età barocca, lingua dell’
La produzione in prosa e in poesia del XVII secolo è concepita all’insegna del barocco, ispirata cioè all’abnorme e tendente all’iperbole e alla ‘maraviglia’. Il senso dispregiativo del termine si estese alla denominazione stessa del secolo, sicché già nella storiografia romantica secentismo identifica per antonomasia il barocco. In realtà il Seicento va riabilitato anche dal punto di vista storico-linguistico (Coletti 2001; Testa 2002): l’età barocca segnò un decisivo avanzamento nella storia linguistica, esterna e interna, dell’italiano. Secondo i più attuali criteri di periodizzazione, che privilegiano il dinamismo culturale rispetto al dato cronologico, come limiti temporali si assumono la morte di Torquato Tasso (1595) e la fondazione dell’Arcadia (1690).
La divisione territoriale italiana in stati regionali o in viceregni stranieri non ostacola la circolazione di una lingua intellettuale comune e di una lingua parlata interregionale. Nel tradizionale policentrismo culturale italiano, Firenze è l’unica oasi di compostezza contro il dilagare del barocco a Milano, Napoli, Palermo e Roma, che diventa centro socio-comunicativo di conguaglio delle varietà locali su base toscana.
Nel Seicento si diffuse e si stabilizzò la norma elaborata nel Cinquecento da ➔ Pietro Bembo per la lingua letteraria, che si riconvertì in norma per la comunicazione ordinaria, estendendosi anche all’oratoria (sacra e civile) e alla conversazione colta.
Strumento di divulgazione e di sanzione definitiva della norma bembesca fu il Vocabolario degli Accademici della Crusca, progettato e compilato a Firenze a partire dal 1592, ma stampato a Venezia nel 1612, il cui titolo faceva riferimento all’opera dei compilatori e non alla lingua che ne era l’oggetto, nominata solo in privato, nelle discussioni preparatorie tramandate dai verbali accademici (Migliorini 19785: 450; Alfieri 1998: 37; ➔ accademie nella storia della lingua). Al canone bembesco delle Tre Corone si aggiungevano tutti gli scrittori fiorentini o che avessero scritto nel fiorentino del Trecento, e le voci documentate da autori antichi.
Il Vocabolario costituì la prima compilazione lessicografica europea scientificamente impostata incentrata su una lingua, con voci strutturate secondo criteri sistematici. Ogni voce era accompagnata da esempi di uso letterario in poesia o in prosa, mentre proverbi e modi di dire erano accolti anche se privi di esempi d’autore.
L’autorevolezza della Crusca e il valore dell’opera come modello di riferimento ne assicurarono la preminenza, anche se il suo pubblico si divideva in fedeli seguaci e indomiti avversatori. Le contestazioni provenivano principalmente da letterati non toscani (il padovano naturalizzato Paolo Beni, il modenese Alessandro Tassoni, il torinese Emanuele Tesauro), che alla restrittiva esaltazione del fiorentino trecentesco contrapponevano la prosa umanistico-rinascimentale o l’uso sovraregionale di Roma. Scienziati, giuristi, professionisti lamentavano invece l’assenza, nell’opera, del lessico intellettuale. In ambito toscano una fiera reazione si ebbe da parte dei senesi Scipione Bargagli e Adriano Politi, che nel 1614 pubblicò un Dittionario toscano. Compendio del Vocabolario della Crusca, ristampato fino al 1691, che compensava con voci dell’uso vivo l’eccessiva componente arcaizzante.
La seconda edizione della Crusca si pubblicò nel 1623, con poche integrazioni di lemmi ma con la fondamentale inclusione di ➔ Galileo Galilei tra i citati. La terza edizione apparve, dopo intense riflessioni sul metodo, nel 1691; in tre volumi, includeva molti termini scientifici, nautici e tecnico-professionali e marcava più spesso gli arcaismi come «voci antiche» (V.A.), per segnalarne la funzione puramente documentaria.
