Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Saggio sull’origine delle conoscenze umane di Étienne Bonnot de Condillac, uno degli autori più sistematici delle Lumières, prende l’avvio dalla distinzione fra “due specie di metafisica”: una “ambiziosa”, intesa a “penetrare tutti i misteri”, l’altra “più guardinga”, che “sa rimanere nei limiti” determinati dalla “debolezza dello spirito umano”. Lo strumento principale di questa nuova metafisica è una riforma della filosofia lockiana per cui, oltre a ricostruire la genesi delle conoscenze a partire dall’esperienza, l’autore delinea la formazione delle facoltà del soggetto umano. Il naturalismo “moderato” di Condillac costituisce un’alternativa sia alle correnti “radicali” dell’Illuminismo e al loro più o meno aperto materialismo da una parte, e all’immaterialismo platonizzante di Berkeley dall’altra.
Una metafisica nei limiti della “debolezza dello spirito umano”
Sovente si identifica l’Illuminismo, e soprattutto quello francese, con un movimento filosofico di carattere antimetafisico. In realtà, nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane, Étienne Bonnot de Condillac dichiara di volersi attenere a una “metafisica” che rimane entro i confini tracciati dalla “debolezza dello spirito umano”. Anche se in un’opera quasi contemporanea (che gli viene attribuita solo nel 1980), cioè Les monades, scritta per partecipare a un concorso bandito nel 1746 dall’Accademia di Berlino, egli si ispira al sistema di Leibniz reinterpretato in chiave psicologica da Christian Wolff, nel Saggio del 1746 l’autore di riferimento diventa senz’altro Locke con il suo metodo “piano, storico” applicato alla teoria della conoscenza: quello che Voltaire chiama la “storia” dell’anima, in contrapposizione al “romanzo” delle idee innate dei cartesiani. Scrivendo all’amico Gabriel Cramer, Condillac fa ammenda delle tentazioni leibniziane a cui ha ceduto nell’opera precedente, in cui aveva delineato l’ardita “congettura” di un sistema gerarchico di monadi con Dio alla sommità. Ora il giovane abate dichiara di volersi attenere strettamente all’esperienza, al di là della quale è impossibile risalire: “Intendendo dispiegare l’origine delle conoscenze umane, dovevo, a rischio di perdermi, risalire al di là dell’esperienza? O non dovevo piuttosto cominciare se non là dove l’esperienza incomincia?”
Condillac non è tuttavia un semplice epigono dell’empirismo lockiano, ma lo trasforma per adattarlo alle preoccupazioni “metafisiche” dell’ambiente cartesiano che domina la filosofia francese. Così, egli insiste sulla concezione del soggetto percipiente come centro di unità, inesteso e semplice (“un punto di riunione”, “un soggetto semplice e indivisibile”), e da questo punto di vista reagisce polemicamente contro la celebre ipotesi lockiana, che la materia possa pensare. D’altro canto, l’autore del Saggio eredita dall’esordio leibniziano una chiara consapevolezza del divario che separa le idee dagli oggetti. Il realismo rappresentativo alla base dell’Essay lockiano diventa così per Condillac un problema ed egli si serve dell’analisi cartesiana per distinguere all’interno dell’apparente semplicità dell’idea sensibile una molteplicità di aspetti. In ogni idea sensibile si potrebbe infatti distinguere: “1) la percezione che proviamo; 2) il riferimento che ne facciamo a qualche cosa fuori di noi; 3) il giudizio che ciò che riferiamo alle cose appartiene effettivamente a esse”. Anche se applicato a idee empiriche, il criterio cartesiano della chiarezza e della distinzione continua a fungere da riferimento, poiché “nulla è più chiaro e più distinto della nostra percezione”. Peraltro, neppure il riferimento “a qualche cosa fuori di noi” costituirà un problema, sinché ci si manterrà nei limiti della rappresentazione vera e propria. Il possibile “errore” interviene soltanto nel momento del giudizio, “solo in quanto giudichiamo - ad esempio - che quella grandezza e quella figura appartengono effettivamente a quel corpo determinato”.
