Abstract
Viene esaminato il delitto di estorsione, previsto e punito all’art. 629 c.p., sia attraverso una illustrazione analitica dei suoi elementi tipici essenziali – la violenza, la minaccia, la costrizione, l’atto di disposizione patrimoniale, l’ingiusto profitto e l’altrui danno –, così come interpretati dalla prevalente dottrina e giurisprudenza; sia attraverso un’indagine sistematica, mettendolo in rapporto con le altre ipotesi delittuose che possano apparentemente concorrere con questo reato, per delimitarne gli elementi peculiari e distintivi.
L’estorsione è tradizionalmente collocata dalla dottrina tra i delitti con la cooperazione artificiosa della vittima, sottocategoria dei delitti contro il patrimonio, che si caratterizza appunto per il fatto che il reato si perfeziona solo attraverso il necessario apporto del soggetto passivo, che si trova costretto a compiere un’attività pregiudizievole per il suo patrimonio (per tutti, cfr. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, II, t. 2, V ed., Bologna, 2007, 147 s.; Mantovani, F., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, Delitti contro il patrimonio, III ed., Padova, 2009, 167 ss.).
Da qui la difficoltà di emersione del delitto, che presenta un’elevata cifra nera, dovuta proprio alla indisponibilità della stessa vittima a denunciare i propri estortori, dovuta sia ad una certa vergogna, caratteristica della cd. estorsione da silenzio, nella quale l’autore mira a conseguire il profitto illecito minacciando di rilevare fatti illeciti, anche moralmente, che riguardano la vittima, ove questa si rifiuti di cedere al «ricatto»; sia al timore che si realizzino i danni e le violenze fisiche o morali prospettate.
A fronte però di dati statistici che farebbero pensare ad una scarsa frequenza della commissione di questo reato, nella realtà fenomenica, in particolare nel settore del commercio e dell’attività lavorativa, questo delitto è assai diffuso, e spesso collegato più in generale alle attività della criminalità organizzata (cd. racket, conosciuto in Italia con il termine di «pizzo», ovvero di «ricompensa per la protezione»), che costringono negozianti e imprenditori al versamento di una percentuale sull’incasso o una quota fissa, con la minaccia di infliggere loro danni materiali o fisici, che vengono effettivamente attuati in caso di mancato o ritardato pagamento.
Solo negli ultimi anni, a seguito di una maggiore sensibilizzazione anche del tessuto sociale per il fenomeno del cd. racket, e della introduzione di alcune politiche di sostegno per le vittime di questo reato (v. l. 23.2.1999, n. 44, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), le denunce sono aumentate, e dunque si è rafforzata anche l’opera di contrasto a questo odioso reato, la cui cifra nera rimane comunque ancora molto elevata.
Con il delitto di estorsione previsto dall’art. 629 c.p. il legislatore fascista del ‘30, prendendo come riferimento, sotto il profilo tecnico normativo, la figura di reato della violenza privata, ha fuso in un’unica fattispecie le due diverse ipotesi di estorsione previste dal codice Zanardelli del 1889 all’art. 409, che puniva la cd. estorsione propria, e all’art. 407, che puniva la cd. «rapina di atti». Oggi il delitto di estorsione, rimasto immutato rispetto alla versione originaria del codice Rocco sotto il profilo dei suoi elementi costitutivi tipici, è costruito come un reato di evento a forma vincolata, incentrato sulla realizzazione di un ingiusto profitto con altrui danno, collegato eziologicamente alla condotta violenta e minacciosa ed al conseguente stato di intimidazione subito dalla vittima, che la porta a compiere un’attività patrimonialmente per sé dannosa. Secondo dottrina e giurisprudenza assolutamente pacifiche, il delitto di estorsione presenterebbe, infatti, evidenti caratteri di plurioffensività, in quanto, pur essendo previsto tra i delitti contro il patrimonio, questa fattispecie non appresta una tutela esclusivamente agli interessi patrimoniali della vittima, bensì anche alla sua libertà di autoderminazione, che viene fortemente lesa dalla condotta coattiva dell’agente (cfr., per tutti, Conti, L., Estorsione, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 996).
Il delitto di estorsione è un reato comune non essendo richieste qualifiche particolari nell’autore, che pertanto può essere chiunque. Il soggetto passivo normalmente viene individuato nel titolare del potere giuridico di disporre dei beni o dei diritti, dalla cui cessione o rinuncia il soggetto attivo trae un ingiusto profitto per sé o per altri. Per questa ragione, anche se la violenza o la minaccia sono dirette nei confronti di persona diversa da quella dalla quale si pretende l’azione o l’omissione, solo quest’ultima potrà essere considerata vittima del reato, poiché è su di essa che ricadranno gli effetti della violenza morale, che la costringerà a disporre del proprio patrimonio (si pensi alla frequente ipotesi in cui la minaccia è rivolta ad un figlio o alla moglie, per costringere il padre o il marito a disporre del proprio patrimonio). In sostanza, nel caso in cui il terzo sia una persona che sia legata da un particolare legame affettivo al soggetto titolare del bene o del diritto, di cui si pretende la disposizione, la vis diretta al primo si risolverà, sotto il profilo psicologico, in una minaccia nei confronti del secondo soggetto, che potrà dunque essere considerato vittima del reato di estorsione (in questo senso Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 154; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 168).
L’esistenza di un rapporto di parentela, invece, tra il soggetto passivo e il reo, ai sensi del disposto di cui al co. 3 dell’art. 649 c.p., non esclude la punibilità a titolo di estorsione, poiché la speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p. è espressamente esclusa con riferimento ai delitti di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p., così come per tutti i delitti contro il patrimonio che siano commessi con violenza alle persone. Costituisce, tuttavia, un profilo piuttosto ancora controverso se il disposto di cui all’art. 649, co. 3, c.p. debba essere applicato anche al tentativo di estorsione compiuto ai danni di un congiunto. Due sono le tesi che si contendono il campo. Secondo una prima opzione, l’esclusione dell’esimente per i delitti contro il patrimonio in danno di congiunti si riferisce, nel fare menzione dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, alle sole forme consumate e non anche a quelle tentate (Cass. pen., 25.3.1998, Vergani, in Guida dir., 1998, n. 9, 117 ss., e in Foro it, 2000, II, c. 155, con nota di M.C. Bisacci, Sulla punibilità del tentativo nei delitti contro il patrimonio commesso a danno di congiunti). Sotto il profilo squisitamente letterale, il tenore della norma non lascerebbe dubbi: non menzionando espressamente il tentativo, la disposizione non può interpretarsi estensivamente, risolvendosi in un esercizio ermeneutico vietato perché in malam partem. A livello sistematico, poi, il reato tentato costituisce una figura criminosa a sé stante e dà luogo ad un autonomo titolo di reato, che costituisce comunque un’ipotesi più lieve rispetto al delitto consumato, onde se ne inferisce che il legislatore abbia inteso fare una graduazione di gravità, non menzionando il tentativo (cfr. Cass. pen., sez. II, 27.2.2009, Freguglia, in CED Cass., 244054; Cass. pen., sez. VI, 4.7.2007, Paskovic, CED Cass., n. 241512; Cass. pen., sez. II, 15.3.2005, Scibile, CED Cass., n. 231051).
