Abstract
Delineata la nozione di estinzione del processo, ne vengono illustrate le fattispecie tipizzate dal codice di rito, vale a dire la rinuncia agli atti del giudizio e l’inattività delle parti. Vengono poi analizzate l’operatività dei fatti estintivi e le modalità del loro rilievo, anche alla luce della profonda innovazione apportata dalla l. 18.6.2009, n. 69. Gli effetti dell’estinzione sono esaminati distinguendo a seconda che il fenomeno si determini nel corso del giudizio di primo grado, ovvero in fase di gravame. Viene, infine, fatto un cenno all’estinzione del processo esecutivo, in considerazione della peculiare disciplina ad essa riservata dal codice di procedura civile.
Il processo, di regola, si conclude con una sentenza che lo definisce; talvolta, però, ciò non avviene e il giudizio termina anticipatamente rispetto a questo suo esito normale, in quanto si verificano alcuni fatti – legislativamente individuati – che ne impediscono la prosecuzione: in questo caso si parla di estinzione.
L’estinzione è, quindi, un fenomeno di chiusura prematura e anomala del procedimento, che, invece di terminare con il passaggio in giudicato della sentenza o del suo provvedimento conclusivo, si arresta per il verificarsi di fatti che la legge indica come impeditivi alla sua prosecuzione.
I fatti che determinano l’estinzione del processo sono riconducibili a due categorie di accadimenti profondamente diversi fra loro: da un lato la rinuncia agli atti del giudizio (art. 306 c.p.c.), dall’altro l’inattività delle parti (art. 307 c.p.c.). Diversa, in effetti, è la funzione cui le differenti fattispecie estintive attendono, anche se poi sul piano degli effetti l’istituto viene ricondotto a unità.
La rinuncia agli atti consiste in una manifestazione di volontà con cui le parti pongono termine al processo, ed è espressione sul piano processuale della disponibilità del diritto sostanziale dedotto in causa: la rinuncia è, dunque, strettamente collegata al principio della domanda o dell’iniziativa di parte, di cui costituisce la proiezione in negativo.
L’inattività, invece, è integrata da un comportamento oggettivo delle parti, in relazione al quale l’effettiva volontà è irrilevante, e si concreta nell’omesso compimento entro il termine perentorio previsto dalla legge o dal giudice di taluni atti espressamente previsti: il risultato perseguito è quindi quello di accelerare il corso del processo e di imprimergli un ritmo minimo, sanzionando condotte negligenti o defatigatorie.
La rinuncia agli atti del giudizio è una dichiarazione dell’attore di voler porre fine al processo senza giungere a una pronuncia sulla domanda da lui proposta, abbandonando così la situazione giuridica processuale ingenerata con la proposizione della domanda e con essa tutti gli effetti determinati dalla pendenza del procedimento; così facendo l’attore rinuncia altresì ai diritti, agli obblighi e agli oneri correlati (Liebman, E.T., Manuale di diritto processuale civile, II, rist. IV ed., Milano, 1984, 201). Non si tratta, tuttavia, di una revoca della domanda introduttiva, che non viene integralmente travolta, rimanendone fermi alcuni effetti sostanziali, come l’interruzione della prescrizione ex art. 2945, ult. co., c.p.c. (Micheli, G.A., Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in Riv. dir. proc. civ., 1942, I, 33 ss.)
Con essa l’attore rinuncia al solo procedimento, e non già al diritto o all’azione sostanziale sottostante. Per questo motivo la rinuncia agli atti deve essere tenuta distinta da altri istituti apparentemente similari, ma in realtà profondamente diversi, come la rinuncia all’azione o alla pretesa, ove si ha un atto di disposizione dell’azione o della situazione sostanziale sottostante: in quest’ultimo caso è preclusa ogni ulteriore tutela giurisdizionale e, ove venga meno la ragion d’essere del giudizio per ragioni oggettive o soggettive, si giunge alla declaratoria di cessazione della materia del contendere (Cass., 10.9.2004, n. 18255; Cass., 13.3.1999, n. 2268).
Legittimata alla rinuncia è la parte che abbia promosso il giudizio e che, quindi, abbia la veste di attrice. La rinuncia deve essere fatta personalmente dalla parte o tramite un suo procuratore speciale; si ritiene, però, valida la rinuncia promanante dal procuratore generale della parte (Trib. Udine, 14.11.1959, in Giust. civ. Rep., 1960, voce Procedimento civile, n. 288). Non ha, invece, effetto la rinuncia posta in essere dal difensore che sia privo della procura speciale richiesta dall’art. 306, co. 2, c.p.c. Va, tuttavia, evidenziato che viene riconosciuta legittimante ai fini della rinuncia anche la procura alle liti redatta in termini generici, che conferisce al difensore il potere di conciliare e transigere la controversia, purché in rapporto di materiale congiunzione con il documento in vista del quale è avvenuto il conferimento del potere (Cass., 27.1.1998, n. 801, in Giur. it., 1998, 1563).
