Etnologia
sommario: 1. Oscillazioni terminologiche. 2. Le dimensioni anthropos e ethnos. 3. L'attrazione dell'antropologia. 4. Convergenze sul terreno. 5. Un presente prima della modernità. 6. Dall'etnologia all'etnografia. □ Bibliografia.
1. Oscillazioni terminologiche
Allorché si considera l'etnologia nella cultura scientifica del Novecento, l'aspetto che si coglie fin da subito e con uno sguardo dall'esterno è il problema terminologico della sua definizione. ‛Etnologia' o non piuttosto ‛antropologia' (culturale o sociale)? Se ‛etnologia', perché anche ‛etnografia' (o viceversa)? Quali sono i nessi e quali le differenze tra ‛antropologia', ‛etnologia', ‛etnografia'? Sono ‟problemi di definizione" che significativamente anche Claude Lévi-Strauss si pone all'inizio dell'articolo da lui redatto per questa stessa opera (v. antropologia). In linea con quanto andava sostenendo già da tempo in altri suoi lavori, la proposta di Lévi-Strauss consiste nella formulazione di un ordine gerarchico, che va dal particolare al generale, dal concreto all'astratto: etnografia, etnologia, antropologia rappresentano tre stadi, tappe o momenti di una medesima ricerca, tre livelli sovrapposti che la ricerca istituisce a partire dall'osservazione e descrizione di gruppi umani particolari (etnografia), per giungere, passando attraverso la sistematizzazione e lo studio comparativo dei materiali etnografici (etnologia), alle questioni più generali attinenti la ‟conoscenza generale dell'uomo" (antropologia) (v. Lévi-Strauss, 1975, p. 203). Lo stesso Lévi-Strauss riconosce tuttavia che ‟questo accordo sulla terminologia [...] rimane relativo", lasciando intendere che la questione terminologica non è del tutto risolta. Nelle faccende relative ai nomi disciplinari - talvolta disdegnate dai diretti interessati - si nascondono in realtà questioni di grande rilievo, il cui significato è per un verso di ordine teoretico e per un altro di ordine pratico. Stabilire nomi per le discipline scientifiche significa quasi inevitabilmente non soltanto realizzare accordi all'interno di determinate comunità scientifiche, ma anche esprimere idee circa i confini di un certo sapere, i suoi obiettivi, le sue pretese, avanzare proposte di alleanze, far intuire, se non proprio dichiarare, quali siano i criteri e le prospettive epistemologiche mediante cui si intende che siano avallate le proprie ricerche.
L'etnologia - nome tipicamente ottocentesco, che comincia a essere utilizzato, insieme a quelli di etnografia e di antropologia, dallo svizzero A. C. de Chavannes (v., 1787) alla fine del XVIII secolo - è rimasta coinvolta nelle rivendicazioni di diverse e opposte comunità scientifiche che, sia nell'Ottocento sia nel Novecento, si sono contese l'area del sapere antropologico. Un dato, infatti, colpisce fin da subito: la nascita e lo sviluppo dell'etnologia manifestano una stretta connessione con l'antropologia, con il modo in cui questa viene intesa e praticata. Fino a che l'antropologia era un argomento trattato soltanto dalla comunità dei filosofi, il suo campo non è mai parso molto importante. Ma da quando l'antropologia si è configurata come una disciplina dotata di un proprio programma scientifico, sul quale si sarebbero costituite comunità di scienziati, l'etnologia ha cominciato ad apparire come un programma alternativo e, al contempo, come una parte imprescindibile dello stesso programma antropologico.
Alcune date sono significative. Nel 1799 sorge a Parigi la Société des Observateurs de l'Homme (che durerà solo fino al 1805). Nel 1822 la British Association for the Advancement of Science di Londra istituisce al suo interno una sezione il cui nome è anthropology. Nel 1839 viene fondata a Parigi la Société Ethnologique; nel 1842 appare negli Stati Uniti l'American Ethnological Society; nel 1843 è istituita l'Ethnological Society of London. Nel 1859 Paul Broca, nella lezione inaugurale da lui tenuta presso l'École d'Anthropologie di Parigi, presenta una scienza di sintesi, in cui confluiscono la razziologia, la preistoria, la linguistica, l'etnografia (v. Poirier, Histoire..., 1968, p. 33). Nel 1862 si costituisce l'Anthropological Society of London, per un decennio rivale dichiarata dell'Ethnological Society. Nel 1869 Rudolph Virchow e Adolf Bastian organizzano a Berlino la Gesellschaft für Anthropologie, Ethnologie und Urgeschichte, che pubblica un suo giornale, la ‟Zeitschrift für Ethnologie". Nello stesso anno Paolo Mantegazza fonda a Firenze la Società Italiana per l'Antropologia e l'Etnologia. Nel 1871, sotto gli auspici di Thomas Huxley, le due società di Londra (l'Ethnological Society e l'Anthropological Society) si fondono sotto il nome di Anthropological Institute of Great Britain and Ireland. Nel 1873 una sottosezione dell'American Association for the Advancement of Science sostituisce il termine ethnology con anthropology. Nel 1879 John W. Powell fonda negli Stati Uniti il Bureau of American Ethnology.
Già da questi dati emerge una situazione che non si avrebbe difficoltà a definire ‛pre-paradigmatica', a causa delle incertezze, delle indeterminazioni e degli stessi conflitti che animavano la vita di queste associazioni. Ma, al di là della competizione tra antropologia (intesa in primo luogo come antropologia fisica) ed etnologia, ciò che caratterizza il dibattito ottocentesco è la persistenza e l'imprescindibilità della dimensione etnologica, anche quando - nel clima positivistico dell'epoca - sembra prevalere il paradigma antropologico. Il trentennio 1840-1870 è stato chiamato da Sol Tax (v., 1964; tr. it., p. 3) ‟una ‛guerra dei trent'anni': una guerra tra due parole, etnologia e antropologia; una guerra tra gli storici e i filosofi da una parte, e i fautori della scienza, in particolare della biologia, dall'altra". È significativo ricordare ciò che avvenne a Londra. Secondo la ricostruzione fattane dall'antropologo francese Paul Broca la ‟Società Etnologica di Londra stava proseguendo tranquillamente i suoi lavori, quando la lettura delle nostre [della Société d'Anthopologie di Parigi] pubblicazioni suscitò nel suo seno il desiderio di aggiungere la moderna antropologia al vecchio programma di etnologia. Ma i membri più influenti si opposero [...] all'introduzione dell'anatomia e della storia naturale" (ibid., p. 6). Dopo la scissione e successiva riunificazione, ‟in Inghilterra gli ‛etnologi', più che gli ‛antropologi', divennero i leaders nell'Istituto Antropologico in cui si fusero" (ibid., p. 10). A motivare contrasti, scissioni ed eventuali riunificazioni vi erano questioni a quel tempo molto gravi ed attuali, come l'atteggiamento anti-schiavista adottato da molti membri delle Società Etnologiche di Parigi e di Londra, che agli occhi degli antropologi era di ostacolo alla ricerca della verità; e vi era anche il diverso peso delle due parole, antropologia ed etnologia.
2. Le dimensioni anthropos e ethnos
Rispetto all'antropologia filosofica, il programma dell'antropologia scientifica provoca un vistoso spostamento di baricentro: la natura umana è indagata nelle sue manifestazioni razziali quali appaiono nei diversi continenti. Concepita ‛scientificamente', la dimensione anthropos viene sganciata da prospettive di ordine teologico o filosofico e collocata invece in una prospettiva biologica: il discorso sull'uomo si presenta allora come una scienza relativa alle articolazioni ritenute fondamentali dell'umanità, ossia le divisioni razziali.
In questa visione antropologica, se da un lato si assiste a una riduzione di tipo biologizzante, dall'altro si determina un'espansione che va oltre i confini tradizionali della civiltà occidentale. In questa espansione, la nuova antropologia non poteva non incontrare e interagire con forme di sapere - la geografia, la linguistica, l'archeologia preistorica e, in modo più esplicito, l'etnologia - che spostavano i propri interessi al di là dei confini della civiltà occidentale o dei suoi prodotti storici più significativi. Ben difficilmente sarebbe stato possibile proporre un programma antropologico (un discorso ‛scientifico' sull'uomo) che non tenesse conto di queste ulteriori dimensioni, e soprattutto della dimensione evocata dall'etimo stesso di ethnos. Questa nuova esigenza è testimoniata anche dalla fusione nel Royal Anthropological Institute della Società Etnologica e della Società Antropologica, come pure dalla compresenza di antropologia e di etnologia nel nome delle Società di Berlino e di Firenze (fondate entrambe nel 1869). Per quanto opposte e conflittuali, antropologia ed etnologia risultano spesso appaiate, se non intrecciate.
