Etnometodologia
Il termine 'etnometodologia' è stato coniato da un sociologo americano, Harold Garfinkel, per designare una teoria dell'azione sociale ispirata alla fenomenologia e, in particolare, all'opera di Alfred Schütz. Costruito sulla base di termini simili come etnoscienza, etnobotanica, ecc., il termine etnometodologia vuole attirare l'attenzione sui 'metodi' impiegati dagli attori per creare e sostenere l'atteggiamento 'naturale' (nel senso fenomenologico della parola) nei confronti del mondo sociale. In realtà, come vedremo meglio in seguito, l'impiego della parola 'metodi' non è felice, se con essa si intendono precise sequenze o procedure da osservare per raggiungere un risultato. Garfinkel (v., 1974) intende piuttosto riferirsi a micropratiche locali e contestualizzate non oggettivabili in sistemi di regole, e talvolta ha osservato che il termine 'neo-prassiologia' descriverebbe altrettanto bene l'insieme delle ricerche condotte da lui e dalla sua scuola.
2. Gli antecedenti teorici
Uno dei principali motivi della fenomenologia consiste nel sottolineare che il senso della realtà è attivamente strutturato dalle funzioni intenzionali e dal lavoro costitutivo della coscienza. Tuttavia, nell'ambito dell'atteggiamento naturale o ingenuo, il soggetto non si accorge che l'oggettività del mondo quale esso gli appare è prodotta da lui. Come scrive Husserl (v., 1950; tr. it., pp. 170-171), "la vita pratica quotidiana è ingenua, perché consiste nell'avere esperienze, nel pensare, nel valutare e nell'agire al di dentro del mondo come già dato. Qui si compiono in maniera anonima tutti gli atti intenzionali dell'esperienza per i quali le cose vengono a esserci; colui che fa l'esperienza non sa nulla di questi, come niente sa dell'attività del pensiero".
L'analisi fenomenologica si propone di studiare questa attività 'nascosta', di identificare le strutture essenziali della coscienza, le procedure, i meccanismi per mezzo dei quali essa costituisce le cose come reali e oggettivamente date. Husserl ha messo in luce alcune di queste operazioni: ad esempio, l'imputazione di coerenza spaziale e temporale ai dati dell'esperienza; la trasposizione analogica di un precedente senso oggettivo ai casi nuovi e, al tempo stesso, l'uso di ciò che si rivela come il senso effettivamente nuovo di un'esperienza per arricchire un senso già dato; e così via. È attraverso l'uso di meccanismi inconsci e automatici (pre-predicativi) di questo tipo che i diversi, spesso incoerenti, aspetti percepiti di un oggetto (per esempio di un oggetto tridimensionale, del quale possiamo avere presentazioni sensorie solo parziali in quanto alcune sue parti non sono offerte alla vista) vengono integrati dalla coscienza in un insieme unitario.
Secondo Husserl, lo studio di tali meccanismi apre un immenso programma di ricerca sia nel campo delle scienze naturali che in quello delle scienze dell'uomo: "Le ricerche che noi abbiamo compiuto a mo' d'indicazione generale sulla costituzione trascendentale del mondo non costituiscono che l'inizio di una chiarificazione radicale del senso e dell'origine del concetto di mondo, natura, spazio, tempo, esseri animati, uomo, psiche, corpo, comunità sociale, cultura, ecc. È chiaro che l'effettiva esecuzione di queste ricerche dovrebbe condurci a tutti quei concetti che, senza una previa ricerca, fanno già da concetti fondamentali delle scienze positive ma che sorgono completamente chiari e distinti solo nella fenomenologia" (ibid., pp. 172-173).
Nel settore delle scienze umane la prospettiva fenomenologica ha dato origine a due principali direzioni di studi. La prima consiste in una psicologia fenomenologicamente orientata, un programma di ricerca sviluppato soprattutto da studiosi come Maurice Merleau-Ponty e Aaron Gurwitsch, che ha mostrato significative convergenze con la psicologia sociale di matrice pragmatista e con la psicologia della Gestalt, e che, più recentemente, si ritrova in alcune correnti della psicologia cognitiva. La seconda, perseguita principalmente da Alfred Schütz, è quella della fenomenologia sociale. Essa prende come punto di partenza il concetto, sviluppato tardivamente da Husserl, di Lebenswelt - cioè del mondo della vita quotidiana, dell'esperienza vissuta, degli eventi e delle istituzioni mondane che gli attori sociali, senza esserne consci, incessantemente costituiscono e ricostituiscono - e analizza i rapporti tra esso e la coscienza. È questa direzione di ricerca la diretta antesignana della etnometodologia.
