Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’etnologia e l’antropologia culturale nascono nel corso dell’Ottocento come saperi riconoscibili dopo un lungo processo di gestazione. L’evento determinante è costituito dalla nascita dell’evoluzionismo, che agisce come paradigma di riferimento forte. Le due discipline tendono col tempo a una progressiva integrazione, ma anche a subire in campo metodologico mutazioni significative che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, sono alla base della nascita di nuove prospettive teoriche.
Le origini
L’interesse per i modi di vita dei popoli extraeuropei comincia a essere chiamato etnologia nella prima metà dell’Ottocento. La nozione di etnologia (o studio degli ethné, cioè dei popoli o nazioni) è pertanto all’origine di quella attività di ricerca che sarebbe stata conosciuta più tardi come antropologia culturale o sociale.
La prima comparsa del termine etnologia sembra trovarsi nell’Essai sur la philosophie des sciences di André-Marie Ampère del 1835, dove è preferita a quella di “geografia sociale”. È sempre in Francia che viene istituita, qualche anno più tardi, a Parigi, la Société Ethnologique (1838), il cui scopo è però quello di favorire lo studio delle differenze anatomiche tra i gruppi umani, mentre l’Ethnological Society of London, fondata nel 1843, si fa promotrice di ricerche sui popoli “non civilizzati”: lingua, anatomia comparata, origini e istituzioni sociali.
In quanto studio dei popoli “selvaggi” o “barbari”, l’etnologia è, più che il frutto di una “derivazione” diretta da altri saperi, una “scienza dei residui”, almeno nel senso che essa emerge come interesse per popolazioni che hanno un ruolo ben poco rilevante nello sviluppo delle “scienze umane” allora emergenti (linguistica, psicologia, sociologia) e della filosofia della storia. Questo interesse per i “residui”, che ha il merito di proporre all’attenzione degli studiosi fenomeni che altrimenti sarebbero andati perduti, ha una complessa gestazione. Il tardo Illuminismo teorizza già uno studio comparato dei popoli dal punto di vista fisico, linguistico e “morale” (culturale) denotandolo come un’impresa capace di affratellare l’umanità intera in una visione unitaria del genere umano. La Société des Observateurs de l’Homme, fondata a Parigi nel 1799, è la prima testimonianza di un’intenzione conoscitiva formalmente organizzata nata da questa visone universalistica. La breve esperienza della Société, naufragata di fronte al disinteresse della burocrazia napoleonica, non viene sostituita di lì a breve da tentativi simili e altrettanto coerenti sul piano progettuale. Infatti l’etnologia, così come emerge nei primi decenni dell’Ottocento, è un campo di ricerca composito che si dibatte nel dilemma della scelta tra monogenismo e poligenismo, tra idea di progresso (dei popoli civili) e di regresso quando non di degenerazione (dei selvaggi), e soprattutto una disciplina ancora cauta nelle ipotesi relative alla “natura dell’uomo” in quanto fortemente riguardosa nei confronti delle Sacre Scritture.
L’evoluzionismo
Nel continente, ma specialmente nelle isole britanniche, questa disciplina incerta circa la possibilità di fondare un sapere laico e definito sui popoli non europei (selvaggi o barbari che siano), comincia a prendere consistenza con la rottura scientifica rappresentata dalla nascita dell’evoluzionismo. Quest’ultimo, come movimento intellettuale, ha un potente influsso sugli sviluppi dell’etnologia in quanto sapere socialmente e accademicamente riconosciuto. La prospettiva evoluzionista offre, infatti, un quadro teorico e ideologico “forte” dei processi di trasformazione del mondo naturale entro cui pensare la storia dell’uomo. I popoli del pianeta appaiono così sotto una nuova luce: tra tutti i popoli della Terra, quelli primitivi e barbari sono adesso la prova dell’esistenza di epoche, o fasi, nello sviluppo complessivo dell’umanità, dove ogni epoca precede un’altra contrassegnata da maggiore complessità sul piano delle conoscenze tecniche, delle istituzioni giuridiche, delle credenze religiose ecc. Anche i barbari e i selvaggi hanno così un ruolo all’interno di questa rappresentazione, e un ruolo molto importante: essi sono infatti considerati dei fossili sociali, i rappresentanti delle epoche più remote dello sviluppo umano sul piano tecnologico e intellettuale. Studiarli significa studiare il passato stesso dei popoli civilizzati, ripercorrere il cammino che, dai tempi preistorici, giunge alle soglie della civiltà. Un’idea, questa, già presente nel tardo Illuminismo.