La codificazione bembesca del toscano letterario si estese attraverso una trattatistica normativa di vario valore, tra cui il Memoriale della lingua volgare di Giacomo Pergamini (1601), che etichettava le voci d’autore a seconda della pertinenza stilistica (nobile, popolare, di verso, di prosa). Ben più nutrito fu il filone della grammaticografia, ispirata a fini didattici (come nel Trattato della lingua dello stesso Pergamini, 1613) o a criteri descrittivi, come nel caso del fiorentino Benedetto Buonmattei (Della lingua toscana, 1643) o di Marcantonio Mambelli detto il Cinonio (Osservazioni della lingua italiana, 1644). La cultura ecclesiastica produsse scritti teorici, come Il Torto e il Diritto del Non si può del padre Daniello Bartoli (1655 e 1668), che biasimava l’affettato arcaismo bembesco, e gli Avvertimenti grammaticali per chi scrive in lingua italiana (1661) del cardinale Sforza Pallavicino, o manualetti interessati a offrire regole pratiche per la corretta pronuncia o per l’interpunzione (Dell’ortografia italiana di Daniello Bartoli, 1670; La Prosodia italiana di Placido Spatafora, 1682).
L’espansione dell’italiano nell’età barocca si può ricostruire a partire da testimonianze sui livelli d’uso dell’italiano parlato e scritto e sulla sua effettiva penetrazione sociale e territoriale.
Circa gli usi parlati, l’oratoria civile risulta equamente distribuita tra latino e volgare (Migliorini 19785: 450). La retorica ecclesiastica favorì l’uso del volgare nella predicazione barocca, teorizzata da Paolo Aresi e da Francesco Panigarola, e praticata con teatrale stile ‘missionario’ da padre Segneri.
Per la conversazione privata si può ipotizzare un’italofonia venata di tratti regionali nelle sedi accademiche o nei salotti intellettuali e una dialettofonia più o meno italianizzante nella conversazione familiare, come quella descritta dal milanese Carlo Maria Maggi (Morgana 1992: 109). Ai fini della comunicazione interregionale va rammentata in particolare la migrazione interna di maestranze artigianali o artistiche che si spostavano da sud a nord, o viceversa, e dovevano comunicare in un italiano più o meno delocalizzato (Bruni 1992).
Nello scritto l’italiano si espande come lingua della legislazione e della procedura giudiziaria in vari stati italiani, con l’eccezione dello Stato Pontificio, arroccato sul latino. Ma da Roma partì la sanzione dell’italiano nella prassi giuridica ad opera di Giovan Battista De Luca, i cui trattati (Il dottor volgare, 1673; Dello stile legale, 1674; Difesa della lingua italiana, 1675) si ispiravano al criterio pre-illuministico di creare simmetria, almeno in linea di principio, tra chi scrive le leggi e chi deve ubbidirvi (Tesi 2005: 45-46).
La capacità di scrivere in italiano è un indice significativo del grado di standardizzazione, legata ai modi di apprendimento dell’italiano scritto. L’alfabetizzazione si sviluppò in modo variegato nelle varie aree (➔ analfabetismo e alfabetizzazione): nelle zone più soggette a flussi migratori si registrava un maggiore bisogno di scrittura per comunicare a distanza; l’azione educativa della Chiesa post-tridentina incrementò la lettura di testi devoti, associandovi un’elementare abilità di scrittura. In mancanza di un insegnamento istituzionale, fu la Chiesa a gestire l’istruzione su tutto il territorio nazionale. I nuovi ordini religiosi (cappuccini, teatini, carmelitani, ecc.) si occuparono dei ceti popolari, mentre ai gesuiti fu delegata l’educazione delle classi agiate, svolta in latino. Naturalmente si crearono forti discontinuità tra città e campagna e tra il Settentrione e il Meridione. Nei centri urbani più evoluti, come Milano, le imprese artigianali e commerciali promuovevano l’istruzione laica con scuole private di scrittura in volgare e un’editoria specializzata in questa direzione (Morgana 1992: 109). Nelle università le lezioni si svolgevano in latino ma si studiava su dispense scritte in italiano. I casi conosciuti fanno pensare che l’italianizzazione fosse più solida e capillare di quanto comunemente si ritenga.