La rinuncia, per aver effetto, deve essere accettata dal convenuto: il legislatore ha, però, limitato la necessità di accettazione alle sole parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio. Conseguentemente, l’accettazione non sarà richiesta, oltre che con riguardo alle parti rimaste contumaci, in tutti i casi in cui il convenuto costituito non miri a ottenere una pronuncia di merito (Mandrioli, C., Diritto processuale civile, II, XXII ed. aggiornata a cura di A. Carratta, Torino, 2012, 401; Massari, A., Rinunzia agli atti del giudizio, in Nss. D.I., XV, Torino, 1968, 1162 ss.), o quando, comunque, non potrebbe ottenere in sede di decisione di merito un risultato giuridico più favorevole di quello che consegua con l’estinzione (Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1959-1965, 427; Luiso, F.P., Diritto processuale civile, II, VII ed., Milano, 2013, 262; Cass., 3.8.1999, n. 8387). L’accettazione, dunque, non sarà necessaria quando il convenuto abbia eccepito l’incompetenza del giudice adito, oppure richiesto l’estromissione dal giudizio o la conferma della sentenza pronunciata in primo grado; mentre lo sarà quando sia stata proposta domanda riconvenzionale (Cass., 1.2.1995, n. 1168; Trib. Milano, 17.11.2008, in DeJure) o appello incidentale, oppure richiesto il risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.(Punzi, C., Il processo civile. Sistema e problematiche, II, II ed., Padova, 2010, 202; contra, però,Cass., 10.4.2003, n. 5676).
Anche l’accettazione, come la rinuncia, è riservata alla parte o al suo procuratore speciale. Entrambe le dichiarazioni dovranno essere prive di riserve o condizioni, e dovranno essere rese verbalmente in udienza o manifestate in atti sottoscritti e notificati alle controparti (ma non alle parti rimaste contumaci, risultando in questo caso sufficiente il deposito del relativo documento in cancelleria: Cass., 3.4.1995, n. 3905; Cass., 1.2.1995, n. 1168).
A seguito della rinuncia agli atti e della correlativa accettazione l’estinzione viene dichiarata dal giudice istruttore con ordinanza o dal collegio con sentenza, come previsto dal nuovo art. 307, co. 4, c.p.c. (v. infra,§ 4). Nel medesimo provvedimento dichiarativo dell’estinzione si avrà altresì la liquidazione delle spese, che, a differenza di quanto previsto in generale dall’art. 310 c.p.c. e salvo diverso accordo fra le parti, non resteranno a carico di chi le abbia anticipate, ma verranno tutte addebitate al rinunciante: nonostante l’art. 306, ult. co., c.p.c. riservi la decisione sulle spese a un’ordinanza non impugnabile, apparentemente autonoma, sembra più ragionevole pensare che tale pronuncia trovi spazio nella medesima ordinanza o sentenza che definisce il giudizio, anche a evitare problemi di coordinamento in sede di impugnazione.
La disciplina accordata dal codice di rito in ipotesi di inattività delle parti non è omogenea: ferma restando la rilevanza meramente oggettiva dei fatti considerati, la cui elencazione deve ritenersi tassativa (Mandrioli, C., op. cit., 403 s.), l’art. 307 c.p.c. distingue, infatti, le ipotesi in cui l’effetto estintivo è mediato da una fase reversibile di quiescenza processuale, da quelle in cui l’estinzione si produce in via immediata e irrimediabile al verificarsi dell’omissione.
Quanto alla prima categoria, l’art. 307, co. 1, c.p.c. indica esplicitamente il caso in cui nessuna delle parti si sia costituita entro il termine stabilito dall’art. 166 c.p.c.: in questa ipotesi sarà possibile riassumere la causa davanti allo stesso giudice entro, oggi, tre mesi dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto, e solo in difetto di riassunzione si avrà l’estinzione del giudizio. Questa previsione va, tuttavia, letta in parallelo con quanto disposto dall’art. 171 c.p.c., che al co. 1 estende il possibile meccanismo sanante al caso di mancata costituzione delle parti entro i termini per ciascuna di esse stabiliti: ciò significa che resta fermo per l’attore l’onere di costituirsi nei dieci giorni successivi alla notifica della citazione, a meno che non vi sia la costituzione del convenuto nei termini a costui assegnati, caso nel quale l’attore può costituirsi fino all’udienza.
Allo stesso modo, all’esito di una fattispecie complessa si avrà estinzione qualora, dopo la costituzione delle parti, il giudice abbia ordinato la cancellazione della causa dal ruolo e siano inutilmente decorsi tre mesi dal provvedimento di cancellazione senza che nessuno abbia provveduto alla riassunzione del giudizio. Qui l’art. 307 c.p.c. compie una sorta di rinvio in bianco, che l’interprete deve completare (D’Onofrio, P., Commento al codice di procedura civile, I, IV ed., Torino, 1957, 514): le ipotesi che vengono in rilievo sono quella dell’omessa o tardiva chiamata del terzo per ordine del giudice, ai sensi degli artt. 107 e 270 c.p.c. (Cass., 5.9.2008, n. 22419; Cass., 28.1.1999, n. 739); o quella della mancata prosecuzione del giudizio davanti al giudice concordemente individuato dalle parti a seguito dell’eccezione di incompetenza territoriale semplice sollevata dal convenuto (Pilloni, M., Commento all’art. 307 c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, diretto da L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani e R. Vaccarella, III, Torino, 2012, 765, ove ulteriori riferimenti).
