Etnocentrismo
"Etnocentrismo è il termine tecnico che designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso" - così si esprimeva William Graham Sumner all'inizio del Novecento (v. Sumner, 1906; tr. it., p. 17). Etnocentrismo è dunque in primo luogo un atteggiamento valutativo - che può esprimersi sia in giudizi sia in azioni - secondo il quale i criteri, i principi, i valori, le norme della cultura di un determinato gruppo sociale, etnicamente connotato, sono considerati dai suoi membri come qualitativamente più appropriati e umanamente autentici rispetto ai costumi di altri gruppi. Volendo dare una definizione più accurata, si potrà notare che se l'etnocentrismo implica un qualche confronto tra gruppi o culture diversi, tuttavia esso non consiste di solito in una valutazione meditata delle differenze culturali tra i vari gruppi umani e poi nel privilegiamento conclusivo della propria cultura. Per etnocentrismo s'intende, al contrario, un atteggiamento pregiudiziale, caratterizzato da: a) una differenziazione qualitativa (non meramente quantitativa) tra la cultura di appartenenza e quella degli altri gruppi; b) una rivendicazione più o meno accentuata, esplicita e convinta delle qualità autenticamente umane della propria cultura; c) una classificazione-relegazione degli altri in un'unica categoria, o in un numero molto ristretto di categorie, a cui non si riconoscono gli attributi che caratterizzano la vera umanità.
In vista di una definizione più analitica è opportuno precisare che il termine etno-centrismo è composto da due elementi semantici fondamentali: etnicità e centralità. Al di là del dato linguistico, l'elemento della centralità appare del tutto evidente non appena si tenga conto della forte asimmetria (un vero e proprio sbilanciamento) che caratterizza la classificazione antropologica implicata da ogni forma di etnocentrismo: al centro la propria cultura, ai margini quelle delle altre società. Inoltre, mentre risultano molto marcate le linee di separazione tra la propria società e quelle altrui, appaiono sfocate o inesistenti le potenziali differenziazioni tra queste ultime. Per quanto rozza possa essere, si tratta pur sempre di una classificazione antropologica. L'etnocentrismo si presenta infatti come un modo di classificare - e quindi di ordinare e organizzare concettualmente - l'universo dei gruppi umani (di cui una data società è in qualche modo a conoscenza), non già attraverso una distribuzione di caratteristiche diverse e tuttavia ugualmente umane tra le varie categorie, bensì mediante un addensamento (una concentrazione) delle caratteristiche propriamente umane nella categoria di 'centro', e un'attribuzione di caratteri meno umani, se non addirittura disumani (animaleschi, per esempio), alle categorie marginali. Nel suo significato più pregnante l'etnocentrismo si presenta allora non tanto come una classificazione di umanità (di varie forme di umanità), ma piuttosto come una 'valutazione di umanità': più precisamente come un'autoattribuzione, come una rivendicazione spesso esclusiva di umanità.
Chi compie questa rivendicazione di umanità? La risposta a questa domanda introduce l'elemento semantico dell'etnicità. Nel linguaggio corrente, oltre che in quello delle scienze sociali, l'uso del termine etnocentrismo non comporta un riferimento necessario all'esistenza di etnie: si parla di atteggiamento etnocentrico in riferimento a gruppi per un verso più piccoli e per l'altro più vasti delle etnie tradizionalmente intese, o comunque eterogenei rispetto a esse. Potremmo però sfruttare il riferimento generico all'etnicità, contenuto nel termine etnocentrismo, per evidenziare come la rivendicazione di umanità venga spesso operata da un gruppo più o meno vasto, coincidente con un'area di interazione, di scambio e di identificazione, ai confini della quale si diradano e svaniscono le specifiche caratteristiche di umanità attraverso le quali il gruppo si autodefinisce. Non ci vuole molto per identificare queste caratteristiche specifiche di umanità con i 'costumi' che rendono un gruppo relativamente omogeneo - sotto il profilo culturale e linguistico - e che sono, nello stesso tempo, condizioni e prodotti delle interazioni in cui esso si realizza. Un gruppo siffatto, coincidente con un'area di interazione sociale sufficientemente regolata e caratterizzato da una riconoscibile omogeneità culturale e linguistica, tale da suggerire quanto meno l'idea di confini culturali (non necessariamente geografici né politici) che ne garantiscano l'identità, è ciò che di solito s'intende per etnia (v. Van den Berghe, 1978, p. 158).
Il concetto di etnocentrismo è connesso con questo modello di etnia. E, per concludere il nostro tentativo di definizione, è indispensabile sottolineare l'incidenza dell'idea di confini. Tanto l'etnia, quanto l'etnocentrismo, si fondano sul principio di una distinzione radicale e qualitativa tra un mondo interno e un mondo esterno. Non per nulla Sumner, il quale per primo ha elaborato il concetto di etnocentrismo, ha proposto le nozioni di in-group (gruppo interno) e di out-group (gruppo esterno), sostenendo che la costituzione di una comunità comporta inesorabilmente questa distinzione e demarcazione di confini. Per Sumner l'interno è caratterizzato da cameratismo, fratellanza, pace, solidarietà, mentre i rapporti con il mondo esterno implicano atteggiamenti di odio, disprezzo, competizione, bellicosità. Non si può dare - secondo Sumner - un in-group senza un out-group, un 'interno' senza un 'esterno'; e questa distinzione (che è pure inscindibilità) determina una 'visione del mondo' la quale pone il proprio gruppo al 'centro' dell'universo, mentre "tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso" (v. Sumner, 1906; tr. it., p. 17).