Per quanto riguarda la sua influenza sull'etnometodologia, i più importanti contributi dell'opera di Schütz possono essere sintetizzati in quattro punti.
1. In primo luogo Schütz postula una radicale discontinuità tra il mondo della vita quotidiana e il mondo della scienza. Essi sono due distinte "province finite di significato", cioè due diverse realtà prodotte da due specifici atteggiamenti o stili cognitivi. Nella sfera della vita quotidiana, costituita dall'atteggiamento naturale, si presume l'esistenza di un mondo in comune, esperito fin dall'inizio intersoggettivamente. In esso prevale un punto di vista eminentemente pragmatico, nel senso che si tratta di un mondo popolato da oggetti fisici e sociali che pongono limitazioni e costrizioni ai 'corsi di azione' dei soggetti, ma che al tempo stesso possono essere modificati dal loro agire. Inoltre, questo mondo è caratterizzato dall'assenza di ogni dubbio che esso possa essere diverso da come appare. In altre parole, non potendo mettere in questione se stesso, l'atteggiamento naturale non è in grado di interrogarsi sui propri presupposti cognitivi. Le caratteristiche distintive dell'atteggiamento teorico-scientifico sono diametralmente opposte. Non si tratta di un atteggiamento pragmatico, nel senso che gli scopi pratici della vita quotidiana sono messi tra parentesi dallo studioso. Egualmente sospesa è la sua soggettività come fellow man, come membro della società che ha rapporti con gli altri membri: il sé che teorizza, afferma Schütz, è solitario; non ha alcun contenuto sociale; sta al di fuori dei rapporti sociali. Infine, in linea di principio, l'atteggiamento teorico non assume niente come certo prima di averlo sottoposto ad analisi, cioè è aperto a un dubbio sistematico.
2. Nell'ambito della Lebenswelt la conoscenza di senso comune in base alla quale si orientano gli attori è una conoscenza tipologica che necessariamente astrae dalla concreta unicità di oggetti ed eventi. Quindi l'applicazione di questi costrutti tipologici implica una continua attività di 'aggiustamento' mediante la quale un'istanza concreta viene categorizzata sotto un tipo. D'altra parte, la precisione dei tipi è sempre relativa e viene necessariamente valutata in relazione agli scopi pratici dell'attore. Ne consegue che l'insieme di conoscenze di senso comune è approssimativo e aperto a mutamenti ed elaborazioni legati alle contingenze pratiche che gli attori incontrano.
3. L'analisi schütziana del problema dell'intersoggettività parte dalla constatazione che, in linea di principio, gli attori non hanno mai esperienze identiche degli oggetti fisici e del mondo sociale, sia perché occupano differenti posizioni spaziali che informano differentemente la loro percezione, sia perché guardano il mondo fisico e sociale sulla base di diversi ordini di rilevanza legati alle loro biografie, posizioni sociali, motivazioni, ecc. Tuttavia, nell'ambito dell'atteggiamento naturale, l'intersoggettività è un fenomeno dato per scontato. Il suo mantenimento riposa, secondo Schütz, su due fondamentali operazioni compiute dai soggetti - l'idealizzazione dell'interscambiabilità dei punti di vista e l'idealizzazione della congruenza dei sistemi di rilevanza. Cioè un senso di intersoggettività esiste solo nella misura in cui i soggetti assumono, e agiscono sulla base di questo assunto, che, se scambiassero reciprocamente le loro prospettive spaziali e motivazionali, percepirebbero a tutti i fini pratici il mondo in modo simile. In breve, l'intersoggettività non è fondata su nessuna garanzia esterna, ma è contingente all'agire dei soggetti sulla base del presupposto dell'interscambiabilità delle prospettive.