Va, tuttavia, osservato che in due casi, indicati dallo stesso art. 307, co. 1, c.p.c. alla cancellazione della causa dal ruolo segue l’immediata estinzione del giudizio: ciò avviene qualora venga dichiarata la contumacia dell’attore e il convenuto non chieda che il giudizio prosegua (art. 290 c.p.c.); e altresì del caso in cui – secondo la novellazione operata dalla l. 18.6.2009, n. 69 per adeguare l’art. 307 c.p.c. alle modifiche apportate all’art. 181 c.p.c. dalla l. 6.8.2008, n. 133 – entrambe le parti (art. 181, co. 1, c.p.c.), ovvero anche il solo attore (art. 181, co. 2, c.p.c.) abbiano disertato la prima udienza e quella successivamente fissata dal giudice (Saletti, A., Commento all’art. 307 c.p.c., in Commentario alla riforma del codice di procedura civile, a cura di A. Saletti e B. Sassani, Torino, 2009, 128).
L’estinzione immediata del processo è, poi, prevista dal co. 2 dell’art. 307 c.p.c. quando, una volta riassunto il processo quiescente ai sensi del precedente comma, le parti non provvedano a costituirsi in giudizio nei termini loro assegnati, ovvero la causa venga nuovamente cancellata dal ruolo: il beneficio sanante delle proprie inattività viene, quindi, concesso alle parti una sola volta nel corso del procedimento (Liebman, E.T., op. cit., 205; Cass., S.U., 23.4.2001, n. 170).
Infine, e salvo che la legge disponga diversamente, il processo si estingue in via immediata quando le parti cui spetti l’onere di rinnovare la citazione (art. 164 c.p.c.; ma anche la notificazione della citazione, secondo l’art. 291, ult. co., c.p.c.), o di proseguire (ad es. artt. 297, 302 c.p.c.), riassumere (ad es. artt. 50, 34, 35, 36 c.p.c.) o integrare il giudizio (art. 102 c.p.c.) non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice a ciò espressamente autorizzato (per una dettagliata disamina delle diverse ipotesi, si veda, di recente, Pilloni, M., op. cit., 786 ss).
La riforma apportata al co. 4 dell’art. 307 c.p.c. dalla l. n. 69/2009 ha profondamento innovato il profilo dinamico di rilevabilità dei fatti estintivi. Fino a tale modifica, infatti, l’estinzione operava di diritto, ma doveva essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa. In conseguenza di ciò, se si fosse verificato un fatto estintivo astrattamente capace di impedirne l’ulteriore svolgimento, il processo sarebbe nondimeno proseguito come se nulla fosse accaduto qualora l’estinzione non fosse stata formalmente invocata dalle parti prima di qualsiasi altra attività difensiva.
Con un chiaro ritorno al testo originario della norma (che così, in effetti, affermava prima della modifica apportata dal d.lgs. 5.5.1948, n. 483, ratificato dalla l. 14.7.1950, n. 581), il codice di rito, dopo averne ribadito l’operatività di diritto, stabilisce oggi che l’estinzione può essere dichiarata d’ufficio dal giudice, indipendentemente da qualsiasi istanza di parte.
Le parti non potranno, pertanto, più disporre dell’evento estintivo, perché il giudice dovrà limitarsi a dare atto del suo dovere decisorio, senza poter pronunciare altro provvedimento che quello di estinzione (Saletti, A., op.cit., 130 ss.; contra Chizzini, A., Commento all’art. 307 c.p.c., in Balena, G.-Caponi, R.-Chizzini, A.-Menchini, S., La riforma della giustizia civile, Torino, 2009, 99 ss.; Mandrioli, C., Le modifiche al secondo libro del codice, in Mandrioli, C.-Carratta, A., Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 63; Ronco, A., L’estinzione del processo civile rilevabile d’ufficio, in Giur. it., 2013, 227, secondo il quale il giudice non potrebbe officiosamente dichiarare l’estinzione se le parti tengano un comportamento che presuppone un tacito accordo per la prosecuzione). Né a risultato diverso potrebbe condurre il fatto che il giudizio sia comunque proseguito perché, a differenza di quanto previsto nel processo esecutivo (dove la mancata rilevazione immediata del fatto estintivo lo priva di effetto, v. infra,§ 7), qui la dichiarazione di estinzione del processo che non sia stata immediatamente resa potrà essere pronunciata anche in fase decisoria, o addirittura in appello o in sede di cassazione, ancorché la fattispecie estintiva si sia verificata nei precedenti gradi di giudizio: quando la causa nel grado precedente sia stata decisa da chi non ne aveva più facoltà, per aver perduto il potere-dovere decisorio sulla controversia, il giudice dell’impugnazione potrà infatti senza dubbio rilevare il vizio (Saletti, A., op. cit., 130; Luiso, F.P., op. cit., 269 s.; Soldi, A.M., Le modifiche al libro II del codice, in Bucci, A.-Soldi, A.M., Le nuove riforme del processo civile 2009, Padova, 2009, 122).
L’eccezione di parte, pur sempre ammissibile, perde la sua natura di eccezione in senso stretto, e non deve più essere sollevata dall’interessato prima di ogni sua difesa: sono così superate molte difficoltà interpretative circa i limiti posti al giudice nella valutazione di fatti estintivi diversi da quelli eccepiti dalle parti, nonché su alcuni profili di legittimazione (per l’analisi dei quali sia consentito un rinvio a Saletti, A., Estinzione del processo: I - Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 8 s.).
La forma e il conseguente regime di impugnazione del provvedimento di estinzione mutano sensibilmente a seconda dell’organo deputato alla sua pronuncia, nonché del contenuto, di accoglimento ovvero di rigetto, che esso assuma. Il codice di rito, tuttavia, non disciplina espressamente tutte le ipotesi possibili, lasciando aperti numerosi profili problematici: l’ultimo co. dell’art. 307 c.p.c., così come il successivo art. 308 c.p.c., prendono, infatti, in considerazione le sole controversie a decisione collegiale, trascurando completamente la più frequente ipotesi di decisione affidata al giudice monocratico.