‛Etnologia' ha una radice etimologica diversa da ‛antropologia': di per sé essa non indica un discorso generale sull'uomo, ma un discorso o un sapere scientifico sugli uomini in quanto raggruppati in popoli. Specialmente in Germania, dove l'etnologia è stata definita anche Völkerkunde, l'attenzione per ciò che è specifico di un insieme di individui, caratterizzato da tratti distintivi e peculiari (sotto il profilo storico, linguistico, culturale), si è imposta come un approccio che ha indubbiamente intersecato la prospettiva di tipo più esplicitamente antropologico. Quest'ultima, per la sua stessa impostazione biologica, tende a superare con maggiore disinvoltura le più dettagliate articolazioni etniche; la prospettiva etnologica viene invece più fortemente richiamata da queste divisioni, fatte coincidere con insiemi di costumi peculiarizzanti.
Anche l'antropologia scientifica (di tipo biologico) riconosce - come si è visto - scarti e divisioni; ma questi si collocano sul piano somatico, mentre le divisioni e gli scarti etnologici si collocano sul piano etico, sociale e culturale. Uno dei problemi principali del programma scientifico dell'antropologia è stato indubbiamente quello delle possibili connessioni tra le articolazioni antropologiche e le articolazioni etnologiche. E proprio questo aspetto del programma ha determinato una delle più forti tensioni tra l'antropologia scientifica (fisica) da un lato e l'etnologia dall'altro. Se il programma antropologico dell'Ottocento (delineato in gran parte da studiosi di formazione medica e biologica) ha avuto il merito di riconoscere e prevedere la dimensione ethnos, con tutto il suo corredo di costumi frastagliati e diversi, ben presto questa dimensione si è dimostrata come un terreno troppo ricco e variegato per essere affrontato con le categorie e gli strumenti di cui l'antropologia - disciplina leader della comunità per il suo più forte appello a criteri di scientificità - disponeva. Prima o poi, era inevitabile che si ponesse il problema del rapporto epistemologico tra una prospettiva fortemente generalizzante e riduttiva (per la sua impostazione biologica), quale quella dell'antropologia, e una prospettiva, quale quella dell'etnologia, maggiormente particolarizzante e costretta a occuparsi di oggetti non solo più particolari, locali, ma anche più evanescenti, molteplici, eterogenei, refrattari a riduzioni di ordine fisico e biologico, spesso in apparenza assurdi (come potevano essere costumi, pratiche, credenze, raccolti nelle più disparate parti del mondo).
Se la persistenza dell'etnologia nel quadro dell'antropologia ottocentesca è testimonianza della sua imprescindibilità per le comunità scientifiche che si attribuivano la qualifica ‛antropologica', i caratteri che l'etnologia dell'Ottocento ha assunto denunciano però un disagio determinato propriamente dalla carenza o dall'inadeguatezza, sul piano etnologico, degli strumenti forniti dalla disciplina leader. Per un verso, gli antropologi più avvertiti ammettevano (come fece in Italia Paolo Mantegazza: v., 1906) l'ineludibile necessità di incrementare la prospettiva antropologica in direzione etnologica; per un altro, affiorava sempre più la convinzione che sarebbe stato opportuno riconoscere l'esistenza di un maggiore distacco o di una più dichiarata eterogeneità di oggetti e di intenti tra le due discipline.
L'etnologia ottocentesca e in parte quella del primo Novecento - basti pensare alle sterminate opere di Gustav Klemm (v., 1843), di Theodor Waitz (v., 1858-1871), di Adolf Bastian (v., 1860), di James G. Frazer (v., 1890 e 1911-1915), per citare solo alcuni esempi - presentano infatti le seguenti caratteristiche: a) una pronunciata dimensione di ‛viaggio' in quasi tutte le regioni etnologiche del globo, compiuto quasi esclusivamente (eccetto il caso di Bastian) attraverso la documentazione libraria; b) un affastellamento di dati o notizie curiose, meravigliose, talvolta assurde (una somma di costumi strani e bizzarri); c) un'elaborazione di teorie spesso cervellotiche e avventate. Sembra di poter dire che l'avvertimento di Kant nella sua Antropologia pragmatica (quello di far precedere un'adeguata elaborazione teorica all'esplorazione e alla raccolta dei dati, così da acquisire preventivamente prospettive di ordine generale) sia stato in buona parte disatteso. Affascinata dal diverso e dall'esotico e collocata in un contesto disciplinare in cui la leadership dell'antropologia ‛scientifica' manifestava in buona misura la sua inadeguatezza, l'etnologia andava, per così dire, all'avventura e quasi allo sbaraglio. Questo viaggio conoscitivo verso altre realtà e altre manifestazioni umane, verso altri popoli e altri costumi aveva il merito di aprire l'antropologia del tempo al mondo sterminato della più variegata e profonda alterità: indicava una via, che si sarebbe dimostrata obbligata per ogni antropologia futura, spalancando il campo immenso dei fenomeni umani che già da allora sollecitavano una spiegazione, una qualche comprensione. Ma l'etnologia del tempo non è stata in grado di fare altro che predisporre contenitori concettuali troppo ampi e generali, in cui i materiali troppo spesso rischiavano di essere buttati un po' alla rinfusa. Vi era, in quell'etnologia, un'ansia di mettere le mani su una massa così intricata e vasta di dati che soltanto l'ordine fittizio, artificioso e arbitrario delle collocazioni museali (i musei etnologici sono tipici di quegli anni) dava l'illusione di poter padroneggiare.
3. L'attrazione dell'antropologia
Nei primi decenni del Novecento, l'etnologia sceglie altre alleanze. Il distacco dall'antropologia come disciplina leader apre alcune alternative; ma il processo di autonomizzazione non sempre e non ovunque si trasforma in una competizione per il nome di ‛antropologia'. Lo spostamento dell'etnologia verso la storia, quale si verifica soprattutto nell'area di lingua tedesca, lascia per lo più intatto il principio che antropologia è e rimane l'antropologia fisica. Allo stesso modo, l'avvicinamento dell'etnologia alla sociologia (quale ha luogo prevalentemente nella cultura francese, ad opera di Émile Durkheim) non pone in discussione il carattere fisico e biologico di ciò che, ormai per consolidata convenzione, si intende con il termine antropologia. Né in un caso, né nell'altro, l'etnologia, alleata ora alla storia ora alla sociologia (a cui si ispira, o da cui pretende di derivare metodi e tipo di impostazione), ritiene di dover contendere all'antropologia fisica l'esclusività della qualifica ‛antropologica'.
Per quanto riguarda l'Italia, intellettualmente più affine (anche per ragioni filosofiche) alla cultura tedesca, l'etnologia viene ritenuta essenzialmente un sapere di tipo storico e viene generalmente accettata la distinzione terminologica tra due discipline (antropologia ed etnologia) considerate ormai autonome. Negli esponenti di maggiore spicco dell'etnologia italiana del Novecento (si pensi a Vinigi Grottanelli e alla sua scuola) si avverte anzi una certa riluttanza, e quasi un fastidio, nell'affrontare la problematica terminologica in cui è implicata l'etnologia; si ritiene infatti ormai acquisita e non più discutibile la distinzione di natura disciplinare tra antropologia ed etnologia, e quindi superflua e oziosa un'eventuale ridiscussione giudicata meramente nominalistica, se non al fine di precisare convenzioni sufficientemente consolidate (v. Grottanelli, 1965 e Ethnology and/or..., 1977).
Nella storia degli studi italiani, può essere in effetti rintracciato un episodio significativo in cui si sancì, a seguito dello ‟sviluppo odierno delle Scienze antropologiche [...] una distinzione fondamentale universalmente riconosciuta tra Antropologia e Etnologia" (v. Sergi, 1947, p. 7), facendo voti nel contempo che gli insegnamenti delle due discipline venissero impartiti in modo separato. Era l'anno 1932, e la decisione fu assunta nella XXI Riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze. Ma per quanto chiaro fosse l'accordo a livello nazionale, l'inchiesta internazionale promossa dalla Società Romana di Antropologia con l'invio di un questionario per raccogliere ‟l'opinione dei cultori delle scienze antropologiche sulla terminologia e divisione delle scienze dell'uomo" (ibid., p. 5) era il sintomo, e fu poi la prova, di discrepanze nel modo di intendere i rapporti tra antropologia ed etnologia. In particolare, per gli studiosi americani che risposero al questionario (Franz Boas, Roland Dixon), anthropology, senza aggettivi, era di per sé una categoria più ampia e inclusiva dell'antropologia fisica (o biologica): non tanto il nome di una disciplina, quanto un insieme articolato di discipline distinte, entro il quale rientravano, a pari titolo, l'antropologia fisica, l'archeologia, l'etnologia (ovvero lo studio culturale dell'uomo), la linguistica (ibid., pp. 12 e 17-18). Del resto, anche nel Regno Unito l'antropologia fisica era stata privata del monopolio dell'aggettivo ‛antropologico'. Fin dal 1908 l'Università di Liverpool aveva affidato a sir James G. Frazer l'insegnamento di ‛antropologia sociale': se l'aggettivazione sta a indicare uno spostamento di interesse verso la sociologia, come è attestato dalla lezione inaugurale dello stesso Frazer (v., 1909), il sostantivo (antropologia) manifesta un convincimento e una rivendicazione ormai già sufficientemente consolidati (l'Anthropology, senza aggettivi, di Edward B. Tylor - v., 1881 - era in gran parte dedicata a questioni ‛culturali', non biologiche).