Il Seicento è in tutta Europa il secolo della stampa periodica, che iniziò anche in Italia con i cosiddetti avvisi (notiziari di politica e cronaca), che poi diedero origine a rassegne culturali come il romano «Giornale dei letterati» (1668) e la veneziana «Galleria di Minerva» (1695).
Già dalla fine del XV secolo e per tutto il XVI, la stampa aveva creato un mercato che non poteva essere più soddisfatto dalle opere in latino. Tale processo si estende e stabilizza nel Seicento: in latino si continuavano a pubblicare testi di filosofia, matematica e medicina, ma negli ambiti tecnico-pratici (farmacologia, cosmesi, gastronomia, architettura e arti applicate) si stampava in italiano. Nella comunicazione tecnico-scientifica l’esigenza di trasmettere attraverso una rete di carteggi i nuovi saperi (ottica, meccanica, biologia) comporta la fondazione di accademie, prime fra tutte quelle dei Lincei (Roma, 1603) e del Cimento (Firenze, 1657), che pubblicano in italiano.
La crescita dell’alfabetizzazione incrementò l’editoria di consumo, diretta ai ceti mercantili e artigianali, a cui offriva testi paraletterari (manuali, stampe popolari, pronostici e cantari).
Gli autori barocchi praticavano numerosi generi: lirica (marinista, classicista, erotica), epica, favola mitica (Adone di Giovan Battista Marino), idillio, poesia biblico-agiografica, poesia filosofica, poema eroicomico (La secchia rapita di Alessandro Tassoni), poesia giocosa, poesia ditirambica, epigrammi. La lirica barocca costituisce un’ambigua infrazione al canone petrarchista, di cui conserva schemi metrici e ritmici, ma scardina e dilata il repertorio tematico e lessicale.
La donna incorporea e idealizzata dei petrarchisti si converte in una donna concreta, che dà vita a fantasie erotico-sadiche o orride (la bella frustata, la bella nana, la bella epilettica), o evoca scene di cronaca o di realismo quotidiano (la bella monacata, la bella lavandaia) (Marazzini 1993: 141). La teorizzazione organica della poetica barocca si deve al Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (1654, 1670). Al pedantismo e al dogmatismo grammaticale si contrappone un’idea della lingua come entità libera, dinamica e mutevole. Si ammettevano termini scientifici di fisica, medicina, botanica e termini settoriali della scherma, dell’equitazione, della danza, nonché ispanismi e francesismi (come gabinetto «mobile a cassetti», da cabinet), e, all’estremo opposto, dialettalismi e neologismi.
Il principio canonico della poesia barocca è il concettismo, vale a dire la ricerca lambiccata e il cumulo di figure retoriche, prima fra tutte la ➔ metafora, che si poneva così al centro dell’attività poetica in quanto produttrice di accostamenti imprevedibili, e dunque facoltà dell’ingegno, inteso come talento creativo e non come intuito razionale. Alle metafore petrarchesche, ormai stereotipate, come stella e sole per «occhio», ecc., l’ingegnosità barocca aggiunge nuove creazioni analogiche ricercate e dotate di potenzialità descrittiva. Accanto alla rosa vengono esibite metafore floreali insolite, quali l’iride e persino i garofani, spesso corredate di epiteti fissi: l’immortale amaranto, la gentil mammoletta, il lieto fiordaliso, il papavero molle. Dalle più aggiornate metafore zoologiche, incrementate dall’osservazione al microscopio, si aprivano le pagine poetiche al serpe, all’ippopotamo, alla formica, alla mosca, alla farfalla, alla lucciola e alla tarma. Persino la descrizione del seno femminile, che nella tradizione lirica equivaleva per metonimia a petto e cuore, si traduceva nella carnale celebrazione anatomica delle mammelle, esplicitamente nominate e paragonate nella poesia barocca a due vivi scogli.
Il romanzo barocco nasce come genere soggetto all’influenza dei rivolgimenti etici e socio-economici dell’epoca. Sul piano estetico doveva assecondare il gusto dei lettori moderni, assetati di meraviglia, stupori, trasecolamenti, strabiliazioni, che trovavano espressione in uno stile metaforuto. Anche la scelta eversiva di scrivere in prosa un genere che fino ad allora era stato trattato univocamente in poesia connota il romanzo, derivato dall’epica, come prodotto secentesco per eccellenza.
