senz'altro trapassata in scienza. Anche questo sarebbe infine un gioco di etichette, scarsamente significativo, reso possibile da un'operazione magica di estrapolazione della nozione, ben altrimenti articolata e aperta, di scienza. Del resto, anche intendendo scienza semplicemente come maggiore precisione o specializzazione, in funzione appunto dei possibili punti di vista che possono essere istituiti, non verrebbe meno con ciò il ruolo di una riflessione più propriamente filosofica. Sembra infatti, come vedremo, che il precisarsi e l'articolarsi del campo dell'e. comporti non soltanto un non ovvio statuto interdisciplinare dell'e. stessa, ma anche l'esigenza che questa rinvii a, o contenga, una parte o una fondazione filosofica.
È opportuno richiamare l'attenzione sul fatto che tale trasformazione dell'e. - di cui abbiamo avuto i frutti più significativi negli ultimi decenni - dev'essere fatta risalire almeno alla seconda metà del secolo scorso, anche se in più casi il nuovo corso dell'e. può essersi dapprima manifestato in forma ingenua o insufficiente. Il che significa che i nuovi orientamenti nascono non in opposizione all'e. tradizionale in generale - che sarebbe impossibile, del resto, definire in modo univoco, in un suo tratto pertinente comune - ma piuttosto sull'esigenza di volgersi alla determinatezza dei problemi più che alla loro unione in un discorso filosofico omogeneo e totalizzante. Se un'opposizione c'è, questa va specificata, nei limiti in cui essa è significativa, nei riguardi di certe e. filosofico-sistematiche, per es. di quell'e. metafisica, generalmente d'ispirazione eclettico-hegeliana, spesso incentrata sullo pseudoproblema della triade Arte, Filosofia e Religione e delle loro possibili disposizioni. Ma su questo ha ironizzato giustamente anche Croce. Né si tratta quindi, semplicemente, di opporre allo hegelismo un altrettanto generico positivismo, che è qualcosa di molto sfumato e non privo neppure di pesanti eredità metafisiche e addirittura hegeliane. Senza dubbio l'interdetto antipositivistico - che ha caratterizzato in particolare la cultura italiana della prima metà del secolo - dev'essere considerato ormai revocato, ma appunto nel senso che anche il cosiddetto positivismo, con tutti i suoi meriti e tutti i suoi difetti, partecipa del nuovo clima antispeculativo (non, si badi, antiteorico). In questo senso - positivismo o no - gli studiosi più avvertiti cominciano a spostare via via, in modi diversi, la loro attenzione verso i metodi d'indagine sull'esperienza e i prodotti estetici. L'e. - dalla seconda metà dell'Ottocento a oggi - diviene quindi soprattutto una metodologia critica (spesso, almeno nelle intenzioni, scientifica in senso stretto, addirittura sperimentale), cioè una disciplina o, meglio, un insieme di discipline che elaborano o quanto meno suppongono una teoria rispetto a certi fatti; alla quale teoria si richiede di essere non soltanto ben formata, ma anche e soprattutto adeguata, tale cioè da consentire la messa a punto di metodi applicativi da cui ci si aspetta una migliore conoscenza e comprensione dei fatti stessi. Proprio in questo accentuarsi dell'interesse metodologico comincia a delinearsi quell'articolazione del campo estetico che è la premessa di un'organizzazione disciplinare più differenziata e più precisa.
Appare chiaro che lo stesso orientamento dell'e. moderna non consente di delineare con poche frasi riassuntive le molte ricerche che sono state condotte da punti di vista diversi; ed è anche chiaro che non sarebbe d'altra parte corretto farle risalire semplicemente a poche idee filosofiche dominanti, poiché in tal modo se ne perderebbe precisamente il senso genuino. Ci accontenteremo qui di una schematizzazione di massima, volta a distinguere due indirizzi generali, ovviamente tutt'altro che omogenei, che ci permetteranno nello stesso tempo di legare i più rilevanti contributi recenti a differenziazioni meno recenti: un indirizzo volto all'analisi dell'organizzazione formale e/o semiotica dell'opera d'arte come tale e un indirizzo, ancor meno omogeneo, volto allo studio dell'esperienza estetica sotto profili diversi, per es. psicologici o sociologici. Diciamo: un indirizzo "immanente" e un indirizzo "trascendente". Ma è chiaro che questa approssimativa bipartizione non esclude affatto numerosi scambi e sovrapposizioni, non soltanto in forza di quell'approssimatività, ma anche perché la stessa nozione informale di campo dell'e. esige una qualche loro interconnessione.
Nell'ambito di quell'indirizzo che privilegia, nel senso convenuto, una considerazione immanente dell'opera d'arte, la continuità tra ricerche recenti e ricerche che risalgono fin verso la metà del secolo scorso è evidente.