Si trattava di questioni puramente nominalistiche o non piuttosto di una diversa classificazione concettuale, di un diverso modo di intendere e sistematizzare i rapporti tra le categorie disciplinari? E questa diversa classificazione non traduceva forse un diverso rapporto di forza tra le comunità scientifiche interessate, o quanto meno un diverso tipo di ambizioni che esse nutrivano? Se nel continente europeo l'etnologia aveva guadagnato una propria configurazione autonoma - al costo, peraltro, di lasciare agli antropologi fisici la prerogativa di rappresentare l'antropologia tout court - nel contesto nordamericano e in Gran Bretagna gli studiosi di etnologia si videro posti sullo stesso piano degli antropologi fisici per quanto riguarda la rivendicazione del titolo ‛antropologico'. Questa possibilità di rivendicazione generalizzata del titolo ‛antropologico' in America è ulteriormente ribadita da Sol Tax all'inizio degli anni sessanta: ‟Che siamo archeologi o linguisti, studiosi delle arti o della geografia, che studiamo il comportamento dei babbuini o le sottigliezze della mente umana, noi ci chiamiamo antropologi" (v. Tax, 1964; tr. it., p. 11). Ma non è soltanto questione del rapporto tra etnologia e antropologia; dallo schema proposto si intuisce che vi è anche un problema nel rapporto tra etnologia e antropologia culturale (negli Stati Uniti) e tra etnologia e antropologia sociale (in Gran Bretagna o nei paesi del Commonwealth).
Nella prefazione a The history of ethnological theory, Robert Lowie (v., 1937, p. VII) scriveva: ‟il presente trattato è esplicitamente dedicato soltanto a quella parte dell'antropologia (così come il termine è inteso nei paesi di lingua inglese) che riguarda la cultura". Per tutto il libro (come già il titolo del resto afferma a chiare lettere) l'autore parla soltanto e rigorosamente di etnologia, anche là dove (come nell'ultimo capitolo) si impegna a delineare le prospettive future della disciplina. Ma se l'etnologia è parte dell'antropologia, ed è quella parte che si occupa della cultura (così come parte soltanto dell'antropologia è l'antropologia fisica), anche lo studio della cultura umana poteva allora rivendicare lo stesso titolo di antropologia; in tal modo l'etnologia si connetteva a una nuova disciplina, l'‛antropologia culturale'. Ma ciò si era già verificato - sia per una esigenza di simmetria nei confronti dell'antropologia fisica, sia per un effetto di trascinamento e di attrazione esercitato dal titolo generale di antropologia - molti anni prima del testo di Lowie. Non è escluso che l'insistenza di Lowie nel mantenere il termine etnologia nel suo libro del 1937, pur avendo egli già riflettuto e dibattuto sull'antropologia culturale (v. Lowie, 1936), esprimesse un'intenzione di continuità e di collegamento con gli studiosi dell'Europa continentale (specialmente tedeschi), per i quali l'etnologia, ormai da tempo distinta dall'antropologia fisica, rappresentava un campo disciplinare del tutto autonomo. Ma negli Stati Uniti l'etnologia si trova inserita nella seconda delle ‟due grandi divisioni dell'antropologia", le quali sono ‟l'antropologia fisica e l'antropologia culturale" (v. Mason, 1908, p. 187).
E questa diversa classificazione scientifica è indubbiamente la fonte delle sovrapposizioni, delle esitazioni o degli equivoci terminologici tra antropologia (culturale) ed etnologia che segnano un po' tutta la storia di questa disciplina nel corso del Novecento. In effetti, non pare che si possa sostenere la tesi di una perfetta o totale interscambiabilità tra le due denominazioni (v. Grottanelli, Ethnology and/or..., 1977), e questo né dal punto di vista degli etnologi e antropologi culturali americani, e neppure tra antropologia culturale americana ed etnologia dell'Europa continentale. La sovrapposizione c'è, ma è solo parziale. La connessione esiste, ma non è tale da indurre gli Americani ad abbandonare il vecchio (ottocentesco) nome di etnologia e sostituirlo sic et simpliciter con quello (più moderno e novecentesco) di antropologia culturale. Nel 1916 Edward Sapir iniziava proprio con l'espressione ‛antropologia culturale' il suo importante saggio sull'adozione di una prospettiva temporale nell'etnologia nordamericana. Ma nelle stesse pagine introduttive il termine etnologia compare diverse volte per indicare studi che forniscono materiali grezzi, dati di partenza che si possono cogliere mediante ricerche mirate sulle varie etnie dell'area considerata (v. Sapir, 1968, pp. 391 ss.). Perché - viene da chiedersi - il nuovo nome ‛antropologia culturale' non ha sostituito del tutto il termine ‛etnologia', il quale ha invece persistito a lungo, accodandosi spesso a quello di antropologia culturale, e addirittura rivendicando una sua specificità e consistenza, come è testimoniato per esempio dal titolo (A history of ethnology) che Fred W. Voget (v., 1975) ha voluto dare alla sua ampia ricostruzione del pensiero antropologico? Non è una questione di interscambiabilità (tesi che farebbe pensare a una sorta di inerzia, di diseconomicità terminologica); si tratta invece di un principio di irrinunciabilità della dimensione più propriamente etnologica nei confronti di programmi antropologici, siano essi quelli formulati dall'antropologia fisica dell'Ottocento o quelli dell'antropologia culturale e sociale del Novecento.
Non c'è dubbio, però, che vi sia maggiore continuità tra etnologia e antropologia culturale (in America) che non tra etnologia e antropologia sociale (in Gran Bretagna). Spostandosi verso la sociologia (la positivistica scienza della società, quale era stata delineata da Auguste Comte, da Herbert Spencer, da Émile Durkheim), l'antropologia sociale prende maggiormente le distanze dall'etnologia. In Gran Bretagna, agli inizi degli anni venti, fu Alfred R. Radcliffe-Brown a sostenere con particolare rigore la distinzione tra etnologia e antropologia sociale: la prima, caratterizzata da obiettivi e da metodo storico, volta alla ricostruzione di fasi, di momenti, di processi particolari; la seconda, invece, tesa a scoprire, con metodo induttivo, le ‟leggi generali" della vita sociale (v. Radcliffe-Brown, 1958; tr. it., pp. 30 e 47). Lo stesso Radcliffe-Brown rimarcava la differenza tra l'impostazione dei suoi colleghi americani (Boas, Kroeber, Lowie, Sapir) - che designava complessivamente con l'espressione ‟antropologia-etnologia", al fine di evidenziare la continuità e la vicinanza, quasi l'interscambiabilità, tra i due termini - e la propria impostazione, secondo la quale l'antropologia sociale abbandona programmaticamente interessi di tipo storico-ricostruttivo, adotta ‟i metodi logici delle scienze naturali" e si presenta fondamentalmente come una ‟sociologia comparativa" (ibid., pp. 39, 47 e 156). Radcliffe-Brown si spingeva addirittura fino al punto di sostenere che, mentre l'etnologia non può fare a meno dell'antropologia sociale, in quanto è quest'ultima a fornire gli inquadramenti teorici, i presupposti, le leggi generali, ‟l'antropologia sociale può fare a meno dell'etnologia" (ibid., p. 49). Eppure, nonostante questa evidente, massiccia sottovalutazione dell'etnologia da parte di un autore che aveva scommesso sulla scientificità dell'antropologia sociale, anche per Radcliffe-Brown l'etnologia manifestava un carattere di irrinunciabilità; essa - che, come l'antropologia sociale, richiede ‟studi sul campo" - finiva anzi con l'assumere ‟una posizione centrale" nel novero delle scienze antropologiche (ibid., pp. 118-119). È ben vero che in un congresso del Royal Anthropological Institute dedicato al futuro dell'antropologia ‟non c'era nessuno che parlasse del futuro dell'etnologia", ma - concludeva Radcliffe-Brown - ‟se l'etnologia continuerà ad esistere essa costituirà un terreno d'incontro per archeologi, antropologi fisici, studiosi di linguistica e antropologi sociali" (ibid., pp. 119 e 125). In effetti, rispetto a un'antropologia sociale protesa alla scoperta scientifica delle leggi generali, l'etnologia non poteva non rappresentare un irrinunciabile ancoraggio descrittivo dei vari contesti sociali particolari, specialmente quando questi fossero ormai travolti dai contatti e dalle trasformazioni storiche.
