ETICA DI FINE VITA
Un lungo dibattito. Quali sono le scelte? Situazione nel mondo. I pazienti e le loro motivazioni. Conclusioni. Bibliografia
Nel corso del 20° sec. sono progressivamente cambiate le condizioni cliniche, e quindi anche psicologiche, che possono caratterizzare le fasi terminali della vita umana. I progressi economico-sociali e medico-sanitari consentono a un numero crescente di persone di raggiungere età avanzate o molto avanzate (in alcuni Paesi occidentali circa i due terzi della popolazione muore dopo i 75 anni). Si muore sempre meno per morte acuta – che colpiva in seguito ad affezioni di natura infettiva o per l’impossibilità di rianimare e supplire le funzioni cardiorespiratorie (interventi che diventano efficacemente possibili dopo il 1957) – e si muore sempre più come esito di forme cliniche degenerative. Procedure tecnologiche e farmaci rendono possibile ritardare il momento della morte o tenere artificialmente in vita persone prive di coscienza e autonomia fisiologica, ma spesso si tratta solo del prolungamento della condizione clinica infausta. La conseguenza è che malati, medici e istituzioni sono chiamati a prendere decisioni che mettono in gioco credenze e giudizi che possono confliggere, in particolare per quel che riguarda il valore o la dignità attribuiti alla vita vissuta nelle fasi terminali.
Un lungo dibattito. – La medicina occidentale ha guadagnato affidabilità sociale assumendo in origine, nell’antichità e in collegamento con le funzioni delle religioni, l’impegno deontologico di combattere le malattie, di non far del male e di salvare la vita dei pazienti. Ma questo accadeva durante la lunga fase storica nella quale i medici non avevano mezzi efficaci per realizzare quanto promettevano. Quando gli avanzamenti scientifici e tecnologici hanno consentito di curare davvero le malattie e di prolungare la vita, alcune vicende di abusi da parte dei medici ai danni dei pazienti (con manifestazioni particolarmente tragiche durante il regime nazista in Germania) e una più definita percezione e legalizzazione dei diritti individuali (nei nascenti sistemi politici liberaldemocratici) hanno determinato il declino del paternalismo medico vincolando i medici al rispetto delle decisioni liberamente espresse dai malati.
Il dibattito sui temi del fine vita continua a essere influenzato dagli abusi praticati nel passato. In particolare, la legislazione nazista sull’eutanasia, spesso usata come esempio di ‘china scivolosa’ (se si ammette l’eutanasia volontaria per i malati termina li, allora sarà inevitabile ammettere quella involontaria e applicarla anche a disabili, come appunto avvenne nel caso della legislazione nazista), non è confrontabile con quelle odierne. Mentre la prima prescindeva da una richiesta del paziente, del quale non specificava le condizioni, parlando genericamente di ‘uccisione pietosa’ e di ‘vite non degne di vivere’, le legislazioni odierne prevedono la richiesta volontaria e ripetuta del malato, nonché una condizione di sofferenza insopportabile e altrimenti intrattabile. Inoltre, non si giudicano indegne alcune condizioni di vita rispetto ad altre o in assoluto: la valutazione è personale e ciascuno non può che decidere solamente in merito ai sintomi e alla prognosi che lo riguarda. Quando oggi si parla di ‘condizioni di vita non degne’ resta implicita la specificazione «a giudizio del malato». Rimane un equivoco aperto per quanto riguarda l’uso del termine dignità, poiché nella tradizione filosofico-culturale anglosassone viene utilizzato presupponendo una libertà di giudizio su cosa sia o no ‘dignitoso’ basata su autonomia e autodeterminazione, mentre nella tradizione continentale e cattolica si dà per predefinita, su basi trascendenti o trascendentali, una dignità della vita o della persona che implica l’indisponibilità di scelte quali la rinuncia alla vita stessa.