Troveremo così precedenti importanti nella metodologia formale nel campo della musica (E. Hanslick), quindi delle arti figurative (per es. la cosiddetta "Sichtbarkeit", la "pura visibilità", con K. Fiedler, A. von Hildebrand e, sulla distanza, con H. Wölfflin e i suoi importanti Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, la cui prima ed. è del 1915, Monaco, e infine, dalla seconda decade del Novecento in poi, nel campo della letteratura e della poesia (i cosiddetti Formalisti russi, operanti negli anni Dieci e Venti, gli strutturalisti del circolo linguistico di Praga, tra cui J. Mukařovský e lo stesso R. Jakobson, operanti dagli anni venti in poi). Già in questa successione sommaria si vede che vi è una sostanziale continuità anche tra l'aspetto più propriamente formale e l'aspetto più propriamente semiotico della ricerca, cioè tra l'analisi della struttura immanente dell'opera d'arte e la sua specifica capacità di "significare". La stessa polemica antiwolfliniana di E. Panofsky non oppone in sostanza un indirizzo (semiotico o simbolico) ad altro, del tutto eterogeneo (astrattamente formale), ma semmai approfondisce la consapevolezza di una comune dimensione semantica: Wölfflin non aveva mai ignorato il problema, e anzi aveva tentato a suo modo di tenerne conto e di darne conto. Che le sue basi teoriche fossero, forse, più fragili è altra questione. È in ogni caso un fatto che Panofsky poté e seppe sfruttare quel monumentale insieme di ricerche, svolto da E. Cassirer soprattutto negli anni Venti (Philosophie der symbolischen Formen, voll. 3, Berlino 1923-29; Darmstadt 1953-542), e che costituirono anche per i decenni successivi, pur nelle loro diseguaglianze interne, un punto di riferimento importante per l'estetica. La filosofia delle forme simboliche fu una vera e propria semiotica generale di tipo filosofico: con esplicito riferimento a Kant (Cassirer era appunto di formazione neokantiana), essa intendeva allargare la critica della ragione a critica della civiltà (Kultur) e dimostrare come ogni contenuto di civiltà (mito, linguaggio, arte, conoscenza scientifica) fosse fondato su un principio formale e formativo originario, in quanto condizione del suo essere portatore di significato (nel senso ampio della parola). Il problema del "significare" era nell'aria: quasi contemporaneamente, lavorava da specialista nell'ambito delle letterature romanze L. Spitzer (ricollegato di solito a Vossler e a Croce), maturando una disciplina semiesplicita, la stilistica (il cui fondatore moderno può essere considerato il più anziano Ch. Bally), incentrata anch'essa sul problema del "significare" (e dello specifico "significare" letterario o artistico). Bisogna tener conto inoltre dell'eredità teorica del grande fondatore della semiotica moderna, l'americano Ch. S. Peirce (1839-1914), dei contributi della semiotica di Ch. Morris (v. in part., oltre gli studi generali, Esthetics and the Theory of Signs, in Journal of Unified Science, 1939) e delle teorie linguistiche generali, contraddistinte da una forte valenza semiotica, di F. de Saussure (Cours de linguistique générale, Parigi 1916) e di L. Hjelmsley (Prolegomena to a Theory of Language, Baltimora 1953; 1a ed. danese, 1943; Esais linguistiques, Copenaghen 1959), la cui influenza teorica, anche nell'ambito dell'e., è stata decisiva nel corso degli ultimi vent'anni circa. Con ciò si va formando, con sinergie e reazioni assai varie, e anche attraverso strade indipendenti - come nel caso rilevante di I.A. Richards (autore dei Principles of Literary Criticism, Londra 1924; e, insieme con C.K. Ogden, di The Meaning of Meaning, ivi 1923; e, con Ogden e J. Wood, di The Foundations of Aesthetics, New York 1925, 1a ed., ivi 1922) - un'e. che viene detta "semantica", in quanto volta appunto al problema dello specifico significare artistico-letterario (W. Empson, C. Brooks e il New Criticism, S. Langer, N. Goodman, ecc.). Si delinea infine, sempre su quello sfondo, con più forti recuperi dai formalisti russi e dai praghesi, e con l'influenza spesso determinante di R. Jakobson, una vera e propria semiologia dell'arte, cioè un'e. da un punto di vista semiotico, nel quadro di una semiotica generale pronta ad allargarsi addirittura in antropologia generale (R. Barthes, J. Lotman, L. Prieto, U. Eco, ecc.), il cui "incunabulo" può essere considerato il noto saggio di J. Mukařovský, L'art comme fait sémiologique del 1936.
Ora, è senza dubbio possibile che lo statuto di una semiotica generale - in quanto tendente a ricoprire l'area di tutte le cosiddette scienze umane, come "semiologia della significazione" (L. Prieto) o, con maggiori cautele, come "antropologia sociale ed economica" (R. Jakobson), e quindi includente in sé anche l'e. e le discipline che si occupano dell'arte e del comportamento estetico - non sia del tutto pacifico. Su questo punto, il già citato C. Brandi ha svolto per esempio una notevole analisi teorica e applicativa che va tenuta nella massima considerazione. Ma non è questo tuttavia il luogo per approfondire una discussione che ci porterebbe inevitabilmente molto in là. È in ogni caso indubbio che l'approccio semiotico abbia contribuito a sgomberare il campo di molti pregiudizi consolidati, teorici e metodici, e a fissare l'attenzione proprio sul punto fondamentale della struttura specifica dell'opera d'arte, in quanto in qualche modo portatrice di "senso" culturale. Viene messa così in crisi la nozione inarticolata di forma e quella correlativa, e parimenti inarticolata, di contemplazione, a torto attribuita a Kant, e riabilitato quel "senso" dell'arte, che è sicuramente un merito di Hegel aver sottolineato vigorosamente. Proprio questa unità di forma e significato o senso - presente di fatto lungo tutto il corso delle ricerche qui schematizzate - sembra che debba essere postulata, almeno come primo criterio orientativo, da coloro che si occupano, da un qualunque punto di vista, del campo dell'estetica.