Procedendo con ordine, e iniziando, quindi, dalle cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale, va in primo luogo esaminato il caso in cui a decidere sia il giudice istruttore: costui provvede con ordinanza, sia quando dichiara l’estinzione, sia quando respinge la relativa eccezione (Calvosa, C., Estinzione del processo civile, in Nss. D.I.., VI, Torino, 1960, 990). Nel primo caso l’ordinanza è sottoposta a reclamo al collegio a norma dell’art. 308 c.p.c., sicché deve ritenersi irrevocabile e immodificabile dall’istruttore, ex art. 177, co. 3, n. 3, c.p.c. (Vaccarella, R., Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 266 ss.; contra Cavallone, B., Forma ed efficacia dei provvedimenti sulla estinzione del processo di cognizione, in Riv. dir. proc., 1965, 257 e 260). Ai sensi dell’art. 178, co. 3, c.p.c., il reclamo al collegio va proposto entro il termine di dieci giorni, che decorre dalla pronuncia dell’ordinanza, se avvenuta in udienza, ovvero dalla sua comunicazione. Quanto alle forme, esso può essere proposto con dichiarazione da inserirsi a verbale o con ricorso al giudice istruttore (art. 178, co. 4, c.p.c.): nella prima ipotesi, il giudice, se richiesto, assegnerà alle parti nella stessa udienza un duplice termine, per la comunicazione di memorie e per le eventuali repliche; gli stessi termini verranno, invece, assegnati con decreto dal giudice istruttore investito del reclamo mediante ricorso, e comunicati alle parti unitamente all’istanza di riesame. Sul reclamo il collegio provvede entro quindici giorni in camera di consiglio: con sentenza assoggettata agli ordinari mezzi di impugnazione, se lo respinge; con ordinanza, dichiarata espressamente non impugnabile (art. 308, co. 2, c.p.c.), se l’accoglie. In quest’ultimo caso, che si giustifica con la volontà del legislatore di evitare un frazionamento del giudizio a causa di impugnazioni immediate, l’ordinanza non potrà essere modificata o revocata dal collegio, ma solo impugnata unitamente alla sentenza conclusiva del giudizio (Cass., 25.10.1974, n. 3123).
L’ordinanza del giudice istruttore che in primo grado nega l’estinzione, al contrario, non è immediatamente reclamabile al collegio: manca, infatti, un’esplicita previsione in tal senso nell’art. 308 c.p.c., e non sembra che tale norma possa essere applicata in via analogica, poiché il riesame da parte del collegio sul provvedimento dell’istruttore è comunque possibile all’atto della sentenza (Cass., 26.9.1964, n. 2435, in Foro it., 1964, I, 2225). L’ordinanza non sarà nemmeno impugnabile mediante appello, non avendo natura di sentenza perché inidonea a definire il giudizio: in considerazione di ciò, il provvedimento sarà modificabile e revocabile da parte dell’istruttore fino alla decisione di merito, in conformità con l’art. 177, co. 2, c.p.c. oltre che rivisitabile dal collegio in fase decisoria (Cass., 17.11.2011, n. 24176), con esclusione della ricorribilità per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass., 9.9.1995, n. 9510).
Qualora, invece, l’estinzione venga eccepita davanti al collegio, la pronuncia verrà assunta con sentenza, quando sia di accoglimento, e con ordinanza se sia di rigetto, a meno che non si decida l’intero giudizio, nel qual caso la decisione (negativa) sull’estinzione verrà emessa con sentenza. Per quanto concerne l’ordinanza, nonostante manchi un’esplicita previsione su quest’ultimo profilo, appare preferibile un’applicazione analogica della soluzione accolta per il reclamo, sussistendo la medesima esigenza di evitare impugnazioni immediate contro la decisione che rigetta l’eccezione di estinzione, e di impedire il frazionamento del giudizio.
Nei procedimenti in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, nel silenzio del codice si è ormai consolidata la soluzione per cui l’estinzione deve essere dichiarata con sentenza, e, anzi, laddove si sia erroneamente provveduto con ordinanza, questa della sentenza conserva la natura ai fini dell’impugnazione: in ogni caso, infatti, il provvedimento non è soggetto a reclamo, bensì impugnabile con gli ordinari mezzi di gravame (appello, se resa in primo grado; ricorso per cassazione se resa dal tribunale in grado di appello contro sentenze del giudice di pace: Cass., 17.1.2013, n. 1155; Cass., 11.11.2010, n. 22917; Cass., 22.6.2007, n. 14592, la quale precisa che la medesima soluzione vale anche per il provvedimento del giudice unico che rigetta l’eccezione di estinzione).
L’art. 310, co. 1, c.p.c. si apre disponendo espressamente che l’estinzione non fa venir meno l’azione (effetto, questo, riservato alla sola sentenza sul merito: Liebman, E.T., op. cit., 208): la norma dimostra così, con chiarezza, l’autonomia dell’azione dal processo (Vaccarella, R., op. cit., 295 ss.). Al tempo stesso, tale disposizione implica, altresì, che l’estinzione non pregiudica mai direttamente il diritto sostanziale esercitato: soltanto di riflesso, quando venga meno a seguito dell’estinzione l’efficacia sospensiva della prescrizione collegata alla pendenza del processo (art. 2945, co. 2-3, c.c.), l’esercizio del diritto potrà essere precluso, se l’anzidetta prescrizione è ormai maturata.
