Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Novecento il modello eurocentrico basato sul colonialismo entra in crisi innescando una vera e propria ridiscussione delle gerarchie culturali su scala planetaria. La questione etnica entra drammaticamente in gioco fin dalla Grande Guerra, degenerando poi nel nazionalismo xenofobo nazista che porterà alla seconda guerra mondiale. Se il genocidio ebraico apre una seconda metà di secolo all’insegna di un rifiuto generalizzato di ogni discorso sulle etnie fondato sul concetto di razza, fenomeni come la globalizzazione e le migrazioni di massa hanno riportato nel cuore dell’Europa, alle porte del XXI secolo, problemi e dinamiche etniche che pongono in essere la ridiscussione dei modelli culturali di riferimento.
La questione etnica
Cesare Lombroso
Le differenze fra le razze
Più grande ancora è la differenza, se noi badiamo all’organo sublime che ne permise di chiamarci, con più o meno ragione, i re della natura. Il cervello umano differisce da quello degli antropoidi per il maggiore sviluppo delle sue pieghe, in ispecie frontali, e per la maggior massa degli emisferi, i quali, non solo all’innanzi, ma sono così sviluppati anche posteriormente, da coprire più o meno completamente il cervelletto. [...] Il cranio dell’Europeo si distingue per una stupenda armonia delle forme: esso non è troppo lungo, né troppo rotondo, né troppo appuntato o piramidale. Nella sua fronte piana, vasta, eretta su’l viso, si legge a chiare note la forza e il predominio del pensiero: gli zigomi, o pomelli del viso non sono troppo distanti, e la mascella non isporge molto all’infuori: onde è ch’esso s’intitola ortognato. Invece il cranio del Mongolo è rotondo, o pure piramidale, coi pomelli del viso molto distanti tra di loro, onde è detto eurignato; a questi caratteri s’associano la scarsezza della barba e dei capelli, l’obliquità degli occhi e la pelle più o men gialla, od olivigna.
[...] Tuttavia, anche nel mondo morale, l’uniformità non è così completa, che tra le razze bianche e le colorate non si possano sorprendere delle differenze, almeno tanto spiccate, come nel mondo anatomico. Tutti sanno i viaggiatori come la sensibilità pei dolori nei Negri e nei selvaggi d’America è così torpida, che si videro i primi segarsi, ridendo, la mano, per isfugire al lavoro, ed i secondi lasciarsi abbruciare a lento fuoco, cantando allegramente le lodi della propria tribù. [...]
Anche la sensibilità morale sembra in essi attutita e qualche volta spenta.
C. Lombroso, L’uomo bianco e l’uomo di colore. Letture sull’ origine e le varietà delle razze umane
Agli inizi del Novecento la questione delle etnie e delle relazioni etniche sembra apparentemente proseguire lungo i binari tracciati con forza negli ultimi trent’anni del secolo precedente dalla cultura positivista. La scienza antropologica dell’Ottocento – che in Italia ha in Cesare Lombroso un protagonista indiscusso – aveva lavorato a lungo intorno a una possibile definizione oggettiva, scientifica, del concetto di razza, giungendo per un verso a risultati assai apprezzabili per quanto attiene ai temi del popolamento e delle migrazioni storiche e indagando, dall’altro, in maniera talvolta persuasiva talvolta discutibile, sui rapporti tra ceppi etnici e patologie mediche.
Non c’è dubbio che questo lavoro si era fortemente integrato con i processi di espansione coloniale europea. Sul terreno delle relazioni globali, però, i primi anni del nuovo secolo sono caratterizzati da una crisi incipiente del modello eurocentrico costruitosi attraverso l’esperienza storica del colonialismo. Questa crisi si manifesta tanto nelle aree extraeuropee nella duplice forma di opposizione politica alla presenza straniera e di precoce teorizzazione di una radicale diversità di queste aree rispetto ai modelli importati dalla dominazione europea, quanto nella stessa Europa non più nella forma dell’esotismo (fenomeno prevalente nella cultura tardo ottocentesca), ma come una vera e propria ridiscussione delle gerarchie culturali a scala mondiale. In buona misura si deve a questa crisi e alle sue molteplici componenti l’accentuarsi e il fissarsi poi in forma irrevocabile nel discorso sull’etnocentrismo – come avviene nel caso dell’inglese Hobson e delle sue teorie sull’imperialismo – di caratteri razziali, o meglio, francamente razzisti, già presenti, ma non ancora prevalenti, nell’approccio positivista.
