Etnologia mediterranea
All'interno della comunità scientifica internazionale l'e. m. è anche conosciuta come antropologia dell'area mediterranea poiché, come disciplina specialistica dell'antropologia più generale, l'e. m. è nata nel mondo anglosassone, soprattutto in Gran Bretagna, dove il termine etnologia era stato relegato da A.R. Radcliffe-Brown a designare lo studio storico delle popolazioni 'primitive'. L'interesse per le società e le culture del Mediterraneo da parte dei cultori delle scienze sociali e dell'antropologia non dovette attendere l'affermarsi dell'antropologia come disciplina moderna, negli anni Quaranta e Cinquanta del 20° secolo. Già nel secolo precedente numerosi studiosi, quali É. Durkheim, H.J.S. Maine, F. de Coulanges, E.A. Westermarck, W. Robertson Smith, scelsero come oggetto delle loro ricerche (ancora prevalentemente teoriche, prive cioè di indagine sul campo) aspetti particolari della vita socioculturale dei Paesi mediterranei. L'antropologia socioculturale, e anche l'etnologia - in Paesi come l'Italia, dove la scienza della società e della cultura aveva assunto questa denominazione - erano discipline che si occupavano tradizionalmente, in maniera prevalente quando non esclusiva, delle società cosiddette primitive, semplici, tecnologicamente arretrate, sprovviste di scrittura ovvero unità socioculturali che già nel 20° sec. erano scomparse o rischiavano di scomparire definitivamente sotto i colpi decisivi delle società occidentali.
Tuttavia, la disciplina antropologica, sin dalla sua fondazione, non abbandonò mai una sua velleità universalistica, né si relegò all'ambito dello studio delle società primitive. Il grande antropologo britannico E. Evans-Pritchard (1902-1973), africanista, autore di classici della disciplina sugli Azande, sui Nuer e sui Senussi, negli anni Cinquanta sosteneva apertamente che la disciplina antropologica si distingueva non per l'oggetto di studio, ma per il metodo: l'antropologo è colui che fa ricerca intensiva sul terreno, utilizza l'osservazione partecipante come tecnica d'indagine, e fa uso di tutti gli strumenti che ritiene necessari per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Quanto all'oggetto dell'indagine, esso può essere lo stesso sia nelle società semplici sia in quelle complesse. Evans-Pritchard fu anche colui che iniettò in un'antropologia sociale britannica alquanto sclerotizzata dallo struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown una nuova linfa. Propose di abbandonare l'idea di una disciplina intesa come 'scienza' al pari delle scienze naturali, come si era voluto fino agli anni Cinquanta, e soprattutto legittimò per gli studiosi della materia un approccio di tipo storico, anch'esso considerato, fino ad allora, non praticabile. Proprio con queste premesse, nell'ambiente oxfordiano dell'antropologia britannica alcuni giovani studiosi, anch'essi in prevalenza di formazione africanistica nelle precedenti esperienze, volsero lo sguardo alle società e alle culture del Mediterraneo.
È importante sottolineare come, all'indomani della Seconda guerra mondiale e con il processo di decolonizzazione, la tradizionale pratica antropologica nei Paesi già colonizzati dalle potenze occidentali fosse diventata assai difficile. L'antropologia era spesso percepita come disciplina troppo intimamente legata all'esperienza coloniale; i governi dei nuovi Stati indipendenti negavano i permessi per l'indagine antropologica sul terreno. Per molti studiosi, soprattutto giovani, si trattava di aprire nuove strade all'antropologia, e l'area mediterranea fu una di queste. Tra i pionieri che in Gran Bretagna si cimentarono nell'impresa, non sempre pienamente apprezzata dall'accademia, si segnalano studiosi come J.G. Peristiany, J.A. Pitt-Rivers, J.K. Campbell, P. Stirling, E. Peters.
Negli Stati Uniti, invece, vi fu un diverso approccio allo studio delle società mediterranee. È l'interesse per le società complesse e per il mondo contadino che si sviluppò già negli anni Venti e Trenta del 20° sec., per es. con R. Redfield (1897-1958), che sollecitò alcuni studiosi, soprattutto negli anni che seguirono la Seconda guerra mondiale, a scegliere come mete alcuni Paesi del Mediterraneo, e segnatamente l'Italia e il suo Mezzogiorno, 'arretrato' e contadino. D. Pitkin, L. Moss, J. Lopreato, E. Banfield sono alcuni tra gli studiosi d'oltreoceano che promossero indagini socioantropologiche nel nostro Paese.