Con un lessico che è ancora in gran parte cartesiano, Condillac affronta così il problema lockiano della “realtà” delle idee, cioè della loro corrispondenza con il mondo esterno. A questo riguardo Locke distingue tra le qualità primarie, che corrispondono agli oggetti, e le qualità secondarie (colori, odori, sapori ecc.) che sono invece proprie del soggetto; Berkeley (e Bayle in chiave scettica) estendono prontamente la soggettività anche alle qualità primarie. La difficoltà consiste tutta nel vedere “se queste qualità sono simili a ciò che proviamo”. Da questo punto di vista l’analisi cartesiana dei contenuti rappresentativi può essere utile solo fino a un certo punto: finché, nota Condillac, consideriamo le idee “come qualcosa che ci è proprio”. I problemi sorgono quando, per così dire, tentiamo di “staccarle dal nostro essere e arricchirne gli oggetti”; in questo secondo caso, “facciamo una cosa di cui non abbiamo più idea”. È pur vero - osserva nel Saggio - che siamo “portati ad attribuire [le qualità] agli oggetti”, ma ciò dipende unicamente dal fatto che li riteniamo cause delle idee, benché questa supposta causa resti “per noi del tutto nascosta”.
La maggiore novità del Saggio, rispetto al modello lockiano, consiste nel tentativo di spiegare la genesi della conoscenza, ripercorrendo “la generazione delle operazioni dell’anima” a partire dalla base sensibile. Si tratta di ricostruire non solo l’accumularsi dei materiali dell’esperienza (le idee), ma anche il costituirsi delle facoltà, e in questo senso Condillac soddisfa il desiderio voltairiano di avere finalmente una vera “storia dell’anima”. Due passaggi fondamentali sono rispettivamente il “legame delle idee” e il ruolo dei segni nell’ordinamento della conoscenza. Locke vede nella associazione fra idee principalmente un fattore di “irragionevolezza”; Condillac vi vede invece il motore della vita psichica: prodotto dall’attenzione, il legame di idee genera l’immaginazione, la contemplazione e la memoria, ma soprattutto collega i bisogni umani con la “serie di idee fondamentali”. I segni, soprattutto quelli “istituzionali” (a differenza di quelli “naturali”) permettono di controllare l’immaginazione e di ripresentare le idee in modo volontario. Associazione di idee e uso dei segni sono le basi della “superiorità della nostra anima”, che culmina nella riflessione.
La statua, l’animale e l’io
Neppure il Saggio di Condillac è riuscito a fugare l’ombra dell’immaterialismo o idealismo berkeleyano, come osserva maliziosamente Diderot nella Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient (1749). Per vincere la sfida che gli viene lanciata dal philosophe (che Condillac frequenta insieme a Rousseau al Panier fleuri, famoso caffè parigino), viene scritto il Traité des sensations (1754), in cui l’autore cerca di riguadagnare l’oggettività della conoscenza del mondo esterno partendo dalla definizione dell’io come soggetto delle esperienze. Seguitando lungo la vena dell’empirismo radicale inaugurata con il Saggio, Condillac immagina l’uomo come una statua che acquisisce gradualmente e separatamente i dati dei diversi sensi: prima l’olfatto, poi l’udito, la vista e infine il tatto. Locke era caduto nell’errore di considerare non le idee, ma le facoltà “innate”. Riflettendo invece su quelle esperienze di “anatomia metafisica”, come il caso del cieco nato che in seguito a un’operazione chirurgica riacquista la vista, Condillac si rende conto che le relazioni spaziali non sono date direttamente con le idee della vista, ma derivano da un addestramento graduale in cui vista e tatto collaborano: ne derivano così dei “giudizi di abitudine” che ci sembrano immediati ma non lo sono.
Ma come è realmente possibile superare l’idealismo berkeleyano che confina con il solipsismo, una volta che lo si sia liberato dall’architettura teologica presente nella filosofia del vescovo irlandese? Anche su questo punto Condillac si mantiene fedele al suo metodo genetico. Finché riceve idee dagli altri sensi, la statua si identifica totalmente con quelle che sono soltanto “sue modificazioni o maniere di essere”. Prima del mondo esterno, la statua deve scoprire, mediante il tatto, il proprio corpo, attribuendo le sensazioni alle diverse parti del corpo. È così che l’io si spazializza, anziché essere “concentrato nell’anima”. Il tatto è anche all’origine della scoperta della prima vera alterità. Quando la mano tocca un’altra parte della statua, questa ritrova “il proprio io” in entrambe le membra, giacché “lo stesso essere senziente” risponde al contatto: “sono io”. Ma quando tocca oggetti esterni, non riceve la stessa risposta e realizza così che quelle che le appaiono “proprie maniere di essere” sono in realtà “completamente fuori di sé”.