La prima guerra mondiale rivela le dimensioni nuove e inquietanti assunte ormai dalla questione etnica, determinando una contrapposizione tra razze che non divide tanto l’Europa dal resto del mondo, quanto i popoli europei tra loro. Le manifestazioni di xenofobia che si scatenano nella pubblicistica e nella vita politica delle nazioni coinvolte nel conflitto fanno comprendere la profonda trasformazione intervenuta rispetto alla concezione romantica di nazione e nazionalità e il suo degenerare in nazionalismo a fondamento etnico. Mentre, infatti, il romanticismo europeo aveva basato la formazione delle collettività nazionali su caratteri storici e sull’adesione volontaria, si assiste ora all’esaltazione della specificità etnica, della appartenenza alla stirpe o alla razza quale carattere fondativo della nazione. È vero che i trattati di pace usciti dalla prima guerra mondiale agevolano la nascita di Stati fin troppo caratterizzati dalla difficile convivenza di gruppi etnici diversi e spesso reciprocamente ostili (è questo il caso, come è noto, di gran parte delle sistemazioni territoriali nell’area del defunto Impero asburgico), ma i segnali che si producono nell’immediato dopoguerra – si pensi al massacro delle popolazioni armene e greche che accompagna la difficile gestazione del nuovo Stato turco – anche in ragione del complesso mosaico interetnico e intraetnico col quale deve misurarsi l’Europa dopo il trattato di Versailles, confermano che la questione etnica ha assunto un paradigma gerarchico delle differenze (cioè il razzismo).
Tra le due guerre mondiali la questione etnica conosce la sua fase apicale nella storia del Novecento. In questa fase il paradigma gerarchico del rapporto interetnico fa un decisivo passo avanti verso la formazione di un modello permanente di relazioni di dominio a base razziale, modello che vede al proprio vertice la razza ariana di origine indoeuropea e poi, in successiva subordinazione fino alla vera e propria riduzione a schiavitù, le razze meno pure o decisamente inferiori. La contaminazione di questo modello – come accade nel nazionalsocialismo e nel suo maggior teorico Alfred Rosenberg – con la più diffusa forma di xenofobia radicata nella tradizione europea, e cioè, l’antisemitismo – contribuisce indubbiamente all’affermazione di massa di questo modello, tanto più se poi si immagina che esso tende a presentarsi come una difesa, l’ultima possibile, della identità originaria dell’Europa.
Il razzismo come posizione intellettuale e politica si misura, infatti, in maniera esplicitamente antagonista, con quelle società dell’Occidente contemporaneo – soprattutto gli Stati Uniti d’America – permeate da contaminazioni etniche e il cui dinamismo economico minaccia da vicino la purezza, o meglio la centralità politica dell’Europa. Non sono, peraltro, in gioco in questa reazione le trasformazioni storiche che indicano già nel periodo tra le due guerre mondiali un profondo mutamento degli equilibri globali. Vi rientra anche l’opposizione ai processi culturali che in quegli stessi anni puntano a una decisa riconsiderazione del valore autonomo delle culture extraeuropee. Gli anni Venti e Trenta sono, in particolare, segnati dalle innovative ricerche antropologiche di Bronislaw Malinowski. Il suo approccio funzionalista non arricchisce soltanto le conoscenze di fatto su popoli ed etnie lontane (soprattutto dell’arcipelago dell’Oceania), ma porta a una rivoluzionaria ridefinizione teorica della nozione di cultura. Agli occhi di Malinowski le culture appaiono strutture compatte appartenenti a singole collettività rispetto alle quali non ha senso parlare di modelli gerarchici di relazione. Ed è in questo senso interessante notare come coloro i quali insistono sulla centralità europea – come accade in Leo Frobenius e nelle sue importanti ricerche sulle società africane – lo facciano riproponendo un modello verticale, per dir così, della genesi delle culture e dei loro rapporti.