Il rappresentante più prestigioso e in un certo senso meno afferrabile di questo insieme di formazioni culturali è senza dubbio R. Jakobson, la cui attività è stata fittissima per più di mezzo secolo nei campi della linguistica, della poetica, della teoria della comunicazione, nel senso più ampio dell'espressione. Il suo saggio fondamentale - almeno per gli effetti che esso ha esercitato sui più recenti studi di e. - è il noto Linguistics and Poetics (compreso in Style in language, a cura di Th. A. Sebeok, Londra-New York 1960; ora ristampato in Essais de linguistique générale, 2 voll., Parigi 1963-73; v. anche Questions de poétique, ivi 1973). Il punto centrale è proprio la definizione teorica e operativa della poesia sotto un profilo linguistico, cioè la definizione della cosiddetta "funzione poetica" (in linea con la teoria delle funzioni del linguaggio risalente a K. Bühler, ai praghesi, agli stessi formalisti russi): non più quindi della poesia in quanto per es. classe di certi oggetti che sarebbero il prodotto di una speciale attività dello spirito, concepibile in modo categoriale e speculativo, ma in quanto classe di oggetti linguistici caratterizzati dalla predominanza di una funzione del linguaggio (comunque presente), quale funzione incentrata sul segno stesso o sul messaggio. Essa può essere riconosciuta anche empiricamente (attraverso certi segnali, per es. di tipo metrico), e di qui discende anche una metodologia analitica che, mentre esplicita l'organizzazione del testo, ne mette in evidenza l'autoriflessività, la peculiare ambiguità, insomma il suo modo specifico di significare. Si badi che una funzione del linguaggio non monopolizza mai un qualsiasi atto espressivo, e in questo senso non sarebbe affatto corretto ritenere che Jakobson, e altri che lo seguono su questa via, s'interessi soltanto al "come" e non al "che cosa" di un messaggio poetico. Non solo il "che cosa" (il contenuto informativo del messaggio) non può venir meno, ma esso entra in relazione con lo specifico "come", aumentando e non decurtando le capacità informative del messaggio stesso. Su questi e altri temi jakobsoniani - variamente ripresi, allargati, modificati, contestati, reinterpretati - si è sviluppata in sostanza molta della riflessione estetica recente (che vien detta spesso "strutturale"), perfino nelle sue frange estreme, quelle che andrebbero "oltre lo strutturalismo" (secondo l'espressione di J. Culler) e in cui riemergono motivi molto diversi, derivati dalla psicoanalisi e dalla filosofia e dall'e. di M. Heidegger (J. Lacan, J. Derrida).
L'altro grande indirizzo, o piuttosto insieme di indirizzi, volto allo studio trascendente dell'esperienza estetica, anch'esso relativamente remoto, già si delinea nettamente in ambiente positivistico.
Si potrebbe indicare perfino un indirizzo o orientamento biologistico o vitalistico (l'arte come vitalità disinteressata), di cui è un rappresentante ottocentesco l'inglese H. Spencer, e che ha avuto echi non insignificanti, ma a un livello di assai maggiore complessità e finezza, nell'americano J. Dewey (Art as Experience, New York 1934), dove è in realtà vivissima l'esigenza di considerare l'esperienza estetica come esperienza "piena", intesa a reintegrare l'esperienza comune, generalmente divisa, protratta e spesso inconclusa, insomma come una sorta di analogon umano - e quindi tanto più articolato e ricco - del senso della vita negli animali non umani, sempre vigile, puntuale e presente a sé stesso, sempre "concluso" insomma ("Per afferrare le fonti dell'esperienza estetica è necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell'esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica e il pensiero ci astrae dal mondo"). L'equivoco comportamentistico di tale analogia è evidente. Ma va detto anche che il pensiero di Dewey - che ha avuto notevole importanza nell'e. successiva; basti pensare alla sua analisi del "giudizio estetico" e alla critica della cosiddetta "critica giudiziaria" - va collocato sostanzialmente, come vedremo, sul piano della riflessione filosofica sull'arte o l'esperienza estetica in quanto connessa con l'esperienza in generale.
Stretti rapporti s'instaurano soprattutto tra e. e psicologia. Anche in questo caso sono ovvie le fonti meno recenti di questa specializzazione estetica: ricorderemo soltanto l'opera di G. Th. Fechner, iniziatore di un approccio psicologico-empirico (la cosiddetta e. "dal basso" opposta all'e. "dall'alto", cioè all'e. speculativa). Si è molto ironizzato sui modesti risultati ottenuti dagli estetici in laboratorio. Era tuttavia un approccio nuovo che avrebbe dato risultati assai più convincenti nel nostro secolo, richiedendo tra l'altro un'integrazione tra metodo immanente e metodo trascendente. Ci riferiamo in particolare alla psicologia della percezione, nei suoi orientamenti classici e consecutivi, quello della "psicologia della forma" e quello della "psicologia transazionale", in rapporto ai quali hanno lavorato rispettivamente due eminenti estetici: R. Arnheim (Art and Visual Perception, Berkeley-Los Angeles 1954; Visual Thinking, ivi 1969) e E.H. Gombrich (Art and Illusion, Washington 1960; Meditations on a Hobby Horse, Londra 1963). In entrambi i casi la rappresentazione non è considerata un semplice dato o un'associazione di dati, ma una loro organizzazione in base a principi non contenuti in essi: il che costituisce un'indicazione preziosa, ovviamente, anche per quella speciale rappresentazione al quadrato che è la rappresentazione intenzionale e, in particolare, artistica.