Secondo l’opposto orientamento, invece, l’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p., in riferimento alle fattispecie criminose di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione è normativamente estesa anche alle corrispondenti fattispecie di tentativo, che strutturalmente comportano l’uso della violenza alla persona, pur solo preordinata e non realizzata, poiché, inoltre, si sostiene che sotto l’egida della nozione di «violenza alle persone» debba essere ricondotta anche la minaccia (cfr. Cass. pen., sez. VI, 18.12.2007, Casale, CED Cass., n. 240500, nella quale si è precisato che nell’espressione utilizzata nell’ult. parte dell’art. 649, co. 3, c.p., rientra anche la violenza morale, e ciò perché tutte le fattispecie criminose a cui si riferisce la causa di non punibilità si connotano per l’equiparazione della violenza alla minaccia; Cass. pen., sez. II, 8.6.1988, Bruni, in Riv. pen., 1989, 249).
La giurisprudenza più recente, tuttavia, dopo aver dato minuziosamente atto del contrasto giurisprudenziale che divide la Suprema Corte di legittimità sul tema, pur ritenendo di condividere il primo orientamento, che considera il tentativo come fattispecie autonoma rispetto al corrispondente reato consumato, afferma che l’ultima parte del co. 3 dell’art. 649 c.p. esclude la punibilità del tentativo del reato di cui all’art. 629 c.p. ove sia commesso con minaccia, posto che la suddetta fattispecie criminosa rientra nella locuzione «ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone» che, dovendo essere interpretato restrittivamente, comprende la sola violenza fisica e non anche la minaccia o violenza psichica (così, da ultimo, Cass. pen., sez. II, 15.6.2010, n. 28210). Che le due nozioni debbano essere tenute ben distinte – quantomeno ai fini dell’art. 649 c.p. – si desume dal fatto che, se davvero non vi fosse alcuna differenza, allora non si capirebbe il motivo per cui il legislatore abbia tenuto differenziate le due categorie di reati: da una parte, gli artt. 628, 629 e 630 c.p., dall’altra, «ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza». Ciò posto, «se si tiene presente che la minaccia, proprio perché è un male futuro, ed è, quindi, un qualcosa di meno grave della violenza (che è un male in atto), allora appare chiaro che la non punibilità (ad eccezione delle ipotesi di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p.) trova una sua logica spiegazione, dovendosi inquadrare quel comportamento fra quelle azioni criminose per le quali il legislatore non ha ritenuto intervenire lasciando che si risolvano spontaneamente nell’ambito delle dinamiche familiari. Stesso discorso, mutatis mutandis, può essere fatto per il tentativo dei reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. sempre che non siano commessi con violenza, proprio perché, essendo il tentativo un qualcosa di meno grave del reato consumato, si può presumere che il conflitto patrimoniale fra agente e soggetto passivo possa essere ricomposto bonariamente all’interno della famiglia» (Cass. pen., sez. II, 15.6.2010, n. 28210).
Il delitto di estorsione è costruito come un reato di evento a forma vincolata, in quanto la condotta è precisamente descritta dalla norma incriminatrice, che richiede per la sua integrazione l’uso della «violenza» o «minaccia» diretta a costringere il soggetto passivo.
Così come per la rapina e per la violenza privata, perciò, le due modalità esecutive, alternative o congiunte, della violenza o della minaccia integrano il mezzo necessario per la realizzazione dell’evento intermedio, di natura psicologica, consistente nella coartazione della volontà del soggetto passivo, che sarà perciò indotto a realizzare l’evento finale, che consiste nella disposizione patrimoniale lesiva del bene patrimonio con altrui ingiusto profitto.
Attraverso una lettura sistematica del concetto di violenza richiamato nell’art. 629 c.p., messo in relazione al medesimo elemento previsto come modalità di condotta nel delitto di rapina, la dottrina prevalente è arrivata ad escludere che la violenza rilevante ai fini dell’estorsione sia una vis absoluta, che è invece quella richiesta nel delitto di cui all’art. 628 c.p. In caso contrario, infatti, il soggetto passivo non sarebbe in grado di porre in essere l’atto dispositivo del proprio patrimonio, ovvero l’azione od omissione necessarie per l’integrazione del reato. Questi atti dispositivi dovranno essere comunque riferibili al soggetto che li compie, il quale deve quindi conservare uno spazio di libertà tale da poter scegliere se sottostare all’estorsione o subire la violenza. La violenza rilevante per l’estorsione si pone perciò a metà strada tra la violenza assoluta, richiesta per il delitto di rapina, e la minaccia, contemplata nella fattispecie come altra modalità esecutiva del delitto.
In dottrina, inoltre, ci si è interrogati se la violenza rivolta verso le cose (cd. violenza reale) sia sufficiente a realizzare gli estremi del reato. Secondo parte risalente della dottrina, ai fini dell’art. 629 c.p., rileverebbe solo la violenza rivolta alle persone, poiché quella cd. reale non sembrerebbe in grado di costringere taluno a compiere od omettere un atto (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, agg. da P. Nuvolone-G.D. Pisapia, V ed., IX, Torino, 1984, 448). Questo assunto però si rileva del tutto infondato, sia sotto il profilo della prassi, nella quale in realtà la violenza sulle cose costituisce una delle modalità più frequenti di intimidazione e coartazione della libertà di disposizione patrimoniale di un soggetto (diffusissimi i casi, ad esempio, di danneggiamento di cose, di incendio dei negozi o di uccisione di animali, ecc.); sia sotto il profilo strutturale e sistematico, poiché la lettera dell’art. 629 non specifica nulla in merito alla direzione della violenza, a differenza dell’ipotesi di rapina, nella quale il legislatore ha specificato che debba trattarsi di «violenza alla persona» (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 151; Marini, G., Delitti contro il patrimonio, Torino, 1999, 222 ss.).
