eternità del mondo
In quanto la si tratti in questa sede, la questione dell’e. del m. richiede che siano in breve richiamati il modo e la ragione per i quali M. esplicitamente la affrontò e la discusse nel quinto capitolo del secondo libro dei Discorsi. In quello precedente aveva studiato i tre modi che le repubbliche avevano tenuti «circa lo ampliare». Premesso che il terzo modo era stato quello seguito dagli Spartani e dagli Ateniesi, che il secondo, il migliore secondo il suo giudizio, era stato messo in atto dai Romani, restava il primo, che egli riconosceva nella prassi politica e militare che era stata dei «Toscani antichi», come li chiamava, ossia degli Etruschi. I quali erano stati potentissimi in Italia prima che i Romani li sostituissero nel dominio e nel governo di essa; salvo che la loro potenza essendo stata «prima diminuita da’ Franciosi» e «dipoi spenta», come si è detto, «da’ Romani», «ancora che dumila anni fa» fosse stata grande, «al presente» non ce n’era «quasi memoria». «La quale cosa», confidava al suo lettore, «mi ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle cose; come nel seguente capitolo si dirà» (§§ 40-41). La spiegazione del perché egli si accingesse a discutere di un tema che, a rigore, non apparteneva, in senso stretto, alla materia dell’opera che aveva intrapresa e stava facendo progredire era per un verso ineccepibile, perché effettivamente la sparizione quasi completa degli Etruschi, lingua, istituzioni, ordini dalla memoria dei presenti uomini non era cosa che, per la sua singolarità, potesse esser passata sotto silenzio. Della loro storia essendo sopravvissuto quanto bastava a far concludere che quasi niente se ne sapeva, trattare con precisione di quel che tuttavia era sopravvissuto costituiva pur sempre una prova di buona volontà storiografica. Ma non si direbbe che fosse stata questa la ragione principale per la quale M. ne parlò. Sembra piuttosto che, essendosene presentata l’occasione, egli mostrasse una particolare disposizione a entrare in un argomento che, anche nei suoi anni, conservava intatto il suo carattere rischioso e a far conoscere, al riguardo, la sua opinione.
Étienne Gilson scrisse una volta che «quando si vuol sapere se un filosofo medievale è averroista», basta chiedergli «se il movimento e il mondo sono eterni» e «se non v’è che un intelletto agente e un intelletto possibile per tutti gli uomini. La risposta a questa domanda», aggiungeva, «è un sintomo indicativo» (La philosophie au Moyen Âge, 2 voll., 1922, trad. it. di M. A. del Torre, 1973, pp. 443-44). In questione erano infatti l’ortodossia e l’eterodossia, la valutazione del cristianesimo e dei suoi dogmi. Entrando con decisione nell’argomento, e, dopo aver costruito con abilità il suo argomento nella forma, quasi, di una quaestio medievale, prendendo partito per la tesi dell’e. del m. è come se M. avesse voluto apporre un sigillo di indiscutibile chiarezza sul pensiero che nei suoi scritti aveva elaborato a proposito del cristianesimo, religione, diceva, della rinuncia alla virtù e alle cose del mondo. Il capitolo era una risposta alla domanda che s’era proposta circa l’«oblivione delle cose», ma era anche, al tempo stesso, una professione di fede anticristiana.
Non era del resto soltanto nel capitolo che specificamente gli fu dedicato che il lettore dei suoi scritti avrebbe potuto incontrare, sebbene di scorcio e non dichiarato, il tema dell’eternità del mondo. Nella redazione definitiva (B) del proemio al primo libro dei Discorsi, a proposito della possibilità, da lui ammessa contro chi la negava, che il mondo antico fosse oggetto di imitazione da parte dei moderni, M. aveva asserito che «il cielo, il sole, li elementi, l’uomini» non erano «variati di moti, d’ordine e di potenza da quello che gli erono anticamente» (§ 8). Il che poteva bensì, a rigore, far pensare che l’identità qui affermata fosse relativa al tempo definito, genericamente, come antico, e non implicasse di necessità che, al pari del cielo, del sole, degli elementi, quel moto, quell’ordine, quella potenza non fossero stati, illo tempore, oggetto dell’atto creatore di Dio; essendo tuttavia innegabile che questa ipotesi appariva in realtà meno probabile dell’altra che, al sistema dell’universo, assegna non un’origine, ma la permanenza e l’esser stato sempre. Non che, per come la permanenza era intesa da M., questa fosse esclusiva della varietà e della differenza; che se fossero state escluse, se il sistema dell’universo fosse stato concepito alla maniera di un oggetto insuscettibile di distinguersi al suo interno e di presentarsi, di tempo in tempo, come ora segnato dalla virtù, ora dal suo contrario, a risultare inconcepibile sarebbe stata l’imitazione, che proprio questo dislivello presupponeva e solo in relazione a questo declinava la sua plausibilità. La sottile discrasia che in questo punto si era insinuata nel ragionamento di M., che per un verso fondava la possibilità dell’imitazione sull’identità dei tempi e degli uomini, e per un altro, fra antico e moderno, presupponeva una diversità che doveva appunto essere eliminata, questa innegabile discrasia non infirmava l’ipotesi che per lui il mondo fosse eterno e nella sua eterna cornice ospitasse tuttavia le variazioni delle cose, le differenze dei costumi, l’alternarsi della virtù e del vizio. Il proemio al secondo libro fu per intero ragionato sul fondamento della differenza, sulle lodi, ora giustificate ora no, che gli uomini di un’epoca rivolgono a quella che li ha preceduti, sulla deplorazione, a volte sacrosanta a volte no, del presente e sull’esaltazione dell’antico. Ma questo non toglieva che l’ammissione della differenza nel quadro dell’eternità non procurasse alcuna difficoltà a lui che, anzi, la teorizzava giudicando «il mondo sempre essere stato a uno medesimo modo, e in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo, ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia» (§ 12). Che poi la questione della compossibilità dell’identico e del diverso nel quadro di questa concezione, che si riteneva affermativa dell’e. del m., potesse sollevare difficoltà agli occhi del filosofo che si fosse proposto di esercitare, al riguardo, il necessario rigore, è ovvio. Ma non di questo M. s’interessava, non a questo dirigeva la sua attenzione. Se sosteneva la tesi dell’immutabilità dell’universo e della varia vicenda che tuttavia avveniva nel suo ambito, le ragioni erano altre: di natura politica, innanzi tutto; e poi anche ideologica e religiosa, perché, senza fare esplicita professione di ateismo, è indubbio che, giudicando il cristianesimo responsabile della decadenza dei «presenti tempi», il richiamo di quel tema aristotelico/averroistico assumeva, nel suo pensiero, un particolare significato, era, come si è detto, una esplicita, o quasi esplicita, professione di fede. La permanenza del mondo in un tempo che non aveva un tempo che lo precedesse e un altro in cui fosse destinato a finire assumeva del resto, passando dagli scritti politici a quelli letterari, toni persino parodistici o autoparodistici: come, per esempio, nel prologo della Clizia (ma sul tema che vi è ripreso si dovrà ritornare), dove è detto che «se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni che non ci trovassimo una volta insieme a fare le medesime cose che ora».