L’io di Condillac non è, tuttavia, né quello di Descartes (un puro ego cogitans) né quello di Berkeley: è piuttosto un soggetto di “bisogni” e anche per questo le percezioni hanno fin dal principio una tonalità affettiva fondamentale, in quanto procurano piacere o dolore. È la catena dei bisogni a determinare la crescita delle conoscenze, e non viceversa. Oltre che di conoscenze “teoriche”, nel Trattato l’io è anche il soggetto di “conoscenze pratiche”, assimilabili all’“istinto”, cioè ad abitudini interiorizzate. Poiché “la natura comincia tutto in noi”, si potrebbe dire che “la natura ha ragionato per la statua”, quando l’ha spinta a riconoscere il proprio corpo e a distinguerlo da tutti gli altri.
Calato entro la storia dello spirito umano, l’empirismo lockiano si colora in Condillac di accenti naturalistici, che diventano ancora più evidenti nel Trattato sugli animali (1755). Pur rivendicando il carattere mentale della percezione e reagendo alle interpretazioni meccanicistiche (come quelle di un La Mettrie, con la sua tesi provocatoria dell’uomo-macchina), l’abate combatte le forme residue di dualismo cartesiano che sopravvivono anche in uno scienziato come Buffon. Questi contrappone “sensazioni spirituali” a “sensazioni corporee“ e ricade – commenta Condillac – nella vecchia idea dello homo duplex. L’abate filosofo sottolinea invece “l’unità dell’essere senziente” e si mantiene fedele a un’interpretazione coerente dell’incorporazione dell’anima: “Non sento - scrive - da un lato il corpo e dall’altro l’anima, sento l’anima nel corpo”. Anche il problema della differenza fra uomini e animali (un vecchio topos della polemica antimaterialistica), viene risolto in modo empirico, facendo risaltare la specificità dell’uomo attraverso l’analisi delle funzioni psicologiche. Al dualismo buffoniano, ancora troppo meccanico, Condillac sostituisce una distinzione più graduale, individuando “due io in ogni uomo”. Mentre “l’io di abitudine” presiede alle “facoltà animali” e a ciò che si configura come “istinto”, l’“io di riflessione” è invece il motore del progresso della conoscenza umana e agisce come moltiplicatore dei bisogni oltre la soglia del necessario. In questo modo si apre la via alla “curiosità” e alla stessa ragione: “La misura di riflessione che abbiamo al di là delle nostre abitudini è ciò che costituisce la nostra ragione”.
Etienne Bonnot de Condillac
La riflessione e il susseguirsi di pensieri
Saggio sull’origine delle conoscenze umane
Sia che ci eleviamo, per parlare metaforicamente, fino ai cieli, sia che discendiamo negli abissi, non usciamo mai da noi stessi e percepiamo sempre soltanto il nostro pensiero. Qualunque siano le nostre conoscenze, se vogliamo risalire alla loro origine arriveremo, alla fine, a un primo pensiero semplice che è stato oggetto di un secondo, che a sua volta lo è stato di un terzo, e così di seguito. [...] Le sensazioni e le operazioni dell’anima sono così i materiali di tutte le nostre conoscenze, materiali che la riflessione mette in opera, cercando, attraverso combinazioni, i rapporti che essi comprendono.
Bonnot de Condillac, Opere complete, a cura di C.A. Viano, Torino, UTET, 1976
Ordine della natura e leggi della politica. Condillac tra Montesquieu e Rousseau
Con Condillac l’empirismo prudente di Locke e quello più radicale di Berkeley trovano in Francia il giusto adattamento a una cultura illuministica moderata (non materialistica), ma aperta alla suggestione di un ordine naturale del quale anche l’uomo faccia parte e non costituisca l’eccezione. Già Voltaire traduce l’idea berkeleiana dell’ordine delle percezioni in una lingua più accessibile e meno metafisica: le percezioni, per lui, non sono più “il linguaggio dell’autore della natura”, proiezione della mente divina, bensì “la lingua che la natura parla” e che spetta all’esperienza umana di apprendere (“noi impariamo a vedere proprio come impariamo a parlare e a leggere”: Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton (1738). Nella sua ultima opera, La logique, ou les premiers développements de l’art de penser, anche Condillac accentua il radicamento naturale dell’esperienza umana, giacché è la natura che “comincia a istruirci” e “ci insegna a ragionare”. Le conoscenze che dobbiamo alla natura “formano un sistema in cui tutto è perfettamente legato” e questo ordine è “conforme all’ordine delle cose fuori di me”. Se già in Locke la corrispondenza (“realtà”) tra le idee e le cose era affidata da ultimo a una disposizione provvidenziale stabilita da Dio, in Condillac questa armonia finalistica passa attraverso la valorizzazione del concetto di “natura”. Natura e io sono entrambi riflessi dell’“intelligenza con cui sono state ordinate le cose”, così come l’intelligenza umana è soltanto “una copia”, per di più “molto sbiadita”, dell’intelligenza divina. La restituzione alla natura della sua consistenza reale salva Condillac dall’immaterialismo di Berkeley, mentre il ritrovamento di finalità intelligenti sia nel mondo che nell’io costituisce un efficace antidoto contro le tentazioni materialistiche dei Lumi radicali. La moderazione dell’Illuminismo condillachiano darà in tutta Europa, e specialmente in Italia ove l’abate soggiorna come precettore dell’erede al Ducato di Parma, l’esempio di una via media praticabile anche dall’Illuminismo cristiano.