La differenza tra i due orientamenti consiste in ciò: che la psicologia transazionale studia quei principi organizzativi sotto il profilo delle aspettative, in quanto schemi condizionanti, del percipiente, cioè li storicizza e li culturalizza. Di qui, in Gombrich, una forte accentuazione del ruolo della psicogenesi della comunicazione artistica (importante, in questo senso, la sua Freud's Aesthetics, in Encounter, 1966) e, in maniera particolare, dei "codici" superficiali attraverso cui tale comunicazione si realizza. In tal modo una considerazione estetica, che ha radici psicologiche e psicoanalitiche, stabilisce rapporti tanto stretti con istanze di tipo formale-semiotico, da annullare quasi le distanze. In realtà, la distinzione tra metodo immanente e metodo trascendente è per un certo verso fittizia, ed è valida soprattutto in quanto indica una scelta preliminare o un orientamento prevalente. Il caso Gombrich impone almeno un accenno alla ormai vasta letteratura estetica psicoanalitica, non tutta per la verità di prim'ordine: ci limiteremo a ricordare qui, oltre agli scritti dello stesso Freud (ora raccolti in un'antologia italiana: Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, voll. 2, Torino 1969), i contributi fondamentali di E. Kris (Psychoanalytic Explorations in Art, New York 1952). Recentemente, nuovi stimoli alla riflessione estetica sono venuti dal pensiero di J. Lacan.
Va segnalata, entro questo vasto ed eterogeneo indirizzo, anche la notevole influenza variamente esercitata sull'e. dalla ricerca sociologica. Un'e. sociologica nasce già, com'è noto, in concomitanza con la cultura positivistica (A. Comte, H. Taine e, in area germanica, W. Wundt), e in generale in essa è quasi sempre presente una qualche ascendenza o mediazione positivistica. Ma il sociologismo estetico ha avuto un forte rilancio, nel nostro secolo, anche e soprattutto in relazione al formarsi e affermarsi di una cultura marxista. L'arte, dunque, come il prodotto o il riflesso di una determinata base economica.
Per la verità, dichiarazioni così forti, in favore della distinzione netta tra base e sovrastruttura e dell'appartenenza a quest'ultima della cultura artistica, non è dato ritrovare in Marx. Ma è appunto accaduto che dalle poche, sparse e problematiche indicazioni marxiane ed engelsiane sull'argomento (raccolte in volume da Lifšic, pubblicate in Unione sovietica nel 1933 e più volte tradotte in molte lingue) fosse tratto qualcosa del genere: a giustificare l'operazione interveniva anche il peso di una tradizione estetica "progressista" e l'esistenza di un marxismo già "positivizzato", come per es. in G. V. Plechanov, il quale, nonostante certe indubbie aperture (v. Lettere senza indirizzo, trad. it. Milano 1964; Scritti di estetica, trad. it. Roma 1972), ribadiva sostanzialmente una prospettiva sociologica destinata a divenire rapidamente ciò che è stato detto "sociologismo volgare". Da esso si eccettua nettamente, e proprio con un'intelligente utilizzazione di Plechanov, un autore eccezionale, L.S. Vygotskij, operante sostanzialmente negli anni venti, marxista convinto, messo da parte e praticamente sconfessato, riscoperto quindi dopo il 1956, noto e diffuso in Occidente solo negli anni Sessanta (v. in particolare Psicologia dell'arte, trad. it. Roma 1972; Pensiero e linguaggio, trad. it. Firenze 1966). In Vygotskij, cioè, la dimensione dell'arte e del pensiero interiore individuale viene considerata, proprio da un punto di vista marxista, come il massimo raggiungimento evolutivo: esattamente il contrario di ciò che accade nel quadro del sociologismo.
Ora, entro questo quadro - mettendo da parte i problemi più complessi sollevati dalle sue prime opere - si colloca sostanzialmente anche il massimo rappresentante dell'e. marxista, G. Lukács. Per la verità, egli oscilla - nell'opera teorica più nota, i Prolegomeni ad un'estetica marxista (trad. it. Roma 1956) - tra sociologismo o rispecchiamento sociale e una concezione che va al di là del puro e semplice rispecchiamento, qualcosa che del divenire sociale interpreta in qualche modo le linee di tendenza, l'essenziale emergente (ciò che viene detto, in modo assai infelice, la "partiticità 'i dell'arte): due momenti che si riunificherebbero in una "superiore" oggettività, dialettica e non deterministica-meccanica, per cui il "tipico" non sarebbe altra cosa del "partitico". Ma è un'oscillazione che va compresa anche nel particolare contesto storico-politico in cui Lukács si trovò a operare e che sostanzialmente scompare nell'ultima grande Estetica (Aesthetik I, Die Eigenart des Aesthetischen, Neuwied a.R., Berlino-Spandau 1963), dove la prospettiva sociologica (l'arte come riflesso di un contesto sociale determinato) riemerge nettamente, insieme con nuovi motivi semiotici - ma derivati esclusivamente dalla "riflessologia" pavloviana, integrata da ipotesi speculative ulteriori. Sarebbe tuttavia scorretto mettere Lukács e altri minori saggisti sociologizzanti sullo stesso piano, e liquidare il tutto come "sociologismo volgare". Il problema di fondo è autentico e, anzi, addirittura non evitabile. Si tratta di correlare le modalità della produzione artistica con la struttura economica e sociopolitica, e quindi culturale in senso ampio, della società nel suo complesso; o, meglio, d'integrare non genericamente l'esperienza estetica, produttiva e fruitiva - spesso vista come astrattamente autonoma -, con quella struttura culturale, di cui ovviamente fa parte. Solo che esso non poteva essere affrontato seriamente lungo la via facilitante e improduttiva del rispecchiamento o, peggio, del determinismo sociale, cui si abbandonarono soprattutto i saggisti minori, e andava invece individuato nelle complesse mediazioni che intervengono tra la specificità, anche tecnica, del fenomeno artistico e la specificità dei fenomeni extra-artistici. In questo senso preciso e sotto il particolare profilo linguistico, il problema era già presente nei formalisti russi, almeno i più avvertiti, quali B. M. Ejchenbaum e I. N. Tynjanov, per il quale è appunto centrale la questione del rapporto tra letteratura e vita sociale.