Per decenni ha prevalso nella comunità medica occidentale una contrarietà assoluta alla partecipazione dei medici a qualunque forma di aiuto a morire. I codici deontologici internazionali vietano il suicidio assistito e ovviamente l’eutanasia, in quanto si ritiene che tali azioni snaturerebbero il ruolo del medico. Naturalmente anche tutte le religioni, assumendo che la vita è concessa all’uomo da una divinità, sono contrarie alla possibilità che una persona possa togliersi la vita oppure farsi aiutare a porvi fine. Nondimeno qualcosa è cambiato dopo che, nel 1976, la Corte suprema del New Jersey ha riconosciuto per la prima volta a Karen Quinlan il diritto, rivendicato attraverso i genitori, di rifiutare un trattamento medico (nella fattispecie il supporto artificiale alla respirazione). La Corte si è richiamata alla distinzione fatta da Pio XII nel 1957 tra «mezzi ordinari» e «mezzi straordinari», da usare nel contesto della medicina d’urgenza e rianimazione. Questa distinzione ha generato il concetto ambiguo che i secondi rappresentino forme di ‘accanimento terapeutico’, che appunto il medico non avrebbe il dovere di praticare. In realtà, i trattamenti che il medico non è tenuto a usare sono quelli ‘futili’, ossia inutili sul piano degli effetti terapeutici, mentre qualunque trattamento, anche accanito o straordinario, che abbia un potenziale terapeutico dovrebbe essere accantonato solo previo accordo con il paziente.
Nel 1990 la Corte suprema degli Stati Uniti ha incluso anche l’idratazione e la nutrizione artificiali fra i trattamenti medici che possono essere rifiutati dai pazienti. L’anno successivo, sempre negli USA, è entrato in vigore il Patient self-determination act, che rende obbligatorio per i servizi sanitari informare i pazienti sul loro diritto di redigere direttive anticipate di trattamento, che i medici hanno l’obbligo di rispettare. Oggi tutti i Paesi con una Costituzione democratica e liberale ammettono il diritto di rifiutare un trattamento da parte di un cittadino in grado di intendere e volere, ma non tutti (e tra questi l’Italia) dispongono di leggi o normative per rendere giuridicamente valide le direttive anticipate di trattamento, ovvero per stabilire che quel che non sarebbe accettato come intervento medico se si fosse coscienti non dovrebbe essere eseguito nemmeno in assenza della coscienza.
Quali sono le scelte? – Per quanto riguarda le decisioni che medici, pazienti e familiari possono trovarsi a prendere nelle fasi terminali, si tratta spesso di valutare se sospendere o continuare un trattamento che prolunga la vita (come la ventilazione meccanica, la nutrizione artificiale o la dialisi), se alleviare il dolore o altri sintomi con oppiacei, benzodiazepine o barbiturici, somministrando dosi che possono sopprimere la coscienza (sedazione terminale o palliativa) e accelerando la morte come effetto collaterale possibile o certo. Ma si tratta anche di prendere in considerazione l’eutanasia o l’assistenza del medico al paziente che decide di suicidarsi, mediante la somministrazione o la prescrizione di farmaci per mettere fine alla vita dietro sua richiesta esplicita. Le decisioni ammesse sono prefigurate dalla legge o dai codici deontologici o dalle linee guida. Possono essere prese insieme dal medico e dal paziente, se è cosciente, oppure il medico può decidere con i familiari o seguire le direttive anticipate redatte dal paziente non più cosciente nei Paesi dove queste sono legali.
Come già detto, numerosi Paesi ammettono le direttive anticipate, che non sono invece ancora state approvate in Italia, nonostante il sostanziale accordo dell’Ordine dei medici. La difficoltà dipende anche dal fatto che la religione cattolica si oppone al fatto che i pazienti abbiano l’ultima parola e che possano disporre dei trattamenti salvavita, e in modo particolare che possano rifiutare idratazione e nutrizione artificiale, definiti dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 2007 come «mezzi ordinari» e quindi «obbligatori», anche per pazienti in stato vegetativo permanente.
Il consenso informato e le direttive anticipate permettono al paziente di rifiutare un trattamento, ma si dovrebbe accettare anche l’idea che il paziente, oltre a rifiutare un trattamento, possa chiederne uno diverso, con lo scopo di accelerare la morte o mettere fine alla propria vita. Questi trattamenti sono volti ad alleviare il dolore e i disagi fisiologici che normalmente si associano alle morti degenerative e rendono possibile accelerare la fine della vita, oppure consistono nella prescrizione o somministrazione su richiesta del paziente di un farmaco letale. I trattamenti volti a lenire le sofferenze fisiche e psicologiche dei pazienti terminali sono detti palliativi e consistono normalmente nella somministrazione di oppiacei, in particolare morfina, ma sono praticati anche interventi di supporto psicologico. È possibile decidere di incrementare la dose di farmaco, affrettando in questa maniera la morte. Si tratta di una decisione presa frequentemente dal medico in accordo con il paziente, ma spesso anche senza che il paziente ne faccia richiesta, in questo caso d’accordo con i familiari o per autonoma scelta del medico stesso. È evidente che le decisioni assunte dal medico in autonomia sono illegittime e illecite, ma da alcuni studi risulta anche che le decisioni che non rispettano i diritti dei pazienti (in questo caso quello di non essere aiutato a morire o di essere informato sulle scelte di trattamento) avvengono soprattutto nei Paesi dove il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia sono illegali.