Se con la citazione e il rapido commento di questi luoghi ci troviamo alla periferia della questione, al suo centro si perviene con il già ricordato quinto capitolo del secondo libro dei Discorsi; che conviene rapidamente ripercorrere nella sua struttura che, essendo, pur nella sua brevità, molto elaborata nonché allusiva a varie questioni, potrebbe di nuovo, come è accaduto in passato, dar luogo a fastidiosi equivoci. Deve subito avvertirsi che il tema della memoria breve con il quale il capitolo esordisce non va, come M. sembra ammettere, a favore della natalità e della mortalità del mondo:
a quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare che se tanta antichità fusse vera e’ sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che cinquemila anni.
La tesi del mondo che nasce nel tempo e nel tempo muore dimostrerebbe la sua verità, e il limite dei cinquemila anni posto dalla Bibbia si rivelerebbe per quel che si pretende, e cioè come un limite non scavalcabile nella direzione dell’inizio, se, lungi dall’esser segnato dal tempo della creazione divina, a stabilirlo non fossero le distruzioni che «per diverse cagioni» le cose umane subiscono a causa di accidenti esterni che le colpiscono e le «spengono», le quali distruzioni «parte vengono dagli uomini, parte dal cielo» (§ 2). In fulminea successione, come si vede, l’esordio presenta un argomento contra seguito dalla sua confutazione e, subito dopo, da un argomento pro che, nell’introdurre la tesi relativa all’e. del m., contiene in sé la premessa di un’ulteriore presa di posizione anticristiana. È notevole infatti che le distruzioni attribuite agli uomini riguardino tutte quelle che, non senza un’intenzione implicitamente blasfema, M. chiamò «sette», a esse sottraendo il nome di religione, e facendone in effetti altrettante fazioni politiche in lotta per il primato contro quelle affermatesi in precedenza. Lo si vede con chiarezza se si considera la ferocia distruttiva con cui, nella rappresentazione che egli ne dette, la setta cristiana agì contro quella «gentile», che ne fu «cancellata» in «tutti gli ordini, tutte le cerimonie», tanto che «spenta fu ogni memoria di quella antica teologia» (§ 5). La quale infatti non sopravvisse, sebbene qualcosa sfuggisse alla furia distruggitrice esercitata dai cristiani, e cioè la lingua latina che «forzatamente» in Occidente essi furono costretti ad adottare «avendo a scrivere questa legge nuova con essa», mentre «se l’avessono potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate» (§§ 6-7).
Il tema, come si vede, era quello della riduzione delle religioni a puri fatti mondani, sottratti a ogni pretesa di soprannaturalità e sottoposti alla mondana legge della politica; ed è possibile che, nel riprenderlo, M. sfruttasse la conoscenza che poté avere di testi che, come quello, per esempio, di Pietro d’Abano e dell’oroscopo che vi era contenuto, delle religioni monoteistiche, stabilivano, in termini di durata temporale, il loro destino nel mondo. A quali altre fonti, se questa potesse essergli senz’altro attribuita, egli attingesse queste tesi è difficile e anzi, allo stato attuale delle conoscenze, impossibile stabilire con un fondamento minino di certezze. Ma per quanto, in genere, riguarda l’intonazione anticristiana del suo pensiero, che, mantenendo questo suo fondamentale carattere, dall’ambito politico trapassava a quello filosofico, la supposizione che, alcuni anni fa, fu avanzata di un’influenza da lui subita in gioventù dai circoli ellenizzanti che, presenti a Firenze, avevano fortemente risentito del pensiero anticristiano di Giorgio Gemisto Pletone non va respinta. Di lì potrebbero infatti essergli venute, al riguardo, varie sollecitazioni e suggestioni, non esclusa quella derivante dalla presenza di Basilio Bessarione che vestiva l’abito cardinalizio, ma, in tema di e. del m., era assai più vicino ad Aristotele reinterpetato da Averroè di quanto non fosse all’ortodosso pensiero cristiano. Nemmeno può essere dimenticata l’influenza che su di lui, direttamente o no, potrebbero aver esercitato gli scritti contenuti nel Corpus hermeticum, che, da Marsilio Ficino a Giovanni Pico, gli umanisti avevano interpretato come il documento di un’antica sapienza anticipante il cristianesimo, e nei quali, accanto a quello della creazione divina del mondo, era tuttavia presente, con il dovuto rilievo, anche il tema alternativo, se non in senso tecnico dell’eternità, dell’immortalità del mondo. Come Pico aveva scritto nella sesta delle dieci Conclusiones secundum priscam doctrinam Mercurii Trismegisti Aegyptii: nichil est in universo passibilis mortis uel corruptionis («nulla nell’universo è passibile di morte e di corruzione»), perché, aggiungeva ubique uita, ubique prouidentia, ubique immortalitas («ovunque è vita, provvidenza e immortalità»); e nel De honesta disciplina, un libro che ben potrebbe esser stato letto da M., Piero Crinito aveva citato con larghezza un testo dell’Asclepius, nel quale la tesi dell’e. del m. aveva trovato un’espressione che, altrove, fu definita addirittura «impetuosa». Del resto, come non può escludersi che, in un modo o in un altro, la notizia di questi testi pervenisse a M. ed egli ne fosse indotto a leggerli, così nemmeno è da respingere l’ipotesi che dal medesimo ambiente umanistico e filoellenico, e più in particolare da quello ficiniano, egli apprendesse di quel che in tema di e. del m. era stato detto da Plotino, Enneadi II, 1. La netta separazione da lui introdotta fra le cose che pertengono alla dimensione del cielo, e sono eterne, e le cose di quaggiù che, per non essere parti di quelle, sono invece transeunti e mortali, non era fatta per incontrare i gusti di Machiavelli. Per lui eterno era non il cielo in quanto fosse considerato in sé, ma il cielo che era tutt’uno con il mondo, con gli elementi, con gli uomini, in modo che il riconoscimento di quel che in esso si formava per poi sparire e non tornare mai più non implicava la sua assegnazione a una sfera inferiore e rendeva piuttosto conto del nesso sussistente fra la permanenza del mondo e la varietà in esso di ciò che vi accadeva. Non c’era, per conseguenza, in M., differenza di alto e di basso, di celeste e di terreno, se non nel senso che le «variazioni delle cose» e il loro sparire dalla scena del mondo erano il documento di una morte che avveniva in un quadro destinato a durare per sempre. Niente di plotiniano, dunque, nella sua rappresentazione dell’eternità del mondo. Ma dell’ambiente che egli conobbe da giovane, anche Plotino faceva parte. Anche del suo pensiero, in quello, si discuteva. C’è dunque una ragione per la quale si dovrebbe non farne menzione?
In realtà, se nulla autorizza a credere che con testi come questi M. possa mai aver simpatizzato, di menzionarli non si può fare a meno. La congettura che in un modo o in un altro, e magari soltanto per esser messi da parte con fastidio, quei testi fossero entrati a far parte del patrimonio delle sue conoscenze, non può essere scartata. Potrebbe per contro, e non a torto, esser giudicato segno, non di prudenza, ma di timorosa grettezza, l’atteggiamento di chi, per falso amore del concreto, ignorasse, o non considerasse, che in quell’ambiente fiorentino si era dato e si dava luogo non a proclami, ma a problemi, che in pensatori come Ficino e Pico c’erano state non solo certezze, ma dubbi, e la questione se il mondo fosse stato creato nel tempo, o, non avendo avuto un inizio, nemmeno fosse destinato a finire, era stata perciò vissuta nel segno di drammaticità tanto più grande che, anche chi fosse stato alieno da certe formulazioni filosofiche o teologiche, avrebbe potuto, in una forma o in un’altra, risentirne il contraccolpo. Insomma, in quell’ambiente così ricco di contrasti e di inquietudini non c’erano solo certezze. C’erano anche perplessità e dubbi, che si esprimevano nella forma della cautela e in quella dell’equidistanza, come avveniva per esempio nel commento di Ficino al Timeo e nelle Conclusiones di Pico. Ma, si trattasse di certezze o di perplessità, di convinzioni profonde o di convinzioni oscillanti, tutto questo era atto piuttosto ad accendere il fuoco dell’interesse che non a spegnerlo in quanti a problemi come quelli fossero stati educati a guardare, con interesse e partecipazione, non con indifferenza. Nel commento al Timeo, postosi la questione se per Platone mundus fuerit sempiternus, Ficino aveva risposto che interpretibus Seuero et Attico et Plutarcho, aliisque ut Proculus narrat multis non fuisse semper («secondo l’interpretazione fattane da Severo, Attico e Plutarco e, come Proclo segnala, molti altri, il mondo non è sempre esistito»), ma che
interpretantibus Crantore, Plotino, Porphyrio, Iamblico, Proculo et plerisque aliis, semper quidem fuisse, et fuisse semper a Deo, immo fluxisse. Deum enim semper esse aiunt. Mundum enim semper fieri et fluere
secondo l’interpretazione di Crantore, Plotino, Porfirio, Giamblico, Proclo e la maggior parte degli altri, esso è sempre esistito, e sempre è derivato da Dio, perciò [sempre] ha avuto moto. Dicono infatti che Dio è sempre esistito. Sempre infatti il mondo diviene ed è in movimento.
A sua volta, nelle Conclusiones, in tema di e. del m., Pico aveva espresso non pochi dubbi. Aveva riproposto la questione a partire da quella concernente la potenza, l’atto e il loro rapporto, asserendo che alla luce di questa non potuit mundus esse a Deo ab aeterno efficenter, efficentia vera, quae est reductio de potentia ad actum («il mondo non poté essere creato da Dio efficientemente dall’eternità, la vera efficienza consistendo nella riduzione della potenza all’atto»). Ma questo non toglieva che, per un altro verso, l’inclinazione che provava verso la tesi aristotelica e averroistica trovasse anch’essa la sua espressione:
potuit produci et fuit de facto secundum Aristotelem et Commentatorem productus ab aeterno mundus a Deo, efficentia quae est naturalis fluxus et effectualis consecutio
secondo Aristotele e il Commentatore il mondo poté essere prodotto, e in fatto lo fu, ab eterno da Dio, e questa ‘efficienza’ è il movimento naturale e una conseguenza effettuale.