I contributi di Lukács, per la verità, hanno sempre manifestato una sorta d'insofferenza verso l'esame delle caratteristiche formali, tecnicolinguistiche, dell'opera d'arte; il che non ha permesso in generale una piena e convincente attuazione dell'istanza sociologica. É tuttavia da segnalare il tentativo di reinterpretare Lukács alla luce di questa esigenza da parte di L. Goldmann (Pour une sociologie du roman, Parigi 1964) e, sempre in Francia, le notevoli prese di posizione critica - soprattutto per ciò che riguarda l'opposizione unilaterale di "base" e "sovrastruttura" - di L. Althusser e la sua scuola. Ancora in Francia, ma in ambiente non marxista, si erano già avuti negli anni Cinquanta e Sessanta sostanziali affinamenti sul fronte dell'e. sociologica con i contributi di P. Francastel, nell'ambito delle arti figurative e sulla base di una strumentazione formale-semiotico-sociologica integrata. Di particolare rilievo è stata in Italia l'opera critica, anche nei riguardi del tradizionale sociologismo, di un filosofo marxista, G. della Volpe (v. in particolare la Critica del gusto, Milano 1960), e sempre nel senso di un recupero della dimensione extra-estetica (economica, politica, sociale, storico-culturale in senso ampio) attraverso il filtro della mediazione linguistico-semantica e dei suoi modi peculiari di organizzarsi in specifico discorso poetico. Un cenno, infine, al sociologismo di tipo completamente diverso - militante più che interpretante o scientifico - degli autori che vengono designati di solito con l'etichetta della "scuola di Francoforte": W. Benjamin, Th. W. Adorno, H. Marcuse. Il problema, qui, è non tanto l'esame - immanente o trascendente - del fenomeno artistico o estetico in generale, quanto piuttosto "ciò che esso debba essere" o "come esso debba essere considerato" nel mondo moderno, capitalistico o postcapitalistico, con soluzioni via via ottimistiche e pragmatiche, nostalgiche e negatrici, o addirittura utopistiche, in cui è difficile distinguere quanto vi sia di avanzato, di rivoluzionario e quanto invece di conservatore e perfino di reazionario.
Ciò potrebbe far supporre che l'e. si sia dissolta in una serie di ricerche particolari sull'arte, di tipo storico-critico, formale, semiotico, psicologico, sociologico, ecc., scomparendo quindi del tutto come e. filosofica. La questione non sta in questi termini, per almeno due ragioni. In primo luogo, come si è già accennato, tutti gli autori citati, o che avremmo potuto citare, non semplicemente si sono occupati d'arte o di esperienza estetica sotto un profilo tecnico-descrittivo, ma hanno elaborato o fatto proprie teorie di carattere generale, in qualche modo filosofiche, che, sole, giustificano le loro prospettive tecniche e i loro contributi, anche particolari. È del resto sulla giusta linea crociana il considerare come pertinenti all'e. non solo i saggi dei filosofi professionisti, ma anche - e talvolta soprattutto - le idee svolte a vario livello da critici, letterati, artisti impegnati in programmi di poetica militante (donde per es. i cosiddetti "manifesti" delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie: si pensi soltanto all'incidenza della cosiddetta poetica dell'"opera aperta", formulata da U. Eco agl'inizi degli anni Sessanta), in quanto quelle idee abbiano una produttiva valenza teorica.
In secondo luogo, non è affatto vero che l'e. filosofica abbia, come tale, perduto ogni ruolo specifico. Se una teoria è possibile (una psicologia, una semiologia dell'arte, una stilistica o una poetica, in quanto disciplina che studia la funzione poetica del linguaggio); se una interconnessione tra i vari tipi di approccio è possibile; se è addirittura possibile parlare di un campo dell'e., pur destinato a essere occupato da discipline diverse; allora dev'essere possibile in qualche modo anche una fondazione metateorica o filosofica. Non si tratta, naturalmente, di rilanciare anche un'e. speculativa, ma piuttosto di riflettere sulle condizioni generali che rendono possibili tutti quei "se". Di qui nasce l'esigenza non tanto di una ricerca che sia già un'e. - nel senso sistematico, pseudo-omogeneo e criptonormativo che è proprio di gran parte delle opere di e. tradizionali -, quanto di un'epistemologia generale o, kantianamente, di una filosofia trascendentale che espliciti il quadro condizionante entro cui è possibile costruire teorie e metodi applicativi, nonché condurre indagini anche particolarissime - con la speranza per di più di correlarle, per quanto è possibile, in un insieme organico di conoscenze. Proprio in questo senso, è significativo il nuovo, recente ritorno a Kant e all'istanza trascendentale, maturato in connessione col ripensamento dei problemi della semiotica, della linguistica, della moderna Logic of science (K. O. Apel, J. Habermas, W. Hogrebe, ecc.).