4. Il contrasto tra punto di vista dell'osservatore e punto di vista dell'attore, tra scienza e vita quotidiana, ha rilevanti implicazioni per il concetto di razionalità. Secondo il modello della razionalità scientifica, un'azione è razionale nella misura in cui persegue fini possibili nell'ambito della situazione servendosi di mezzi che, tra quelli di cui l'attore dispone, sono intrinsecamente i più adatti al raggiungimento del fine. Ora, secondo Schütz, l'applicazione di questo modello alla vita quotidiana è fuorviante, in primo luogo perché il postulato della chiarezza e della precisa distinzione semantica dei concetti, caratteristico della razionalità scientifica, è alieno alla conoscenza di senso comune che, come abbiamo visto, è approssimativa e ad hoc in quanto risponde agli interessi pratici degli attori; in secondo luogo perché nella vita quotidiana le alternative tra tutte le scelte possibili non sono sistematicamente esplorate prima di prendere una decisione, come sarebbe necessario fare per ottemperare all'imperativo dell'ottimizzazione nella scelta dei mezzi.
Non ha quindi senso distinguere nettamente tra azioni scientificamente razionali e azioni non razionali, perché applicando rigidamente questo metro di valutazione saremmo costretti a concludere che gran parte dell'agire si discosta dalla razionalità. Nella vita quotidiana la razionalità è una questione di grado e tra i due estremi della perfetta razionalità scientifica e della completa irrazionalità si situa una vasta gamma di azioni che, pur non esibendo le caratteristiche della razionalità scientifica, sono considerate dai soggetti come azioni evidentemente ragionevoli. Il punto importante sottolineato da Schütz è che, a differenza della razionalità scientifica, la razionalità quotidiana è una fondamentale proprietà organizzativa della vita sociale perché è in base a essa che i soggetti scelgono e giustificano i loro corsi di azione. Quindi va analizzata in quanto tale, non come una forma degradata della razionalità scientifica massimizzante.
Le analisi di Schütz hanno un intento dichiaratamente filosofico. Dal suo primo lavoro su Weber fino ai suoi ultimi saggi sulla struttura della Lebenswelt, esse mirano a chiarire e articolare i presupposti metodologici delle scienze sociali, in particolare a mostrare come la conoscenza di senso comune degli attori entri necessariamente a far parte dei costrutti teorici del ricercatore. Ma se, da questo punto di vista, le sue riflessioni si integrano perfettamente all'interno della tradizione sociologica, da un altro ne costituiscono una critica rilevante. Il punto cruciale riguarda il rapporto tra sfera della vita quotidiana e sfera scientifica. Per Schütz esiste tra di esse una netta discontinuità, e ciò implica due importanti conseguenze. In primo luogo, dato l'assunto fenomenologico che la 'realtà' è costituita dallo stile cognitivo adottato dai soggetti, i fatti osservati nell'ambito dell'atteggiamento naturale non sono gli 'stessi' fatti osservati nell'ambito dell'atteggiamento scientifico, semplicemente perché vengono guardati da diversi punti di vista. Quindi fenomeni e categorie appartenenti a una delle due sfere non possono essere trasportati senza stravolgimenti nell'altra: questa è ovviamente la ragione per cui Schütz ritiene che l'impiego del concetto di razionalità scientifica nell'analisi della vita quotidiana sia indebito perché imputa agli attori criteri di razionalità che sono loro estranei. (Si noti che questa tesi è respinta dalla sociologia tradizionale. Per esempio Talcott Parsons - v. Grathoff, 1978, pp. 123-124 - nel commentare a distanza di trent'anni il carteggio che ebbe con Schütz a proposito del concetto di azione, ha sostenuto che non esiste una radicale differenza tra conoscenza scientifica e conoscenza di senso comune. Al contrario, per Parsons, punto di vista dell'attore e punto di vista dell'osservatore sono strettamente connessi, e la ricerca scientifica, lungi dall'essere intrinsecamente diversa, è solo un caso estremo dell'agire umano, in quanto non fa che accentuare certe componenti presenti in ogni azione).
La seconda conseguenza della distinzione è che, a differenza della sociologia tradizionale che inavvertitamente dà per scontato e usa come risorsa l'atteggiamento naturale, Schütz lo tematizza come oggetto di analisi, aprendo così, almeno in termini programmatici, un ampio territorio di ricerca fino ad allora empiricamente inesplorato.