Peristiany (1911-1987), cipriota di nascita e africanista, fu il vero fondatore dell'antropologia dell'area mediterranea. Convinto di dover registrare prima della loro definitiva scomparsa le società e le culture dei Paesi del Mediterraneo in rapida trasformazione e modernizzazione e convinto altresì che tali unità presentassero elementi socioculturali simili, meritevoli di essere studiati su un piano comparativo, Peristiany, con Pitt-Rivers, si fece promotore di incontri tra studiosi di differenti Paesi, i cui risultati furono pubblicati in alcune collezioni di saggi (Pitt-Rivers 1963; Peristiany 1965). Tali saggi costituirono la base di indagine per tutti gli antropologi che, da allora, si sono cimentati nella ricerca nei Paesi del Mediterraneo. Analogo effetto sortì dalla pubblicazione delle prime monografie frutto di indagini sul terreno, fra cui The people of the Sierra di Pitt-Rivers (1954; trad. it. 1976), Honor, family and patronage. A study of institutions and moral values in a Greek mountain community di Campbell (1964) e infine Belmonte de los caballeros. A sociological study of a Spanish town di C. Lison-Tolosana (1966). Si tratta di lavori che, dal punto di vista metodologico, uniscono la descrizione e l'analisi delle reti di relazioni sociali (struttura sociale) con i sistemi di idee e di valori a esse sottesi; le realtà studiate sono di tipo rurale - società di contadini e pastori -; la famiglia è l'unità centrale e di base; gli status e le identità maschili e femminili sono nettamente differenziati e in rapporto gerarchico; il clientelismo e il patronage costituiscono i rapporti politici prevalenti; infine una pervasiva preoccupazione per la reputazione sociale (la sindrome onore-vergogna, come è stata definita) appare come universo valoriale e ideologico dominante.
Se si dovesse in estrema sintesi definire l'area mediterranea 'vista' dagli antropologi, e conseguentemente caratterizzare la disciplina che quell'area ha studiato, si potrebbe citare il titolo della monografia di Campbell sui Sarakatsani dell'Epiro, sopra menzionata: Honor, family and patronage. Questi tre fenomeni racchiudono la realtà socioculturale dei Paesi del Mediterraneo e la loro descrizione e analisi legittimano l'esistenza, in vita e in accademia, di uno specifico ambito disciplinare dell'antropologia.
Nonostante gli studiosi dei Paesi dell'area, compresi i fondatori della disciplina, abbiano sempre negato che il Mediterraneo fosse un'area culturale omogenea, ritenendo che costituisse piuttosto un fertile terreno di ricerca comparativa giustificato dalle comuni condizioni ecologiche e da una millenaria storia di scambi e di intrecci di vario genere, di fatto gli interessi degli antropologi e i temi delle loro monografie hanno finito per configurare i Paesi del Mediterraneo proprio come un'area culturale, secondo la definizione data da C. Wissler negli anni Venti.
Nel 1977 J. Davis (n. 1938) pubblicò un testo consuntivo sullo stato dell'antropologia mediterranea. Da esso emerge un quadro impietoso: la disciplina ha fallito nel suo intento comparativo, ha negletto l'uso sistematico della storia, fondamentale nello studio di Paesi come Italia, Spagna o Grecia, ha mancato di connettere il microcontesto analizzato con la società più ampia. Davis tuttavia suggerisce anche la strada per uscire da tale situazione critica e altre monografie hanno in seguito superato alcune delle manchevolezze segnalate. Fu questo comunque l'inizio di una serie di interventi assai critici verso la disciplina, che ne hanno messo seriamente in dubbio la conoscenza scientifica. Tra l'altro, il fallimento dell'intento comparativo, pur così strutturalmente intrinseco alla pratica antropologica più generale, ha portato a una separazione non teorizzata, ma di fatto esistente tra coloro che si occupano della parte settentrionale del bacino mediterraneo, e coloro che invece studiano, per es., le realtà del Maghreb o del Mediterraneo orientale.