4. Convergenze sul terreno
Nel 1911 Fritz Graebner aveva dato alle stampe Methode der Ethnologie, un testo importante e decisivo per l'etnologia di lingua tedesca e dunque per buona parte dell'etnologia elaborata allora nel continente europeo, a tal punto che, ancora alcuni decenni dopo, esso appariva - agli occhi di padre Wilhelm Schmidt (v., 1937; tr. it., p. 37) - come un'opera ineguagliata sul piano metodologico, avendo essa esposto con sistematicità ‟il metodo stesso" dell'etnologia. Si trattava di un'etnologia chiaramente e volutamente storica, una moderne Ethnologie - secondo il titolo di una serie di saggi dello stesso Schmidt (v., 1906) - la quale avvertiva fortemente l'esigenza di avvalersi di una serie di strumenti e di criteri per superare i suoi due maggiori ostacoli: l'apparente eterogeneità dei materiali e la mancanza di documentazioni scritte. L'etnologia aveva da sempre dovuto confrontarsi con l'enorme eterogeneità dei suoi materiali da un lato e con la sorprendente ricorrenza di certi tratti dall'altro. Ma la risposta data, ad esempio, da Adolf Bastian, a questo tipo di problemi - basata sull'esistenza di ‟idee elementari", prova dell'unità psichica del genere umano - suonava come troppo intrisa di psicologismo e insufficiente sul piano storico.
Affinità e analogie tra culture diverse, ancorché molto lontane tra loro, avrebbero dovuto essere interpretate come testimonianze di contatti storici, purché si fossero rispettati i criteri della qualità o della forma (degli oggetti rinvenuti) e della quantità (somiglianza non di un singolo oggetto, ma di una quantità di elementi culturali). Per il diffusionismo tedesco non si tratta di far derivare geneticamente un tipo di oggetto da un altro, ma di cogliere insiemi culturali (i cosiddetti Kulturkreise, o ‛cicli culturali'), i quali contengono organicamente una pluralità di oggetti, di istituzioni e di credenze. Tutta la storia della cultura umana ha da essere intesa sulla base della formazione di un numero limitato di Kulturkreise (a partire da quello più primitivo dei Pigmei dell'Asia e dell'Africa), i quali, con le migrazioni dei popoli, si sarebbero scontrati e sovrapposti, così da determinare una serie di ‛strati culturali' (Kulturschichten). Nel mondo eterogeneo e frammentato dei popoli senza scrittura si cominciava così a intravedere un ‛ordine' che non era più quello degli stadi del cosiddetto evoluzionismo unilineare ottocentesco (Morgan, Tylor), ma un ordine che si riteneva saldamente fondato sulla consistenza, sui contatti, sulle connessioni e sulle stratificazioni storiche dei vari cicli (v. Schmidt, 1937); un ordine, inoltre, che garantiva fortemente l'autonomia dell'etnologia, rendendo il suo mondo storicamente e causalmente interconnesso e autoesplicantesi. Forse mai, nel Novecento, l'etnologia è stata accreditata di una simile autonomia e della capacità di esercitare un tale dominio sulla storia culturale dell'umanità.
Quando, nello stesso 1911, Boas sottopone a severa recensione il testo di Graebner, uno dei punti più significativi che egli fa valere è la necessità di un accurato ‟lavoro sul campo": solo in questo modo ‟il moderno metodo dell'etnologia" può configurarsi come ‟una continua battaglia per acquisire un punto di vista critico sui dati raccolti da autori precedenti che erano all'oscuro degli obiettivi e dei problemi dell'antropologia moderna" (v. Boas, 1966, pp. 295-296). La connessione dell'etnologia con l'antropologia viene proposta come indispensabile e la ricerca sul campo appare come la metodologia più aggiornata per affrontare, sul piano etnologico, obiettivi e problemi antropologici. Non ci si può infatti accontentare - sostiene Boas - di individuare i fenomeni etnici; occorre anche affrontare il problema di come determinare il loro ‟significato" e la loro ‟rilevanza", la quale non coincide semplicemente con la loro distribuzione nello spazio e nel tempo. L'etnologia moderna, in connessione con l'antropologia, deve affrontare ‟ricerche psicologiche in cui i diversi atteggiamenti e le diverse interpretazioni delle stesse persone nei confronti del fenomeno considerato forniscono il materiale più importante" (ibid., p. 296).
È significativo sottolineare che la classificazione antropologica dell'etnologia, ovvero l'esplicito inserimento dell'etnologia nell'antropologia, determina non già una sua scomparsa o fagocitazione, bensì una più pronunciata sottolineatura del suo ruolo in termini di ‛lavoro sul campo', attenzione ai dettagli e alle particolarità, alle storie locali, ai significati indigeni. Nella prospettiva di Boas, l'etnologia si caratterizza come il momento della ricerca antropologica più intenso e vicino alle situazioni concrete e come una fase assolutamente irrinunciabile. Del resto, già nel 1896, nel suo famoso articolo sui Limiti del metodo comparativo in antropologia, Boas aveva fatto intravedere una feconda tensione tra l'aspirazione alla generalità, che contraddistingue l'antropologia, e la necessità scientifica di indagare ‟ciascuna cultura individuale" nella sua particolarità storica. Non si tratta di amore per particolari insignificanti e nemmeno di un gusto per la raccolta di credenze e costumi strani e bizzarri: ‟i costumi e le credenze in quanto tali non costituiscono gli obiettivi ultimi della ricerca. Ciò che desideriamo apprendere sono le ragioni per cui tali costumi e credenze esistono" (ibid., p. 276). Queste ragioni a loro volta non possono essere colte a livello delle ‟leggi che governano lo sviluppo della società" (ibid., p. 270), bensì nelle specifiche ‟cause storiche" che le hanno determinate e nei ‟processi psicologici" attivati nella loro formazione. Certo, le tesi di Boas suscitano una vastità di problemi di ordine epistemologico; ma la denuncia di stravaganze antropologiche, la diffidenza verso categorie che agiscono come ‟camicie di forza", il richiamo a un metodo esplicitamente ‟induttivo" (ibid., p. 277), conferiscono all'etnologia, intesa soprattutto e in primo luogo come field work, un peso e una rilevanza insostituibili nella ricerca antropologica. Il rischio era quello di finire soffocati dai dettagli, come ben aveva avvertito Clyde Kluckhohn (per un certo periodo allievo di Wilhelm Schmidt), il quale, non accodandosi alle critiche rivolte alla scuola diffusionistica viennese, faceva notare come i rappresentanti della Kulturkreislehre avevano affrontato risolutamente problemi di ampio respiro, mentre i colleghi americani ‟si accontentavano di ‛raccogliere e vagliare' notizie frammentarie" (v. Kluckhohn, 1936, p. 196). Ma il principio operativo del field work, oltre ad attribuire all'etnologia un ruolo preciso e irrinunciabile nell'antropologia, avrebbe rappresentato per tutto il Novecento la sua caratteristica più preziosa.
Nel 1883 Franz Boas, allora fisico e geografo tedesco (poi naturalizzatosi americano) alle dipendenze di Adolf Bastian presso il Museum für Völkerkunde di Berlino, aveva dato inizio alla sua ricerca tra gli Inuit (Eschimesi) dell'Artide, su cui pubblicò un voluminoso rapporto: The Central Eskimo (v. Boas, 1888); e nei primi anni del Novecento effettuò le sue ricerche etnologiche tra gli Indiani della costa nordoccidentale americana, che furono oggetto di numerosi articoli riguardanti la lingua, l'organizzazione sociale, i miti, l'arte. Quelli di Boas non sono ovviamente i primi lavori di una ricerca sul campo in chiave etnologica: tra tutti basti citare League of the Ho-de-no-sau-nee, or Iroquois di Lewis H. Morgan (v., 1851). Ma i lavori di Boas segnano un passaggio importante e decisivo, in quanto stabiliscono il principio secondo cui gli etnologi sempre più difficilmente possono limitarsi a compiere viaggi soltanto intellettuali attraverso i resoconti forniti da autori che etnologi non sono. Con Boas l'etnologia manifesta la propria diffidenza verso le testimonianze raccolte da dilettanti; rivendica una propria professionalità; ed esige dagli studiosi ricerche svolte attraverso un'osservazione diretta. La rivendicazione della professionalità etnologica ha dunque un duplice significato: se per un verso si rivolge all'esterno della comunità scientifica, mostrando il proprio atteggiamento critico verso le forme di dilettantismo etnografico, per l'altro si trasforma in una precettazione interna, in un'indicazione metodologica che attiene alla stessa formazione degli etnologi. Del resto, queste indicazioni erano sempre meno isolate. Negli ultimi anni dell'Ottocento l'Università di Cambridge organizza una spedizione allo Stretto di Torres, a cui partecipano Alfred Cort Haddon, William H. R. Rivers, Charles George Seligman. Un decennio più tardi, lo stesso Seligman, insieme alla moglie Brenda, avvia le sue ricerche nel Sudan anglo-egiziano, proseguite poi negli anni venti. La Scuola di Vienna, accusata inizialmente dagli Americani di affidarsi eccessivamente a un'impostazione museografica e di una correlativa mancanza di ricerche sul terreno, inizia assai presto una vasta e copiosa attività sul campo. Padre Schmidt, pur non avendo condotto in prima persona ricerche sul terreno, invia i suoi allievi tra quei popoli che, per la loro supposta primitività, assumevano ai suoi occhi un valore di testimonianza irrinunciabile: Paul Schebesta (v., 1932) studia i Bambuti della foresta equatoriale africana e i Negrillos della Malaysia; Wilhelm Koppers (v., 1924) si specializza sugli Indiani della Terra del Fuoco, mentre il lavoro di Martin Gusinde (v., 1931-1939) sugli Ona è giudicato da Lowie una ‟monografia stupenda" (v. Lowie, 1937, p. 192).