Più problematica appare invece la distinzione concettuale tra violenza e minaccia, proprio in relazione al delitto di estorsione, tanto che taluno in dottrina ha messo in discussione l’effettiva autonomia concettuale della violenza dell’estorsione rispetto alla minaccia. In effetti, se la violenza non può mai consistere in una costrizione assoluta, tale da annullare completamente la libertà di autoderminazione della vittima, pur dovendo produrre l’effetto di ottenere da questo il comportamento desiderato, sembra che questa si traduca in realtà in una forma di minaccia «particolarmente efficace», effettuata materialmente, piuttosto che verbalmente (Marini, G., Estorsione, in Dig. pen., IV, Torino, 1990, 383; in senso contrario la giurisprudenza di legittimità, come si è visto supra § 2, parlando dell’esimente di cui all’art. 649 c.p., per la cui interpretazione, ai fini dell’applicazione di questa norma all’ipotesi di tentata estorsione, la Suprema Corte ha invece affermato l’assoluta autonomia concettuale tra i due concetti).
Dalla violenza, che concerne dunque un male in atto, si differenzia la minaccia (o violenza morale), che consiste nell’annuncio (che può essere fatto anche con gesti) di un male ingiusto futuro, rivolto ad altra persona, con scopo intimidatorio diretto a restringerne la libertà psichica o a turbarne la tranquillità. Essa rappresenta il mezzo più comune di realizzazione del delitto in esame e si estrinseca, secondo la definizione preferibile e generalmente accolta, nella «prospettazione al soggetto passivo del futuro verificarsi di un male ingiusto dipendente (o presentato come dipendente) dal fatto o comunque dalla volontà dell’agente» (Marini, G., Delitti, cit., 223).
È del tutto indifferente, anche per la giurisprudenza, la forma o le modalità in cui si realizza la minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque rivesta i caratteri della serietà e della idoneità rispetto all’evento intermedio della coartazione della volontà del soggetto passivo, che deve venire perciò a trovarsi in una tale condizione di soggezione e di timore, che non gli consenta ragionevolmente di potere adottare iniziative alternative, relativamente al proprio patrimonio, meno drastiche e dannose rispetto a quella prospettata (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 152; Cass. pen., sez. II, 20.5.2010, n. 19724; Cass. pen., sez. V, 22.9.2009, n. 41507).
La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità a integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione, secondo la giurisprudenza prevalente, vanno valutate in relazione alle concrete circostanze oggettive del caso, quali, a titolo esemplificativo: la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, purché dunque la vittima abbia percepito il male prospettato come effettivamente possibile, a nulla rilevando che esso, al contrario, non potesse in realtà concretizzarsi (Conti, L., op. cit., 998; si v. anche Cass. pen., 20.4.1982, Coro, in Giust. pen., 1983, II, c. 289).
La notevole varietà di forme in cui si può manifestare la minaccia nel reato di estorsione dipende indubbiamente anche dalla vasta gamma di beni sui quali questa condotta può ricadere. Si passa infatti dal patrimonio del soggetto passivo, nel caso del ladro che minacci di distruggere l’auto del proprietario, ove questi non gli versi una somma di denaro (tipica ipotesi di cd. cavallo di ritorno, v. infra § 4.3), a beni di natura personale, quali la vita, l’integrità personale; ovvero i beni della personalità, quali l’onore, la reputazione, nei “classici” esempi del giornalista che estorce denaro a noti personaggi della politica o dello spettacolo in cambio della mancata pubblicazione di notizie o immagini scandalistiche; fino ad arrivare a beni strumentali, quali la tranquillità del domicilio (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 153). Sotto questo profilo, occorre inoltre ricordare che per lungo tempo è stata ritenuta caratteristica indispensabile per la configurabilità del delitto di estorsione, la natura giuridica del bene oggetto di minaccia. Parte della dottrina, perciò, riteneva inidonea la minaccia di rompere un’amicizia, poiché relativa ad un bene di rilevanza meramente sociale (Mantovani, F., Estorsione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 2). La giurisprudenza più recente, tuttavia, ha ritenuto che anche la minaccia di interrompere un legame affettivo o l’affiliazione della vittima ad un gruppo amicale, pur non assumendo di per sé rilievo giuridico, possa comunque essere ritenuta strumento idoneo di coazione per l’ottenimento di un ingiusto profitto, sempre se valutata in relazione alle circostanze concrete, ed in particolare, ad esempio, in ragione della particolare condizione di debolezza della vittima, che la induca a collegare all’evento minacciato conseguenze deteriori del tutto esorbitanti dal dolore normalmente collegato all’abbandono o al tradimento, e della consapevole strumentalizzazione di tale condizione di debolezza da parte dell’agente (così spec. Cass. pen., sez. II, 12.7.2007, C. e altri, in Foro. it., 2008, II, c. 168).
È tuttavia necessario ricordare che per la sussistenza del delitto non è richiesto che la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia, sia completamente esclusa, bensì è sufficiente che la possibilità di autodeterminazione della vittima sia così condizionata dal timore di subire il pregiudizio prospettato, che gli residui la sola possibilità di scegliere fra sottostare alle richieste dell’agente o subire il male minacciato. Al contrario, invece, se la minaccia si risolvesse in un costringimento psichico assoluto, cioè in un annullamento di qualsiasi possibilità di scelta, ed il risultato ottenuto dall’agente fosse il conseguimento di un bene mobile, si configurerebbe infatti un vero e proprio «impossessamento» e, conseguentemente, il diverso reato di rapina (Cass. pen., sez. II, 17.10.1995, Fierro, in Cass. pen., 1997, 406).
Altro aspetto importante, da sempre controverso in dottrina come in giurisprudenza, riguarda la rilevanza penale di una minaccia di un comportamento omissivo. Secondo la prevalente letteratura, però, la minaccia potrà configurare strumento di estorsione solo a condizione che sul soggetto minacciante gravi un obbligo giuridico di compiere l’azione di cui si prospetta l’omissione (per tale esempio v. Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 152; in senso conf. Baccaredda Boy, C.-Lalomia, S., I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da G. Marinucci-E. Dolcini, vol. VIII, Padova, 2010, 534; Conti, L., op. cit., 998; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 169; Marini, G., Delitti, cit., 228).