Il concetto di cultura
All’indomani della pubblicazione de L’origine delle specie (1859) di Charles R. Darwin, prende infatti consistenza un nuovo modo di guardare ai popoli “non civilizzati”, i quali cominciano a essere sempre più qualificati come “primitivi” (piuttosto che “selvaggi”) in ragione della posizione a loro assegnata nella scala di sviluppo (o evoluzione) della civiltà umana. Nonostante questa visione autocelebrativa ed etnocentrica della storia umana, che pone l’Europa (e la società inglese in particolare) al vertice dello sviluppo storico, ciò che gli studiosi di quest’epoca portano a compimento è la visione unitaria del genere umano.Tale concezione unitaria dell’umanità, affermatasi nella prima metà del secolo in campo biologico grazie agli studi dei naturalisti, viene ora stabilita anche sul piano “culturale”. La celebre definizione di cultura data da Edward Burnett Tylor all’inizio della sua opera fondativa Primitive Culture (Cultura primitiva) del 1871 (“La cultura, o civiltà [...] è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società”, 1871: 1), riflette una concezione dell’oggetto di studio (la cultura) che coniuga la dimensione della particolarità (ogni popolo, o società, possiede una propria specifica cultura) con quella dell’universalità: tutti gli esseri umani sono in grado di “produrre cultura” se con questo termine si intende quell’insieme di capacità ideative, pratiche e simboliche che consentono agli umani di “vivere nel mondo”. Tylor, che è un evoluzionista culturale, mette a disposizione della comunità scientifica un concetto – cultura – destinato ad avere in seguito una grande fortuna.
Etnologia e antropologia
Progressivamente l’etnologia perde quelle peculiarità di disciplina composita che l’ha caratterizzata nei decenni precedenti. Essa si propone sempre più come studio dei costumi e delle istituzioni dei popoli “primitivi” e lascia lo studio delle caratteristiche fisiche all’antropologia. Tuttavia il processo è lento e per nulla uniforme. È invece proprio nella seconda metà dell’Ottocento che l’antropologia, da scienza strettamete naturalistica, comincia a definirsi come disciplina interessata allo studio del genere umano dal punto di vista psichico e linguistico-culturale, oltre che fisio-anatomico. Da quel momento in poi l’etnologia va assumendo progressivamente un ruolo specifico e complementare all’interno dell’antropologia: specifico in quanto all’etnologia compete lo studio delle istituzioni primitive (cultura materiale, organizzazione sociale, arte, religione, governo ecc.); complementare in quanto altre discipline come l’archeologia, la linguistica e l’antropologia fisica definiscono l’ambito dell’antropologia generale. Le società etnologiche che come abbiamo visto erano state fondate in Francia e in Gran Bretagna nella prima metà dell’Ottocento vengono, nei decenni successivi, riassorbite da società “antropologiche”. Come esempio di questa tendenziale “incorporazione” dell’etnologia nell’antropologia possiamo citare il titolo del primo “manuale” pubblicato nel 1874 a cura della British Association for the Advancement of Science “ad uso di viaggiatori e residenti trai popoli non civilizzati”: Notes and Queries on Anthropology.
L’etnologia, dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti, si presenta dunque come campo di studio dedicato all’indagine delle manifestazioni espressive, tecniche e istituzionali dei popoli extraeuropei, e specialmente di quelli considerati come più lontani dagli standard “occidentali”. Concepita come lo studio dei popoli extraeuropei allo stato primitivo o “di natura” (Naturvölkern, come erano chiamati nel mondo di lingua tedesca) l’etnologia viene comunque assumendo, a seconda dei Paesi e dei contesti accademici, caratteristiche diverse e un differente ruolo nel complesso delle discipline “antropologiche”. A Washinghton, ad esempio, il Bureau of American Ethnology viene fondato nel 1879 allo scopo di condurre ricerche di carattere linguistico, archeologico e culturale presso le popolazioni native degli Stati Uniti, ma il progetto rientra già, nelle intenzioni dei suoi promotori, in un più ampio programma di studi antropologici. In Francia, in Italia e nei Paesi di lingua tedesca, il termine etnologia (talvolta etnografia) rimarrà a indicare l’interesse per le culture extraeuropee fin dopo la seconda guerra mondiale, mentre nei Paesi di lingua anglosassone essa sarà sostituita, nei primi decenni del Novecento, dall’antropologia sociale (Gran Bretagna) e culturale (Stati Uniti). In Francia gli studi di carattere etnologico emergono più tardi dalla sociologia di Emile Durkheim e dalla filosofia di Lucien Lévy-Bruhl e dei loro rispettivi allievi, diretti o indiretti (Marcel Mauss, Robert Hertz, Maurice Leenhardt e altri); oppure dall’interesse di alcuni funzionari coloniali come Maurice Delafosse e Louis Tauxier per le culture e le lingue dell’Africa sub-sahariana.