Di questo vario e ricco ambiente intellettuale è impossibile non supporre che M. partecipasse, e che di conseguenza ne fosse condizionato. Certo, la sua giovinezza resta un enigma, nel quale non è stato fin qui possibile far penetrare più luce di quella proveniente dall’impresa che, prima del suo ingresso nella cancelleria fiorentina, egli compì trascrivendo per intero il poema di Lucrezio: da questo e da poco altro. Per gli interpreti della sua vita e del suo pensiero, che vorrebbero saperne di più, essa di conseguenza assume la forma persecutoria di un fantasma che, mentre apre una quesione, subito la chiude nel segno dello scetticismo e dell’impossibilità, mentre accenna a svelare il suo volto, subito lo nasconde. A leggere «sensatamente» le opere della sua maturità, sembra tuttavia difficile, e anzi è impossibile, pensare che sia stata quale da qualcuno fu ipotizzata in tempi recenti, quella cioè di un personaggio tanto versato nella letteratura in volgare, e fruitore di questa, quanto poco esperto, se non proprio ignaro, della lingua dei classici, non solo greci (il che si concede facilmente), bensì anche latini. È difficile, in effetti, e anzi impossibile, pensare che l’uomo che per tutta la vita aveva predicato in favore dell’esempio romano, e dedicata la sua maggiore impresa intellettuale e concettuale al commento della prima deca di Tito Livio, non si fosse procurata la capacità di leggere questo storico e gli altri scrittori latini nella lingua in cui avevano scritto. Se frequentava gli scrittori in volgare della letteratura italiana, ed, essendo esperto di Dante e di Petrarca, non disprezzava il Burchiello (Domenico di Giovanni), resta che, senza essere un umanista e un filologo come Angelo Poliziano, la radice della sua opera era nel mondo antico, da lui contrapposto al moderno per ragioni diverse da quelle addotte dagli umanisti, ma con altrettanta nettezza. In breve. È difficile, e anzi impossibile, che la giovinezza di M. sia stata quella di un personaggio insensibile e, addirittura, estraneo a ciò che, nel campo della cultura, avveniva in quegli anni nella sua città. Se si è costretti alla congettura e alla supposizione, allora deve dirsi che quel che di certo si sa di lui, del suo attivismo, della sua curiosità intellettuale, della sua intraprendenza, induce a pensarlo come un giovane pronto ad apprendere e a tesaurizzare, in vista di personali interessi, quel che si agitava intorno a lui; che precocemente, come può ricavarsi dalla famosa lettera in cui, il 9 marzo 1498, a Ricciardo Becchi aveva esposto e commentato il contenuto di due prediche di Girolamo Savonarola, doveva aver maturato in sé, fra le altre cose, precisi convincimenti anticristiani.
A renderlo, in particolare, ricettivo di idee come quelle dell’oroscopo delle religioni, da una parte, e, da un’altra, dell’e. del m., fu quindi la disposizione anticristiana che poté essersi formata nel suo pensiero anche per altre vie, e soprattutto attraverso ragionamenti suggeritigli, in sede storica e politica, dalla condizione di decadenza, rispetto all’antica virtù, degli Stati italiani. All’idea secondo cui alla religione doveva riconoscersi un valore non sovrannaturale, ma mondano e politico, a questa idea, che trovò espressione anche in componimenti letterari appartenenti al periodo della cancelleria, fin dall’inizio dovettero esser connesse le due sopraddette; e la seconda non meno della prima, perché, a parte che direttamente l’aveva incontrata in Lucrezio che, negandola, le aveva dato forte rilievo, negli ambienti intellettuali fiorentini, filosofici e teologici, doveva esser ben noto che, fin dai tempi delle famose dispute parigine che avevano visto all’opera personaggi come Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, al pari di quella relativa all’unità dell’intelletto era stata questa la tesi che, a seconda di come fosse stata svolta, decideva chi fosse cristiano e chi no. È un fatto, comunque, che questa idea delle religioni che cedono alla religione che si afferma, ed escono di scena rivelando una natura non meno mondana e politica di quella che le soppianta, gli venne, se non solo di lì, anche di lì. Di lì, anche se non soltanto di lì, può essergli venuta quella stessa dell’eternità del mondo. E la congettura merita perciò di essere mantenuta. Infine, valga,al margine, questa considerazione. È un fatto, e questa volta non opinabile, che, mentre di queste sue argomentazioni si cercano le possibili fonti ispiratrici, a partire dalla seconda metà del Cinquecento e per tutto il corso del secolo successivo fu proprio lui, M., a costituire una delle fonti primarie del più ardito pensiero libertino. E basti ricordare, per addurre un solo testo, al Teophrastus redivivus. Ma questo è, come si sa, il tema di un’altra storia.