Più che per le proprie tendenze linguistiche, il romanzo barocco si caratterizza per l’intermittenza di generi testuali e di pertinenti soluzioni espressive che si affiancano al dominante registro narrativo: oratoria civile e sacra; storiografia; letteratura di viaggio; trattatistica morale; agiografia; poesia epico-tragica; epistolografia; simulazione dialogica dell’oralità; inserti di lirica e di teatro tragico.
Le configurazioni stilistiche più marcate sono lo stile antitetico, il descrittivismo di stampo mariniano e l’oratoria. La concomitanza di generi, nei casi migliori, può risolversi in un’armonizzazione involontaria: la perseguita alternanza di sottotipi testuali suscita non solo l’agognato effetto di ‘maraviglia’, ma anche un insperato ridimensionamento stilistico per cui la digressione descrittiva o scientifica interviene a contrappesare l’oltranza del metaforismo (Alfieri 2008).
Accanto alla produzione in lingua italiana va considerata la messe di romanzi tradotti da lingue straniere, soprattutto dallo spagnolo nel caso di romanzi picareschi, e dal francese, o addirittura dal latino, come l’Argenis (1621) dell’inglese John Barclay, tradotto in italiano da Francesco Pona.
Una certa coesistenza di sottogeneri testuali è reperibile anche nella novella barocca (Conrieri 2001), in cui si scompagina l’impostazione decameroniana: è eliminata la cornice, che a sua volta procrea i conversari accademici e i racconti incorniciati, mentre favole e apologhi mantengono il tradizionale ruolo didascalico.
Straordinario successo ebbe nel Seicento la letteratura di viaggio, in cui convivono le descrizioni geografico-naturalistiche e le notazioni strettamente documentarie, comprese le notizie di ordine etnolinguistico.
Assurse a spessore letterario grazie alla Controriforma la predicazione religiosa, che diventò uno dei generi portanti della letteratura barocca, con un apparato retorico di esclamazioni, interrogazioni, invocazioni, enumerazioni, ossimori, ecc. Le raccolte di prediche, che circolavano in forma di Panegirici e Quaresimali e contenevano sermoni-modello dai titoli ossimorici (la miseria felice, la saggia pazzia, la pace guerriera), impartivano all’aspirante predicatore consigli pratici per toscanizzare il proprio linguaggio, eliminando peculiarità dialettali nella pronuncia, arcaismi e latinismi, ma anche marcati fiorentinismi.
Nella scrittura mistica, prodotta prevalentemente da donne, si avevano tutti i possibili gradi di intersezioni tra oralità e scrittura: riformulazione delle parole dopo il raptus a opera della stessa mistica o delle trascrittrici, inserti didascalici sulle visioni negli intervalli di lucidità, riproduzione letterale del parlato estatico.
In netto contrasto con l’astrusità barocca si pone l’accessibile e limpida prosa di Galilei, che, senza concessioni all’oralità e senza sacrificare la complessità sintattica necessaria all’articolazione del pensiero scientifico, attinge chiarezza ed evidenza.
Uno dei generi più rappresentativi dello spirito del periodo postbembesco è l’epistolografia, ridotta a precettistica scrittoria etichettata con titoli barocchi (Secretario errante di G.B. da Ripa Ubaldini, 1665; Proteo segretario di M. Benvenga, 1689: ➔ lettere e epistolografia). Per le lettere cancelleresche si offrivano formule convenzionali di apertura e chiusura, comprese indicazioni sulla corretta distribuzione dei titoli allocutivi (Don, Sere, Monsignore, Illustre, Serenissimo, Maestà) (Marazzini 1993: 86-89; ➔ allocutivi, pronomi).
Uno dei fenomeni che proiettano la letteratura del Seicento verso la modernità è lo sviluppo del teatro nelle sue varie forme. Dalla tragedia classica derivano il dramma gesuitico, che traeva eroi dalla Bibbia, l’agiografia, la storia coeva, e il melodramma, spettacolo musicato dai temi mitologici e dall’intreccio lineare e unitario, in cui la parola è subordinata alla musica (➔ melodramma, lingua del). La fastosa messa in scena di testi come Dafne (1594), Euridice (1600), Arianna (1608) richiese addirittura la costruzione di teatri adeguati. Il genere era destinato ad avere grande successo nei secoli successivi, assicurando all’Italia una posizione egemonica.