Un noto caso, che viene generalmente richiamato come esempio di applicazione del delitto di estorsione commesso attraverso la minaccia di un comportamento omissivo ha riguardato un sindacalista che, avendo dato inizio ad uno sciopero, che rischiava di portare al fallimento un’impresa, già in condizioni economiche precarie, ha chiesto all’imprenditore, in cambio della decisione di revocare lo sciopero stesso, una somma di denaro (Trib. Bari, 2.12.1981, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 797 ss., con nota di G. Sellaroli, Un’ipotesi di estorsione al passo con i tempi: il sindacalista che minaccia un comportamento omissivo). Pur non essendo configurabile in capo all’agente un obbligo giuridico di impedire l’evento della chiusura dell’azienda, causata dall’aggravarsi della sua crisi economica, dovuta al persistere dei conflitti sindacali, il giudice di merito riconobbe il sindacalista responsabile di estorsione per aver minacciato l’imprenditore di non attivarsi per interrompere lo sciopero dallo stesso innescato. La dottrina, tuttavia, pur condividendo l’inquadramento della condotta nell’ambito del delitto di estorsione, ha da subito rilevato come nel caso di specie non ricorresse una vera ipotesi omissiva, bensì attiva, poiché il comportamento minaccioso consisteva, a ben vedere, nel prospettare il mantenimento di una situazione dannosa, che il soggetto aveva contribuito a cagionare (Sellaroli, G., op. cit., 797; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 153; parzialmente diff. Mantovani, F., Diritto penale, cit., 169, spec. nt. 5, secondo il quale non vi sarebbe affatto il delitto di estorsione, non potendosi configurare alcun obbligo giuridico in capo al sindacalista di salvare l’impresa in crisi).
In ogni caso, a dimostrazione della notevole diffusione di questo reato, la prassi ha individuato delle ipotesi peculiari di estorsione, che si sono così frequentemente ripetute nel tempo, da costituire ormai delle vere e proprie sottofattispecie tipiche di reato estorsivo, rivelando delle autonome caratteristiche, che pare doveroso, pertanto, viste le loro specificità, prendere in esame singolarmente.
Nella più ampia tematica, appena sopra esposta, della rilevanza ex art. 629 c.p. della minaccia mediante omissione, la giurisprudenza di legittimità, in numerosi precedenti, avallata anche da parte di certa dottrina, era solita farvi rientrare la condotta del locatore che esiga dall’aspirante conduttore un canone maggiore di quello prestabilito per legge, prospettandogli, in caso di rifiuto, la mancata stipula del contratto. La prima importante decisione della Suprema Corte sul punto (Cass. pen., 24.4.1980, Paci, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 1445 ss., con nota di C. Pedrazzi, Estorsione mediante minaccia di comportamento omissivo?, e, ex plurimis, in Cass. pen. mass., 1981, 753 ss., con nota di G. Lattanzi, Osservazioni in tema di estorsione del locatore per la pretesa di un canone superiore a quello legale) aveva considerato responsabile di estorsione il proprietario di un alloggio che richiedeva un canone di locazione notevolmente più alto di quello consentito dalla l. 27.7.1978, n. 392, cd. sull’equo canone, approfittando dello stato di fabbisogno grave ed impellente del conduttore, atteso che le modalità concrete di svolgimento del fatto potevano condurre a ritenere che la condotta del soggetto agente avesse costituito una vera e propria minaccia. Questa pronuncia, tuttavia, aveva incontrato notevoli resistenze nella prevalente dottrina, che sottolineava come in realtà il non facere, oggetto della minaccia, riguardi un ambito in cui non vi è alcun obbligo giuridico di attivarsi da parte del locatore, stante il principio di autonomia negoziale, puntualizzando inoltre che l’unico caso in cui può ritenersi configurabile una ipotesi di estorsione sarebbe quello in cui il locatore minacci di non adempiere alle obbligazioni derivanti da un contratto già concluso (Pedrazzi, C., Estorsione mediante minaccia di comportamento omissivo?, cit.; Mucciarelli, F., Il comportamento omissivo del locatore e il reato di estorsione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, 813 ss.; in questo senso anche Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 153; Marini, G., Delitti, cit., 227); ovvero, al massimo, minacci di abbandonare delle trattative già avviate per ottenere un fine ingiusto, sebbene in quest’ultima ipotesi, a ben vedere, non si tratti di una omissione, bensì di una condotta attiva avente ad oggetto un non facere (così precisa Lattanzi, G., Osservazioni in tema di estorsione del locatore, cit.). Proprio sulla base di queste osservazioni, la giurisprudenza ha in seguito avviato un ripensamento, precisando che, stante il principio di autonomia contrattuale, non è ravvisabile l’estorsione nella condotta del locatore che chieda un canone illegittimo, con la minaccia di non stipulare il contratto, in quanto questa condotta è priva di reale effetto costrittivo sul soggetto passivo, visto che la pretesa di stipulare la locazione ad un canone più elevato rispetto a quello legale darebbe luogo in ogni caso ad una clausola illecita e perciò nulla ex lege (Cass. pen., sez. II, 6.3.1989, Savini, in Cass. pen., 1990, 1728; Cass. pen., sez. II, 16.3.1989, Caposoni, in Riv. pen., 1990, 560), sempre che non si realizzino però atti specifici e concreti diretti a coartare la volontà della controparte e a realizzare un ingiusto profitto (così Pinto, M., I delitti contro il patrimonio mediante violenza alle persone, Torino, 2009, 168).
Sulla scorta dell’orientamento prevalente secondo il quale non occorre che la minaccia sia esplicita e diretta, bensì sia sufficiente anche una prospettazione implicita e assolutamente indiretta, soprattutto in relazione alle circostanze concrete, è stata altresì elaborata la figura della cd. estorsione ambientale, espressione anch’essa di creazione giurisprudenziale (T. Vercelli, 2.2.1995, in Foro it., 1995, II, c. 365, con nota di A. Tesauro, «Meglio prevenire che curare»: la cd. estorsione ambientale al vaglio della giurisprudenza di merito), come la nota figura della concussione ambientale, che si riscontrerebbe in tutti quei casi nei quali la minaccia possa evincersi dal solo contesto in cui la vittima si trova ad operare.
La dottrina sembra tuttavia condivisibilmente critica nei confronti di questa figura delittuosa, sostenendo che non sembra sufficiente che la potenziale vittima abbia agito per timore di ritorsioni, perché già avvenute nei confronti di altri soggetti, richiedendo invece sempre che sia possibile provare una coartazione specifica da parte dell’agente (Mantovani, F., Diritto penale, cit., 169).
Questa fattispecie si configura quando il ladro solleciti il derubato al versamento di una somma di denaro per farlo rientrare in possesso del bene sottrattogli, sotto la minaccia della sua perdita definitiva. La giurisprudenza e la dottrina prevalenti ritengono che in queste circostanze sia integrata la fattispecie di estorsione, in quanto la costrizione è determinata dalla minaccia implicita e contestuale alla stessa richiesta di pagamento, essendo il derubato consapevole del fatto che l’omesso versamento si tradurrebbe immediatamente nella perdita definitiva del bene (Cass. pen., sez. II, 29.3.1990, in Riv. pen., 1991, 394). Questa condotta non può costituire un mero post factum non punibile del furto, considerando l’estorsione uno dei modi di manifestazione del dolo specifico di questo delitto, poiché in questa fattispecie si realizza anche la coartazione della volontà del derubato (Mantovani, F., Estorsione, cit., 5). Si ritiene perciò che integri il delitto di estorsione anche il fatto di colui che chiede e ottiene dal derubato il pagamento di una somma di denaro come corrispettivo dell’attività di intermediazione posta in essere per la restituzione del bene sottratto, in quanto, anche in questa ipotesi, la vittima subisce gli effetti di una minaccia implicita, e cioè quella della mancata restituzione del bene in mancanza del versamento della richiesta di denaro, a compenso dell’attività di intermediazione svolta (Cass. pen., sez. II, 2.12.2004, n. 4565; Cass. pen., sez. I, 22.1.2010, n. 7921).