Per quanto concerne esempi di etnocentrismo, vi è soltanto l'imbarazzo della scelta. Sotto questo profilo si rivela perciò molto utile la trattazione di Vittorio Lanternari (v., 1983), dedicata alla "morfologia degli etnocentrismi". Miti antropogonici (mediante cui si spiega l'origine dell'umanità e nel contempo si dà conto della propria superiorità), autodenominazioni etniche (il cui significato, come nel caso dell'eschimese Inuit, coincide con 'gli uomini'), nomi affibbiati alle popolazioni vicine (contenenti molto spesso significati spregiativi: gli Inuit, gli 'uomini', sono chiamati dagli Algonchini 'mangiatori di carne cruda', da cui il termine 'eschimese'), rituali specifici (come la circoncisione), tabù particolari (attinenti spesso alla sfera dell'alimentazione, come per esempio il divieto di mangiare carne di maiale) sono mezzi ed espedienti attraverso cui di solito prendono forma gli atteggiamenti etnocentrici.
Dato che gli atteggiamenti etnocentrici implicano pur sempre una 'visione del mondo' (Sumner), ovvero un qualche modello di classificazione antropologica (v. cap. 1), è possibile reperire a questo livello alcune forme fondamentali. Etnocentrismo indica un 'centro' (un punto o un luogo) in uno spazio concettualizzato, entro cui si dispongono, oltre al gruppo centrale, le altre categorie di umanità che fanno da contorno. L'esistenza mentale di un centro e di categorie marginali implica a sua volta la nozione di distanza rispetto al centro. Quali sono i rapporti che intercorrono (o si ritiene che intercorrano) tra il gruppo di centro e i gruppi marginali? Possiamo ipotizzare che le forme di etnocentrismo si costruiscano utilizzando gli elementi qui elencati: centro, categorie di vicini/lontani, distanze, modalità di rapporti.
Uno dei modelli più ricorrenti è uno schema a cerchi concentrici. Lo troviamo, per esempio, nella descrizione erodotea dell'etnocentrismo dei Persiani. Ritenendo di essere "di gran lunga i migliori degli uomini" (Storie, I, 134, 2), essi pongono se stessi al centro e gli altri popoli via via a distanze sempre maggiori, in quanto condividono in misura decrescente gli attributi della loro vera e autentica umanità. Questo sistema di cerchi concentrici - secondo cui i gruppi-di-altri (gli out-groups, secondo Sumner) si collocano in categorie di maggiore/minore vicinanza rispetto al centro, e quindi di maggiore/minore umanità - assume un significato di ordine generale nell'analisi delle varie forme di etnocentrismo fatta dall'antropologo inglese Edmund Leach (v., 1978, p. 958). Esso risulta del tutto palese in società stratificate, dove la costruzione di un palazzo regale nel centro geometrico di una città vuole rappresentare la centralità cosmica di coloro che vi abitano. Uno schema a cerchi concentrici è presente, per esempio, in Jean de La Bruyère, allorché egli considera nella Francia del XVII secolo i rapporti di priorità culturale tra il principe (al centro), la corte, la città, il popolo: ognuna di queste categorie trae il proprio senso da quella precedente, di cui rappresenta soltanto un riflesso o una diminuzione (v. Todorov, 1989, pp. 23-25).
Questo schema concentrico - ci avverte però Leach - è presente anche in società di ben più modeste dimensioni, nelle quali ogni singolo individuo s'identifica in primo luogo con la cerchia dei parenti più stretti che lo attorniano (i consanguinei). È questo il cerchio dell'umanità più antentica; al di là di esso vi sono coloro con cui 'noi' ci sposiamo: "sono esseri umani [...] e tuttavia essi non sono interamente come noi" (v. Leach, 1978, p. 957). Vi è poi un terzo cerchio, costituito da "estranei e stranieri", che si collocano ancora in una categoria - sia pure più lontana - di umanità, a causa della somiglianza dei loro costumi con i 'nostri'. "Ma al di là di questi [...] ci sono persone ancora più estranee, le quali [...] stanno oltre i confini dell'umanità": sono 'selvaggi', identificati con animali feroci, collocati nella natura (ibid., p. 958).