Una modalità di soppressione del dolore e di intervento alla fine della vita, che riguarda soprattutto le fasi terminali di pazienti oncologici, è la sedazione profonda (o palliativa o terminale). Si tratta di somministrare un farmaco che cancella completamente la coscienza e di interrompere l’alimentazione (o la nutrizione) lasciando che la morte sopravvenga nell’arco di poche ore o giorni. Fra i trattamenti di fine vita si includono, in numerosi Paesi, il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia. Nel primo caso il medico prescrive un farmaco letale e fornisce consigli sul modo di assumerlo a un paziente in condizioni terminali che manifesta consapevolmente ed esplicitamente il desiderio di suicidarsi. L’eutanasia consiste invece nella somministrazione diretta del farmaco letale a un paziente terminale che ha esplicitamente e consapevolmente chiesto di morire.
I trattamenti di fine vita, oltre a implicare decisioni che assumono valenze etiche controverse, ammontano a oltre il 20% di tutte le spese mediche nei Paesi occidentali. La discussione sul fine vita non può quindi ignorare il complesso argomento dell’equa distribuzione delle risorse sanitarie (che sono un bene limitato e la cui richiesta è superiore alla disponibilità). Le questioni più controverse riguardano comunque la sedazione palliativa o terminale, in quanto possibile ‘eutanasia mascherata’, e soprattutto il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia. Nel Regno Unito si calcola che il 5% di tutte le morti abbia avuto luogo dopo una sedazione profonda e continua, e questo dato è plausibilmente generalizzabile ad altri Paesi. Anche in Italia è molto frequente l’uso della sedazione terminale. La sedazione continua (o palliativa o terminale) viene distinta dall’eutanasia in quanto lo scopo è alleviare o controllare i sintomi del dolore, e non uccidere direttamente il paziente (si tratta di una distinzione più tecnica che morale, almeno secondo alcune dottrine etiche, in modo analogo alla caratterizzazione attiva o passiva dell’eutanasia). Il 10-15% delle condizioni cliniche terminali non è gestibile dalle cure palliative e anche per questo alcune persone chiedono l’eutanasia volontaria. Nei Paesi dove l’eutanasia è legale, la medicina palliativa è altrettanto se non più sviluppata rispetto ai Paesi dove è vietata e l’eutanasia volontaria può essere considerata una forma di medicina palliativa. Esistono peraltro prove che la fiducia nei medici rimane elevata se questi possono anche aiutare a morire e che l’accessibilità all’eutanasia volontaria riduce l’incidenza dell’eutanasia non volontaria.
Situazione nel mondo. – Il suicidio medicalmente assisti to è legale in Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, parzialmente negli Stati Uniti (Montana, Oregon, Vermont, Washington) e in Canada (Québec), ed è depenalizzato in Svizzera. In quest’ultimo Paese operano diverse organizzazioni che favoriscono un flusso di stranieri, soprattutto tedeschi e italiani, che vogliono essere aiutati a interrompere una vita giudicata gravosa e non dignitosa. L’eutanasia è legale in Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Colombia (anche se manca una ratifica parlamentare) e dal giugno 2014 nella provincia del Québec. Nei Paesi Bassi e in Belgio è legale l’eutanasia dei minorenni che lo chiedono, quando soffrono di una malattia terminale e c’è l’accordo dei genitori. La Francia consente, con la legge Leonetti del 2005, le direttive anticipate e il diritto di rifiutare ogni trattamento medico (incluse idratazione e nutrizione artificiali), e nel marzo 2015 l’Assemblea nazionale francese ha approvato la sedazione profonda e continua se il paziente lo richiede in modo insistente e lucido. In India è autorizzata la sottrazione dei supporti vitali a pazienti in stato vegetativo persistente, mentre in Giappone sono state pronunciate sentenze che a certe condizioni ammettono l’aiuto a terminare la vita. Altri Paesi presentano un quadro normativo più incerto, e ci sono indicazioni del fatto che dove i pazienti non possono essere aiutati nelle fasi terminali della vita sono più frequenti i casi di eutanasia praticata anche in assenza di richiesta del paziente (eutanasia clandestina o involontaria). Nei Paesi Bassi è legale, in circostanze rigidamente definite, anche l’eutanasia volontaria per i minori, previo consenso dei genitori, e l’eutanasia involontaria per i neonati con patologie gravissime e incurabili (protocollo di Groningen).