Secondo un orientamento piuttosto diffuso in dottrina, inoltre, non è necessario che la minaccia sia anche ingiusta, purché sia indirizzata ad un fine ingiusto, ovvero all’ottenimento di un profitto ingiusto con altrui danno (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 152), come nella frequente ipotesi in cui il datore di lavoro prospetti ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale, la perdita del posto di lavoro nel caso in cui non accettino un trattamento retributivo inferiore a quello risultante dalle buste paga o condizioni peggiori del dovuto, che costituiscono altresì il frutto di un accordo contrattuale precedentemente instaurato con i lavoratori. L’attrazione dei comportamenti datoriali nell’area dei delitti contro il patrimonio, o contro la personalità morale, è una tendenza giurisprudenziale, che, pur essendo emersa già in passato (Cass. pen., sez. II, 18.3.1986, in Riv. pen., 1987, 489; Cass. pen., sez. VI, 12.4.1999, n. 1281, in Riv. pen., 2000, 464), mostra negli ultimi anni un deciso incremento. Secondo una condivisa giurisprudenza di legittimità, infatti, pur trattandosi anche in tal caso di un contratto, la vittima-lavoratore, a differenza del conduttore, non è libera di contrarre il negozio e poi eventualmente di far dichiarare una clausola nulla, ma è coartata a determinarsi nel senso voluto dall’agente, nella convinzione che l’adesione alle sue richieste determini, per il suo patrimonio, un pregiudizio inferiore a quello conseguente al verificarsi del male prospettato, ovvero alla perdita del posto di lavoro, specie in un contesto di forte depressione occupazionale (Cass. pen., sez. II, 19.12.2011, n. 46678; Cass. pen., sez. II, 6.5.2008, n. 21537, CED Cass. 2008; Cass. pen., sez. VI, 10.4.2003, n. 29704).
Anche la minaccia di esercitare un proprio diritto, come in particolare quella di intraprendere un’azione giudiziaria o esecutiva, può costituire un’illegittima intimidazione idonea ad integrare l’elemento materiale del reato di estorsione, quando tale minaccia sia finalizzata al conseguimento di un profitto ulteriore, certamente diverso da quello tipico giuridicamente tutelato, per il quale quel diritto è riconosciuto dall’ordinamento (Cass. pen., sez. II, 6.2.2008, n. 12082). A tale proposito, la giurisprudenza ha però correttamente puntualizzato come nell’ipotesi in cui si minacci di agire in giudizio per far valere una pretesa palesemente infondata e pretestuosa non possa ravvisarsi una condotta idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, il quale, infatti, potrà comunque difendersi rivolgendosi all’Autorità giudiziaria.
La condotta violenta o minacciosa deve provocare due effetti distinti, ma entrambi essenziali per la consumazione del reato: il primo, cronologicamente, dovrà essere il cd. effetto di costrizione della vittima, che dovrà poi condurla a compiere l’atto finale di disposizione patrimoniale. La coazione psicologica, che costituisce il cd. evento intermedio tra l’atto di cooperazione della vittima e la condotta violenta o minacciosa dell’agente, dovrà essere eziologicamente connessa a quest’ultima, con la conseguenza che, qualora il timore del soggetto passivo non trovi esclusivo fondamento nella prospettazione di un ingiusto male da parte del soggetto attivo, bensì in altre condizioni concorrenti, potrebbe escludersi lo stesso reato (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 154).
Lo stato di coazione psicologica derivante direttamente dalla condotta di violenza o minaccia dovrà condurre la vittima ad un atto di disposizione del proprio patrimonio, che potrà riguardare non solo cose mobili (come per la rapina che invece può avere ad oggetto solo beni materiali di cui è possibile l’adprehensio), bensì diritti o persino aspettative di diritto, come nel caso della minaccia a rinunciare all’eredità per rimanere unico erede (v. in tal senso Mantovani, F., Diritto penale, cit., 171), oppure la minaccia tesa a far rinunciare ad un’azione giudiziale conservativa (così, cfr. Cass. pen., sez. II, 10.7.2008, n. 34900, in Riv. pen., 2009, 1170; conf. Cass. pen., sez. II, 31.3.2008, n. 16658, in Cass. pen., 2009, 1546), purché riguardino sempre la sfera patrimoniale. Sotto questo profilo, è indicativo infatti che la formula utilizzata dal legislatore nell’estorsione, per definire l’evento finale causato dalla commissione della violenza e della minaccia, sia più ristretta («fare od omettere qualcosa» di dannoso), rispetto a quella richiamata nel delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), che prevede oltre al «fare od omettere», anche il mero pati. Questa distinzione si spiega facilmente se si pensa che il mero «tollerare» da parte della vittima costituirebbe una condotta incompatibile con lo schema del reato di estorsione, che richiede pur sempre una cooperazione da parte del soggetto che subisce la violenza o minaccia, e che dovrà sfociare necessariamente in un atto dispositivo, seppure sotto forma indiretta, come nel caso della rinuncia a far valere dei diritti o delle facoltà.
Si ritiene infine che il fare e l’omettere del soggetto passivo dovrà produrre un negozio giuridico comunque efficace. L’unanime dottrina esclude infatti che possa configurarsi il reato nell’ipotesi in cui l’atto posto in essere sia inesistente o addirittura nullo (si v., per tutti, Marini, G., Estorsione, cit., 385), mentre si afferma la persistenza del reato nell’ipotesi di annullabilità, in quanto il negozio giuridico posto in essere dalla vittima di estorsione è per definizione viziato, sebbene, medio tempore, ugualmente produttivo di effetti giuridici.
Il comportamento coartato del soggetto passivo dovrà procurare un ingiusto profitto per l’agente o per altri, con conseguente pregiudizio per la vittima. Si tratta dei due eventi finali del delitto, tra loro autonomi, pur essendo legati causalmente alla condotta dispositiva del soggetto passivo.