Un modello concentrico è inoltre reperibile - secondo Harbsmeier (v., 1985, p. 292) - nella geografia classica araba, la quale divideva il mondo in sette zone climatiche, di cui la quarta, posta al centro, coincideva con la cultura araba, culla della vera religione. Ma una variante ancor più significativa di modello concentrico ci è data dalla cultura cinese e in particolare dall'idea di Regno di Mezzo. A differenza degli antichi Greci - precisa Harbsmeier (ibid., p. 295) - i Cinesi erano piuttosto restii a elaborare una categoria comprensiva di tutti i non cinesi: le differenze tra i vari tipi di barbari erano ai loro occhi più importanti di ciò che avrebbe potuto accomunarli. Si riteneva così che il Regno di Mezzo fosse circondato non già semplicemente da barbari, bensì da "una varietà di tribù e di regni più o meno lontani nello spazio dal centro costituito dal Regno di Mezzo": i vari tipi di barbari risultavano classificati e definiti dalla distanza rispetto al centro e dalla direzione che si doveva prendere a partire dal centro stesso. "I popoli del mondo erano così rappresentati in quadrangoli concentrici, che suddividevano schematicamente l'umanità in nove categorie: il Regno di Mezzo (ovvero le nove province) e gli otto tipi di barbari, 'selvaggi' e 'domestici', 'crudi' e 'cotti', a sud, nord, est e ovest rispetto al centro".
Non si tratta però soltanto di cerchi o di quadrangoli concentrici. Analizzando il pensiero dell'Europa medievale, Harbsmeier fa emergere infatti una sorta di triangolo cosmologico, alla cui base troviamo l'opposizione (spaziale e paradigmatica) tra 'cristiani' e 'miscredenti' (musulmani) e alla sommità la 'Terra Santa', termine di una relazione storica, temporale, sintagmatica. La Palestina, la Terra Santa, è un "centro fuori da qui", lontano dal 'qui' della Cristianità - secondo l'espressione di Victor Turner (v., 1973; v. Turner e Turner, 1978) -, e questa lontananza spaziale del proprio 'centro' rispetto al 'qui', questo carattere maggiormente "allocentrico" (Todorov) del triangolo cosmologico europeo, non soltanto sollecita una maggiore apertura verso l'alterità (ciò che si trova 'fuori' o 'al di là'), ma conferisce anche un carattere di temporalizzazione in gran parte sconosciuto - secondo Harbsmeier - alle altre 'visioni del mondo'. L'incremento della temporalizzazione, l'abbandono dei concetti spaziali dell'alterità e anzi la "totale temporalizzazione delle categorie e dei concetti dell'alterità" sono i fattori che - secondo Harbsmeier (v., 1985, p. 306), il quale qui si riferisce a Koselleck (v., 1979) - rendono peculiare lo schema cosmologico della società europea moderna.
Non soltanto dunque cerchi, quadrangoli e triangoli, ma anche il tempo rientra tra gli elementi attraverso i quali gli etnocentrismi prendono forma. Le filosofie della storia elaborate dal pensiero europeo sono particolarmente significative al riguardo: l''altra' umanità viene classificata e valutata -entro uno schema temporale unitario - in termini di distanza/vicinanza culturale rispetto alle comuni origini, da un lato, e alle più recenti acquisizioni della civiltà moderna dall'altro (v. Lévi-Strauss, 1952; tr. it., p. 107). Ma si tratta ancora di etnocentrismo? Tipico di quest'ultimo - si è detto (v. cap. 1) - è una valutazione approssimativa e qualitativa degli altri, fondata sull'impiego di un numero molto ristretto di categorie dell'alterità. Ebbene, vediamo l'analisi a cui Carl E. Pletsch (citato da Harbsmeier: v., 1985, p. 305) sottopone la nozione di Terzo Mondo, affiorata negli anni cinquanta e impiegata tuttora nella classificazione dell'umanità da parte di giornalisti, politici, economisti e di gran parte dell'opinione pubblica. L'intero pianeta risulta diviso secondo categorie molto approssimative: in primo luogo vi è l'opposizione fra 'tradizionale' e 'moderno', e quest'ultimo è poi suddiviso in mondo 'libero' e mondo 'comunista'. Il significato di questi termini dipende - sostiene Pletsch (v., 1981, p. 573) - non già dall'osservazione di elementi descrittivi della realtà, bensì dalla loro "reciproca opposizione". Il Terzo Mondo è "il mondo della tradizione, della cultura, della religione, dell'irrazionalità, del sottosviluppo, del sovrappopolamento, del caos politico e così via"; il secondo mondo appartiene alla modernità, ma in modo imperfetto: il suo carattere autoritario, repressivo e inefficiente fa ritenere che sia razionale soltanto entro centri limiti; il primo mondo è invece "puramente moderno", dominato dai valori della libertà, della scienza e dell'utilitarismo individuale, dell'efficienza tecnologica e della democrazia politica: "in breve, una società naturale, resa libera dai vincoli della religione e dell'ideologia".