La particolare tonalità in cui l’idea machiavelliana dell’e. del m. si presenta non sarebbe colta se non se ne ascoltasse il suono insieme a quello che viene su da una più sotterranea serie di accordi; che riguarda Lucrezio e, per questo aspetto, il netto rifiuto del suo pensiero. La critica che M. formulò, dopo aver dato l’impressione di accoglierla all’inizio del capitolo, della tesi concernente la memoria umana, che si estenderebbe al di là dei cinquemila anni che invece ne costituiscono il limite se di tanto il mondo fosse più antico, è rivolta, pressoché letteralmente, a Lucrezio. E la cosa può sorprendere soltanto chi, leggendo il De rerum natura e a questo aggiungendo gli scritti stessi di Epicuro, non fosse tuttavia in grado di distinguere fra l’eternità che appartiene agli atomi che, in quanto tali, non mutano, e ciò che, risultando dalla loro casuale composizione, dopo essersi formato, necessariamente incontra la sua fine. Se c’è un elemento eterno che dà origine alla vita dei mondi, è evidente che, per ciò stesso che hanno un’origine, questi sono destinati alla senescenza e alla morte. Per questo, quando, ai vv. 279-80 del libro quinto, asseriva che haud igitur cessat gigni de rebus et in res/ reccidere, assidue quoniam fluere omnia constat («non smette quindi di essere generata dalle cose e alle cose stesse tornare, poiché è evidente che tutte le cose fluiscono ininterrottamente»), Lucrezio era ben lungi dall’incorrere in contraddizione rispetto a quanto aveva dichiarato poco prima e avrebbe poi ripetuto in varie tonalità. Se a causa della costanza strutturale del sistema atomico, il tutto ininterrottamente (assidue) fluiva, la permanenza riguardava bensì il fluire, che non poteva perciò aver fine, non essendo per altro in sé se non la strutturale ragione dell’essere e del non essere dei mondi, del loro nascere e del loro perire:
quapropter maxima mundi / cum videam membra ac partis consumpta regigni, / scire licet caeli quoque item terraeque fuisse / principiale aliquod tempus clademque futuram
così, vedendo le membra più grandi e le parti del mondo consumarsi e rinascere, mi è lecito ricavare che esista anche per il cielo e la terra un principio, un tempo assegnato e una fine (V 243-46).
Il nascere e il morire, che per sé stessi non potevano avere fine, avevano perciò, determinato da quello interno alla composizione e scomposizione degli atomi, un tempo che, segnando il loro inizio e la loro fine, non consentiva che, nel ripercorrere all’indietro gli eventi che vi avevano avuto luogo, si potesse retrocedere tanto che, oltre una linea, se ne trovasse un’altra e così via all’infinito. Con perfetta coerenza, a V 324-29, Lucrezio si era chiesto:
praeterea, si nulla fuit genitalis origo / terrarum et caeli semperque aeterna fuere, / cur supera bellum Thebanum et funera Troiae / non alias alii quoque res cecinere poetae?
inoltre, se mai c’è stato un inizio per la terra e il cielo, e da sempre, eterni, essi sono esistiti, perché mai prima della guerra di Tebe e della distruzione di Troia, non ci sono stati altri poeti che hanno cantato altri eventi?
E aveva risposto esponendo la tesi della mortalità del mondo in un passo che, tanto più giova commentare in quanto, contenendo l’argomento a cui M. avrebbe fatto ricorso per trarne la conferma della tesi opposta, dimostrava che quello non gli era ignoto e che si sentiva di poterlo confutare. Chi infatti avesse ritenuto che la memoria non fosse in grado di raggiungere determinate età a causa delle distruzioni naturali che le avevano cancellate dall’ambito delle cose esistenti, come mai di qui non traeva la conclusione che, appunto, per calamità come queste non solo le membra del mondo, ma il mondo stesso alla fine sarebbe perito? Era questo, alla lettera, e se non questo uno di analoga ispirazione, il passo che, nella sua prima parte, M. ebbe in mente quando, nell’esordio del capitolo quinto del secondo libro dei Discorsi, fece menzione della memoria che non restituisce cose appartenute a tempi che, per citare il famoso verso di Orazio (Odi IV, 9, 25-26) scavalchino l’età di Agamennone: vixere fortes ante Agamennona multi («molti eroi vissero, prima di Agamennone»). Al pari di Orazio, M. poteva ben ritenere che, nella cornice eterna del mondo, fossero accadute cose ben anteriori al tempo in cui erano vissuti coloro che avevano combattuto intorno alla mura di Troia: salvo che la memoria ne era impedita dall’essersi, quelle, imbattute in calamità, umane e naturali, che ne avevano impedita la sopravvivenza senza, per questo, aver messo a repentaglio la cornice eterna che le racchiudeva. La differenza, fra M. e Lucrezio, era tutta qui. Ma importava, su questo punto cruciale, un’opposta visione delle cose del mondo.