Il documento monumentale dell’esperienza italiana di Condillac è il Cours d’études, un’autentica enciclopedia del nuovo sapere dei Lumi, alla cui redazione egli attende per nove anni (dal 1758 al 1767) e in cui riversa non solo le sue teorie filosofiche, ma anche le proprie concezioni storiche e politiche. Queste ultime sono il rovescio di quelle presentate da Voltaire ne Le siècle de Louis XIV. Laddove Voltaire vede il culmine della civiltà “classica” francese, Condillac vede invece il predominio del dispotismo, del lusso inutile, dell’intolleranza religiosa. In un gruppo di capitoli che trattano dei temi di teoria politica (“Sulle leggi”) e sono compresi nella sezione dell’“Histoire ancienne”, Condillac tesse l’apologia delle “monarchie moderate”, in cui si è “veramente liberi”, perché “le leggi”, e soprattutto le leggi “fondamentali”, “regolano l’uso del potere sovrano”, escludendo “ogni arbitrio”. Anche in questo frangente Condillac cerca una sua via intermedia tra i due grandi modelli politici dei Lumi: Montesquieu e Rousseau. Così, mentre si mostra alquanto scettico nei riguardi del tema dell’“equilibrio” dei poteri e manifesta il proprio favore a una sorta di monarchia “illuminata”, d’altra parte riserva palese ostilità verso la prospettiva democratica di Rousseau. Dal momento in cui la “sovranità è incorporata nel popolo”, essa è “assoggettata a tutti i capricci della moltitudine”, tanto che il governo democratico “passa necessariamente da una rivoluzione all’altra e finisce da ultimo nell’anarchia o nella servitù”.
Invocata da Rousseau al fine di stabilire con una convenzione l’“eguaglianza morale e legale” al posto delle ineguaglianze fisiche o dei talenti, l’istituzione del contratto sociale è ripresa anche da Condillac, ma in forme diverse. Si legge nel Cours d’études: “È un atto con il quale ciascuno si impegna tacitamente verso tutti gli altri, e questi verso ciascuno”. Gli uomini sono perfettamente “eguali” quando stipulano il contratto sociale, ma non si tratta comunque di una parità che possa essere estesa a tutti gli aspetti della vita sociale. Vi sono infatti delle “conseguenze” del patto che possono rendere una certa ineguaglianza legittima e anzi auspicabile. Fra le “conseguenze di questa eguaglianza” si può considerare il fatto che “ciascuno abbia egualmente il diritto di godere dei frutti del proprio lavoro”, ma a partire da quel punto è anche certo che “non tutti lavoreranno in pari misura o con lo stesso talento. I frutti del lavoro non saranno dunque divisi in parti eguali”. Si spiega così la differenza delle fortune, secondo un meccanismo che Locke aveva già codificato nel suo secondo Trattato sul governo civile. Per questo Condillac constata che “una volta stipulato il contratto sociale, l’ineguaglianza sorgerà naturalmente dall’eguaglianza”.
Etienne Bonnot de Condillac
Insegnare la percezione
Trattato sulle sensazioni
Per arrivare a questo scopo, immaginammo una statua organizzata internamente come noi, e animata da uno spirito privo di ogni specie di idee. Supponemmo anche che l’esterno, tutto di marmo, non le permettesse l’uso di nessuno dei suoi sensi, e ci riservammo la libertà di aprirli, a nostro arbitrio, alle differenti impressioni delle quali sono suscettibili.
Bonnot de Condillac, Opere complete, a cura di C.A. Viano, Torino, UTET, 1976