3. Il programma teorico dell'etnometodologia
Gli etnometodologi si riallacciano direttamente alla prospettiva di Schütz sia per quanto riguarda l'oggetto di ricerca che per il metodo di analisi. Anche per Garfinkel l'interrogativo principale riguarda il modo in cui l'oggettività e l'intelligibilità del mondo sociale sono prodotte dagli attori e, alla pari dei fenomenologi, anch'egli ritiene che una risposta a tale questione possa essere fornita solo distaccandosi dall'atteggiamento naturale. Nonostante questa affinità di fondo, vi sono tuttavia due importanti differenze tra l'orientamento fenomenologico e quello dell'etnometodologia. La prima è che l'etnometodologia considera l'oggettività e l'intelligibilità del mondo sociale non come il prodotto di processi psicologici opachi alla coscienza ordinaria, come fa la fenomenologia, ma come il risultato di pratiche sociali messe in atto dai soggetti nella loro vita quotidiana. La seconda è che Garfinkel trasforma l'interesse di Schütz per una ricostruzione filosofica della logica delle scienze sociali in un programma di ricerche empiriche sulle caratteristiche dell'atteggiamento naturale. Questo mutamento d'intento è già ben visibile nei suoi primi lavori: una breve analisi di un paio di essi può essere utile per precisare il nocciolo teorico dell'etnometodologia.
1. Il caso di Agnes. Agnes è lo pseudonimo di un(a) paziente, ritenuta intersessuata, che, all'età di diciannove anni, si presentò al Medical Center dell'Università di California a Los Angeles chiedendo un cambiamento di sesso. A quel tempo Agnes aveva un aspetto chiaramente femminile, ma dalla nascita fino a diciassette anni era stata considerata e trattata come un maschio: ora, avendo scelto di vivere da donna, desiderava sottoporsi a un'operazione che accordasse le sue caratteristiche sessuali con la persona che riteneva di essere. Prima di acconsentire alla sua richiesta (la rimozione del pene e la creazione di una vagina artificiale), gli specialisti dell'UCLA la sottoposero a una lunga serie di esami fisici e psicologici per valutare l'opportunità dell'intervento chirurgico. Ma sebbene lavorasse in collaborazione con gli psicologi e gli psichiatri che si occupavano del caso, l'interesse di Garfinkel era di tutt'altro tipo: studiando Agnes, voleva esaminare una questione molto più generale, cioè i modi in cui tutti gli attori nella loro vita quotidiana producono e gestiscono il proprio status sessuale come una realizzazione pratica in situazioni concrete. Da questo punto di vista Agnes rappresentava un testimone e una guida privilegiati perché, a differenza dei normali, doveva controllare quasi riflessivamente le pratiche con le quali attualizzava il suo essere donna di fronte a chi non conosceva la sua condizione. In ogni momento le era infatti necessario produrre la leggibilità degli attributi della sessualità normale, nel suo contegno e nella sua attività, in maniera conscia e contro molteplici circostanze sfavorevoli - per esempio la mancanza di una passata biografia femminile e di un repertorio culturalmente trasmesso di modi di rendere la femminilità, la continua possibilità di essere smascherata, ecc. In breve, per Agnes l'apparire come una persona riconoscibilmente dotata di uno status sessuale normale non era un 'fatto naturale', ma il risultato di molteplici attività.
L'analisi del caso di Agnes esemplifica alcune delle più significative caratteristiche dell'approccio etnometodologico. In primo luogo, la peculiarità del suo oggetto. A prima vista niente appare più fattuale, determinato o costrittivo dell'appartenenza sessuale. In effetti, gli studi sociologici in genere - dalle classiche analisi parsoniane dei ruoli sessuali fino ai recenti lavori influenzati dalla problematica femminista - trattano lo status sessuale, l'essere maschio o femmina, come un dato di fatto, un punto di partenza al quale correlare le diverse prospettive, i punti di vista e le attività dei due sessi. Per Garfinkel questo punto di partenza diviene il punto di arrivo: l'oggetto dell'analisi consiste nella costituzione e nella continua riproduzione dell'appartenenza sessuale concepita come il prodotto di un vasto insieme di micropratiche socialmente organizzate. In altri termini, ciò che va descritto e spiegato è l'esistenza di 'maschi' e 'femmine' culturalmente specifici.