Come si sa, questa visione del mondo è stata superata dai fatti: il secondo mondo si è in gran parte dissolto e sembra voler combattere una battaglia per non rifluire in ciò che un tempo era il 'terzo' mondo e agganciarsi decisamente alla modernità. È venuto meno il triangolo; sussiste invece - ancor più semplificatrice - un'opposizione binaria. La stessa situazione economica, politica e sociale dell'Italia contemporanea viene spesso valutata nei termini di quest'opposizione dicotomica tra i due mondi - quello della modernità e dell'efficienza tecnologica e quello della corruzione e del degrado - con una connotazione spaziale che permane, nonostante tutta la temporalizzazione moderna (Harbsmeier): il Nord del mondo (o l'Occidente) ricco, libero, aperto al futuro, e il Sud (o il resto del mondo) impigliato nei suoi etnicismi, oltre che soverchiato dalla sua fame e dal suo degrado. Dov'è l'etnocentrismo: nelle aree dominate dalle forme tradizionali di convivenza (tribalismi) o anche in questa suddivisione semplificatrice del mondo?
Quando si forniscono casi ed esempi di etnocentrismo, è inevitabile che insorga un senso di complicazione e quasi di confusione. Leggiamo in Lanternari (v., 1983, p. 129): "Come risulta dagli esempi riportati, non si può parlare di etnocentrismo come d'un fenomeno unitario e semplice. Esso abbraccia una quantità di atteggiamenti [...] estremamente eterogenei". In effetti, si va dai miti antropogonici e dai nomi etnici alle separazioni castali in India o in Burundi, dalle scelte alimentari allo sterminio degli Ebrei, dai condizionamenti culturali dei sistemi conoscitivi alla filosofia della storia di Hegel o di Croce. Questo effetto di complicazione e di confusione è in primo luogo determinato dalla pressoché inesauribile molteplicità di soggetti che elaborano le varie forme di etnocentrismo. Come si è visto, non sono soltanto le etnie, o i gruppi etnici tradizionalmente intesi, a essere portatori di atteggiamenti 'etno'-centrici. Anche all'interno delle società assistiamo a divisioni - come per esempio quelle di classi o di caste - non semplicemente funzionali, ma tali da comportare una rivendicazione di umanità e un correlativo atteggiamento di separazione (di esclusione, di allontanamento o di ripulsa). Atteggiamenti abbastanza simili si determinano del resto in relazione ad altri criteri di divisione sociale, come per esempio il sesso e l'età. In numerose società riscontriamo infatti una decisa rivendicazione di umanità (l'autentica umanità) da parte dei maschi nei confronti delle femmine e degli adulti nei confronti dei giovani, con conseguente separazione (e degradazione nella scala dei valori) delle donne e dei bambini. Quando si applica la nozione di etnocentrismo a fenomeni di questo genere, si avverte probabilmente l'inadeguatezza del termine: si tratta di un suo uso metaforico, dato che in questi casi non è l'etnia in quanto tale a proporsi come centro. E nemmeno - a rigore - è un gruppo etnico il soggetto di etnocentrismi religiosi, come la storia del Cristianesimo o dell'Islam abbondantemente dimostrano.
L'esito di queste riflessioni potrebbe allora essere così formulato. Per un verso si osserva il riemergere di aspetti molto simili in contesti del tutto eterogenei, aspetti che possono essere sintetizzati in questo modo: a) rivendicazione di umanità da parte di un qualche gruppo; b) separazione nei confronti di 'altri', portatori di forme inferiori di umanità. Per un altro verso si nota che sono estremamente diversi ed eterogenei i soggetti che compiono le operazioni a (rivendicazione) e b (separazione). In ogni caso i soggetti non coincidono necessariamente ed esclusivamente con gruppi etnici. Se questa è la situazione, si potrebbe pensare di riservare il termine etnocentrismo agli atteggiamenti di rivendicazione/separazione i cui attori siano gruppi etnici e di coniare altri termini in relazione a soggetti differenti. Ma, a parte la difficoltà d'inventare una serie di termini nuovi e plausibili (sesso-centrismo? età-centrismo? religione-centrismo?), questa soluzione in realtà elude quello che probabilmente si può considerare il problema di fondo dell'etnocentrismo - ossia il soggetto etnocentrista -, risolto il quale si può forse affrontare con maggiore lucidità il problema delle sue cause.Si è visto che sono diversissimi i soggetti che manifestano atteggiamenti 'etno'-centrici (anche in senso metaforico), ovvero coloro che compiono normalmente, o possono compiere in determinate circostanze, le operazioni di rivendicazione/separazione. È possibile unificare in un'unica categoria questa enorme molteplicità di soggetti? Si ritiene che la risposta possa essere positiva, anche se forse ciò che si propone non è esattamente una categoria, quanto piuttosto un punto di riferimento imprescindibile e molto spesso celato dall'uso frequentissimo che se ne fa in tutte le lingue e in tutte le occasioni. Si tratta della parola 'noi', la quale già compare in posizione chiave nell'analisi dell'etnocentrismo elaborata da Sumner. Egli infatti impiega esplicitamente l'espressione "gruppo-di-noi" (we-group), in contrapposizione a "gruppi-di-altri" (others-groups: v. Sumner, 1906, pp. 12-13; tr. it., p. 16), assegnando proprio al "gruppo-di-noi" la capacità di dar luogo per un verso al massimo di solidarietà interna e per l'altro all'etnocentrismo, ovvero alla separazione nei confronti degli altri, che può andare dal semplice allontanamento o rifiuto di contatto alla soppressione e al massacro.