Il vero traguardo culturale e linguistico del teatro secentesco fu però la commedia dell’arte, che compendiava monologhi, contrasti, pantomime, brani cantati, giochi di abilità mescolando fonti letterarie con i più vari stili e forme di rappresentazione. I personaggi, in gran parte desunti dalla commedia classica, venivano riattualizzati e tipizzati; gli interpreti improvvisavano su canovacci, con effetti di forte vivacità. La caratteristica più vistosa della lingua della commedia è data dalla compresenza cristallizzata di diversi codici: toscano poetico e stucchevole per l’innamorato, veneziano o bolognese per il vecchio, spagnolo o dialetti meridionali per soldati o bravi, bergamasco, milanese o napoletano per i servi. Il latino serviva a caratterizzare il pedante. La camaleontica transizione caricaturale da un dialetto e da un idioma all’altro era uno degli espedienti più praticati per attingere comicità e favorire la circolazione dei testi da una regione all’altra.
A un secolo dall’individuazione del toscano come norma, i tempi erano maturi per l’insorgere di una reazione eversiva da parte delle culture dialettali (➔ dialetto, usi letterari del). Si teorizzava un po’ dovunque la dignità delle varie ‘lingue’ locali (Discorso della lingua bolognese di Adriano Banchieri, 1629; il Varon milanes de la lingua de Milan e Prissian de Milan della parnonzia Milanesa di Giovanni Capis, Ignazio Albani e Giovanni Ambrogio Biffi, 1606; L’eccellenza della lingua napoletana con la maggioranza alla Toscana di Partenio Tosco, 1662; Il primo discorso intorno al primato linguistico e poetico dei siciliani di Giovanni Ventimiglia e I discorsi della lingua volgare di Antonino Mirello Mora, 1660-1662). Parallelamente si coltivava l’uso poetico dei dialetti soprattutto nel genere epico (riduzioni serie o parodistiche della Gerusalemme Liberata o dell’Eneide, come quella del siciliano Tommaso Aversa), lirico (Muse napolitane, 1635, di G.B. Basile) e giocoso (Il malmantile racquistato, 1676, del pittore fiorentino Lorenzo Lippi, il Maggio romanesco, 1688, di Giovanni Camillo Peresio, o il Meo Patacca, 1695, del romano Giuseppe Berneri, la Vaiasseide, 1615, e il Micco Passaro, del napoletano Giulio Cesare Cortese). In prosa si coltivavano il genere favolistico, con Lo cunto de li cunti del napoletano Basile (1634), e la Posilicheata («raccolta narrata a Posillipo», 1684) del barese napoletanizzato Pompeo Sarnelli, e il teatro comico, in cui spiccarono le commedie del milanese Carlo Maria Maggi, infiammate di satira morale.
Al di fuori della scrittura colta si riscontrano varie zone di approssimazione alla norma toscana, con vari gradi di compromesso tra il nuovo codice e quelli preesistenti nel vissuto linguistico di parlanti e scriventi. Nelle scritture tecniche e pratiche convivono l’italiano in avanzamento e gli usi locali in regresso: si va da trattati divulgativi di scienze e invenzioni a scritture amministrativo-burocratiche (come le famose gride manzoniane), a inventari di mercanzie. La scrittura semicolta, tipica di ‘libri di famiglia’, diari di artigiani, memorie di viaggio, confessioni estorte con la tortura a presunte streghe, lettere di briganti o di servitori, è caratterizzata da tracce del parlato (ripetizioni, anacoluti, ecc.), storpiature di termini complessi (come micragna per emicrania), alternanza di registri (da quello formale di origine ecclesiastica o burocratica, a quello di estrazione popolare), uso di parole generiche (fare, cosa) e interferenze dialettali a vari livelli. Le tendenze comuni delle cosiddette grammatiche di transizione, tipiche dell’interlingua e documentate per il passato solo dalla scrittura semicolta o burocratica, possono così schematizzarsi: fissazione di tratti fonomorfologici toscani; regresso della grafia latineggiante; oscillazione fra scelte toscane e non toscane; eliminazione – con cadute nell’➔ipercorrettismo – di tratti più marcatamente locali nella fonetica e nella morfologia; interferenze lessicali e fraseologiche dialettali (Sardo 2008).