Il co. 2 dell’art. 310 c.p.c. stabilisce che gli atti processuali, salve alcune eccezioni espressamente considerate (su cui si dirà in prosieguo di questo stesso paragrafo), divengono inefficaci a seguito dell’estinzione, in conseguenza del venir meno della possibile emanazione della sentenza di merito, cui sono strumentali e preordinati (Liebman, E.T., op. cit., 209). È discusso, però, se l’estinzione travolga anche gli effetti sostanziali degli atti, in particolare quelli della domanda (così Zanzucchi, M.T., Diritto processuale civile, II, V ed., Milano, 1962, 160; Cass., 3.7.1980, n. 836; Cass., 11.10.1960, n. 2656), o solo gli effetti processuali (Bianchi D’Espinosa, L.-Baldi, A., Estinzione del processo (diritto processuale civile), in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 919). Questa seconda conclusione merita consenso, poiché non vi è ragione di privare di efficacia ciò che trascende il processo, a meno che non si tratti di effetti sostanziali condizionati alla sua pendenza attuale o finalizzati alla decisione di merito (Vaccarella, R., op. cit., 325). In proposito, mentre non vi è dubbio che l’effetto interruttivo istantaneo della prescrizione permanga (art. 2945, co. 3, c.c.; da ultimo, Cass., 13.4.2010, n. 8720; Cass., 8.3.2010, n. 5570), si discute se altrettanto valga per l’effetto impeditivo della decadenza: nonostante la soluzione negativa sia accolta da autorevole dottrina (Liebman, E.T., op. cit., 209; Mandrioli, C., op. cit., 410) e da giurisprudenza consolidata (Cass., 18.1.2007, n. 1090, in Corr. giur., 2008, 710; Cass., 13.6.1991, n. 6717), l’opzione positiva appare preferibile, ove si consideri che la decadenza è impedita, e non semplicemente interrotta, dal compimento dell’atto previsto dalla legge, e che l’impedimento è effetto tipicamente istantaneo, che uno actu perficitur (Furno, C., Estinzione del processo e impedimento della decadenza, in Riv. dir. proc., 1952, II, 101 ss.; Vaccarella, R., op. cit., 302, ove ulteriori riferimenti; Consolo, C., Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, II ed. riveduta e aggiornata, Torino, 2013, 107, fa salva solo l’ipotesi in cui la legge consideri sufficiente a impedire la decadenza un semplice atto stragiudiziale, dovendosi diversamente optare per la tesi più restrittiva).
Sopravvivono all’estinzione le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza. Quanto alle prime, mentre è pacifico che non perdano efficacia le pronunce di condanna generica e quelle che definiscono talune fra più cause cumulate (Montesano, L., Questioni preliminari e sentenze parziali di merito, in Riv. dir. proc., 1969, 581), è tradizionalmente assai controverso se identica soluzione valga per le sentenze che pronunciano su questioni preliminari di merito: prevale la soluzione affermativa (Liebman, E.T., op. cit., 209 s.; Montanari, M., L’efficacia delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito, in Riv. dir. proc., 1986, 409 ss., cui si rinvia per un completo quadro della dottrina; Cass., 28.11.1986, n. 7040; Cass., 10.2.1981, n. 840, in Foro it., 1982, I, 1153), ora supportata sul piano normativo dal nuovo co. 3 dell’art. 133 disp. att. c.p.c., che estende alle sentenze indicate dall’art. 360, co. 3, c.p.c. (che «decidono di questioni insorte senza definire, neppur parzialmente, il giudizio») la previsione di cui all’art. 129 disp. att. c.p.c., e quindi l’idoneità a convertirsi in sentenze definitive allorquando sia divenuta irretrattabile la pronuncia sull’estinzione del processo (Carratta, A., Commento all’art. 361 c.p.c., in Le recenti riforme del processo civile, I, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2007, 352 s.; Dalfino, D., Questioni di diritto e giudicato. Contributo allo studio dell’accertamento delle «fattispecie preliminari», Torino, 2008, 176).
Quanto alle seconde, le pronunce che regolano la competenza sono gli unici provvedimenti di rito dei quali l’art. 310 c.p.c. sancisce espressamente la salvaguardia: secondo l’opinione ormai consolidata l’espressione usata dal legislatore comporta, tuttavia, la salvezza delle sole ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione in sede di regolamento di competenza (Mandrioli, C., op. cit., 412), cui andrebbero aggiunte altresì quelle rese dalla medesima Corte investita di un ricorso ordinario ex art. 360, n. 2, c.p.c. ma non già quelle pronunciate dai giudici di merito (Arieta, G., La sentenza sulla competenza, Padova, 1990, 370 ss.). Per i provvedimenti emessi dalle Sezioni Unite su regolamento preventivo di giurisdizione, invece, se in passato, sulla base di un’interpretazione letterale dell’art. 310, co. 2, c.p.c. (norma ritenuta eccezionale), si escludeva che conservassero efficacia una volta estinto il giudizio di merito (Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, II, III ed., Napoli, rist. 1957, 347; contra Franchi, G., Giurisdizione italiana e cosa giudicata, Padova, 1967, 43;Vaccarella, R., op. cit., 354), oggi, a fronte della nuova disposizione di cui all’art. 59 l. n. 69/2009 trova autorevoli sostenitori la soluzione positiva (Consolo, C., op. cit., 107; Mandrioli, C., op. loc. ultt. citt.; Califano, G.P., Le vicende anormali del processo, in AA.VV., Le norme sul processo civile nella legge per lo sviluppo economico, la semplificazione e la competitività, Napoli, 2009, 60), sulla base altresì della efficacia panprocessuale riconosciuta in giurisprudenza a tali provvedimenti (Cass., S.U., 14.01.2005, n. 703, in Giust. civ., 2006, I, 667; Cass., S.U., 27.11.2000, n. 1210, in Giur. it., 2001, 1352). Sembra, invece, incontrovertibile che tutte le altre sentenze di mero rito, in quando dotate di portata endoprocessuale, siano destinate a soccombere di fronte all’estinzione del giudizio nel quale sono state pronunziate.