Del resto, neppure il francese Marcel Mauss - una figura assimilabile a Wilhelm Schmidt per il ruolo di fondazione dell'etnologia nel proprio paese - aveva di persona condotto alcuna ricerca sul campo; ma i suoi allievi furono spinti a intraprendere ricerche in società extra-europee. E che il suo insegnamento fosse in gran parte caratterizzato dall'insistenza sull'imprescindibilità della ricerca etnografica è testimoniato dal Manuel d'ethnographie (v. Mauss, 1947), un testo guida per le metodologie del lavoro sul campo, ricostruito sulla base degli appunti dei suoi allievi. La fondazione dell'Institut d'Ethnologie, avvenuta a Parigi nel 1926 a opera di Lucien Lévy-Bruhl, Marcel Mauss e Paul Rivet, fu indubbiamente una tappa importante, così come significativa sotto questo profilo fu la spedizione Dakar-Gibuti (1931-1933), guidata da Marcel Griaule, uno degli allievi di Mauss. Anche l'etnologia francese produceva in questo modo una serie di contributi che sempre più spesso vedevano nomi di autori legati a specifici gruppi etnici: Griaule si specializza sui Dogon, e il suo Dieu d'eau (v. Griaule, 1948) si imporrà come uno dei testi più originali e rappresentativi della ricerca africanistica francese. Fin dagli anni venti, Maurice Leenhardt (v., 1930) lega invece il suo nome all'etnografia della Nuova Caledonia e lo svizzero Alfred Métraux (v., 1928) a quella del Sudamerica.
In un modo o nell'altro, la monografia etnografica si impone sempre maggiormente come inconfondibile stile di ricerca dell'etnologia novecentesca: non più scorribande intellettuali attraverso una molteplicità di etnie, ma soste prolungate presso società specifiche; lavori, dunque, di analisi e di ricostruzione sulla base di osservazioni personali, di controlli diretti, di colloqui con gli indigeni. Sotto questo profilo, è facile sostenere che l'etnologia e l'antropologia del Novecento hanno in buona parte scelto a modello un autore - il polacco Bronislaw Malinowski - e la sua opera più famosa, Argonauts of the Western Pacific. A conferire a questo lavoro un significato paradigmatico contribuisce non solo la forte originalità del tema, dell'impianto e della scelta metodologica, ma anche l'acuta consapevolezza circa i problemi dell'etnologia. Nella premessa a questa opera, Malinowski dibatte specialmente due argomenti o aspetti, che si intrecciano a tal punto da indurlo a sottolineare ‟la situazione tristemente comica, per non dire tragica" in cui versa l'etnologia (v. Malinowski, 1922; tr. it., p. 23). Ai suoi occhi, infatti, da un lato l'etnologia si appresta ‟a riordinare il suo laboratorio, a forgiare i suoi strumenti, a partire pronta per lavorare al compito assegnato": è un momento di professionalizzazione dell'etnologia, nel senso che ‟metodi e obiettivi" dell'‟etnologia scientifica", intesa come ricerca sul campo, hanno ormai preso forma. Non è più tempo di affidarsi - afferma Malinowski - a osservazioni di dilettanti: sia dal punto di vista quantitativo, sia da quello qualitativo, i contributi di ricercatori sul campo, professionalmente addestrati, si impongono ormai in etnologia, al punto da fornire ‟una nuova immagine dell'umanità selvaggia". I resoconti scientifici sono in grado di trasmettere ‟la figura dell'indigeno qual è", e anzi di ‟penetrare nel suo animo più profondamente di quanto mai avessimo fatto prima".
L'etnologia ha dunque raggiunto per Malinowski la sua piena e autentica fase scientifica, che si esprime nella forma della ‛monografia' (ibid., p. 24). Dall'altro lato, tuttavia, proprio nel momento della sua compiuta professionalizzazione (o scientificizzazione), l'etnologia vede svanire il suo ‟materiale" di studio ‟con irrimediabile rapidità": ‟proprio adesso [...] quando uomini perfettamente addestrati per questo lavoro avevano cominciato a viaggiare nei paesi selvaggi e a studiarne gli abitanti, questi ultimi spariscono sotto i nostri stessi occhi" (ibid., p. 23). Ovviamente, Malinowski non è il solo (e neppure il primo) a sottolineare l'urgenza della ricerca etnologica. Egli fornisce comunque una testimonianza particolarmente significativa e autorevole di una consapevolezza critica che pervade un po' tutta l'etnologia del Novecento: quella di una scienza che, assistendo drammaticamente alla scomparsa, sempre più rapida e irreparabile, del proprio ‛oggetto', prevede anche il rischio di una sua radicale trasformazione o di una sua scomparsa.
5. Un presente prima della modernità
C'è un futuro per l'etnologia? Come si è già visto, Radcliffe-Brown aveva notato, negli anni quaranta, che ‟non c'era nessuno che parlasse del futuro dell'etnologia" (v. Radcliffe-Brown, 1958; tr. it., p. 119). Anche in questo autore, oltre che in Malinowski, era vivissima la consapevolezza del ‟proprio ora": proprio ora che la ‟nostra scienza" (l'etnologia per Malinowski negli anni venti, l'antropologia sociale per Radcliffe-Brown negli anni trenta) ha sviluppato teorie e metodi di indagine adeguatamente scientifici, procedendo a uno studio intensivo delle società extra-europee, ‟tali culture si stanno dissolvendo con una rapidità spaventosa" (ibid., p. 95). Questo paradossale ‟proprio ora" rende in un medesimo tempo unica e ‟tragica" la posizione della disciplina. La stessa consapevolezza che la dissoluzione così rapida, rovinosa e irrimediabile è dovuta a un ‟processo di distruzione" - il quale vede in primo piano commercianti, amministratori, missionari europei - determina un inesorabile significato di ‟urgenza": vi è un ‟urgente bisogno [...] che si provveda a condurre uno studio sistematico dei popoli nativi dell'Impero", o anche delle forme più semplici di società, ‟prima che sia troppo tardi" (ibid., pp. 112 e 156-157). Si tratta di cogliere forme, istituzioni, costumi, strutture prima che si dissolvano per sempre nel nulla storico: un nulla dovuto non soltanto a trasformazioni e a distruzioni, ma anche al fatto che per la maggior parte di questi ‟popoli cosiddetti primitivi" non sono disponibili documenti storici che consentano di risalire indietro nel tempo. Da un lato, il futuro (un futuro immediato, da un anno all'altro) è gravido di perdite irreparabili; dall'altro, il passato di quelle società (che pure hanno conosciuto mutamenti e sviluppi) è per la maggior parte precluso: rimane il presente, una sorta di attimo fuggente che occorre cogliere ‟proprio ora", con uno studio intensivo, sistematico, sperimentale. È questo presente, questo ‛ora', che determina una sovrapposizione o una parziale coincidenza tra l'etnologia (comunque venga intesa) e l'antropologia sociale: da questo presente, conoscibile sul campo, l'etnologia cerca di risalire (secondo Radcliffe-Brown) verso un passato troppo congetturale e ipotetico, mentre l'antropologia sociale lo inserisce in quadri comparativi e generalizzanti resi sempre più sicuri dal progresso della sociologia comparativa.
L'urgenza, la professionalità dello studio intensivo sul campo, l'analisi del ‛presente' condotto come se fosse ‟un'unità integrata o un sistema, in cui ciascun elemento ha una funzione definita in relazione al tutto", nonostante e a dispetto degli inarrestabili processi di distruzione e di trasformazione, sono elementi che caratterizzano la grande stagione delle monografie etnografiche, prodotte molto spesso - come voleva Radcliffe-Brown - per ‟amministrare i popoli dipendenti [dell'Impero britannico] con un criterio di giustizia fondato sulla conoscenza e la comprensione" (ibid., pp. 92 e 113). La serie delle monografie etnografiche che in un modo o nell'altro sorgono nell'ambito dell'antropologia sociale - a cominciare da quelle di Malinowski (v., 1922, 1929 e 1935) sui Trobriandesi o di Radcliffe-Brown (v., 1922) sugli isolani delle Andamane - costituisce un patrimonio che ben difficilmente potrebbe essere sottratto alla ricerca etnologica del Novecento, intesa in primo luogo come ricerca sul terreno volta a cogliere quanto vi è di specifico e di autentico in culture o società extra-europee. Questo discorso convalida ciò che si è affermato nel capitolo precedente, ossia che, indipendentemente dalla diversità di denominazione (etnologia o antropologia culturale o antropologia sociale), l'elemento unificante e qualificante, sotto il profilo professionale, di questo tipo di ricerche è stato il lavoro sul terreno e il prodotto ‛scientifico' che da questo lavoro si è pensato di poter trarre, ovvero la monografia etnografica.