È noto che, di Kant, è stata discussa e utilizzata produttivamente soprattutto la Kritik der reinen Vernunft, mentre la Kritik der Urteilskraft - anch'essa ricchissima di letteratura - ha avuto influenze notevoli e disparate in ambiti più ristretti, in particolare in quello dell'e., non senza deformazioni importanti rispetto alla compattezza originaria del pensiero di Kant e all'idea dell'operazione che egli aveva voluto compiere trattando di bellezza, di giudizio di gusto, di sentimento. Fraintendimenti e, talora, prese di posizione antikantiane che spesso si associano - e questo è singolare del destino della terza Critica - a una sostanziale e inconsapevole ripresa dei problemi kantiani. Ricordavamo prima Art as Experience di Dewey come una delle opere "filosofiche" più significative degli ultimi cinquant'anni; si può dire di più: che il compito di Dewey - sebbene gli fosse difficile riconoscerlo esplicitamente, per via del già segnalato equivoco comportamentista - era appunto quello di svolgere un esame dell'"esperienza come tale", come modello in un certo senso originario, esemplificabile in modo tipico nella, ma non riducibile alla, esperienza estetica (in quanto singola, unitaria, reale, compiuta, in opposizione all'esperienza frammentaria e non integrata della vita comune, dove raramente le varie esperienze divengono "una esperienza"). Vale a dire: un esame delle condizioni che fanno di un'esperienza una esperienza, cioè un esame in qualche modo trascendentale, per quanto il termine possa sembrare spaesato nel flusso irruento del discorso di Dewey. Al pari di Kant, Dewey non ha appunto costruito un trattato di e., ma ha piuttosto costruito un insieme di proposizioni metateoriche, volte a chiarire e a fondare le nozioni di esperienza in generale e, quindi, anche di esperienza estetica. Eppure, proprio Dewey - che vedeva in Kant, infine, un semplice rappresentante della metafisica tradizionale, anche se, forse, di qualità più raffinata - pensava ancora che nella terza Critica fosse contenuta un'e. razionalista (un'e. della regolarità), un'e. moralistica (avversa al "piacere" dei sensi in modo intransigente), un'e. metafisica ed esternamente sistematica: "Dopo aver sistemato la Verità e Dio - egli scriveva - rimaneva da trovare una nicchia soltanto per la bellezza, ultimo termine della trinità classica. Rimaneva il Sentimento puro, che è 'puro' nel senso di essere isolato e autocontenuto; sentimento libero da ogni ombra di desiderio; sentimento che, strettamente parlando, è non-empirico". Ed è appunto notevole il fatto che vi siano fraintendimenti, anche letterali, nonché confutazioni, del pensiero di Kant e, insieme, la parziale riesposizione e prosecuzione di quello stesso pensiero trascendentale.
Ora, l'interesse verso la terza Critica sembra essersi accentuato in questi ultimi tempi (in particolare in Italia, sotto lo stimolo delle ricerche di L. Scaravelli) e si va precisando la consapevolezza che l'introduzione di un "principio trascendentale soggettivo ed estetico" fa tutt'uno con il generale compito metateorico kantiano. In realtà, secondo Kant, non è possibile la conoscenza empirica - cioè la conoscenza vera e propria, quella delle scienze della natura, da cui Kant partiva per legittimarne la possibilità - se non supponiamo, oltre gli oggettivi principi trascendentali dell'intelletto, anche un principio trascendentale soggettivo, che ha nello stesso tempo un suo ruolo specifico e motivante (in questo senso: "puro") nell'ambito dei giudizi di gusto e della produzione estetica. Questo significava, per un verso, porre le basi di quell'allargamento della "critica della ragione" in "critica della civiltà", di cui parlava Cassirer, e per altro verso o nello stesso tempo reintrodurre la soggettività - cioè la creatività - anche nella conoscenza (farla diventare un'"esperienza", nel senso di Dewey), dissequestrando l'arte dall'ambito della pura e semplice contemplazione, non connessa al pensiero e alla vita, o del puro e semplice gusto soggettivo, indistinguibile dalla mera risposta dei sensi a stimoli esterni e, perciò, non pieno, non concluso, non reale. La terza Critica non solo non si esaurisce, come si vede, nell'ambito dell'e., ma non costituisce neppure, in alcun modo, un'e. filosofica nel senso di un trattato di estetica.