Per completezza, va segnalato che, in virtù di esplicita previsione normativa, altri provvedimenti emessi nel corso del processo estinto conservano efficacia: fra di essi, i più rilevanti sono senz’altro le ordinanze anticipatorie di condanna, come espressamente stabilito – con peculiarità specifiche per ciascuna di esse – dagli artt. 186 bis e 186 ter c.p.c. Rilevante è, altresì, il riconoscimento di ultrattività all’ordinanza con cui il presidente del tribunale o il giudice istruttore abbiano dato i provvedimenti temporanei e urgenti di cui all’art. 708 c.p.c. (art. 189 disp. att. c.p.c.).
All’estinzione del processo sopravvivono, poi, le prove assunte nel processo estinto, che sono tuttavia destinate a essere valutate, in un eventuale nuovo giudizio instaurato dalle parti, come argomenti di prova (art. 310, co. 3, c.p.c.). L’interpretazione di questo assunto, apparentemente assai chiaro, è tutt’altro che pacifica: alcuni autori affermano la necessità di conservare comunque efficacia piena alle prove legali, ridimensionando ad argomenti di prova le sole risultanze liberamente valutabili dal giudice nel processo estinto (Consolo, C., op. cit., 109; Balena, G., Istituzioni di diritto processuale civile, II, II ed., Bari, 2012, 218 ss.); altri ritengono, invece, che l’efficacia di prova legale vada degradata a livello di prova liberamente apprezzabile (Liebman, E.T., op. cit., 210); altri ancora, vanificando sostanzialmente la portata del precetto normativo, sostengono che andrebbe conservata alle prove l’efficacia che era loro propria nel giudizio estinto (Satta, S., op. cit., 450; Vaccarella, R., op. cit., 362). Il tenore letterale della norma, che richiama il solo co. 2 dell’art. 116 c.p.c., e non già il co. 1, rende, tuttavia, difficilmente superabile la tesi secondo cui la regola della mera efficacia come argomento debba valere per tutti i mezzi di prova, compresi quelli dotati nel processo estinto del valore di prova legale (Saletti, A., Estinzione del processo, cit., 14; Vanz, M.C., La circolazione della prova nei processi civili, Milano, 2008, 191 e passim, cui si rinvia per un esaustivo quadro delle diverse posizioni dottrinali sul punto).
Le spese del giudizio estintosi per rinuncia agli atti, a norma dell’art. 306, co. 4, c.p.c. sono a carico della parte rinunciante, salva diversa ed esplicita pattuizione (v. supra, § 2.1). Se, invece, l’estinzione segua a inattività delle parti, le spese restano a carico di chi le abbia anticipate (art. 310, co. 4, c.p.c.): solo quando una parte si oppone alla dichiarazione di estinzione, provocando una controversia in proposito, le spese seguono l’ordinario criterio della soccombenza (Cass., 26.1.2006, n. 1513; Cass., 14.10.1993, n. 10173).
L’estinzione nei giudizi di gravame presenta alcune difformità rispetto al giudizio di primo grado: le differenze investono tanto i fatti estintivi quanto il regime della dichiarazione di estinzione, nonché, e soprattutto, gli effetti sul processo.
Sotto il primo profilo, si può osservare come alcuni eventi estintivi, pur se considerati, siano disciplinati diversamente: così, la mancata costituzione nei termini dell’appellante comporta l’improcedibilità dell’appello (art. 348, co. 1, c.p.c.), come la mancata comparizione dell’appellante costituito alla prima udienza e ad altra appositamente fissata dal collegio (art. 348, co. 2, c.p.c.). Ancora, la mancata integrazione del contraddittorio implica, ai sensi dell’art. 331, co. 2, c.p.c. l’inammissibilità dell’impugnazione.
Va, poi, sottolineato come nel giudizio di cassazione l’estinzione possa verificarsi solo per rinuncia agli atti: essendo tale giudizio caratterizzato – secondo la communis opinio – dall’impulso d’ufficio, è escluso che possano trovarvi applicazione le cause di estinzione ricollegate all’inattività delle parti (per tutti, Liebman, E.T., op. cit., 293).