Occorre però qui sottolineare altri due elementi, entrambi presi in considerazione nell'analisi metodologica di Radcliffe-Brown. Il primo elemento è costituito dalla propensione a privilegiare il presente, inteso come l'ultimo momento di autenticità, prima che il processo degenerativo o distruttivo faccia scomparire le culture autoctone. Ma il presente non è tanto inteso come un ‛qui e ora' fuggevole, bensì come avente una dimensione di continuità rispetto al passato. Etnologi e antropologi (si è visto) sono ben consapevoli dei processi distruttivi che devastano il mondo da essi studiato: il futuro immediato, anzi il vero presente (ciò che può essere osservato nel ‛qui e ora'), è caratterizzato da trasformazioni tali che ‟tribù australiane, melanesiane e nordamericane [...] oggi ci sono di scarso o, in molti casi, di nessun giovamento" (v. Radcliffe-Brown, 1958; tr. it., p. 95). Il presente, di cui etnologi e antropologi vanno alla ricerca e che essi vogliono rendere oggetto specifico delle loro indagini, è - paradossalmente - un presente spesso inattuale. È, potremmo dire, una sorta di finzione. Il precetto di Malinowski (v., 1922; tr. it., p. 23) - descrivere ‟l'indigeno qual è" - non ha tanto il significato di scattare una foto sulla situazione attuale ed effettiva, quanto piuttosto di cogliere nel presente ‟ciò che è permanente e fisso" (ibid., p. 38).
Caratteristica di molta etnologia del Novecento è in effetti quella di tralasciare gli aspetti di trasformazione che verrebbero a turbare un'immagine di autenticità e di peculiarità. Ciò che all'etnologo interessa non sono infatti i processi mediante cui le società cosiddette primitive, tribali o comunque pre-moderne tendono ad assomigliare alla civiltà occidentale, bensì gli elementi che - nonostante le trasformazioni e le distruzioni attuali - possono ancora trasmettere un senso di autenticità (v. Fabietti, 1995, p. 80). Sotto questo profilo, il lavoro dell'etnologo può essere raffigurato come un tentativo di risalire indietro nel tempo, come un andare a ritroso rispetto ai processi di modernizzazione o comunque di trasformazione in cui sono coinvolte le società che egli studia nel presente. Il suo presente, il presente etnografico, è caratterizzato da rotture e discontinuità (addirittura da scomparse), se è considerato dal punto di vista del futuro; è invece costituito da continuità, se è considerato dal punto di vista del passato. Anzi, il presente etnografico è - in un certo senso - la ‛presentificazione' del passato, ovvero la rappresentazione di uno stato di cose che si ritiene essere segnato da continuità strutturale. Significativamente, l'etnologia del Novecento si appropria abbastanza spesso di un paradigma di tipo funzionalistico, per il quale il privilegiamento del presente si combina con un altro elemento - il secondo dei due cui ci riferivamo poc'anzi - ovvero il privilegiamento della sistematicità, dell'integrità, della coerenza. Descrivere una società come ‟un tutto coerente" è, significativamente, un altro precetto di Malinowski (v., 1922; tr. it., p. 38) che si è affermato nell'etnologia del Novecento. Non si tratta, dunque, di privilegiare ciò che è oggi rispetto a ciò che è stato ieri, quanto di saper ricostruire un mondo che vale per oggi come per ieri, un mondo spesso sottratto al tempo, un mondo che rischia di essere pensato fuori del tempo e della storia.
L'idea della coerenza di questo mondo ha aiutato molto a compiere quelle operazioni di de-temporalizzazione e di de-storicizzazione in cui l'etnologia del Novecento si è di frequente impegnata. Del resto, nonostante l'abbandono della matrice naturalistica ottocentesca e l'adozione, talvolta esplicita, di un'impostazione storica (o storicistica), l'etnologia ha sempre dovuto confrontarsi con un problema epistemologico di differenziazione nei confronti della storia, o perlomeno della storia così come viene intesa nel mondo occidentale. E questo può essere fatto valere in parte anche per l'etnologia italiana, sebbene essa abbia sempre professato uno speciale attaccamento alla storia (v. De Martino, 1941 e 1961; v. Lanternari, 1960; v. Grottanelli, Una società..., 1977). Il presente etnografico, soprattutto se motivato - come in Malinowski - dal principio della continuità strutturale, è stato comunque un buon espediente per sfuggire a un assorbimento dell'etnologia nel più vasto dominio della storia. Tuttavia, vi è stato anche chi ha messo in luce l'illusorietà di questa operazione, soprattutto in quanto l'etnologia - secondo l'insegnamento di Malinowski - rimane ancorata al presente di una particolare esperienza vissuta. Questa aderenza al vissuto e al concreto, e quindi al particolare, non consente di sfuggire alle imposizioni della storia. E del resto ciò che fa il Malinowski di Argonauts of the Western Pacific o di Sexual life of savages in North-Western Melanesia non è altro che una ‟buona etnografia", la quale si distingue dalla ricerca storica solo in quanto si nutre dell'illusione di ‟raggiungere, in un dialogo fuori del tempo con la piccola tribù [...] verità eterne sulla natura e la funzione delle istituzioni sociali" (v. Lévi-Strauss, 1958; tr. it., p. 24). Per Lévi-Strauss (ibid., pp. 35-36), l'unica via che rimane aperta all'etnologia è quella di eliminare dal proprio campo di indagine ciò che è dovuto agli avvenimenti (la storia) e alla riflessione (la coscienza) per procedere, ‟con una specie di marcia regressiva", verso le strutture inconsce dello spirito umano, così da formulare un ‟inventario delle possibilità inconsce" e fornire agli stessi sviluppi storici ‟un'architettura logica".
Nella prospettiva di Lévi-Strauss, l'etnologia subisce un processo di forte astrazione. È significativo infatti che egli ristabilisca una divaricazione piuttosto netta tra l'etnografia, la quale ‟consiste nell'osservazione e nell'analisi di gruppi umani considerati nella loro particolarità", e l'etnologia, la quale si contraddistingue invece per un'utilizzazione ‟in modo comparativo" dei documenti forniti dall'etnografia (ibid., p. 14). L'etnografia è strettamente collegata alle ‟esperienze concrete", al vissuto, al particolare, tutto sommato all'‟istante fuggitivo" e irripetibile che si determina nel lavoro sul campo (ibid., pp. 18 e 21). Guai però se l'etnologia dovesse circoscriversi ‟all'istante presente della vita di una società" (ibid., p. 24): il suo livello di indagine più appropriato trascende gli avvenimenti e ciò che di peculiare caratterizza le situazioni empiriche. Il suo obiettivo, con il passaggio dal conscio all'inconscio, è la generalità delle strutture che agiscono nel pensiero umano. Non si tratta - beninteso - di semplici somiglianze e ricorrenze; al contrario, l'etnologia si occupa di ‟analizzare e interpretare le differenze" che si registrano etnograficamente tra le varie società (ibid., p. 26). Le strutture, di cui l'etnologia di Lévi-Strauss va alla ricerca, non impongono uniformità; al contrario, comprendono e spiegano differenze e varietà sia nel tempo, sia nello spazio. Anche nello strutturalismo di Lévi-Strauss, così come nel funzionalismo di Malinowski, o in quello di Radcliffe-Brown, è presente il tema della coerenza. Ma nella prospettiva di Lévi-Strauss è soprattutto una coerenza che si dispiega sul piano astratto e rarefatto dei modelli logici in cui l'etnologia soprattutto si identifica: il piano concreto, quello dell'esperienza vissuta dell'etnografo, è intaccato dagli eventi, i quali inevitabilmente producono mutevolezze e incoerenze.
È bene tenere presente lo sfondo su cui si compiono le operazioni di de-temporalizzazione dell'etnologia. Gli elementi di permanenza e di continuità strutturale, a cui si appigliano Malinowski e Radcliffe-Brown, si stagliano contro le trasformazioni impellenti e rapide delle società oggetto di indagine. Anche in Lévi-Strauss esiste questo sfondo di consapevolezza; anzi, esso assume una dimensione particolarmente ampia, visto che l'etnologo francese ha voluto dedicare alla coscienza delle distruzioni provocate dall'Occidente un intero libro. ITristi tropici sono le Isole Polinesiane ‟soffocate dal cemento armato", l'aspetto di ‟zona malaticcia" dell'Asia, l'Africa rosa dalle sue bidonvilles, gli Indios dell'Amazzonia, ‟povera selvaggina presa al laccio della civiltà meccanizzata"; i Tristi tropici sono ‟la nostra sozzura gettata sul volto dell'umanità" (v. Lévi-Strauss, 1955; tr. it., pp. 36 e 39). Lévi-Strauss stabilisce allora un nesso tra questa consapevolezza e l'inganno dei racconti di viaggio, i quali ‟danno l'illusione di cose che non esistono più". Anche l'etnologia, tutto sommato, è una messa in scena di società o di culture fatta ‟con l'aiuto di frammenti e di rottami" (ibid., p. 41), una sorta di ricostruzione fittizia il cui contenuto è destinato a sparire nel volgere rapido di alcuni anni. L'analisi di Lévi-Strauss ci fa capire però che vi è anche una proporzionalità diretta tra la coscienza della distruzione immanente e gli atteggiamenti di de-temporalizzazione messi in atto dall'etnologo: quanto maggiore è in lui la consapevolezza dei processi distruttivi, tanto maggiore è la portata della sua de-temporalizzazione. L'etnologia di Lévi-Strauss nasce da operazioni di ‟distillazione paziente" più che dall'‟osservazione giornaliera", e ‟pur ritenendosi umano, l'etnologo cerca di conoscere e di giudicare l'uomo da un punto di vista sufficientemente elevato e distaccato, per astrarlo dalle contingenze particolari a una data società o a una data civiltà" (ibid., pp. 45 e 53).