L’etnografia
La seconda metà dell’Ottocento, che vede come si è detto l’affermarsi della prospettiva evoluzionista, segna anche il crescente sviluppo dell’etnografia, o “descrizione” dei popoli, intesa non come mera riflessione teorica o speculativa, ma come pratica di ricerca fondata sul contatto diretto con le popolazioni studiate. Durante il periodo 1860-1880 si assiste al moltiplicarsi dei lavori condotti specialmente nelle Americhe, in Africa, Asia e Oceania. I missionari occupano, in questo periodo, un posto preminente, affiancati spesso da funzionari coloniali o da militari. Negli Stati Uniti la ricerca si organizza invece grazie all’opera di semplici amateurs prima, e di inviati dalle istituzioni scientifiche poi (vedi il Bureau of American Ethnology) nelle riserve indiane. In altri Paesi, come ad esempio quelli di lingua tedesca, sono piuttosto medici e naturalisti a farsi etnografi “sul campo”. In Italia, personalità come quelle di Lamberto Loria viaggiatore, esploratore e collezionista (numerosi i reperti da lui riportati da Asia, Africa e Oceania), testimoniano della vivacità dell’etnografia anche nel nostro Paese. L’intensa attività di raccolta di informazioni condotta da queste variegate figure, sia missionarie sia laiche, si coniuga tuttavia raramente con teorie generali relative alla storia o al funzionamento delle istituzioni sociali e culturali. L’elaborazione teorica e speculativa è lasciata agli studiosi “da tavolino” i quali, in corrispondenza soprattutto con missionari e residenti coloniali, si avvalgono delle osservazioni di questi ultimi e delle loro ricerche il loco.
Una notevole eccezione è costituita, almeno in parte, dall’avvocato americano Lewis H. Morgan il quale, oltre a scrivere un’importante monografia sugli Irochesi della regione dei Grandi Laghi (La lega degli Irochesi, 1851) compie studi di grande portata sui sistemi terminologici di parentela in chiave comparativa (Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family, Sistemi di consanguineità e affinità della famiglia umana, 1871) anche a partire dalla propria personale esperienza etnografica tra gruppi di nativi nordamericani. Morgan redige anche, qualche anno più tardi, uno dei libri di maggior successo dell’evoluzionismo culturale: La società antica (1877), in cui tenta una ricostruzione delle tappe dell’evoluzione delle istituzioni politico-sociali collegandole alle diverse “tecniche di sussistenza” (caccia, pesca, allevamento, agricoltura). La maggior parte dei contemporanei di Morgan non ha comunque esperienza diretta di incontro con i popoli “primitivi” o barbari di cui scrivono. Alcuni di loro hanno viaggiato fuori dall’Europa (ad esempio Tylor) ma l’etnografia, in quanto pratica quotidiana di contatto con quelle popolazioni, rimane per lo più un’esperienza di missionari e di amministratori coloniali a cui si aggiungono, specialmente nel mondo di lingua tedesca, medici, naturalisti e geografi. R. Codrington, L. Fison, C. Strehlow tra i missionari, A. Bastian e K. von Den Steinen trai naturalisti e geografi, A. Howitt, W. B. Spencer, F. J. Gillen tra i funzionari e gli amministratori coloniali, sono coloro che, tra gli altri, si distinguono per la loro attività di ricerca anche nel campo della museografia, un aspetto importante dello sviluppo dell’etnologia della seconda metà dell’Ottocento.