Non è certamente ammissibile che soltanto dalla negazione che nel De rerum natura Lucrezio ne aveva eseguita M. avesse ricavato gli elementi essenziali della tesi proclamante l’eternità del mondo. Se, nello scrivere il capitolo quinto quelle tesi gli furono presenti, e a una di esse si riferì in modo puntuale, può tuttavia ritenersi che da altri testi egli ne derivasse i tratti essenziali (e del resto fu lui a citare, sia pure senza specificazione, «quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno»). Non tanto, si direbbe, dalla negazione che, non diversamente dagli epicurei, ma con altri argomenti, anche gli autori dello stoicismo antico avevano fatta dell’e. del m., quanto piuttosto dall’affermazione di essa che s’incontra, non soltanto nella Metafisica, nella Fisica e nel De caelo di Aristotele, nonché nei relativi commenti medievali, ma anche nelle testimonianze che tramandarono il suo giovanile, e perduto De philosophia. Che, leggendo qualche testo dell’antico pensiero stoico, M. potesse esser stato colpito, non tanto dalle dottrine, in sé considerate, della diacòsmesis e della ecpỳrosis, quanto piuttosto dall’idea che ne derivava e per la quale il mondo era eterno in relazione alla sostanza di cui era formato, ma mortale in quanto quella si dispiegava in una successione di forme periture («gli Stoici [ritengono] che il mondo possa essere distrutto per una deflagrazione» si legge in una testimonianza di Aezio Placcio = 585 von Arnim), è innegabile. L’interesse che, se li avesse puntualmente conosciuti, quei testi avrebbero forse acceso in lui, aveva la sua radice in quel che s’è detto: nella sintesi e, al tempo stesso, nell’alternanza dei due opposti motivi della distruzione, per un verso, della permanenza, da un altro. Su quel duplice motivo, la permanenza e la varietà, M. aveva insistito con forza in ben più che una pagina: quelli erano, secondo lui i due aspetti con il quale il mondo si presentava a chi con attenzione ne avesse scrutato il volto. Non c’è prova, per altro, che, le Naturales quaestiones di Seneca non escluse, il contatto con le fonti del pensiero stoico fosse mai avvenuto e, in un qualsiasi momento della sua vita, quei testi fossero entrati a far parte del patrimonio delle sue conoscenze classiche. Più probabile, e si vorrebbe dire sicuro, che, con la teoria concernente l’e. del m., egli fosse venuto precocemente in contatto leggendo i poeti latini con i quali era in confidenza a causa del talento letterario che da lui era coltivato insieme a quello riguardante lastoria e la politica. È probabile, per esempio, che nell’alludere, nella Clizia, alla tesi relativa al ritorno dei medesimi uomini, e delle loro identiche passioni, nei tempi specificamente diversi della storia, oltre che un passo della agostiniana civitas dei (De civitate Dei XII 10-11), M. avesse presenti alcuni versi della quarta egloga di Virgilio (Bucoliche IV 34-36), il cui tema sarebbe tornato più tardi in un singolare passo di Taziano (Adversus Graecos 5 = I 109 von Arnim), che certamente gli fu inaccessibile. Ma se l’idea degli uomini che ritornano con lo stesso volto, e le stesse passioni, confermava la teoria per il tramite di una sua variante, per dir così, di sapore antropologico, la tesi del ritorno dell’identico in ambito cosmico («summa tamen omnia constant») è probabile che avesse trovato ai suoi occhi una nuova e assai eloquente espressione nel discorso di Pitagora, soprattutto ai versi 252-72, nel quindicesimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, ossia di un poeta che a M. era ben noto e del quale gli era occorso di fare un vario uso nei giorni spesso amari della sua vita.
Deve comunque ribadirsi che non nell’ambiente dello stoicismo, e neppure in quello del pitagorismo latino, possono e debbono essere indicate le fonti probabili della teoria che M. aveva ripresa e, con potente concisione, ordinata nel quinto capitolo. Possono, come si è detto, e, senza escludere altri possibili tramiti, debbono essere ricercate nelle testimonianze che tramandarono il giovanile De philosophia aristotelico; e che M. poté in parte conoscere per via diretta, in parte attraverso contatti che non ci sono noti, fuori di ogni possibile dubbio tuttavia rimanendo che fu in relazione a quel modo di prospettare i problemi relativi alla questione dell’eternità o della mortalità del mondo che egli elaborò il suo. Se non conobbe Giovanni Filopono e la pagina in cui, nel commento dedicato all’Isagoge di Nicomaco di Gerasa, egli riprese il tema, anche platonico, della Terra che soccombe alle pestilenze, ai terremoti, alle inondazioni e degli uomini che si salvano da queste ultime lasciando le pianure e salendo sulle cime dei monti; se inaccessibili gli furono le pagine in cui Filone d’Alessandria spiegò perché le variazioni, anche violente, che il volto del mondo subisce a opera di ciò che accade in esso non possano, proprio perché vi sono contenute, agire su di lui dal di fuori, ed esser tali quindi da distruggerlo, sì che quello è da dire agènetos e àphthartos, ingenerato e indistruttibile, non così dovrà giudicarsi dei luoghi delle Tusculanae disputationes I 28, 70, del De natura deorum I 19-20, del Lucullus 38, 119, in cui Cicerone dissertò intorno alla tesi aristotelica dell’eternità e la contrappose a quella platonica. Del resto, non per assecondare il gusto delle associazioni estrinseche e per dare spazio, nel migliore dei casi, agli aneddoti, ma perché di quel che si asserisce esiste il documento, non può escludersi che di parti del mondo che sprofondano nella distruzione sotto la furia dei venti e delle acque mentre la sua eterna cornice si sottrae alla vicenda che si contempla nel suo spazio, M. avesse occasione di parlare con l’artista e scienziato che di quegli spettacoli dette, negli scritti e ancor più nei disegni, rappresentazioni famose. L’artista e scienziato è Leonardo da Vinci (→), con il quale M. ebbe rapporti fra il 1502 e il 1503, quando lo incontrò presso la corte di Cesare Borgia, e quindi nel 1504 a Firenze, quando insieme studiarono la possiblità che l’Arno fosse deviato in modo che i pisani fossero privati dell’acqua e persuasi alla resa. Basterà, in questa sede, ricordare le parole con le quali, nel Codice di Wind sor, 12665 v (Scritti letterari, a cura di A. Marinoni, 1952, p. 175), Leonardo descrisse una scena di venti furiosi, di acque in tempesta, di uomini in affannosa fuga verso la salvezza sulla cima dei monti, o il passo in cui descrisse il continuo tramutarsi dei linguaggi umani nel quadro del mondo eterno. Anche in lui, che queste scene contemplava con l’occhio, non solo dello scienziato e dell’impassibile spettatore, ma dell’artista visionario, il tema era quello della varietà delle cose nella ferma cornice del mondo eterno; e anche in lui, come in M., l’asserzione dell’e. del m. andava di pari passo sia con il disinteresse provato nei confronti della diversa idea degli scrittori cristiani sia con l’indifferenza con la quale guardava alle loro preoccupazioni.