Quanto alla declaratoria di estinzione, a seguito della modifica apportata dalla l. n. 353/1990 agli artt. 350 e 357 c.p.c. (che ha determinato la soppressione della figura dell’istruttore nel giudizio di appello e del potere allo stesso attribuito di dichiarare con ordinanza reclamabile al collegio l’estinzione del gravame), deve ritenersi che l’adozione del provvedimento spetti senz’altro al collegio, il quale provvede con sentenza, trattandosi di pronuncia che definisce il giudizio su una questione pregiudiziale attinente al processo (art. 279, n. 2, c.p.c.): per il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, allorché tale provvedimento sia stato erroneamente assunto con ordinanza, esso, per giurisprudenza costante, è comunque soggetto alla disciplina della sentenza per quanto riguarda sia il regime delle impugnazioni (onde l’ammissibilità del ricorso per cassazione), sia i requisiti formali di validità (Cass., 27.8.2003, n. 12537; Cass., 23.9.2004, n. 19124; Cass., 8.2.2008, n. 3128). Anche quando giudice dell’appello, essendo impugnate decisioni del giudice di pace, sia il tribunale in composizione monocratica, per le medesime ragioni sistematiche la pronuncia dovrà essere data con sentenza, e non già con ordinanza reclamabile al collegio (Cass., 25.2.2004, n. 3733).
Nel giudizio di cassazione, invece, per effetto della riforma operata dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40, la Corte provvede con sentenza quando deve decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento, altrimenti provvede il presidente con decreto. Ciò, in base all’art. 391 c.p.c., dovrebbe valere anche per le ipotesi «di estinzione del processo disposta per legge», frequenti in materia tributaria, che pure a stretto rigore dovrebbero rientrare fra i casi di estinzione diversi dalla rinuncia per i quali l’art. 375, n. 3, c.p.c. prevede la forma dell’ordinanza (sul punto, De Cristofaro, M., Commenti agli artt. 375 e 391 c.p.c., in Codice di procedura civile, diretto da C. Consolo, II, V ed., Milano, 2013, 1070 e 1196).
Il profilo rispetto al quale si riscontrano le maggiori differenze rispetto al procedimento di primo grado è, tuttavia, quello degli effetti: l’estinzione del processo di gravame, infatti, lungi dal lasciare impregiudicata l’azione, rende definitivo il provvedimento già ottenuto nel precedente grado di giudizio, come se l’impugnazione non fosse stata proposta. L’art. 338 c.p.c., in particolare, afferma che l’estinzione del giudizio di appello o di revocazione ordinaria determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Analogo principio vale anche per il giudizio di cassazione (Mandrioli, C.-Carratta, A., op. cit., 346; Cass., 20.2.2003, n. 2534), mentre si discute della sua operatività rispetto all’estinzione verificatasi nel corso dell’opposizione di terzo o della revocazione straordinaria (per la soluzione affermativa, con effetto preclusivo dell’eventuale riproponibilità dell’impugnazione, Vaccarella, R., op. cit., 222 s.; per la soluzione negativa, Attardi, A., La revocazione, Padova, 1959, 97 ss.; Liebman, E.T., op. cit., 293).
La regola enunciata patisce due ordini di eccezioni. In primo luogo, l’estinzione non provoca il passaggio in giudicato della sentenza gravata quando ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto (art. 338, co. 2, c.p.c.): i provvedimenti di cui trattasi sono soltanto le sentenze non definitive, di rito o di merito, e non già le ordinanze rese in grado di appello, che non possono pregiudicare la causa di merito, e quindi nemmeno possono modificare gli effetti della sentenza impugnata (Cass., 10.11.2006, n. 24027; Cass., 11.6.1998, n. 5799; Consolo, C., op. cit., 77 ss.; contra Satta, S., op. cit., 98).
D’altro canto, i fatti estintivi verificatisi nel corso del giudizio di rinvio provocano l’estinzione dell’intero processo (art. 393 c.p.c.), con la conseguenza di impedire il passaggio in giudicato sia della sentenza cassata che di quella pronunciata in primo grado: sopravvive, in questa ipotesi, la sentenza della Corte di cassazione, che conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda (da ultimo, Cass., 18.3.2014, n. 6188); ma altresì si salvano le decisioni di merito già passate in giudicato, che abbiano definito il giudizio rispetto ad alcuna delle domande proposte ovvero a capi delle domande stesse (Cass., 21.12.2012, n. 23813; Cass., 6.9.2012, n. 14928).
L’estinzione del processo esecutivo, così come avviene per quello di cognizione, può essere determinata da una rinuncia agli atti esecutivi, ovvero dall’inattività delle parti.
Quanto alla rinuncia, disciplinata dall’art. 629 c.p.c., si può ritenere che abbia natura analoga all’omologo istituto previsto dall’art. 306 c.p.c.: qui oggetto di rinuncia sarà il processo esecutivo, che quindi dovrà aver avuto inizio, e pertanto l’ipotesi dovrà essere tenuta distinta dalla rinuncia al precetto, che trova la sua fonte nel diritto sostanziale (Cass., 5.1.1966, n. 114), così come dalla rinuncia ai giudizi di opposizione, che hanno un diverso oggetto. La legittimazione a compiere la rinuncia varia a seconda della fase processuale in cui essa interviene: prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione deve essere compiuta da tutti i creditori muniti di titolo esecutivo, anche se tardivamente intervenuti (Cass., 30.11.2005, n. 26088, in Giur. it., 2006, 2117; Cass., 11.6.1987, n. 5086; Trib. Bari, 4.12.2006, in DeJure); dopo la vendita, invece, la rinuncia deve provenire da tutti i creditori concorrenti, anche se sprovvisti di titolo. In entrambi i casi la rinuncia dovrà essere effettuata dalla parte o dal suo procuratore speciale, verbalmente all’udienza o con atto sottoscritto e notificato alle altre parti: non sarà, tuttavia, mai necessaria l’accettazione del debitore, perché costui non ha alcun interesse alla prosecuzione dell’esecuzione (Micheli, G.A., op. cit., 40).