Per unanime dottrina il danno deve avere natura patrimoniale, ovvero la vittima deve subire una effettiva deminutio patrimonii, sia sotto il profilo del danno emergente che del lucro cessante, con la conseguenza che non potranno rilevare quelle ipotesi in cui la vittima sia costretta a compiere degli atti, che pur limitando notevolmente la sua libertà morale, come nel caso in cui sia costretta ad esempio a ritrattare delle accuse in giudizio (Cass. pen., sez. I, 29.1.1973, Nazionale, in Cass. pen. Mass. ann., 1974, 286), non si traducano in una effettiva perdita o svantaggio patrimoniale, che viceversa può consistere: nella perdita definitiva di un bene o del suo godimento, così come nella rinuncia di un diritto di credito ovvero nell’assunzione di una obbligazione.
Sotto quest’ultimo profilo, particolarmente problematica sembra l’individuazione di un danno patrimoniale nell’ambito dell’estorsione cd. contrattuale o negoziale, nella quale il soggetto passivo si trova costretto a stipulare un negozio patrimoniale con il soggetto agente o con altri. Sebbene la giurisprudenza ritenga che in queste ipotesi l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno sia in re ipsa, poiché il costringimento inciderebbe sul diritto del soggetto passivo di disporre liberamente del proprio patrimonio, in verità sembra da preferirsi un’interpretazione che valuti caso per caso l’effettiva portata del danno subito dalla vittima, che in teoria, nel caso di controprestazioni proporzionate, potrebbe di fatto non subire alcun danno, bensì persino un vantaggio (si v. Barillà, L., Estremi del danno e del profitto e limiti di configurabilità della cd. «estorsione contrattuale», in Dir. pen. e proc., 2003, 1537 ss.).
Anche il profitto conseguito dall’agente si ritiene debba essere inteso in termini esclusivamente patrimoniali, per cui potrà ricomprendere qualsiasi forma di arricchimento o di mancato depauperamento del patrimonio del soggetto attivo o di un terzo beneficiario della condotta di quest’ultimo.
Per quanto riguarda l’ingiustizia del profitto, che costituisce uno degli aspetti centrali del delitto di estorsione, in quanto elemento di specialità rispetto al delitto di ragion fattasi (art. 393 c.p.), si ritiene che sia tale quello fondato su di una pretesa non tutelata dall’ordinamento giuridico, neanche in via indiretta. In particolare, resta controverso se possano farsi rientrare nell’ambito dell’estorsione, ovvero della violenza privata, quelle condotte di minaccia o violenza tese ad ottenere l’adempimento di obbligazioni naturali (come può essere un debito di gioco), per le quali l’ordinamento giuridico sembra apprestare una forma, seppur indiretta, di tutela giuridica, dal momento che in caso di un loro spontaneo adempimento al creditore è offerta l’eccezione della soluti retentio (art. 2034 c.c.), in quanto il debitore non può ripetere quanto spontaneamente adempiuto. Per tale ragione parte della dottrina sostiene che non possa parlarsi di profitto ingiusto nel caso di un creditore che usi minaccia per ottenere l’adempimento di un debito di gioco (Mantovani, F., Estorsione, cit., 5) ovvero l’adempimento di un contratto contrario al buon costume, poiché in entrambe le ipotesi la pretesa troverebbe una forma di tutela nell’ordinamento, pur se indiretta, attraverso l’istituto della soluti retentio (v. artt. 2034 e 2035 c.c.; in tal senso anche Cass. pen., sez. II, 17.1.2001, Vegliante, n. 9348, in Riv. pen., 2001, 444). Nella giurisprudenza prevalente, tuttavia, si afferma l’ingiustizia del profitto nel caso in cui l’adempimento di obbligazioni naturali sia ottenuto con violenza e minaccia, in quanto l’adempimento coartato escluderebbe la tutela della soluti retentio (cfr. Cass. pen., sez. II, 23.9.2003, El Khattabi et al., in Cass. pen., 2005, 58, che ha sostenuto l’estorsione per la pretesa avanzata con violenza e minaccia di adempiere ad un credito derivante dal gioco d’azzardo; contra Cass. pen., sez. II, 16.10.1990, Rasi, in Riv. pen., 1991, 481). Si può concludere, infatti, affermando che, anche se la pretesa sia latamente fondata sotto il profilo giuridico, il profitto dovrà essere considerato ugualmente ingiusto laddove sia ottenuto con mezzi illeciti o comunque con mezzi leciti sebbene distorti ed utilizzati per fini diversi da quelli tipici.
Secondo la dottrina tradizionale l’estorsione configurerebbe un delitto a dolo specifico (Manzini, V., op. cit., 1984, 466 ss.; De Marsico, A., Delitti contro il patrimonio, Napoli, 1951 (rist.), 85), poiché la fattispecie incriminatrice sembra richiedere, oltre alla coscienza e volontà di coartare un terzo a fare od omettere qualcosa, anche lo scopo specifico di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno. Questa opinione, peraltro in taluni casi seguita anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. II, 4.5.1984, Capitaneo, in Giust. pen., 1985, II, c. 506; Cass. pen., sez. II, 26.1.2006, n. 4925), non sembra condivisibile, sulla base dell’assunto prima affermato per il quale, al contrario, l’«ingiusto profitto con altrui danno» costituisce elemento costitutivo autonomo della fattispecie oggettiva, ed in particolare rappresenta l’evento finale richiesto per la consumazione del reato (Mantovani, F., Estorsione, cit., 6). Ne consegue, pertanto, che il dolo del delitto di estorsione è generico e consiste nella coscienza e volontà di usare la violenza o la minaccia per costringere il soggetto passivo a fare od omettere qualcosa che procurerà un ingiusto profitto al reo o ad altri, con la consapevolezza di agire illegittimamente. Il dolo dell’estorsore dovrà investire, infatti, anche l’ingiustizia del profitto, con la conseguenza che l’errore su tale carattere del profitto, ove si risolva in un errore di fatto, potrà escludere il dolo del reato (Cass. pen., sez. II, 17.3.2004, De Maria et al., in Cass. pen., 2005, 3361; Conti, L., op. cit., 1001).
In conformità alla tesi prevalente, per la quale l’evento finale del delitto qui in esame è costituito dall’ingiusto profitto dell’agente, con danno patrimoniale per la vittima, la dottrina e la giurisprudenza ritengono pacificamente che il delitto si consumi nel momento e nel luogo in cui si realizza l’ingiusto profitto ed il correlativo danno (Conti, L., op. cit., 1001).
Per questa ragione assume notevole importanza il momento della consegna della cosa oggetto dell’estorsione, il quale, secondo la prevalente giurisprudenza, sarebbe sufficiente a far ritenere consumato il delitto, sebbene l’estortore entri nella mera disponibilità del prodotto della sua attività criminosa per un breve lasso di tempo, a causa della presenza della forza pubblica predisposta alla sua cattura e alla immediata restituzione del bene all’avente diritto (in tal senso, per tutte, Cass. pen., S.U., 27.10.1999, Campanella, in Cass. pen., 2000, 576, poi seguita da costante giurisprudenza, v. ex plurimis Cass. pen., sez. II, 19.6.2009, n. 27601, in Cass. pen., 2010, 2778).