Diventare etnologo nella prima metà del Novecento ha significato addentrarsi in questo mondo sconvolto dal colonialismo o dall'imperialismo occidentale. Vi è anche stato chi, proprio per questo, ha decretato (un po' troppo frettolosamente) la morte dell'etnologia o la sua trasformazione in ‟una sorta di archeologia": in Italia, per esempio, l'introduzione dell'antropologia culturale negli anni del secondo dopoguerra è stata motivata con l'idea che l'etnologia in quanto tale non aveva più alcun significato attuale, vista la ‟pressoché totale estinzione" dei suoi ‛oggetti' tradizionali (v. Tentori, 1979, p. 114). Qualunque atteggiamento gli interessati decidano di assumere di fronte a questa situazione (di rimpianto verso un passato irrecuperabile o di rifiuto per un presente inaccettabile, di ricostruzione comunque da tentare sul piano intellettuale o di rinuncia più o meno appagata), il paradigma che ha dominato in gran parte l'etnologia del Novecento è stato quello della grande divisione tra il mondo vasto (oltre che devastato) della pre-modernità e il mondo complesso (e devastante) della modernità. Non sempre questa distinzione viene esplicitamente dichiarata, proprio perché essa risulta quasi connaturata all'impostazione di buona parte dell'etnologia del Novecento.
Se collocata nell'ambito delle altre scienze sociali e umane, l'etnologia si presenta indubbiamente come un sapere rivolto alle cosiddette società tradizionali: che si tratti dei ‛primitivi' di Lucien Lévy-Bruhl (o anche di Radcliffe-Brown), dei ‛selvaggi' (di cui ancora parlano Malinowski e in parte Lévi-Strauss), che si tratti di società ‛tribali' (come ha fatto, per esempio, Gluckman) oppure di forme e strutture ‛elementari' (Durkheim, Lévi-Strauss), tutte queste espressioni e categorie rientrano nell'ambito più vasto della pre-modernità. L'etnologia si presenta in effetti come la scienza che classifica, analizza, spiega i fenomeni culturali delle società tradizionali, delle società che non hanno (ancora per poco) conosciuto gli effetti della trasformazione storica della modernità. L'etnologia è, da questo punto di vista, la scienza delle società prevalentemente chiuse, di solito di piccole dimensioni, in cui i rapporti tra gli individui sono per lo più di tipo comunitario (v. Poirier, Le programme ..., 1968, pp. 528 ss.). Ma l'etnologia è collegata alla distinzione categoriale pre-modernità/modernità anche per il punto di vista da cui parte, oltre che per l'oggetto di cui si occupa. Fin dalle sue origini e dai suoi sviluppi ottocenteschi l'etnologia si è configurata come un sapere della modernità costruito sulle culture e sulle società pre-moderne: un sapere che caratterizza in modo esclusivo l'Occidente moderno rispetto a tutte le altre culture. ‟Solo l'occidente - afferma per esempio Ernesto De Martino (v., 1977, p. 396) - ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico". In questa prospettiva l'etnologia, pur essendo l'esplorazione che la modernità ha condotto e conduce sulle altre società, e rappresentando quindi una forma di avvicinamento ad altre forme di vita sociale e di contatto con esse, al contempo e per la stessa ragione contribuisce fortemente a differenziare l'Occidente da qualsiasi altra espressione culturale. L'etnologia, secondo De Martino (v., 1980, p. 155), ‟non può non essere europeocentrica".
6. Dall'etnologia all'etnografia
Se a questo punto si confrontano etnologia da una parte e antropologia culturale o sociale dall'altra, forse si riesce a comprendere meglio il senso delle rispettive denominazioni. Abbiamo infatti avuto modo di constatare indubbie sovrapposizioni e convergenze che riteniamo dovute essenzialmente al ruolo irrinunciabile attribuito da ognuna di queste discipline alla ricerca sul campo. Ma una differenza affiora in modo piuttosto preciso, ed è il diverso atteggiamento o la diversa capacità euristica che etnologia da una parte e antropologia culturale o sociale dall'altra manifestano nei confronti della modernità e soprattutto della distinzione tra pre-modernità e modernità: l'etnologia appare molto più vincolata al paradigma di questa grande divisione storica; l'antropologia, sia nella versione culturale, sia nella versione sociale, dimostra invece una maggiore disponibilità a superare quel paradigma e a trasformare la modernità e le sue divisioni in oggetti di ricerca e di riflessione. Non è certo un caso che Franz Boas, così etnologo tra gli antropologi americani, abbia intitolato uno dei suoi testi più significativi Anthropology and modern life (v. Boas, 1928): è chiaro che per Boas spetta all'antropologia (culturale o sociale), non all'etnologia, il compito di occuparsi della modernità. È l'antropologia che nei suoi ulteriori sviluppi critici e autocritici ritorna sui suoi passi e indaga sulle sue stesse origini storiche e culturali, spingendosi fino a divenire, nell'ambito dell'antropologia della modernità, ‛antropologia dell'antropologia'. Questi sviluppi auto-riflessivi (antropologia della modernità e antropologia dell'antropologia, oltre che antropologia degli ‛altri') sono tipici dell'antropologia, non dell'etnologia.
Detto in altri termini, fino a che si tratta di studiare gli ‛altri' (altre etnie, altre società), risulta alquanto indifferente l'uso della denominazione, etnologia oppure antropologia, culturale o sociale (v. Signorini, 1992). Ma coloro che intendono spingere lo sguardo sulla propria cultura (la cultura in cui si è formata la propria prospettiva di ricerca, etnologica o antropologica che sia) preferiscono senza dubbio la denominazione di antropologia per designare questo stile o questo programma di indagine. Nel Novecento l'etnologia è infatti rimasta ancorata all'idea di un sapere oggettivo o oggettivistico, ossia di un sapere i cui oggetti sono le altre società o culture, e il cui scopo è esattamente quello di produrre e trasmettere un'immagine veritiera degli ‛altri'. Certo, nel Novecento l'etnologia ha conosciuto anche prolungamenti ed estensioni verso la società europea (sotto forma di etnologia europea, come suona il nome di una rivista e di un'associazione); ma il paradigma secondo cui l'etnologia è fondamentalmente un sapere che va alla ricerca di ciò che è altro rispetto alla modernità, anche quando questo altro (le tradizioni, per esempio) si trova nell'area stessa della modernità, è rimasto a giustificare i possibili sviluppi di ciò che normalmente si intende con etnologia.
È allora un caso che in questo ultimo scorcio di secolo si assista a un progressivo diradarsi del termine etnologia? Si tratta semplicemente dell'effetto di una moda, oppure è segno di una più profonda crisi che riguarda esattamente l'etnologia, ovvero la dimensione propriamente etnologica delle ricerche antropologiche? Peraltro va rilevato che al contempo riprende quota il termine etnografia. Fintantoché l'etnologia ha mantenuto il ruolo di un sapere oggettivo, l'etnografia ha avuto quello umile e nello stesso tempo insostituibile dell'osservazione e della descrizione, anche minuta e dettagliata. Ma dal momento in cui viene messa in discussione la credibilità epistemologica del sapere dell'etnologia, dal momento in cui si sottopone a critica la stessa ‟ragione etnologica", tutta fondata sulla ‟distinzione" di tipi e soprattutto sulla distinzione noi/altri (v. Amselle, 1990), l'etnografia comincia a emergere come momento decisivo, emblematico e persino inglobante della stessa ricerca antropologica. Oggi non si parla di antropologia e di etnologia, bensì di antropologia e di etnografia (v., per esempio, Geertz, 1988; v. Leach, 1989). In un certo senso, il centro (l'etnologia) è venuto meno, e i due estremi (antropologia per un verso, etnografia per l'altro), anziché disporsi sui gradini di una scala che li vedrebbe distinti e ordinati gerarchicamente, si trovano inseriti in una problematica che li accomuna e li vincola reciprocamente. Ovviamente, questa problematica è la stessa che motiva l'eclissi (difficile dire quanto parziale e temporanea) del livello intermedio, l'etnologia.