L’inattività delle parti, invece, è produttiva di estinzione in due ipotesi, distintamente disciplinate dal codice di rito: la mancata prosecuzione o riassunzione del processo esecutivo nel termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice, prevista dall’art. 630, co. 1, c.p.c. e che si realizza nelle ipotesi di cui agli artt. 497, 547 ult. co., e 627 c.p.c., nonché 156 disp. att. c.p.c.; e la mancata comparizione di tutte le parti a due udienze, quella originaria e quella successiva fissata dal giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 631 c.p.c. (con la precisazione che non rileva la mancata comparizione all’udienza di vendita).
La l. n. 69/2009, ha modificato il co. 2 dell’art. 630 c.p.c., e con esso il regime dell’estinzione per inattività nel processo esecutivo: parallelamente a quanto introdotto per il giudizio di cognizione dal nuovo art. 307, co. 4, c.p.c. è oggi previsto che anche l’estinzione del processo esecutivo non sia più assoggettata esclusivamente all’eccezione di parte, ma che sia altresì rilevabile d’ufficio. La somiglianza fra le due fattispecie, tuttavia, termina qui, perché l’art. 630 c.p.c. si affretta a introdurre un limite temporale per il rilievo del fatto estintivo nel processo esecutivo, sconosciuto al processo cognitivo: la declaratoria di estinzione, infatti, deve intervenire non oltre la prima udienza successiva al verificarsi della stessa. Ciò determina un regime meno rigido di quello previsto per il processo di cognizione, poiché nel processo esecutivo il comportamento omissivo delle parti o del giudice può far sì che il fatto estintivo, pur operando di diritto, in concreto diventi irrilevante ai fini della prosecuzione del processo (Saletti, A., Commento all’art. 630 c.p.c., in Commentario alla riforma del codice di procedura civile, cit., 215).
Già aperta al rilievo d’ufficio era la fattispecie di cui al successivo art. 631 c.p.c., per il quale, a seguito di due udienze andate deserte, il giudice procede officiosamente alla declaratoria di estinzione. Piuttosto, occorre, oggi, chiedersi se vada estesa anche a tale fattispecie la decadenza prevista dall’art. 630, co. 2, c.p.c. nel caso di mancato rilievo del fatto estintivo entro l’udienza successiva al suo verificarsi: la soluzione preferibile pare essere quella affermativa, in via di applicazione quanto meno analogica dell’intera disciplina dettata per l’ipotesi generale (Saletti, A., Commentario alla riforma del codice di procedura civile, cit., 218 s., individua altresì elementi letterali, quali il rinvio dal co. 3 dell’art. 631 c.p.c. al co. 3 del precedente art. 630 c.p.c., che farebbero propendere per l’identità di trattamento processuale).
Quanto agli effetti dell’estinzione del processo di esecuzione, essa non travolge l’azione esecutiva, ma rende inefficaci gli atti compiuti (art. 632, co. 2, c.p.c.). Tuttavia, la situazione è assai diversa a seconda che l’evento estintivo si verifichi prima o dopo l’aggiudicazione o l’assegnazione, anche provvisoria ex art. 187 bis disp. att. c.p.c.: nel primo caso cadono tutti gli atti del processo esecutivo, a eccezione di quelli posti legittimamente in essere dal custode con i terzi; nel secondo, gli atti rimangono validi, e la somma ricavata dalla vendita o dall’assegnazione va consegnata al debitore (contra Carnelutti, F., Istituzioni del processo civile italiano, III, V ed., Roma, 1956, 129).
Artt. 306, 307, 308, 310, 338, 375, 390, 391, 393, 629, 630, 631, 632, 633 c.p.c.; artt. 129, 133, 187 disp. att. c.p.c.
Balena, G.-Caponi, R.-Chizzini, A.-Menchini, S., La riforma della giustizia civile, Torino, 2009; Bianchi D’Espinosa, L.-Baldi, A., Estinzione del processo (diritto processuale civile), in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 916 ss; Cipriani, F., La declaratoria di estinzione per inattività delle parti del processo di cognizione di primo grado, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1966, 122 ss.; Consolo, C., Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, II ed. riveduta e aggiornata, Torino, 2013; Liebman, E.T., Manuale di diritto processuale civile, II, rist. IV ed., Milano, 1984; Mandrioli, C., Diritto processuale civile, XXII ed. aggiornata da A. Carratta, Torino, 2012; Mandrioli, C., Le modifiche al libro secondo del codice, in Mandrioli, C.-Carratta, A., Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 59 ss.; Massari, A., Rinunzia agli atti del giudizio, in Nss. D.I., XV, Torino, 1968, 1162 ss.; Monteleone, G., Estinzione (processo di cognizione), in Dig. civ., VIII, Torino, 1992, 131 ss.; Pilloni, M., Commento all’art. 307 c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, diretto da L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani e R. Vaccarella, III, Torino, 2012; Punzi, C., Il processo civile. Sistema e problematiche, II, II ed., Padova, 2010; Saletti, A., Estinzione del processo: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994; Saletti, A., Commento agli art. 307 e 630 c.p.c., in Saletti, A.-Sassani, B., a cura di, Commentario alla riforma del codice di procedura civile (Legge 18 giugno 2009, n. 69), Torino, 2009; Vaccarella, R., Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975.