Proprio perché si tratta di un reato di evento di danno, la dottrina prevalente contesta questo filone giurisprudenziale, che tende ad anticipare troppo il momento consumativo del delitto, facendolo coincidere con la mera disponibilità momentanea del bene, oggetto della condotta estorsiva, sebbene questa, per ragioni poi estranee alla volontà dell’agente, sia avvenuta in condizioni precarie, senza che si sia effettivamente verificato un pregiudizio per il soggetto passivo (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 156). In tutte le ipotesi, invece, in cui non si sia realizzata una effettiva deminutio patrimonii, e il correlato ingiusto profitto, l’estorsione dovrà ritenersi solo tentata, a causa della predisposizione della forza pubblica, che sia intervenuta durante la consegna del denaro o della cosa da parte della vittima ovvero nei casi di cd. estorsione di atti, nei quali la semplice sottoscrizione ed entrata in possesso del documento, con cui la vittima ha contratto un’obbligazione o rinunciato ad un diritto, se poi questo, invece, non produce effetti pregiudizievoli alla stessa e favorevoli al reo, a causa del mancato pagamento di un titolo di credito o della dichiarata nullità dell’atto, in seguito ad un’impugnazione da parte del soggetto passivo (Mantovani, F., Estorsione, cit., 173; di contrario avviso, invece, la giurisprudenza, che ritiene non rilevino le successive vicende del titolo stesso o l’evoluzione concreta del rapporto; cfr. per tutte, Cass. pen., sez. II, 29.5.1989, Iannelli, in Riv. pen., 1990, 879).
Al delitto di estorsione, ai sensi del rinvio operato dall’art. 629, co. 2, c.p., si applicano le stesse circostanze aggravanti previste per il delitto di rapina, all’art. 628, co. 3, c.p., salvo tuttavia coordinarne l’ambito operativo con le peculiarità del delitto in esame.
Per quanto riguarda l’aggravante delle più persone riunite, si registrano due orientamenti giurisprudenziali. Il primo, più risalente, per giustificare l’inasprimento di pena che comporta il riconoscimento di questa aggravante, richiedeva la compresenza di almeno due soggetti sul luogo e nel momento dell’estorsione, escludendosi in radice l’applicazione della stessa in caso di intervento successivo dei correi, ovvero nell’ipotesi di minaccia o violenza esercitata in via mediata o indiretta (ad esempio, con il mezzo del telefono). Un secondo orientamento, tuttavia, sembra invece ritenere non necessaria la simultanea presenza fisica di più persone al momento della consumazione del delitto, purché la violenza o la minaccia, pur se mediata, sia percepita dal soggetto passivo come proveniente da più soggetti (Cass. pen., sez. II, 31.3.2008, n. 16657, in Cass. pen., 2009, 1546 e in Riv. pen., 2009, 205). Ciononostante, atteso che la ratio della circostanza aggravante speciale, come sembrerebbe suggerito anche dalla stessa lettera della norma, che utilizza il termine “riunite”, sembra essere quella che la riconduce alla maggiore pressione psicologica che la pluralità di più soggetti compresenti può esercitare sulla vittima (Manzini, V., op. cit., 437; Marini, G., Estorsione, cit., 388), appare preferibile il primo orientamento, recentemente confermato anche dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni riunite (v. Cass. pen., sez. II, 18.6.2009, n. 25614, in Cass. pen., 2010, 3112 ss.; confermata da Cass. pen., S.U., 29.3.2012 (dep. 5.6.2012), n. 21837, Alberti).
Per quanto attiene invece all’aggravante dell’utilizzo di armi, è evidente che questa sarà compatibile solo con quelle ipotesi di violenza o minaccia finalizzate alla consegna di beni immobili, o tese ad un facere stricto sensu o ad un omittere, poiché, viceversa, laddove siano finalizzate alla consegna immediata di cose mobili, si ricadrebbe nel delitto di rapina (Mantovani, F., Diritto penale, cit., 174; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 157). In ogni caso, sarà necessario che l’uso delle armi non comporti una coazione assoluta, bensì lasci comunque alla vittima un ragionevole margine di scelta tra aderire alla richiesta estortiva ovvero resistervi. La medesima capacità di scelta sarà necessario che residui anche per integrare una ipotesi di estorsione aggravata dalla procurata incapacità di volere o di agire, in quanto altrimenti sarebbe incompatibile con la necessaria cooperazione della vittima, che contraddistingue l’estorsione rispetto alla rapina, salvo nelle ipotesi in cui si procuri un totale stato di incapacità in capo ad un soggetto terzo, in modo da indurre il soggetto passivo a cedere.
Il delitto di estorsione spesso ha fatto sorgere controversie in ordine ai suoi rapporti con alcuni reati. Tra i delitti contro il patrimonio, particolare attenzione è stata prestata per individuare il criterio discretivo con i delitti di rapina e di truffa aggravata. Per delimitare correttamente i confini tra l’estorsione e la rapina, la dottrina, come si è già avuto modo di specificare (supra § 3.2), ritiene indispensabile determinare se la condotta del soggetto passivo sia stata comunque il frutto di una sua autonoma scelta, seppur coartata, ovvero se il soggetto passivo non abbia in concreto fornito una collaborazione, non avendo avuto alcuna ragionevole possibilità di scelta (Marini, G., Delitti, cit., 240 e nt. 73), senza dunque che possa in alcun modo rilevare, ai fini dell’esclusione della rapina, l’elemento della consegna materiale di denaro o altra cosa mobile da parte del rapinato, potendosi qualificare comunque quale impossessamento violento, che l’agente poteva in ogni caso ottenere da solo (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 157).
Occorre, infine, notare che mentre nella formulazione originaria del 1930, tra gli elementi di contatto con il reato di rapina, vi era anche il minimo edittale, previsto per entrambe in tre anni di reclusione, oggi anche tale punto di contiguità è venuto meno a seguito del d.l. 31.12.1991, n. 419, conv. in l. 18.2.1992, n. 172, che ha innalzato il minimo edittale da tre a cinque anni. Questo inasprimento sanzionatorio, tuttavia, ha fatto sorgere dei dubbi di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27, co. 3, Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento che tale innalzamento avrebbe determinato rispetto al reato di rapina, ancora punito nel minimo con la reclusione di tre, o quattro anni per le ipotesi aggravate (v. Trib. Ferrara, ord. 7.12.1994, in G.U. 25.1.1995, n. 4).
