eternita
Nel suo primo e più semplice significato il termine indica l’infinita estensione del tempo; in senso più proprio e specifico, significa assoluta atemporalità, cioè durata scevra da qualsiasi successione temporale; in questa seconda accezione l’e. è riferita specificamente a Dio. Il carattere di e. viene inoltre attribuito talora a quelle realtà che, pur avendo un inizio nel tempo, trascendono il tempo perché immortali; tali sono ritenute in certi contesti l’anima umana e gli angeli, nonché il mondo che, pur esistente nel tempo, non avrebbe inizio né fine. Nel primo significato ricordato l’e. fu intesa dalla maggior parte dei pensatori greci, per i quali eterno è ciò che infinitamente è durato e infinitamente durerà, senza interruzione. Cogliendo l’aspetto fondamentale dell’atemporalità, Parmenide identificava l’e. con un puro presente, un νῦν, escludente da sé ogni passato e ogni futuro, distinguendola quindi dal ‘sempre’, l’ἀεί, somma di passato, presente e futuro, del suo discepolo Melisso, per il quale l’essere permane in una continuità temporale senza alterazione, ma con successione dell’identico. In un passo del Timeo (37 e-38 a) Platone definisce l’essere eterno, cui solo si addice l’«è», come «immobilmente identico», di contro alle cose generate, che si danno nel fluire del tempo. Plotino (Enneadi, III, 7, 5) insiste sul carattere della simultaneità insito nell’idea dell’e., mentre Proclo, commentando il passaggio del Timeo platonico richiamato, individua in esso la contrapposizione tra l’e. simultanea (τὸ αιώνιον) e quella successiva (τὸ ἀεί τὸ χρονικόν). Nelle Scritture l’e. indica la lunga durata e la serie dei secoli, mentre attribuita a Dio esclude ogni principio, fine e successione; in questa accezione passa in Agostino e in Boezio (che distingue così l’aeternitas del nunc stans dalla sempiternitas del nunc in tempore, e dà dell’aeternitas la celebre definizione: «interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio», De consolatione philosophiae, V, 6, che si legge ancora in Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, 10, 1). L’idea dell’e. come infinita durata e presente senza inizio e fine è costante nella teologia medievale (che distingue anche una aeternitas a parte ante da una aeternitas a parte post), pur essendo attribuita solo all’ente perfetto, e trascendendo questo, come tale, l’ordine del tempo. In Dante l’e. è carattere che appartiene soltanto a Dio, anzi è la misura stessa dell’essenza di Dio; essa si definisce anche in opposizione al tempo, misura delle cose mutabili nell’essere e nell’esistere, e dall’evo, che misura le cose immutabili nell’essere e mutabili nell’esistere. La caratteristica essenziale dell’e. è l’identità permanente e puntuale, la differenza principale tra essa e il tempo è l’essere tota simul, priva di qualunque fluire. Il carattere di eterogeneità tra tempo ed eterno rimane sostanzialmente indiscusso nel pensiero moderno, che formulerà comunque diverse risposte alle aporie insite nel concetto di e., soprattutto in relazione alla questione del libero arbitrio e dei futuri contingenti. A fronte della svalutazione di queste problematiche in ambito illuministico, il tema torna in primo piano nella filosofia kantiana, in cui la durata intemporale viene indicata come proprietà dell’essere noumenico intellegibile, mentre il tempo si caratterizza quale forma a priori della sensibilità. Il concetto dell’e. come presente eterno tor- na ancora nell’idealismo postkantiano (Schelling, Hegel, Gentile) che, risolvendo le antinomie che intorno al concetto dell’infinità e della finità del- l’estensione temporale aveva suscitato il criticismo kantiano, traduce quel concetto in quello della presenza assoluta dello spirito come soggetto trascendentale. Sostituita dalla nozione di «eterno ritorno», l’idea di e. è bandita nella prospettiva antimetafisica di Nietzsche, e ricondotta nell’ambito della fede, seppure da prospettive radicalmente diverse, da K. Barth e da Heidegger: il primo fautore della fede come unica voce capace di parlare propriamente di un Dio assolutamente trascendente e quindi dell’e. con cui si identifica; il secondo sostenitore della necessità che il filosofo – al quale non è richiesta la fede – comprenda il tempo partendo dal tempo, senza nessun richiamo alla trascendenza dell’eterno.