Nella sua indagine sugli etnocentrismi Leach utilizza in modo programmatico (pur senza mai citare Sumner) il concetto "gruppo-di-noi", e le espressioni tatou nga Tikopia ("noi, Tikopia") da parte degli abitanti di questa piccola isola della Polinesia occidentale (v. Firth, 1936), così come anhte Jinghpaw ni ("noi, Jinghpaw") da parte di questa popolazione della Birmania settentrionale (v. Leach, 1954) risultano quasi emblematiche (v. Leach, 1978, p. 961). Leach connette organicamente al 'noi' la rivendicazione di umanità. Chi possiede la vera umanità? Chi sono i veri uomini? "Le sole persone a proposito delle quali possiamo essere sicuri sono quelle a contatto di gomito, la 'gente come noi'. 'Noi', in ogni caso, siamo sicuramente uomini, 'noi' siamo esseri umani" (ibid., pp. 960-961). Anche per Leach il 'noi-centrismo' (così potremmo decidere di chiamarlo) è più fondamentale dell'etnocentrismo. La fonte degli atteggiamenti di distruzione degli altri - egli sostiene (p. 964) - "non è necessariamente 'etnocentrica', nel senso vero e proprio; i 'noi' che son pronti a distruggere gli 'altri', sotto pretesto della loro non-umanità, non sempre rivendicano d'essere discendenti di un antenato comune o i destinatari, ispirati da Dio, d'una rivelazione celeste".
Per Leach vi è però qualcosa di più fondamentale ancora del 'noi-centrismo'. Per Leach il 'noi' - con le sue rivendicazioni di umanità e le sue esigenze di separazione e di identificazione - non è altro che un prolungamento o una dilatazione dell''ego'. La definizione di etnocentrismo che egli elabora in via preliminare è sintomatica sotto questo aspetto: egli dichiara di intendere l'etnocentrismo "come riferito a tutti quegli ambiti di estensione dell'egocentrismo nei quali il 'noi' tende a sostituire l''io' come centro di autoidentificazione" (p. 955). L'etnocentrismo va dunque inteso soprattutto come un 'noi-centrismo' (ammesso che Leach avrebbe accettato questa espressione), e sotto questa forma si presenta come "una universale caratteristica umana" o come qualcosa che, pur non essendo innato, è "molto essenziale" (p. 969). Ma le ragioni profonde della sua universalità risiedono non già nel fatto che "ogni società umana" costituisce sempre "un gruppo-di-noi di qualche genere" (p. 964), bensì nel fatto che esso "è soltanto un'estensione dell'egocentrismo che si trova alle autentiche radici della coscienza umana" (p. 969). Con questo radicamento in una sfera psico-biologica (pre-sociale e pre-storica), Leach finisce con il considerare l'etnocentrismo come un atteggiamento forse controllabile, ma anche, nella sostanza, inestirpabile.
L'etnocentrismo è sempre stato descritto in termini critici, come causa di una serie di fenomeni spesso esecrabili. L'etnocentrismo si configura infatti composto: a) dalla solidarietà interna a un 'noi', sostenuta dalla convinzione di rappresentare la vera e autentica umanità; b) dalla separazione spesso conflittuale - esplicita o latente - nei confronti degli 'altri', motivata dal grado inferiore della loro umanità. È possibile liberarsi dall'etnocentrismo? La cultura moderna ha perlopiù ritenuto che una delle acquisizioni della modernità consista appunto nella liberazione dall'etnocentrismo, dal suo oscurantismo e dalle sue atrocità. Il passaggio dalle società tradizionali alla società moderna coinciderebbe infatti con la transizione da società chiuse, dominate da costumi particolari, caratterizzate da un orizzonte di 'noi' molto ristretto e quindi generatrici di etnocentrismo, a società aperte, libere, critiche, disponibili al mutamento indotto dalla ragione o dall'esperienza (v. Popper, 1945; v. Horton, 1967). Nelle società aperte l'etnocentrismo non solo è condannabile, ma sarebbe un controsenso: la ragione invece dei costumi, la scienza in luogo dei miti, le leggi naturali al posto delle tradizioni sono i fattori che provocherebbero la distruzione dell'etnocentrismo.
Proprio questa concezione modernista, la quale attribuisce agli 'altri' l'etnocentrismo, pensando di esserne 'noi moderni' del tutto liberi, si rivela però essa stessa etnocentrica (divide il mondo in poche, rozze categorie di umanità superiore e inferiore, sfruttando l'attribuzione di etnocentrismo) ed è anzi, per certi aspetti, la fonte stessa dell'etnocentrismo. C'è da chiedersi infatti se l'etnocentrismo, inteso come atteggiamento che le società tradizionali assumerebbero a causa del carattere chiuso della loro cultura, non sia la proiezione sugli altri di un'ombra da noi prodotta, il risvolto negativo sugli altri dell'immagine che abbiamo di 'noi' stessi, cioè di una società svincolata dai costumi e dalle tradizioni, una società libera e 'naturale' (v. Pletsch, 1981, p. 573; v. Remotti, 1990, p. 243): essendo noi 'aperti' e 'razionali', gli altri saranno 'chiusi' ed 'etnocentrici'.