Del tutto diversa la letteratura di tipo popolareggiante, scritta da autori colti, ma destinata a un pubblico non istruito. Si trattava più che altro di rielaborazioni colte del linguaggio contadinesco, come nella letteratura rusticale toscana (con la Tancia e la Fiera di Buonarroti il Giovane, 1609 e 1611), e in Le sottilissime astuzie di Bertoldo del cantastorie bolognese Giulio Cesare Croce (1606).
Il Seicento si rivela cruciale anche per la storia linguistica interna: se guarda ancora al passato soprattutto sul fronte morfologico, si proietta verso il futuro sul fronte di sintassi e testualità. Assumendo come criterio la tendenza all’arcaicità o all’innovatività, si osserva come la grafia trova finalmente nel Vocabolario della Crusca una stabile fonte di riferimento normativo diffusa su tutto il territorio della penisola e valevole per tutti gli ambiti di scrittura. Il Vocabolario si collocò in una posizione innovativa (Mura Porcu 1982), allontanandosi dalla convenzionale adesione al latino e assecondando la cultura toscana: regolarizzazione di h etimologica (mantenuta in ho, hai, ha, hanno e huomo), grafia unica con zi (vizio e non vitio), doppia zz generalizzata (in pazzo come in mezzo, prima scritto mezo per distinguere graficamente la z sonora dalla sorda), non senza qualche incertezza residua (come in affezzione e dimostrazzione), grafia stabile nelle doppie (fabbro, femmina) e nelle scempie (libro non libbro, dopo non doppo, ecc.; ➔ ortografia).
Restano oscillazioni solo in pochi casi: la s scempia o doppia da ex- (essempio / esempio, essotico / esotico), la distinzione tra ‹u› vocale e ‹v› consonante, che si risolve solo a fine secolo; l’alternanza ‹i› / ‹j› dopo un’altra ‹i›, soprattutto nei plurali (incendj / incendij, precipizj / precipizij). L’accento (➔ accento grafico) è diffuso a scopo distintivo nei monosillabi (di / dì, la / là, si / sì); si ha un abuso di maiuscole iniziali (Huomo, Arte, Tromba).
Sul piano fonetico si segnala l’affermazione definitiva dell’esito fiorentino -er- nel ➔ futuro e nel condizionale (amerò, amerei prima coesistenti con amarò, amarei). L’interferenza dialettale si manifesta nell’uso incerto di scempie e doppie.
Il Seicento segnò una svolta nella storia dell’interpunzione e dei suoi segni, la cui distanza dall’uso attuale è rivelata già dalla diversa e fluttuante denominazione: coma poteva essere, a seconda dei grammatici, la ➔ virgola e i ➔ due punti; punto comato o punto coma indicava il ➔ punto e virgola, mentre il mezzo punto indicava tanto i due punti quanto il punto e virgola; più univoche le denominazioni della virgola, definita sospiro o sospensivo. Molteplici e variabili anche le funzioni assegnate a ciascun segno di punteggiatura: i due punti corrispondevano inizialmente all’attuale punto e virgola, mentre nel corso del secolo si stabilizzò la distinzione attuale fra i tre tipi di pause brevi (virgola, punto e virgola, due punti).
Sul versante morfologico, lui, lei, loro soggetti sono frequenti nel parlato e nello scritto medio, ma sono censurati dai grammatici; il lei allocutivo, con l’appellativo la Signoria Vostra, si stabilizza nell’uso colto ma non in quello popolare. Nel sistema verbale si comincia ad aprire qualche spiraglio nelle grammatiche per l’➔imperfetto in -o (dicevo, solevo), che tuttavia non azzera la concorrente forma trecentesca in -a (io aveva persino in Galileo).