Al fine di fornire un quadro il più possibile sintetico di questa problematica, proviamo a elencarne motivi, aspetti, implicazioni.
1) Alla base dell'etnologia vi è stato spesso un paradigma ‛ottico' (v. Tyler, 1986), secondo il quale l'etnologia è il prodotto di una capacità scientifica, tipica dell'Occidente, di osservare, descrivere, catalogare, spiegare le società che di solito si collocano spazialmente al di fuori dell'Occidente e temporalmente in una fase di pre-modernità.
2) Il paradigma ottico è caratterizzato da due presupposti: quello della sicurezza scientifica delle categorie visive e analitiche della modernità occidentale, e quello della visività degli oggetti etnologici (globalmente, si tratta del presupposto della distinzione noi/gli altri; v. Amselle, 1990). Entrambi questi presupposti sono stati però attualmente messi in crisi: una crisi che è il riflesso, nell'ambito etno-antropologico, delle discussioni epistemologiche post-positivistiche (Kuhn, Feyerabend, Lakatos).
3) La messa in crisi del primo presupposto, quello della sicurezza scientifica, deriva in gran parte dall'idea (o dal riconoscimento) del carattere convenzionale (quindi culturale, storico, variabile e in qualche modo arbitrario) delle categorie mediante cui un determinato tipo di sapere pretende di analizzare, catalogare e spiegare la realtà osservata. Implicitamente o meno, l'Occidente moderno si è sempre presentato come la fonte e il centro della formazione di un sapere che pretende di essere scientifico proprio in virtù della sicurezza delle proprie categorie. E l'etnologia è stata perciò intesa come un sapere che, pur nella varietà ed eterogeneità dei suoi oggetti, si avvale, a parte subjecti, della sicurezza categoriale dell'Occidente. La messa in crisi di questo presupposto ha di recente preso la forma di critica di una modalità tipica della scrittura etnologica, ovvero l'occultamento dell'etnografo nell'esposizione scientifica (v. Crapanzano, 1986). Nella monografia etnologica, che descrive o analizza una determinata società, l'autore fa in modo di occultare, o rendere poco visibile, o comunque non tematizzare le condizioni particolari in cui si sono svolte osservazioni e conversazioni sul campo. Questa strategia, oltre a corrispondere a un diffuso stile scientistico e positivistico, persegue l'obiettivo di rassicurare circa la ripetibilità dell'esperienza etnografica (v. Geertz, 1988; tr. it., p. 23), mentre un'esplicita illustrazione della base biografica dell'esperienza sul campo getterebbe forti dubbi sull'oggettività di quanto viene raccontato. Questa problematica - come fa giustamente osservare Geertz - è stata alimentata dalla pubblicazione postuma, nel 1967, dei diari sul campo di Malinowski (v., 1967). Essa è tuttavia già ben presente, negli anni trenta, in L'Afrique fantôme di Michel Leiris, il quale sceglie la forma del diario per raccontare tutto ciò che avviene sul campo (come suggeriva Mauss): ‟È spingendo all'estremo il particolare che, molto spesso, si raggiunge il generale; è esibendo il coefficiente personale alla luce del giorno che è possibile valutare l'errore; è portando la soggettività ai suoi estremi che si raggiunge l'oggettività" (v. Leiris, 1934; tr. it., p. 223).
4) La messa in crisi del secondo presupposto, quello della visibilità degli oggetti etnologici, riguarda in primo luogo il loro status di oggetti. È abbastanza facile osservare come l'attribuzione della caratteristica di ‛oggetto' a ciò che si può indagare attraverso l'esperienza etnografica corrisponda al presupposto della sicurezza scientifica delle categorie visive: ciò che si vede, ciò che si osserva, ciò che si analizza sono oggetti delimitabili, definibili, appunto visibili. Oggi però si sostiene che l'etnologia ha creato o prodotto i propri oggetti, trasformando situazioni e contesti in entità e strutture differenziate, si chiamino esse culture, tribù, etnie (v. Fabietti, 1995, cap. II). Al riconoscimento del carattere convenzionale delle categorie scientifiche è inevitabile far corrispondere il riconoscimento del carattere altrettanto convenzionale degli oggetti etnologici. Fin dalla sua monografia sui Kachin del 1954, Leach aveva insistito sul carattere di ‛come se' di alcune categorie impiegate nell'indagine etnografica; e ha via via approfondito questo suo atteggiamento critico e riflessivo, fino a giungere ad affermare la falsità dell'immagine delle società tradizionali che l'etnologia e l'antropologia sociale hanno fornito, cioè di società dotate di una loro ‟unità organica" e perciò stesso stabili, refrattarie al mutamento, dotate di ‟confini nitidi come le palle da biliardo" (v. Leach, 1989, pp. 139-140). Come Georges Balandier aveva posto in luce, si tratta di modificare radicalmente, e anzi abbandonare, l'immagine fissista delle cosiddette società tradizionali, tenendo conto sia della dinamica interna, e quindi della loro disponibilità al mutamento, sia della dinamica esterna, ossia della pluralità di contatti trasformativi in cui le società sono coinvolte (v. Balandier, 1967). Ciò che viene meno è proprio l'oggetto stesso dell'etnologia, ovvero il concetto di etnia, corroso sia nella sua struttura interna sia nei suoi bordi esterni (v. Amselle e M'Bokolo, 1985; v. Amselle, 1990).
5) Vi è un'ulteriore implicazione di queste riflessioni critiche. Il venir meno dell'oggetto tipico dell'etnologia ha lasciato affiorare il valore soggettivo non soltanto dell'etnografo, ma anche dei suoi interlocutori, considerati ora non più semplici informatori o testimoni di una cultura tradizionale, ma collaboratori in un'impresa di ‟invenzione della cultura" (v. Wagner, 1975), in cui tutti gli attori sono messi in gioco e in cui non soltanto ‛noi', gli etnologi, indaghiamo ‛loro', ma anche loro indagano, osservano e interagiscono con noi. È letteralmente impossibile oggi pensare a un'etnologia che sia soltanto la descrizione, la classificazione, l'analisi, la spiegazione o anche l'interpretazione di ciò che De Martino avrebbe chiamato l'ethnos, ossia di un tipo di umanità (pre-moderno), da parte di un altro tipo (la modernità, l'Occidente). Ormai il coinvolgimento noi/loro è totale, e non è soltanto economico, politico, militare, ecc.; esso è anche intellettuale, scientifico, culturale.
6) Ha senso, allora, continuare a parlare di etnologia? E, soprattutto, vi è un futuro per l'etnologia, presa com'è tra la pratica e la scrittura etnografica da un lato, le tendenze riflessive e critiche del pensiero antropologico dall'altro, e i processi di trasformazione e di globalizzazione? Se si intende l'etnologia come necessariamente vincolata agli schemi e ai paradigmi di cui si è potuto constatare lo sgretolamento, la risposta non può che essere negativa. Ma se, ripercorrendo la storia di questa disciplina, se ne osservano i prodotti, depositati in migliaia di pubblicazioni, oltre che in oggetti e istituzioni museali, e se si considera che ormai soltanto attraverso questi prodotti è possibile venire in contatto con modi di vita definitivamente tramontati, un indispensabile atteggiamento restaurativo e rigenerativo potrebbe rappresentare il nuovo compito dell'etnologia. Si tratta infatti di tenere criticamente aggiornati questi prodotti, di porli a disposizione di sempre nuovi lettori, forniti di nuove sensibilità e di nuovi interrogativi, di rimetterli in circolo attraverso nuove prospettive e nuove esigenze, in modo che ciò che è stato fatto, nel bene e nel male, molto spesso a prezzo di notevoli ‟disagi mentali e fisici [...] nei villaggi dell'India, dell'Africa, della Polinesia", i quali ‟non compaiono su alcuna mappa" (v. Sahlins, 1976; tr. it., pp. 1-2), non vada irrimediabilmente perduto. Si è visto come all'origine stessa dell'etnologia e per tutto il Novecento vi sia stato un sentimento di urgenza: il pericolo avvertito era la scomparsa degli oggetti di tale disciplina. Ora, però, il rischio sarebbe anche quello di assistere all'abbandono, se non proprio alla scomparsa, di ciò che è stato prodotto, nell'arco di più di un secolo e mezzo, attraverso quell'‟immensa deviazione nelle periferie dell'umanità" (ibid.), come in effetti potrebbe essere definita l'etnologia. Sarebbe davvero un guaio se l'antropologia di nuovo conio, forse eccessivamente portata all'auto-riflessione, lasciasse cadere questo patrimonio enorme e inestimabile, invece di contribuire a rinnovarlo e a riutilizzarlo a vantaggio di tutti (non più soltanto di ‛noi'). E, forse, la conservazione del nome etnologia, nell'ambito più vasto delle scienze antropologiche, potrebbe svolgere la funzione di continuare a ricordare l'irrinunciabilità di questo compito.
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