Lewis Henry Morgan
L’evoluzione dell’umanità
La società antica
Le conclusioni cui giungono le ricerche più recenti sulla condizione primaria della razza umana tendono ad accreditare la tesi che l’umanità abbia cominciato la propria carriera muovendo dal gradino più basso della scala e progredendo poi dallo stato selvaggio fino alla civiltà attraverso lente accumulazioni di conoscenza sperimentale.
Che parti della famiglia umana siano vissute allo stato selvaggio è innegabile, come innegabile è l’esistenza di altre parti della famiglia stessa allo stato di barbarie, e di altre ancora a un livello di civiltà; e sembra altrettanto certo che quelle tre distinte condizioni siano connesse l’una con l’altra in una sequenza di progresso tanto naturale quanto necessaria. Inoltre, che questa sequenza possa dirsi storicamente vera per l’intera famiglia umana fino allo status raggiunto rispettivamente da ciascun ramo di essa, è reso probabile dalle condizioni sotto le quali interviene ogni progresso, nonché da quanto conosciamo circa l’avanzamento di alcuni rami della famiglia nel concorso di due o più fra tali condizioni.
Nelle pagine che seguono tenteremo di portare ulteriori prove della rozzezza della condizione primaria dell’umanità, della graduale evoluzione delle sue capacità mentali e morali attraverso l’esperienza, e del lungo protrarsi della sua lotta contro gli ostacoli che si frapponevano sul suo cammino verso la civiltà.
L. H. Morgan, La società antica, Milano, Feltrinelli, 1970
Etnologia e antropologia negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento
Alla fine del XIX secolo si verificano alcuni importanti cambiamenti in seno all’etnologia così come questa viene praticata sino ad allora a livello teorico, metodologico e organizzativo. Negli Stati Uniti, Franz Boas, immigrato dalla Germania negli anni 1880, fonda il primo dipartimento di antropologia presso la Columbia University di New York. I suoi studi, che lo avevano portato prima tra gli Eschimesi della Terra di Baffin e poi trai Kwakiutl della costa occidentale del Canada, sono profondamente impregnati dello storicismo tedesco, che costituisce lo sfondo teorico della sua critica alle teorie dell’evoluzione in campo culturale (I limiti del metodo comparativo in antropologia, 1896). Convinto che sia necessario studiare le società nel loro ambiente, nella storia e nella loro cultura specifica prima di poter avanzare ipotesi sulle“leggi” che ne guidano le trasformazioni, Boas critica decisamente i ricercatori fedeli alla visione di Morgan relativa agli “stadi” evolutivi della società. Il suo “particolarismo storico”, come sarà appunto chiamata la prospettiva da lui inaugurata, privilegia dunque lo studio sul campo, la raccolta di testi in lingua, l’indagine storica e la ricostruzione museale come testimonianza dello stile di vita, delle credenze, delle arti e dei riti di un popolo. Per Boas l’etnologia è parte integrante di una più ampia antropologia generale nella quale rientrano la linguistica, l’archeologia e l’antropologia fisica. Egli dà però grande rilevanza alla dimensione culturale dell’antropologia, cercando di imporre l’idea secondo cui la cultura è non solo ciò che guida le scelte adattive dell’uomo, ma anche quella secondo cui la cultura costituisce un campo espressivo autonomo e non soggetto ad alcuna interferenza di tipo biologico (“razziale”). Enorme sarà il suo influsso sull’antropologia culturale americana, e non solo, del Novecento, anche in virtù dell’uso che egli fa del concetto di cultura, come contrapposto a quello non scientifico di “razza”.