Ma il settore della lingua in cui si percepisce di più la spinta innovativa dell’italiano secentesco è la sintassi. Nella prosa argomentativa si diffonde una sorta di sintassi ‘a clessidra’, con la reggente al centro del periodo, da cui si dipartono le subordinate. Dalla metà del secolo si fa strada uno stile più sciolto, costituito da enunciati brevi o brevissimi. In regresso i costrutti infinitivi alla latina (➔ accusativo con l’infinito), sia nelle oggettive, sia nelle subordinate implicite. Si espande anche l’uso dello stile nominale (Durante 1981: 193 segg.; ➔ nominali, enunciati).
Si gettavano così le basi per la rivoluzionaria innovazione della prosa settecentesca, che a sua volta avrebbe predisposto lo stile sintattico italiano al decisivo scardinamento antiretorico operato da ➔ Alessandro Manzoni.
Anche nel settore lessicale si manifesta il carattere innovativo dell’italiano secentesco. In forza del dinamismo sociale, culturale ed economico dell’epoca, il lessico assume nuova consistenza e vitalità; ➔ arcaismi e ➔ cultismi sono sostituiti da varianti più usuali (aere → aria, magione → casa, ecc.); si contano numerose neoformazioni e nuovi termini vengono desunti dalle lingue classiche o straniere. Anche i dialetti forniscono nuovi elementi alla lingua letteraria.
Molte parole acquistano nuova diffusione o nuovo significato per riflesso della vita e della cultura del tempo: nell’ambito del comportamento si sono trasmessi all’uso attuale brillante (spirito vivace) e freddura (argutezza fallita), manierato, lambiccato, esagerare, formalizzarsi, formalista. Alla rinnovata evangelizzazione si deve la creazione di missioni e missionanti, poi missionari; allo spirito controriformistico l’aggettivo peccaminoso, nonché bacchettone e baciapile. Nuove abitudini esotiche favoriscono l’ingresso di cioccolato, caffè, tè, pipa. Nella scienza Galilei tecnicizza termini popolari come momento («movimento» nella fisica statica, in riferimento alla bilancia e al movimento di un «grave» che subisce un colpo, e nella fisica dinamica come forza o «efficacia, con la quale il motor muove e ’l mobile resiste»; Marazzini 20023: 319), pendolo, cannocchiale, forza e resistenza, macchie solari, ecc., o riadatta termini medievali come nebulosa.
Anche in medicina si recuperano latinismi classici (femur «femore», palatum «palato», vertebra) e per converso si soppiantano con latinismi i termini in volgare medievale: renes «reni» confina arnioni o rognoni nel linguaggio gastronomico o veterinario. Il greco è più produttivo del latino nel conio di nomi di scienze (ornitologia, cosmologia), strumenti (termometro, barometro), fenomeni (apogeo) o termini anatomici (placenta, pleura). Si stabilizza la suffissazione in -ite «infiammazione»: epatite, ecc.
Su tutt’altro fronte, voci popolari fiorentine, come ammazzasette e lestofante, trapassano dai poemi eroicomici nel Vocabolario della Crusca e poi nell’uso letterario e comune. La convivenza di ➔ geosinonimi è documentata dall’alternanza tra termini dell’uso di Firenze e di Roma: beccaio-macellaro; guanciale-cuscino; legnaiolo-falegname; popone-melone. Si diffondono i suffissi verbali dinamici -izzare e -eggiare per indicare tipi di relazionalità (fraternizzare) o modi di atteggiarsi (anticheggiare).
Relativamente ai prestiti, è ingente l’introito di ➔ francesismi riferiti all’attività letteraria e culturale e agli stili di vita moderni: giornale acquisisce, a partire dal francese, il senso di pubblicazione periodica e produce il derivato giornalista. L’influsso francese cresce negli ultimi decenni del secolo, sia nel lessico comune (attrezzo, complotto, massacro, ragù, lacché, moda, alla moda, ultima moda, parrucca, parrucchiere, treno «convoglio di carri», calesse), sia nel linguaggio militare (plotone, reggimento, tappa, gendarme, piattaforma). L’abitudine del gioco produsse un lessico specifico: gettoni, azzardo; notevoli i calchi di locuzioni figurate come fare il diavolo a quattro, valer la pena, mettere sul tappeto, o le locuzioni avverbiali o preposizionali: a meno che, presso a poco.