Si pongono a questo punto due domande.
A. La prima concerne la natura della 'ragione', a cui spesso la nostra società ha fatto appello per rivendicare la propria 'naturalità', ovvero la libertà dai costumi, dalle tradizioni e dall'etnocentrismo. La ragione è davvero una forma di pensiero 'naturale', garante dell'universalità, al quale si può accedere spezzando l'accerchiamento dei costumi, oppure la ragione è intrisa di costumi ed è stata soltanto un mezzo per rivendicare l'universalità di "credenze particolari" (v. Viano, 1979, p. 349)? Il dibattito che si è svolto negli ultimi decenni tra filosofi, sociologi e antropologi concerne esattamente il rapporto tra ragione e costumi, l'assorbimento della prima nell'area dei costumi oppure la capacità della ragione di sottrarsi alla loro presa (v. Wilson, 1970; v. Horton e Finnegan, 1973; v. Hollis e Lukes, 1982; v. Overing, 1985). La valutazione dell'etnocentrismo dipende dall'incisività del 'noi' nella formazione del pensiero (e di quella forma di pensiero a cui diamo il nome di ragione). Se "il pensiero umano è profondamente sociale: nelle sue origini, nelle sue funzioni, nelle sue forme, nelle sue applicazioni", se "alla base il pensare è un'attività pubblica", se "il suo habitat naturale è il cortile di casa, la piazza del mercato e quella del municipio" (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 337), come anche i "fori" e le "agorà della vita moderna", i "villaggi intellettuali" o le "comunità accademiche [...] pressappoco altrettanto chiuse [...] della maggior parte dei villaggi di contadini" (v. Geertz, 1983; tr. it., pp. 193 e 199), allora l'etnocentrismo - o noi-centrismo - non è soltanto inevitabile (come per Leach), ma assume una funzione e un valore positivi e insostituibili. In fondo, di questa dipendenza vitale dell'uomo dalla cultura particolare in cui si foggia, e quindi della centralità funzionale che ogni singola cultura finisce per acquisire, i Giavanesi - sostiene Geertz (v., 1973; tr. it., pp. 95-96) - dimostrano di essere più consapevoli degli stessi antropologi proprio quando affermano (etnocentricamente): "Essere umani è essere giavanesi", non un qualsiasi uomo, ma un tipo particolare di uomo, che parla in un certo modo, preferisce certi cibi, sente certe emozioni.
La prospettiva di Geertz, avvalendosi della filosofia di G. Ryle, di G.H. Mead, di J. Dewey e del secondo Wittgenstein per sostenere la tesi della natura sociale del pensiero, non può non tradursi in una rivalutazione dell'etnocentrismo in termini di centralità di un qualche 'noi': i 'noi' risultano prioritari nell'organizzazione del pensiero e della vita; essi praticamente coincidono con le 'forme di vita' nei cui limiti - secondo Wittgenstein - si esaurisce il valore della verità e del pensiero. Rivalutando l'etnocentrismo, la prospettiva Wittgenstein-Geertz finisce con l'estendere l'etnocentrismo anche a noi: etnocentrici non sono soltanto gli altri, etnocentrici siamo pure noi (le comunità accademiche chiuse quanto i villaggi di contadini). È il 'noi' in quanto tale (non importa se nostro o degli altri) a essere autocentrico.
B. Ma gli 'altri' - le società che continuiamo a definire tradizionali, che riteniamo dominate dalle tradizioni e dai costumi - sono davvero sempre mondi 'chiusi'? Ricerche antropologiche recenti hanno posto in luce le 'aperture', le disponibilità al mutamento, alle innovazioni, ai contatti e agli scambi, come testimoniano l'orientamento mentale degli Amerindi nei confronti degli invasori europei (v. Lévi-Strauss, 1991) o l'apertura degli Africani verso il Cristianesimo e l'Islam (v. Goody, 1975). Nel rapporto tra conquistatori europei e Amerindi o tra missionari cristiani e tribù africane chi si è rivelato più etnocentrico? Del resto, non è significativo che in "una società particolarmente arcaica", quale quella dei Walbiri del Territorio del Nord in Australia, si mescolino atteggiamenti di disprezzo verso gli altri "con atteggiamenti opposti, di apertura e comunicazione, per esempio sul piano rituale e matrimoniale" (v. Lanternari, 1983, p. 15; v. Meggitt, Desert..., 1965)? I 'noi' - anche i 'noi' degli 'altri' - non sono mai sempre e del tutto chiusi in se stessi, autocentrici. Come abbiamo argomentato nel cap. 3, è probabilmente opportuno sostituire la nozione di etnocentrismo con quella di noi-centrismo (o meglio, considerare la prima come una variante della seconda). Ma è allora indispensabile dar luogo a una vera e propria antropologia del 'noi', la quale ponga in luce il suo carattere situazionale, oltre che fondamentale, elabori una tipologia dei vari 'noi', e soprattutto faccia intravedere come i 'noi' siano fatti non soltanto di identità, ma di identità e di alterità insieme, come siano attraversati da correnti di alterità (dall'esogamia ai commerci, dall'antropofagia alla stessa antropologia), come chiusura e apertura, 'noi-centrismo' e 'allocentrismo' si combinino in modi vari, complessi e problematici per dare forma a, e nello stesso tempo alimentare, aree di comunicazione e di scambio.