Che, alla fine di ogni possibile ragionamento che questa o quella fonte abbia sollecitato, il discorso debba tuttavia tornare nei pressi di Aristotele, di quello giovanile tramandato da testimonianze indirette, o di quello degli scritti esoterici, è conclusione difficilmente contestabile; come del pari contestabile non è che, se le sue tesi costituirono l’atmosfera concettuale che si respira nelle pagine del quinto capitolo, non perciò, fra questo e quelle sarebbe possibile indicare concordanze altrettanto specifiche di quelle che, per esempio, si indicarono con alcuni versi del lucreziano De rerum natura. Lo stesso deve ripetersi per i due maggiori commentatori dei testi aristotelici, per Averroè e la tradizione esegetica che ne dipende, da una parte, per Tommaso d’Aquino, da un’altra. Lo stesso per la grande disputa che nel 13° sec. a Parigi si svolse fra quanti sostenevano il punto di vista di Aristotele e coloro che, da quello del cristianesimo, lo respingevano giudicandolo schiettamente eretico: una disputa aspra, sorvegliata, giudicata e, in molte delle proposizioni che allora ebbero corso, condannata dal vescovo di Parigi Étienne Tempier, il quale per questa sua attività di censore del pensiero altrui passò alla storia che, in caso contrario, non avrebbe avuto particolari ragioni per ricordarsi di lui (si veda comunque l’articolo di R. Hissette, Étienne Tempier et ses condamnations, «Recherches de théologie ancienne et médiévale», 1980, 47, pp. 31-70). Delle 219 proposizioni condannate a Parigi il 7 marzo 1277 (R. Hissette, Enquête su les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, 1977; e cfr. anche L. Bianchi, L’errore di Aristotele. La polemica contro l’eternità del mondo nel XIII secolo, 1984), quella segnata con il numero 87 asseriva
quod mundus est aeternus, quantum ad omnes species in eo contentas: et quod tempus est aeternum, et motus, et materia, et agens et suscipiens: et quia est a potentia Dei infinita, et impossibile est innovationem esse in effectu sine innovatione in causa
che il mondo è eterno, quanto a tutte le specie in esso contenute; e che il tempo è eterno, così il moto e la materia e l’agente e il ricevente; e poiché deriva dalla potenza infinita di Dio, è anche impossibile che, senza innovazione nella causa, vi sia innovazione nell’effetto.
Mentre la proposizione 98 e la 99 rispettivamente affermavano:
quod mundus est aeternus, quia omne quod habet naturam per quam possit esse in toto futuro, habet naturam per quam possit esse in toto praeterito che il mondo è eterno, perché tutto ciò che possiede una natura tale per la quale può esistere nell’intero futuro; possiede una natura tale per la quale può esistere nell’intero passato.
quod mundus, licet sit factus de nihilo, non tamen est factus de novo, et quamvis de non esse exierit ad esse, tamen non esse non praecessit esse duratione, sed natura tantum
che il mondo, sia pure stato creato dal nulla, non può tuttavia essere creato temporalmente dopo il nulla, e sebbene dal non-essere sia sfociato nell’essere, tuttavia il non-essere non ha preceduto l’essere nel senso della durata, ma solo nella natura (Chartularium Universitatis parisiensis, éd. H. Denifle, E. Chatelain, 1° vol., 1889, p. 486).
Senza naturalmente esaurirne la complessità, e tralasciando i punti che, nella teoria relativa all’e. del m., si presentavano nel segno di una più ardua tessitura filosofica e teologica, le proposizioni condannate erano formulate in modo tale che a risultarne era, senza alterazioni tendenziose, e con sostanziale fedeltà, il pensiero di chi le aveva sostenute. Esponevano per condannare, senza dubbio. Ma esponevano. E, al di là delle intenzioni, offrivano per contrasto le ragioni di una condanna che, da parte cristiana, non avrebbe potuto essere più drastica. La convergenza di aristotelismo e cristianesimo che aveva costituito il compito e l’ambizione di pensatori che, concordi in questo programma, potevano tuttavia differire profondamente l’uno dall’altro nella sua esecuzione, e proprio sul tema dell’e. o della non e. del m., realizzare il più netto dissenso, era in sostanza giudicata, essa proprio, contraria alla religione, alla cui verità nessuno dei disputanti aveva intenzione di rinunciare rinnegandola. E, al riguardo, occorre che il giudizio sia netto, e non proponga conciliazioni. L’idea secondo cui altra era la verità perseguita per il tramite della filosofia naturale, altra la fede, così che poteva ben essere che in filosofia si sostenesse quel che, in termini di fede, era da giudicarsi erroneo, indicava una via troppo stretta, o, se si preferisce, un sentiero troppo scosceso perché camminarvi sopra con sicurezza e senza incidenti fosse alla lunga possibile. L’adesione, senza compromessi religiosi, alla verità filosofica, poteva avere bensì un riscontro nell’adesione, senza compromessi filosofici, alla verità religiosa. Ma la duplice intransigenza che in tal modo si metteva in atto, e l’eroismo che ne costituiva la premessa e la condizione, avevano per conseguenza una sorta di scissione dell’unità esistenziale del soggetto, che, nello stesso atto, era costretto a subire il peso di una contraddittoria predicazione. Alla resa dei conti, se, per esempio, in Metafisica Δ 1069 a-b, o Z 1033 a-b, Aristotele aveva sostenuto che la materia è eterna, che eterno è il movimento, eterno è il tempo, eterno è il sistema dei cieli, quale spazio si sarebbe potuto trovare, in un universo così concepito, per l’idea biblica della creatio ex nihilo, per il gesto onnipotente di un Dio creatore? E cose non dissimili, non solo nei commenti ad Aristotele, ma anche per esempio, nella Destructio destructionum, si trovano in Averroè, come in un’altra occasione fu documentato. In realtà, non c’era sottigliezza di commentatore cristiano che potesse fare andare d’accordo queste tesi aristoteliche, che il commento di Averroè radicalizzava solo perché ne coglieva il senso indubitabile, con la sostanza dell’assunto cristiano della creazione. Il che, meglio di altri, e con schietta drammaticità, era forse stato colto da Dante in quei mirabili versi del decimo canto del Paradiso, in cui fece che Tommaso d’Aquino pronunciasse l’elogio di Sigieri di Brabante: «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo / è ’l lume d’ uno spirto che ’n pensier / gravi a morir li parve venir tardo» (133-35). Si è parlato dell’intenzione che qui Dante avrebbe messa in atto, di riconciliare, attraverso le parole del suo maggiore avversario parigino, un pensatore che era stato fedele alla verità della filosofia e non aveva tradito il cristianesimo, e ciò nonostante era stato condannato e screditato, forse, in circostanze non chiare, addirittura assassinato. Sarà così, e per un verso che sia così, è ovvio. Ma più che la riconciliazione dei due filosofi che, nel segno della fedeltà al rigoroso pensare, si erano affrontati in una dura contesa, conta qui il dramma umano di Sigieri, il suo desiderio di uscire dal carcere di una vita spezzata in due da ciò che, sia pure problematicamente, avrebbe dovuto tenere unite le sue parti. L’accordo di cristianesimo e aristotelismo era, in effetti, impossibile. Posta l’impossibilità che reggesse alla prova dell’elementare coerenza esistenziale, c’erano due modi per dichiararne il fallimento. Uno era quello del vescovo Tempier che, nel nome di Cristo, condannava Aristotele e i «seguaci sua». L’altro era quello di M., che sceglieva Aristotele e disconosceva la verità del cristianesimo.