La soggezione sociopolitica dell’Italia nei confronti della Spagna comportò un forte accesso di ➔ ispanismi attinenti alla vita sociale o quotidiana (brio, etichetta, complimento, creanza, sussiego, disinvoltura, puntiglio, posata «posto a tavola» e «strumento da tavola») o alla vita marinaresca (nostromo, doppiare, tolda, risacca; ➔ marineria, lingua della) o militare (guerriglia, ronda, camerata).
Si intensifica il flusso di esotismi (➔ arabismi): dalle lingue orientali giungono caucciù, ginsèng, mandarino «funzionario cinese», e l’arabo musulmano mediato dal persiano. Consistenti anche gli esotismi mediati dalle lingue iberiche: uragano, caimano, coca, mais, patata, cacao, banana, ananas.
Nel Seicento s’accentua l’internazionalizzazione dell’italiano iniziata nel Rinascimento (➔ italiano in Europa): molti stranieri imparano l’italiano nelle principali università della penisola, soprattutto a Siena. Anche il prestigio di Galilei indusse molti dotti stranieri a imparare il toscano per poter scrivere allo scienziato. Un canale importantissimo per la divulgazione dell’italiano, anche fuori del circuito colto, fu il teatro, grazie alla commedia dell’arte. Un diffuso interesse per la nostra lingua è documentato in tutta Europa da una densa produzione di grammatiche e vocabolari per l’apprendimento metodico dell’italiano destinati a lettori francesi, spagnoli, austriaci, tedeschi e inglesi.
Diversi italianismi di ambito estetico (➔ arte e critica d’arte, lingua dell’) e musicale transitano nelle lingue europee: cupola, a fresco, frontone, miniatura, opera, comparsa, virtuoso, violino, adagio, grave, largo. Molta fortuna all’estero ebbero i nomi delle maschere (Pulcinella: fr. Polichinelle, ingl. Polichinello o Punchinello, da cui punch), il mitico dolce far niente e la regata veneziana.
Come s’è accennato, si usa chiudere (almeno culturalmente e linguisticamente) l’età barocca col 1690, data di fondazione dell’Arcadia, che spostò l’accademismo dalla Firenze cruscante alla Roma neoclassica. All’esuberante creatività secentesca si opponeva la razionalità nella poesia e nelle arti, sulla scia della reazione francese al barocco spagnolo e italiano, che avrebbe avuto riflessi su tutta la cultura linguistica del Settecento. Il francese si affermava come lingua ‘universale’, capace per natura e per cultura di imporsi sulle altre lingue europee, confinando l’italiano alla lirica amorosa e al melodramma (➔ immagine dell’italiano). Purtroppo la cultura italiana del Seicento non disponeva più di risorse intellettuali per ribattere efficacemente a tale pregiudizio denigratorio. Solo nel XVIII secolo personalità del calibro di ➔ Ludovico Antonio Muratori e ➔ Melchiorre Cesarotti ripristinarono, almeno sul piano teorico, la parità di stato e di diritti tra le lingue. Al ‘buon gusto’ in letteratura si affiancava il ‘buon uso’ della lingua d’oltralpe, identificato col bon usage della corte parigina. Senza dover aspettare il progressismo illuminista del Settecento, una lettura nitida e realistica dello spirito dell’età barocca proviene da un protagonista del dibattito: il fiorentino Carlo Dati (1619-1676), accademico della Crusca e del Cimento, letterato, filosofo, scienziato, poeta in latino e in volgare. Impegnato nella teorizzazione linguistica (Discorso dell’obbligo di ben parlare la propria lingua, 1657) e nella proposta di dinamici esempi di scrittura esemplare, preziosi per i non toscani (Prose fiorentine, 1661), riuscì a conciliare modelli d’autore col moderno uso vivo, vale a dire il fiorentino colto, unica alternativa all’italiano malcerto delle altre regioni.
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