J.R. Llobera (1986), J. de Pina-Cabral (1989) e V.A. Goddard (1994), tra gli altri, hanno espresso giudizi assai severi sull'antropologia dell'area mediterranea, mettendo in evidenza l'inadeguatezza degli studi 'di villaggio', l'incapacità di prendere in considerazione un Mediterraneo urbano, industriale ed economicamente avanzato, la preferenza 'passatista' che incentrava lo studio sugli aspetti tradizionali, la miopia etnocentrica di alcuni studiosi che etichettavano come mediterranei fenomeni presenti nei loro stessi Paesi di provenienza, anglosassoni, nordici e così via.
L'antropologia mediterranea, così come era stata pensata ai suoi inizi, è venuta meno negli anni Ottanta, per manchevolezze e limiti interni, quali un'ambigua insistenza sull'unità culturale del Mediterraneo (Honor and Shame and the Unity, 1987) e un ambito d'indagine ristretto, come quello definito dalla sindrome onore-vergogna. E anche perché, a livello più generale, si è imposta un'antropologia relativista e interpretativa che non favorisce le teorizzazioni su vasta scala.
Al principio del 21° sec. gli studiosi hanno continuato a fare ricerca nel Mediterraneo, in due prospettive diverse ma complementari. Da un lato, i Paesi mediterranei sono stati prescelti come un terreno (L'anthropologie de la Méditerranée, 2001) sul quale studiare, magari su una base comparativa ristretta, i peculiari fenomeni sociali e culturali: le trasformazioni negli istituti matrimoniali e parentali (Solinas, Grilli 2000), i movimenti che su base locale o regionale si oppongono alla globalizzazione (Pratt 2003), i fenomeni migratori che collegano le due sponde meridionale e settentrionale del Mediterraneo, con un'attenzione particolare all'analisi di genere (Gender and migration, 2000), il turismo come fenomeno di massa e il rapporto tra hosts e guests (Coping with tourists, 1996), il rapporto tra cultura locale e tematiche ambientali (Theodossopoulos 2003; Argyrou 2005). Dall'altro, lo studio dei fenomeni socioculturali in area mediterranea viene visto sempre di più in una chiave europea. Ciò avviene in primo luogo perché nel vecchio continente il processo di integrazione europea, nell'Unione, e l'allargamento progressivo, hanno prodotto un vasto terreno comune e potenzialmente assai fertile per l'analisi comparativa. Questo è un processo che conduce verso un'antropologia dell'Europa. Ancora una volta, i temi preferiti per l'analisi antropologica sembrano essere quelli legati al rapporto tra identità locali, regionali, nazionali, e da un'identità europea in buona misura ancora da costruire (Shore 2000); ma anche alle migrazioni transnazionali con riferimento alle istituzioni europee (Castles, Davidson 2000) e alle trasformazioni nell'organizzazione della famiglia (Goody 2000).
Un'etnologia dunque non più del Mediterraneo, ma nel Mediterraneo. Come parte dell'Europa o, comunque, in dialogo con essa.
Bibliografia
Mediterranean countrymen, éd. J.A. Pitt-Rivers, Paris 1963.
Honour and shame: the values of Mediterranean society, ed. J.G. Peristiany, London 1965.
J. Davis, People of the Mediterranean: an essay in comparative social anthropology, London 1977 (trad. it. Antropologia delle società mediterranee. Un'analisi comparata, Torino 1980).
J.R. Llobera, Fieldwork in southwestern Europe: anthropological panacea or epistemological straitjacket, in Critique of anthropology, 6, 1986, pp. 25-33.
Honor and shame and the unity of the Mediterranean, ed. D. Gilmore, Washington 1987.
J. de Pina-Cabral, The Mediterranean as a category of regional comparison: a critical wiew, in Current anthropology, 1989, 3, pp. 399-406.
V.A. Goddard, From the Mediterranean to Europe: honour, kinship and gender, in The anthropology of Europe, ed. V.A. Goddard, J.R. Llobera, C.Shore, Oxford-Providence (RI) 1994.
Coping with tourists, ed. J. Boissevain, Oxford-Providence (RI) 1996.
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J. Goody, The European family: an historico-anthropological essay, Oxford-Malden (Mass.) 2000 (trad. it. La famiglia nella storia europea, Roma 2000).
C. Shore, Building Europe: the cultural politics of European integration, London 2000.
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Gender and migration in southern Europe: women on the move, ed. F. Anthias, G. Lazaridis, Oxford-New York 2000. L'anthropologie de la Méditerranée, Actes du colloque, Aix-en-Provence 1997, sous la direction de D. Albera, A. Blok, C. Bromberger, Paris 2001.
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