L’etnologia in Gran Bretagna
Intanto, profondi mutamenti investono, negli ultimi due decenni dell’Ottocento, l’ambiente scientifico britannico. L’intensificarsi dei contatti con le popolazioni dell’Impero promuove lo studio sistematico di questi ultimi e l’attività museografica. L’università di Cambridge organizza così, tra il 1898 e il 1899, una spedizione agli stretti di Torres, tra l’Australia e la Nuova Guinea, allo scopo di raccogliere testimonianze della cultura materiale delle popolazioni locali. La missione, guidata da Alfred C. Haddon, ha un successo inatteso, anche per la partecipazione di naturalisti, linguisti e, soprattutto, dell’etnologo William H.R. Rivers che avrà poi un ruolo determinante negli sviluppi della disciplina in Gran Bretagna nei primi anni del Novecento. L’impianto teorico dell’etnologia britannica di questo periodo resta ancorato ai presupposti dell’evoluzionismo, nello stesso momento in cui negli Stati Uniti ha invece inizio, come abbiamo visto, una nuova corrente di studi basata sul “particolarismo”. La fine dell’Ottocento è comunque segnata, in Gran Bretagna, dalla monumentale opera di James George Frazer, la cui influenza travalica quella degli studi etno-antropologici per estendersi alla letteratura e, forse, alla sensibilità stessa della tarda età vittoriana. Frazer pubblica nel 1890 Il ramo d’oro, un trattato in dieci volumi di impianto evoluzionista nel quale il grande studioso di Cambridge, attraverso una rivisitazione della letteratura classica e dell’etnografia (è in corrispondenza con molti degli etnografi prima nominati) compone una grandiosa ricostruzione di quello che per lui è il cammino del pensiero umano, dalla magia alla religione e, da questa, alla scienza.
James George Frazer
Sul perchè è importante lo studio della mitologia
Miti sull’origine del fuoco
La mitologia può essere forse definita come la filosofia dell’uomo primitivo. Si tratta del suo primo tentativo di rispondere a quelle domande generali riguardanti il mondo, le quali senza dubbio si sono imposte al pensiero umano fin dai tempi più antichi e continueranno ad occuparlo fino all’ultimo. Di conseguenza, il compito che la mitologia pone di fronte al cercatore è identico a quello che a uno stadio seguente è assunto dalla filosofia e, in una frase ancora successiva, dalla scienza. Circondati da misteri in ogni dove, siamo spinti come da un istinto invincibile a sollevare il velo che sembra celarli, nella speranza che, una volta tolto, si possa offrire alla vita la chiave di quel segreto che generazioni di ricercatori hanno tentato invano di scoprire. Si tratta di una ricerca senza fine, di un infinito susseguirsi di sistemi, mitici, filosofici e scientifici, baldanzosamente proposti e strenuamente difesi come fortezze costruite per l’eternità, che brillano per un attimo nello splendore di un arcobaleno e poi si dissolvono e dileguano come certe tele di ragno ai raggi del sole o nei gorgoglii di un fiume. (...)
Per essere completa, dunque, una storia della filosofia, e anche della scienza, dovrebbe cominciare con una riflessione sulla mitologia. L’importanza dei miti in quanto documenti del pensiero umano allo stato embrionale è ora generalmente riconosciuta, ed essi vengono raccolti e confrontati fra loro non più a scopo di mero divertimento, ma per la luce che gettano sull’evoluzione intellettuale della nostra specie. In questo lavoro di raccolta e di comparazione molto resta da fare affinché tutti i miti del mondo possano essere classificati e ordinati in un Corpus Mythorum nel quale, come in un museo, queste forme fossili dello spirito possano essere mostrate per illustrare una fase primitiva del cammino che il pensiero umano ha compiuto dai suoi umili inizi verso le vette ancora sconosciute. Insieme agli altri miei scritti, offro questo saggio quale contributo a quella grande paleontologia dello spirito umano che ancora deve essere scritta.
J.G. Frazer, Miti sull’origine del fuoco, Milano, Xenia, 1993
L’etnologia tedesca
In Germania, e più in generale nella Mitteleuropa, l’etnologia trova nuove declinazioni. Tradizionalmente positivista ma antievoluzionista (culturale), l’etnologia mitteleuropea, che ha soprattutto nel tedesco la lingua veicolare e un forte ancoramento alla “antropogeografia” di Friedrich Ratzel, si dedica allo studio della diffusione degli elementi culturali come motore principale della trasformazione storica. Il diffusionismo, come è stato appunto definito questo momento teorico, soprattutto, ma non esclusivamente, di lingua tedesca, è sostenuto dal lavoro di molti validi etnografi ma si presta in parecchi casi a speculazioni sulla trasmissione di tratti culturali specifici da un continente all’altro: speculazioni che, alla prova dei fatti, si rivelano spesso infondate e contraddittorie. Tra i diffusionisti di lingua tedesca va ricordato Fritz Graebner (1877-1934), studioso dell’Oceania e allievo dell’etnologo e museologo Leo Frobenius, a cui si devono le grandi raccolte di arte africana oggi custodite nei più importanti musei tedeschi di antropologia.