Il nuovo, multiplo statuto dell'e. non esclude, dunque, ma piuttosto esige una fondazione filosofica, anche se tale fondazione non sarà un'e. nel senso proprio di una certa tradizione speculativa, in fondo abbastanza limitata nel tempo. E questa fondazione è, dal suo canto, tutt'altro che una novità. La recente riflessione filosofica la sta via via riscoprendo, con sempre maggiore chiarezza, nel pensiero kantiano di cui diviene sempre più evidente la produttività nell'ambito dell'epistemologia, della linguistica, della semiotica, delle scienze umane in generale, oltre che ovviamente nell'ambito dell'e. e degli studi sull'arte e l'esperienza estetica. Vale la pena di ricordare che tutto ciò non circola soltanto in ambiente strettamente filosofico. Un qualche kantismo spontaneo, o quasi, è presente per esempio nella linguistica di N. Chomsky (che preferisce però riferirsi prevalentemente alla tradizione cartesiana) - com'è stato messo in rilievo da J. Simon (Philosophie und linguistische Theorie, Berlino-New York 1971). É quindi lecito attendersi nuovi sviluppi in tal senso anche nel campo dell'e., sia a livello di singoli approcci disciplinari, sia a livello di correlazioni interdisciplinari, sia infine a livello di riflessione sulle condizioni di possibilità dell'esperienza effettiva in generale. Con ciò, la frantumazione dell'e. può ritrovare anche la sua unità filosofica o metateorica, ma appunto nell'unico modo oggi lecito.
Bibl.: Essa riguarda soprattutto opere, in linea di principio pubblicate in volume e non su riviste, dal 1960 in poi e, comunque, non anteriori al 1940. Vengono citate inoltre solo opere storiche o critiche su periodi, movimenti e autori salienti, citati nel testo, e non opere teoriche, a meno che queste non siano particolarmente significative anche a fini critico-informativi; né vengono in ogni caso ripetute le indicazioni già eventualmente fornite nel testo.
Sulla storia dell'e. in generale, o suoi momenti salienti, in part. sull'e. contemporanea italiana: M. M. Rossi, L'estetica dell'empirismo inglese, voll. 2, Firenze 1944 (ampio saggio introd. e antol. di testi); E. De Bruyne, Études d'esthétique médiévale, voll. 3, Bruges 1946; id., Geschiedenis van de Aesthetica, voll. 5, Anversa 1951-53; G. Dorfles, New Currents in Italian Aesthetics, in Journal of Aesthetics and Art Criticism, 12, 1953; K. E. Gilbert, H. Kuhn, A History of Aesthetics, New York 19542 (nuova ed. aggiornata); G. Calogero, Aesthetics, in Italy, the Main Problems, in Philosophy in the Mid-Century, a cura di R. Klibansky, vol. III, Firenze 1958; Autori vari, Momenti e problemi di storia dell'estetica, 4 voll., Milano 1959-61 (opera diseguale, con alcuni contributi notevoli, e comunque complessivamente utile sotto il profilo informativo); G. Morpurgo-Tagliabue, L'esthétique contemporaine, ivi 1960 (opera fondamentale, soprattutto dal punto di vista informativo e bibliogr.); R. Bayer, L'esthétique mondiale au XXe siècle, Parigi 1961; L. Formigari, L'estetica del gusto nel settecento inglese, Roma 1962; A. Simonini, Storia dei movimenti estetici nella cultura italiana, Firenze 1968 (con ampia bibliogr.); L. Anceschi, Da Bacone a Kant, Bologna 1972; E. Fubini, L'estetica contemporanea (con ant. di testi), Torino 1976; L. Rossi, Situazione dell'estetica in Italia, ivi 1976; L. Pareyson, L'estetica dell'idealismo tedesco, I vol., ivi s. a.
Sulla storia delle poetiche e della critica, o suoi momenti salienti, con notevoli agganci alla storia dell'e.: R. Wellek, A. Warren, Theory of Literature, New York 1942; E. R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Berna 1948; G. Devoto, Studi di stilistica, Firenze 1950; R. Wellek, A History of Modern Criticism, 3 voll., New Haven 1955-65 (opera fondamentale); A. Pagliaro, La critica semantica, in Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956; M. Fubini, Critica e poesia, Bari 1956; A. Pagliaro, La parola e l'immagine, Napoli 1957; W. K. Wimsatt jr., C. Brooks, Literary Criticism, A Short History, New York 1957; G. Dorfles, Il divenire delle arti, Torino 1959; C. Salinari, La questione del realismo, Firenze 1960; L. Russo, Tramonto del letterato, Bari 1960; R. Assunto, La critica d'arte nel pensiero medievale, Milano 1961; G. Devoto, Nuovi studi di stilistica, Firenze 1962; W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, Bari 1963; L. Venturi, Storia della critica d'arte, ed. con aggiorn. bibl. di N. Ponente, Torino 1964; L. Anceschi e altri, Arte, critica, filosofia, Bologna 1965; L. Anceschi, Fenomenologia della critica, ivi 1966; H. R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, Costanza 1967; L. Russo, La critica letteraria contemporanea, nuova ed., Firenze 1967; C. Salinari, Preludio e fine del realismo, Napoli 1967; R. Wellek, Concepts of Criticism, New Haven-Londra 19673 (19631); M. Costanzo, Critica e poetica del primo seicento, 3 voll., Roma 1969-71; P. Szondi, Poetica dell'idealismo tedesco, trad. it. Torino 1974 (ed. orig. Francoforte sul Meno 1973); I. Viola, Critica letteraria del novecento, Milano 19742; G. Dorfles, Il divenire della critica, Torino 1976.