La questione di legittimità costituzionale sollevata è stata ritenuta però, per ben due volte, manifestamente infondata dalla Corte delle leggi, che ha ribadito così, anche in tema di estorsione, il suo self restraint sulla possibilità di sindacare la proporzionalità sia della quantità che della qualità della sanzione penale, la cui determinazione rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore, salvo nelle ipotesi in cui l’esercizio di questo potere abbia dato luogo a una disparità di trattamento palesemente incongrua e irragionevole (C. cost., ord. 24.7.1995, n. 368, in Cass. pen., 1996, 17; C. cost., ord. 23.12.1997, n. 440, in Giur. cost., 1997, 4038). La Consulta ha, infatti, osservato che la previsione censurata, da un lato, non dà luogo a macroscopiche differenze rispetto al trattamento previsto per il delitto di rapina e, dall’altro, si giustifica con l’esigenza di evitare che possano irrogarsi pene che, con il concorso delle circostanze attenuanti, si mantengano nei limiti della sospensione condizionale della pena.
Problemi interpretativi sono sorti anche in merito all’individuazione del criterio distintivo tra l’estorsione e la truffa aggravata dall’ingenerato timore di pericolo immaginario (art. 640, co. 2, n. 2), che è stato riconosciuto nel tipo di minaccia e nel diverso modo in cui viene prospettato il danno, in vista del quale la persona offesa si induce a quell’azione od omissione: «saremo di fronte ad una ipotesi di estorsione se il pericolo (presunto o effettivo) è stato presentato come dipendente dalla volontà dell’agente; per contro saremo di fronte ad un’ipotesi di truffa, se esso è stato presentato come accadimento indipendente dalla volontà di quest’ultimo e cioè in termini rigorosamente oggettivi» (Marini, G., Delitti, cit., 240). La condotta della vittima di estorsione risulterà pertanto alterata nella formazione della volontà da un vizio nella motivazione (l’indotto metus), e non da un vizio di conoscenza, come risulta invece nella truffa, nella quale l’offeso si determina alla azione od omissione in stato di errore. In taluni casi è venuta in rilievo anche la differenza tra l’estorsione e la concussione, in quanto quest’ultima potrebbe apparire sotto certi profili come un reato proprio rispetto all’estorsione (Mantovani, F., Diritto penale, cit., 174). Tuttavia, a ben vedere, tale tesi non può essere condivisa, in quanto occorre evidenziare che la concussione richiede elementi differenti da quelli cui fa riferimento l’art. 629: al fare od omettere richiamato nell’art. 629 fa riscontro il dare o promettere indebitamente richiamato nell’art. 317, che rende la concussione, rispetto all’estorsione, figura criminosa per certi versi a possibile realizzazione anticipata, nonché – per ciò che attiene alla condotta – il riferimento a modalità specifiche della stessa – l’abuso delle qualità e del potere –, che rendono la figura in parola speciale rispetto all’estorsione (Marini, G., Delitti, cit., 240 e nt. 75; v. Cass. pen., sez. VI, 21.9.2005, n. 1005, Bellato e altri, con nota di C. Pala, La concussione mediante costrizione di un atto dispositivo a carattere patrimoniale e l’estorsione aggravata ex art. 61 n. 9 c.p., in Cass. pen., 2006, 2817).
Il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si fonda, invece, pacificamente, sulla finalità perseguita dall’agente, non già per la materialità del fatto, che può essere identica: nell’estorsione l’agente mira a conseguire un ingiusto profitto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nell’esercizio arbitrario, invece, egli agisce al fine di esercitare un suo preteso diritto, con la convinzione che quanto vuole gli compete (Cass. pen., sez. II, 4.3.2010, n. 12329).
Infine, come già più volte sottolineato, il delitto di estorsione si differenzia anche dal delitto di violenza privata perché quest’ultima richiede, come oggetto della coartazione, oltre al «fare e all’omettere», anche il solo «tollerare» qualcosa da parte della vittima, che però costituisce l’evento finale del reato, mentre nel delitto di estorsione questi effetti della coazione rappresentano solo degli eventi intermedi e strumentali all’evento finale, che consiste nel procurare all’agente un ingiusto profitto, con danno alla vittima. Secondo un filone giurisprudenziale, il delitto di estorsione non costituirebbe altro che un’ipotesi speciale rispetto al delitto di violenza privata, poiché, nonostante entrambi tutelino la libertà di autodeterminazione spontanea dell’individuo, il primo presenterebbe degli elementi specializzanti, consistenti nel conseguimento di un ingiusto profitto e nel correlativo danno per la persona offesa.
Artt. 629, 630, 649 c.p.; l. 23.2.1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura).
Amarelli, G., L'aggravante speciale del delitto di eestorsione delle "più persone riunite": per le Sezioni Unite è necessaria la contestuale presenza al momento della consumazione del reato, in Dir. pen. contemp., 2012, 114 ss.; Baccaredda Boy, C.-Lalomia, S., I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da G. Marinucci-E. Dolcini, vol. VIII, Padova, 2010, 491 ss.; Barbalinardo, G., Brevi note in tema di rapporto fra esercizio arbitrario delle proprie ragione ed estorsione e di concorso di persone nel reato configurabile, in Giur. mer., 1989, 958 ss.; Barillà, L., Estremi del danno e del profitto e limiti di configurabilità della cd. «estorsione contrattuale», in Dir. pen. e proc., 2003, 1537 ss.; Bisacci, M.C., Sulla punibilità del tentativo nei delitti contro il patrimonio commessi a danno di congiunti, in Foro it., 2000, II, 155 ss.; Cincotta, A., Estorsione e concorso esterno. Il dilemma dell’imprenditore vittima-compartecipe tra stato di necessità e necessità di «status», in Gius. pen., 2010, 118 ss.; Conti, L., Estorsione, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 995 ss.; De Marsico, A., Delitti contro il patrimonio, Napoli, 1951 (rist.); Febbrai, R., Estorsione: la minaccia come fatto eziologicamente collegato all’azione volontaria e cosciente dell’agente, in Dir. pen. e proc., 2005, 1117 ss.; Ferrero, E., L’iniziativa della vittima nel reato di estorsione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1962, 507 ss.; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, II, t. 2, V ed., Bologna, 2007, 147 s.; Gallo, E., Equo canone. Profili penalistici nell’applicazione della Legge 29.07.1978, n. 392, in Nuove leggi civ. comm., 1979, 679 ss.; Gallo, E., Osservazioni a Cassazione penale 13 maggio 1980, in Nuove leggi civ. comm., 1980, 898 s.; Gallo, E., Concussione o estorsione aggravata? 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