La prospettiva “diffusionista” avrà una più solida e circostanziata applicazione negli Stati Uniti nei primi due decenni del Novecento, dove gli etnologi studieranno la trasmissione dei tratti culturali tra gruppi di nativi nordamericani abitanti aree contigue. In Gran Bretagna, dove si sviluppa una corrente simile, si ha invece il fiorire, sempre nei primi anni del XX secolo, di opere fortemente speculative ma di grande successo dedicate alle migrazioni delle culture antiche verso l’America e l’Oceania, secondo una visione monogenetica della cultura centrata sull’antico Egitto come irradiatore di civiltà.
Verso la rivoluzione etnografica
Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del XX secolo si ha tuttavia una svolta fondamentale, una sorta di rivoluzione etnografica che avrebbe mutato la stessa visione dell’etnologia. Negli Stati Uniti, mentre Boas promuove lo studio delle culture nella loro specifica particolarità, in Gran Bretagna si va affermandosi la tendenza a concepire il lavoro di ricerca come un prolungato e intenso contatto con i nativi da parte di studiosi addestrati non solo alla raccolta dei dati etnografici, ma anche preparati sul piano teorico. Sta nascendo l’epoca dello studioso (l’antropologo) ricercatore sul campo e teorico al tempo stesso, una nuova figura che deve, anche grazie al consolidamento della posizione della disciplina nelle università, soppiantare le figure del missionario e dell’amministratore-etnografo, entrambi troppo interessati a trasformare la vita delle popolazioni da loro studiate: il primo a causa della sua stessa missione, ovvero l’evangelizzazione dei nativi; il secondo in virtù della sua troppo stretta compromissione con un potere, quello coloniale, interessato a provocare profondi cambiamenti nella vita dei popoli colonizzati. Benché avvantaggiato dalla relazione coloniale che lo pone in una posizione di forza nei confronti dei nativi, il nuovo antropologo rivendica una neutralità e un’obiettivà di giudizio scientificamente fondata che lo assolvono, sebbene solo idealmente, da ogni compromesso con il potere coloniale. Con la rivoluzione etnografica di questo periodo si aprono nuove prospettive nei metodi di indagine e nell’interpretazione dei fenomeni culturali, che porteranno, nell’arco della prima parte del Novecento, l’etnologia e l’antropologia (culturale e sociale) verso gli orizzonti del funzionalismo britannico, del configurazionismo americano e dello strutturalismo francese.
Bilancio dell’Ottocento
Da un punto di vista generale l’etnologia e l’antropologia del XIX secolo sono segnate, pur con le debite eccezioni, dall’impronta dell’evoluzionismo. Il declino della prospettiva evoluzionista in campo culturale è la conseguenza di uno spostamento d’interesse da parte degli studiosi che preferiscono concentrarsi, grazie all’applicazione di tecniche di ricerca più raffinate, sulle specifiche realtà etnografiche piuttosto che sulla ricerca di “leggi naturali” nello sviluppo delle istituzioni e della cultura. Ma è vero anche che il paradigma evoluzionista mostra una fragilità intrinseca, consistente nel fatto che troppo spesso le “leggi naturali” dell’evoluzione culturale vengono postulate a partire dall’andamento cumulativo e continuo di un progresso di tipo tecnologico e materiale (vedi Morgan). Queste leggi che poi regoleranno lo sviluppo della cultura altro non sono, dopotutto, che il prodotto della proiezione, a ritroso nel tempo, di un modo di interpretare lo sviluppo tecnico e scientifico della società europea del XIX secolo.
Riflettere sulla diversità e le somiglianze
L’etnologia e l’antropologia evoluzioniste, tuttavia, promuovono una riflessione sistematica sulla diversità e sulla somiglianza culturale che va alimentandosi sempre più della dimensione etnografica, quindi del contatto diretto con le popolazioni studiate. Grazie all’etnologia e all’antropologia del XIX secolo i cosiddetti selvaggi, i primitivi, i popoli ritenuti una volta degenerati o la cui considerazione è comunque superflua al fine di comprendere la storia umana, diventano la chiave per scoprire quei meccanismi, sociali e simbolici, che accomunano, pur con le debite differenze, il più rispettabile uomo europeo al più derelitto degli aborigeni australiani.