Come appendice della sezione precedente e con inevitabili sovrapposizioni parziali rispetto a essa, v. sulla critica semantica, semiologica e strutturalistica, nonché sulla teoria semiotica e sull'e. da un punto di vista semiotico; C. Brooks, The Well Wrought Urn, Studies in the Structure of Poetry, New York 1947; F. Rossi-Landi, Charles Morris, Milano 1953; V. Erlich, Russian Formalism, L'Aia 1964; R. Barilli, Per un'estetica mondana, Bologna 1964; J. Vachek, The Linguistic School of Prague, Bloomington-Londra 1966; Autori vari, Les chemins actuels de la critique, a cura di G. Poulet, Parigi 1968; id., Qu'est-ce que le structuralisme?, ivi 1968; C. Segre, I segni e la critica, Fra strutturalismo e semiologia, Torino 1969; N. Salanitro, Peirce e i problemi dell'interpretazione, Roma 1969; C. Maltese, Semiologia del messaggio oggettuale, Milano 1970; G. Mounin, Introduction à la sémiologie, Parigi 1970; M. Riffaterre, Essais de stylistique structurale, ivi 1971; E. Garroni, Progetto di semiotica, Bari 1972; N. Ruwet, Langage, musique, poésie, Parigi 1972; T. A. Van Dijk, Some Aspects of Text Grammars, L'Aia 1972; E. Holenstein, Jakobson, Parigi 1974; A. Marchese, Metodi e prove strutturali, Milano 1974; J. Culler, Structuralist Poetics, Ithaca, New York 1975; U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano 1975; M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, ivi 1976; E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Roma 1977.
Sull'e. come scienza, in part. da un punto di vista sociologico: A. Hauser, Social History of Art, trad. ingl. New York-Londra 1951 (è la più nota "storia sociale dell'arte" pubbl. prima in inglese e poi nella versione orig. tedesca come Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, su cui è utile vedere la recens. di E. H. Gombrich, ora in Meditations, ecc., cit. nel testo); Th. Munro, Toward Science in Aesthetics, New York 1956; J. Duvignaud, Sociologie de l'art, Parigi 1967; Autori vari, Critique sociologique et critique psychanalitique. Études de sociologie de la littérature, Bruxelles 1970; id., Le littéraire et le social, a cura di R. Escarpit, Parigi 1970; id., Sociologia della letteratura, antol. a cura di G. Pagliano Ungari, Bologna 1972; A. Zambardi, Per una sociologia della letteratura, Roma 1973.
Su arte, letteratura e psicoanalisi in part.: Autori vari, Art and Psychoanalysis, a cura di W. Phillips, Cleveland 1963 (19571); M. David, Letteratura e psicoanalisi, Milano 1967; O. Mannoni, Clefs pour l'Imaginaire ou l'Autre Scène, Parigi 1969; A. Clancier, Psychanalyse et critique littéraire, Toulouse 1973; F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino 1973; B. Fornari, F. Fornari, Psicoanalisi e ricerca letteraria, Milano 1974; Autori vari, Psicoanalisi e critica letteraria, antol. con introd. a cura di G. Desideri, Roma 1975.
Sull'e. marxista in part. e sulle principali questioni critiche ad essa connesse: Autori vari, Studi gramsciani, Roma 1958; P. Demetz, Engels und die Dichter. Zur Grundlagenforschung des Marximus, Stoccarda 1959; R. Musolino, Marxismo ed estetica in Italia, Roma 1963; A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, ivi 1965; Autori vari, Rivoluzione e letteratura, Il dibattito al primo congresso degli scrittori sovietici del 1934 con introduzione di V. Strada, Bari 1967; A. Guiducci, Dallo zdanovismo allo strutturalismo, Milano 1967; K. Marx, F. Engels, Scritti sull'arte (con intr. di C. Salinari), Bari 1967; G. Scalia, Critica, lettereatura, ideologia, Padova 1968; N. Stipčevič, Gramsci e i problemi letterari, Milano 1968; S. Timpanaro, Sul materialismo, Pisa 1970; Autori vari, Gramsci e la cultura contemporanea, in Atti del Conv. Intern. di Studi gramsciani, 23-27 aprile 1967, Roma 1970; I. Ambrogio, Ideologia e tecniche letterarie, ivi 1971; R. Luperini, Marxismo e letteratura, Bari 1971; A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, Firenze 1973; S. Moravski, Il marxismo e l'estetica, tr. it. Roma 1973; Autori vari, Marxismo e critica letteraria, antol. con introd. a cura di F. Bettini e M. Bevilacqua, ivi 1965; A. Gramsci, Marxismo e letteratura, testi raccolti da G. Manacorda, con ampia introd., ivi 1975; M. Modica, L'estetica di G. della Volpe, Marxismo linguistica e teoria della letteratura nella "Critica del gusto", ivi 1977.
Su Kant, la ripresa del trascendentalismo e l'interpretazione della terza Critica: L. Scaravelli, Scritti kantiani, Firenze 1968; L. Anceschi, Da Bacone a Kant, cit.; S. Marcucci, Aspetti epistemologici della finalità in Kant, Firenze 1972; K. O. Apel, Von Kant zu Peirce, in Transformation der Philosophie, Francoforte sul Meno 1973; W. Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Monaco 1974; E. Garroni, Estetica ed epistemologia, Riflessioni sulla "Critica del Giudizio", Roma 1976; J. Habermas, Vorbereitende Bemerkungen zu einer Theorie der kommunikativen Kompetenz, in J. Habermas, N. Luhmann, Theorie der Gesellschaft oder Sozialtechnologie, Francoforte sul Meno 1976; S. Marcucci, Intelletto e "intellettualismo" nell'estetica di Kant, Ravenna 1976.