I pazienti e le loro motivazioni. – Tenuto conto che solo una minoranza di persone redige delle direttive anticipate di trattamento (negli Stati Uniti il 20-30% e in Francia circa il 3%), le persone che chiedono di essere aiutate a morire sono soprattutto giovani e adulti con malattie oncologiche. È dato ricorrente che l’autonomia è un valore più importante nelle fasi della vita più cariche di potenzialità e aspettative e quindi il principale motivo per cui si chiede di morire è la perdita di autonomia e indipendenza (nel senso di perdita di controllo sulle decisioni, o incapacità di decidere e prendersi cura di sé stessi), la perdita della capacità di svolgere attività che rendono piacevole la vita e la perdita percepita di dignità umana, in particolare in rapporto alla compromissione delle funzioni fisiologiche elementari (per es., il controllo sul funzionamento dell’intestino, sulla deglutizione, sul linguaggio e sulla sfera della sessualità) o di preoccupazione per l’apparenza del proprio corpo. Per alcuni c’è il timore di diventare un carico per la famiglia, gli amici e la comunità, o per i costi dei trattamenti. Possono giocare un ruolo importante anche la compromissione cognitiva o la paura di questa, la depressione, la disperazione o la demoralizzazione, il sentimento di inutilità e indesiderabilità, il timore di non essere amati e l’isolamento sociale. Il fattore più frequentemente considerato è il controllo inadeguato del dolore o la preoccupazione di soffrire nelle fasi della morte, che si accompagna spesso all’angoscia psicologica, ovvero al terrore e alla paura dell’ignoto. Anche altri sintomi intrattabili diversi dal dolore (come prurito, accessi epilettiformi, parestesie, nausea e dispnee) sono chiamati in causa.
Conclusioni. – Chi è contro l’assistenza medica al suicidio o l’eutanasia parte dal presupposto che esista un obbligo morale universale di rispettare la vita, anche più delle persone stesse, e che sia intrinsecamente sbagliato interromperla: il rispetto dell’autonomia è ritenuto un valore secondario in quanto la vita non sarebbe nella disponibilità umana. Si insiste quindi sul fatto che aiutare a morire sarebbe cosa ben diversa dal somministrare cure palliative tese ad alleviare le sofferenze e dal rispettare il rifiuto dei trattamenti. Accettare che il medico possa aiutare il paziente a morire introdurrebbe, secondo i contrari, un potenziale inaccettabile di incomprensione fra medico e paziente: sarebbe incompatibile con il suo ruolo di guaritore ed eroderebbe la concezione dell’ospedale come rifugio sicuro.
Come anticipato, chi è contro il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia ritiene che, ammettendoli anche solo nei casi terminali e su base volontaria, si avvierebbe una china scivolosa verso l’applicazione dell’eutanasia in casi nei quali non ci può essere consenso informato. La prima fase di questa china sarebbe proprio la richiesta di classificare come sedazione palliativa quella che in certi casi è considerata vera e propria eutanasia, con il coinvolgimento nell’aiuto clinico di personale che non ha avuto alcun rapporto clinico con il paziente. Come prova della china scivolosa si usano spesso le posizioni che ritengono legittima l’eutanasia chiesta da chi patisce una malattia mentale, come anoressia nervosa o depressione, o l’eutanasia per i pazienti con gravi demenze e i bambini.
Il timore che l’eutanasia venga rubricata come cura medica o ‘omicidio terapeutico’ ignora il fatto che, come si è già detto, nei Paesi che hanno legalizzato il suicidio assistito o l’eutanasia (o entrambi) non si è verificata nessuna delle derive descritte. Al contrario sono state garantite una maggiore trasparenza e una migliore qualità dell’assistenza nelle fasi terminali della vita. Chi difende la legittimità di queste scelte pensa che le persone abbiano un diritto inalienabile all’autodeterminazione, che include come, dove e quando rifiutarsi di continuare a vivere. L’assistenza a morire non sarebbe che un’estensione logica e ragionevole delle cure di fine vita e implicherebbe solo un’espansione di pratiche che sono legali e giudicate etiche (il rifiuto dei trattamenti futili e i trattamenti palliativi prendono già atto che la morte è inevitabile). L’eutanasia sarebbe quindi un gesto umanitario, pietoso e nobile, in quanto allevia le sofferenze e può essere realizzato efficacemente con un rischio trascurabile di chine scivolose.
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