Gli studiosi di M. saranno sempre riluttanti a immaginarlo mentre, con mano diurna e notturna, volta, rivolta, postilla, le pagine di Aristotele, di Averroè, legge Tommaso d’Aquino, medita su Sigieri e Boezio di Dacia, si appassiona, e contrario, all’intransigente polemica condotta contro la tesi dell’e. del m. da Bonaventura di Bagnoregio. In questo atteggiamento, potrebbero aver ragione: a patto che questa non si risolvesse e consistesse nella persuasione del vantaggio che l’ignoranza di quelle dispute arrecherebbe alla comprensione di M.; che, da qualunque parte gli provenisse la conoscenza che ne ebbe, con quelle entrò in contatto, le rievocò, ne riespose alcuni temi, costringendo gli studiosi del suo pensiero a conoscerle per quel che furono bene al di là dell’uso che ne aveva fatto lui. Chi, in ogni caso, fra gli studiosi del suo pensiero assumesse atteggiamenti scettici circa la possibilità che M. parlasse sul serio, e si riferisse a personaggi esistiti nella realtà, quando, nell’esordio del capitolo, alludeva a «quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia eterno», potrebbe esser ricondotto sul terreno della serietà con poco sforzo. Basterebbe invitarlo a considerare che, ammesso (e non concesso) che non li conoscesse per diretta lettura, e li citasse di seconda, di terza, di quarto mano, altrettanto non potrebbe dirsi della nozione che ebbe della vita e degli scritti di un personaggio del quale, se sempre, almeno nel pensiero, fu avversario, mai tuttavia mostrò di sottovalutare l’importanza e la serietà. Il personaggio era Girolamo Savonarola, un predicatore appassionato, apocalittico, travolgente, che dalla religione, senza sforzo, passava alla politica. Nella città di Firenze, mentre il futuro Segretario si preparava a quelle che, per quindici anni, sarebbero state la sua carriera e la sua vita, aveva esercitato un ufficio che da quello di M. non avrebbe potuto essere più lontano, sebbene, nella critica che lui pure rivolgeva al presente di Firenze e dell’Italia, non sarebbe soltanto nel torto chi, trasfigurate, cogliesse qualcosa dell’intransigenza e della radicalità che erano state del frate. Che era un domenicano, come tutti sanno; e, oltre a predicare, scriveva. E, scrivendo, esponeva teorie che erano state delineate da Tommaso d’Aquino e costituivano ormai il fondamento filosofico e teologico dell’ordine al quale apparteneva. M., che degli scritti del frate dichiarava di essere lettore (nel quarantacinquesimo capitolo del primo libro dei Discorsi aveva parlato della dottrina, della prudenza e della virtù dimostrate dai suoi scritti), non avrà limitato la sua curiosità alle pagine del Trattato del reggimento e governo della città di Firenze. Le avrà estese al Triumphus crucis e alle questioni de aeternitate mundi che lì, con varia fortuna filosofica, erano state trattate; e da quelle pagine avrà altresì tratto informazioni e materiali, avrà ricavato spunti per leggerne altre e per arrivare alle sue personali conclusioni. Non è possibile, in questa sede, entrare più estesamente nel merito: altrove di questi scritti savonaroliani e della lettura che M. ne fece si trattò a lungo. Qui, per concludere, converrà ricordare che anche da Savonarola, e da lui in modo altamente significativo, aveva tratto l’idea delle religioni che, nell’affermarsi, cercano, nel nome della verità, di distruggere fin la memoria di quelle che le avevano precedute. Così, lodevolmente, i cristiani avevano cercato di fare con la religione dei gentili, con le opere della loro civiltà, con i libri testimonianti la loro sapienza e virtù. In una sua predica, Savonarola aveva ricordato che san Paolo aveva condannato al fuoco «libri e cose curiosi», che san Gregorio aveva ordinato di bruciare le deche di Tito Livio. Che però si erano salvate insieme alla lingua in cui erano state scritte. E M. che le commentava, e in un suo capitolo ragionava delle cose che muoiono e di quelle che sopravvivono nel quadro del mondo eterno, poteva porsi come il diretto rappresentante di questa situazione che, in effetti, aveva in sé la sua propria ironia.
Bibliografia: G. Sasso, De aeternitate mundi (Discorsi II 5), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 167-399.