Due tendenze, provenienti da versanti originariamente opposti, hanno dunque smantellato la distinzione fondamentale espressa dalla formula: 'noi (moderni, aperti, affrancati dalle oscurità dell'etnocentrismo) // gli altri (tradizionali, chiusi, etnocentrici)' - formula di produzione dell'idea di etnocentrismo come schema di vita e di pensiero peculiare degli 'altri', ovvero formula di proiezione sugli altri del nostro etnocentrismo. Sul versante della riflessione sulla modernità (sul "noi moderni": v. De Martino, 1973³, p. 198) si è fatto sempre più strada il riconoscimento di 'tradizioni', di 'costumi', di 'comunità' - con l'effetto inevitabile di ottundimento e di chiusura - persino nei luoghi deputati all'esercizio più libero e 'naturale' della ragione, come la filosofia e la scienza: valgano per tutti i nomi di Ludwig Wittgenstein (v., 1953) e di Thomas Kuhn (v., 1962). I paradigmi scientifici rappresentano chiusure non soltanto inevitabili, ma anche proficue (Kuhn), e - sostiene Lévi-Strauss (v., 1983; tr. it., p. 29) - "ogni creazione vera implica una certa sordità al richiamo di altri valori, che può giungere fino al loro rifiuto o addirittura alla loro negazione". Sul versante dello studio degli altri, tradizionalmente intesi come immersi nelle loro tradizioni, obnubilati dai loro costumi, incapsulati in sistemi chiusi, assistiamo invece, in modo simmetrico e opposto, alla scoperta delle loro 'aperture' e delle loro innovazioni, del carattere fluido e pluralistico delle situazioni sociali in cui vivono (v. Van den Berghe, 1973, pp. 967-970). Mentre su un versante (filosofia della scienza moderna) emergono nozioni come forme di vita e paradigma, con i caratteri di chiusura che esse comportano, sull'altro entrano in crisi o tendono a scomparire nella descrizione degli 'altri' concetti sociologici 'chiusi' come sistema, struttura, organizzazione sociale, o la stessa nozione di 'etnie', intese come realtà naturali dai "confini nitidi" (v. Leach, 1989, p. 140), a cui si è sempre rifatta l'idea di 'etno'-centrismo.
In sintesi.
1) L'etnocentrismo è stato (e può essere tuttora) un espediente per dividere l'umanità in due tipi fondamentali: società tradizionali, etnocentriche, e società moderne, tendenzialmente acentriche (oppure - v. De Martino, 1977, pp. 396-397 - gli 'altri', invariabilmente accecati dal loro "etnocentrismo dogmatico", e 'noi', in grado al contrario di esibire un "etnocentrismo critico"); in questa fase, l'etnocentrismo risulta collegato alla nozione di etnia come mondo sociale chiuso, dai confini nitidi.
2) Come rivendicazione di umanità, l'etnocentrismo si trova collegato a molte altre forme rivendicatorie, in cui però il riferimento al gruppo etnico non appare decisivo o rilevante.
3) Emerge, come punto di riferimento, il concetto situazionale di 'noi' e l'etnocentrismo si configura come una variante del 'noi-centrismo'.
4) Staccato dal riferimento esclusivo al mondo chiuso delle etnie, utilizzato per descrivere atteggiamenti di chiusura e di difesa dell'identità riscontrabili nei più vari contesti, l'etnocentrismo (o noi-centrismo) appare come un atteggiamento inevitabile, da comprendere, tollerare, controllare, anziché condannare aprioristicamente.
5) Quando poi ci si spinge a sostenere il carattere pubblico del pensiero e la dipendenza degli esseri umani dalla cultura particolare in cui si foggiano, l'etnocentrismo (noi-centrismo) assume persino aspetti positivi e costitutivi.
6) Le riflessioni sulla formazione dei 'noi' presso gli altri consentono però di porre in luce la coessenzialità di identità (chiusura, noi-centrismo) e di alterità (apertura, allocentrismo).
7) Da ciò si evince l'inadeguatezza di una prospettiva esclusivamente noi-centrica, la quale insista soltanto sugli aspetti e sui problemi dell'identità, tralasciando quelli altrettanto importanti dell'alterità.