Dal declino delle egemonie etnocentriche alla nascita di nuove forme di xenofobia
La seconda guerra mondiale e il genocidio ebraico aprono una seconda metà del Novecento all’insegna del rifiuto generalizzato e definitivo di ogni discorso su etnie e culture in termini di razza. Il progredire della decolonizzazione conduce, anzi, a una messa in discussione della centralità dell’Europa nei processi di civilizzazione che non tocca solo le società del cosiddetto Terzo Mondo in via di emancipazione, ma anche gran parte delle élite intellettuali europee. Il lavoro dell’antropologa americana Margaret Mead come quello del francese Claude Lévi-Strauss, proseguendo nel cammino apertosi tra le due guerre convergono, negli anni Cinquanta e Sessanta, nell’affermazione di un’epistemologia strutturalista che privilegia, una volta di più, l’analisi delle culture come strutture, appunto, in sé definite piuttosto che la valutazione comparativa di esse sul metro di un modello assunto a priori. L’affermarsi di idealità socialiste non solo nel campo dei Paesi legati all’esperienza della rivoluzione russa, ma anche nelle società occidentali, aiuta il declino di egemonie etnocentriche. Né, infine, si può dimenticare che il decennio degli anni Sessanta è quello nel quale gli Stati Uniti sono attraversati da movimenti di massa che investono quanto di razzista permane nella legislazione, nelle pratiche politiche, negli atteggiamenti mentali della società americana. Sicché non è fuorviante osservare come al terzo quarto del secolo xenofobia e razzismo sembrino appartenere a culture e a gruppi minoritari di destra.
Lo scenario muta, dapprima lentamente, poi in modo sempre più impetuoso a misura del crescere di fenomeni come le migrazioni di massa verso l’Europa (spesso accentuatesi anche come conseguenza della decolonizzazione o, se si preferisce, dei limiti e degli errori del processo di decolonizzazione), come la globalizzazione economica, come il ritorno di forza dell’islam. Da questo momento, collocabile cronologicamente negli anni Ottanta, la questione etnica si installa nel cuore delle società europee, ne condiziona e ne muta le forme quotidiane di esistenza. Essa si pone in maniera diversa in Paesi di antica tradizione coloniale come la Francia e la Gran Bretagna, o posti – è il caso della Spagna e dell’Italia ma anche, seppur in forma ancora diversa, della Germania – sulla frontiera dell’immigrazione. Tocca, appunto, popolazioni appartenenti ad antiche aree coloniali (Maghreb, Indocina, India, Pakistan) o più remote (Cina, Africa centrale) o rimesse in moto dalla dissoluzione del dominio sovietico nell’Europa centro-orientale (Albania, ex Jugoslavia). Ovunque e in ogni caso l’esperienza totalmente nuova di una massiccia presenza di gruppi etnici e religiosi “altri” rispetto alle collettività nazionali ha determinato il riemergere di movimenti xenofobi e la ridiscussione dei modelli culturali di riferimento.
Se per un verso il modello fondato sulla assimilazione o integrazione ha perso la sua forza e, dunque, la sua ragione, è anche vero, dall’altro, che il cosiddetto “multiculturalismo” si rivela inadeguato a fronteggiare dinamiche di questi ultimi anni caratterizzate (soprattutto nel caso delle etnie di religione islamica) da un dichiarato desiderio di estraneità rispetto alle società di inserimento. La più recente frontiera della riflessione tende, semmai, a proporre il tema del “meticciato”, intendendo con questa espressione il superamento tanto dell’assimilazione quanto della multiculturalità e l’affermarsi di modelli culturali condivisi nei quali vengano deliberatamente a contaminarsi esperienze diverse. Nella forma del meticciato, che è la forma della questione etnica all’alba del XXI secolo, si rompe il rapporto tra etnia e cultura, religione e cultura che è venuto stringendosi troppo fortemente nell’ultima parte del Novecento e si riapre il campo a una concezione della cultura come costruzione di soggetti e di collettività in un quadro al tempo storico e volontario.