8) A differenza di Geertz, che scegliendo una prospettiva prevalentemente noi-centrica predilige la tesi dei Giavanesi ("essere umani è essere giavanesi"), si può proporre come conclusiva e paradigmatica la duplicità di atteggiamenti dei Walbiri, i quali - come ogni società fa o è costretta a fare - mescolano noi-centrismo e allocentrismo, affermando per un verso la propria unicità, identità, superiorità e ricercando, per l'altro verso, l'apporto insostituibile e determinante dell'alterità (come è confermato pure dai Mae Enga della Nuova Guinea, quando dichiarano: "Noi sposiamo i nostri nemici"; v. Meggitt, The lineage..., 1965).
9) È importante la prospettiva noi-centrica, perché in essa si colloca l'etnocentrismo, con le sue virtù e con i suoi misfatti; ma è assolutamente indispensabile considerare insieme la prospettiva opposta (allocentrica), quella mediante cui i 'noi' interagiscono con gli 'altri' e, spesso per faccende molto vitali, ne dipendono. (V. anche Relativismo culturale).
De Martino, E., Il mondo magico (1948), Torino 1973³.
De Martino, E., La fine del mondo, Torino 1977.
Firth, R., We, the Tikopia, London 1936 (tr. it.: Noi, Tikopia, Roma-Bari 1976).
Geertz, C., The interpretation of cultures, New York 1973 (tr. it.: Interpretazione di culture, Bologna 1987).
Geertz, C., Local knowledge, New York 1983 (tr. it.: Antropologia interpretativa, Bologna 1988).
Goody, J., Religion, social change and the sociology of conversion, in Changing social structure in Ghana, London 1975, pp. 91-117.
Harbsmeier, M., On travel accounts and cosmological strategies, in "Ethnos", 1985, XVIII, 3-4, pp. 273-312.
Hollis, M., Lukes, S. (a cura di), Rationality and relativism, Oxford 1982.
Horton, R., African traditional thought and Western society, in "Africa", 1967, XXXVII, 1, pp. 50-71; 2, pp. 155-187.
Horton, R., Finnegan, R. (a cura di), Modes of thought, London 1973.
Koselleck, R., Zur historisch-politischen Semantik asymmetrischer Gegenbegriffe, in Vergangene Zukunft, Frankfurt a. M. 1979, pp. 211-259 (tr. it. in Futuro passato, Genova 1986).
Kuhn, T., The structure of scientific revolutions, Chicago 1962 (tr. it.: La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1969).
Lanternari, V., L'incivilimento dei 'barbari', Bari 1983.
Leach, E., Political systems of highland Burma, London 1954 (tr. it.: Sistemi politici birmani, Milano 1979).
Leach, E., Etnocentrismi, in Enciclopedia Einaudi, vol. V, Torino 1978, pp. 955-970.
Leach, E., Etnografia tribale: passato, presente, futuro, in Antropologia: tendenze contemporanee. Scritti in onore di B. Bernardi (a cura di A. Marazzi), Milano 1989, pp. 125-143.
Lévi-Strauss, C., Race et histoire, Paris 1952 (tr. it.: Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino 1967).
Lévi-Strauss, C., Le regard éloigné, Paris 1983 (tr. it.: Lo sguardo da lontano, Torino 1984).
Lévi-Strauss, C., Histoire de lynx, Paris 1991.
Meggitt, M.J., Desert people: a study of the Walbiri Aborigines of Central Australia, Chicago 1965.
Meggitt, M.J., The lineage system of the Mae-Enga of New Guinea, New York 1965.
Overing, J. (a cura di), Reason and morality, London 1985.
Pletsch, C.E., The three worlds, or the division of social scientific labor ca. 1950-1975, in "Comparative studies in society and history", 1981, XXIII, 4, pp. 565-590.
Popper, K., The open society and its enemies, 2 voll., London 1945 (tr. it.: La società aperta e i suoi nemici, 2 voll., Roma 1966).
Remotti, F., Noi, primitivi, Torino 1990.
Sumner, W.G., Folkways, New York 1906 (tr. it.: Costumi di gruppo, Milano 1962).
Todorov, T., Nous et les autres, Paris 1989 (tr. it.: Noi e gli altri, Torino 1991).
Turner, V., The center out there: pilgrim's goal, in "History of religions", 1973, XII, pp. 191-230.
Turner, V., Turner, E., Image and pilgrimage in Christian culture, Oxford 1978.
Van den Berghe, P., Pluralism, in Handbook of social and cultural anthropology (a cura di J.J. Honigmann), Chicago 1973, pp. 959-977.
Van den Berghe, P., Man in society: a biosocial view, New York 1978.
Viano, C. A., La ragione, l'abbondanza e la credenza, in Crisi della ragione (a cura di A. Gargani), Torino 1979, pp. 305-366.
Wilson, B., Rationality, Oxford 1970.
Wittgenstein, L., Philosophische Untersuchungen, Oxford 1953 (tr. it.: Ricerche filosofiche, Torino 1980).