La raccomandazione centrale dell'etnometodologia che deriva da questa prospettiva di analisi è quella di ribaltare il famoso detto durkheimiano secondo il quale bisogna studiare i fatti sociali come cose; al contrario, si deve considerare come un prodotto di attività metodiche da parte dei membri della società tutto ciò che, nell'ambito dell'atteggiamento naturale, appare come un fatto. Questo non significa negare l'oggettività, la 'fatticità', l'irriducibilità di una caratteristica istituzionale come lo status sessuale: anzi, la stessa continua vigilanza che Agnes era costretta a esercitare sul proprio comportamento testimonia quanto la normale appartenenza sessuale sia pervasivamente incarnata nella vita quotidiana. Significa piuttosto iniziare a indagare in cosa consiste questa oggettività e fatticità. Agnes ci aiuta a capire che essa è il portato di numerosissime pratiche e attività: vestirsi come una donna; truccarsi come una donna; muoversi come una donna; sedere come una donna; parlare come una donna; avere le aspirazioni di una donna; avere le motivazioni di una donna; ecc. "Solo [queste e altre] pratiche dei membri producono la normale appartenenza sessuale delle persone, come la si può osservare e raccontare, e lo fanno soltanto, interamente ed esclusivamente, in occasioni determinate e specifiche, mediante manifestazioni verbali e comportamentali pubblicamente osservabili" (v. Garfinkel, 1967, p.181).
Per l'etnometodologia è attraverso queste pratiche che si realizza l'accountability, l'intelligibilità di qualsiasi evento o fatto particolare, facendolo apparire come un'istanza ovvia, familiare, riconoscibile di una categoria generale - per esempio, facendo apparire Agnes come un caso normale del sesso femminile. Tuttavia, proprio in virtù del loro successo, l'operare di queste pratiche costitutive è, nelle parole di Garfinkel, "seen but unnoticed" dagli attori nel loro atteggiamento naturale. Il caso di Agnes è particolarmente istruttivo proprio perché la sua condizione le consente di rendersi conto di questo occultamento sociale delle pratiche costitutive: "La sua angoscia e i suoi trionfi consistevano nella capacità, a lei peculiare e incomunicabile, di osservare i modi mediante i quali la società nasconde ai suoi membri le sue attività di organizzazione e così li conduce a vedere i suoi tratti come oggetti determinati e indipendenti. Per Agnes la persona normalmente sessuata, come la possiamo osservare, consisteva nell'attività inesorabile, organizzativamente situata, che forniva il modo in cui tali oggetti sorgono" (ibid., p. 182).
2. Gli esperimenti di rottura. Oltre ad assumere, come nel caso di Agnes, il punto di vista di un soggetto deviante, l'altra strategia adottata da Garfinkel per rendere visibili le pratiche costitutive consiste nell'impiegare procedure di violazione delle normali aspettative dei soggetti che fanno divenire "antropologicamente strana" l'ostinata familiarità della vita quotidiana: metodologicamente la ragione è che "le operazioni necessarie per produrre [...] un'interazione anomica e disorganizzata dovrebbero dirci qualcosa su come le strutture sociali sono ordinariamente mantenute" (v. Garfinkel, 1963, p. 187).
Non essendo possibile in questa sede commentare adeguatamente l'intera serie di questi "esperimenti di rottura" (v. Garfinkel, 1952, 1963 e 1967), ci limiteremo a un breve accenno ad alcuni di essi diretti specificamente a esplorare in maniera empirica il principio schütziano della reciprocità delle prospettive. L'esperimento più semplice fu condotto violando le regole di un gioco - il ticktacktoe (una sorta di filetto) - senza che il soggetto che fungeva segretamente da sperimentatore offrisse alcuna indicazione che potesse far capire che stava facendo qualcosa di strano. Lo scopo di Garfinkel era di vedere se la trasgressione delle regole fondamentali del gioco provocava sentimenti di confusione e anomia tra i soggetti dell'esperimento. I risultati sono interessanti. In primo luogo i comportamenti discordanti dalle regole fondamentali inducevano immediatamente i soggetti a ricorrere a tentativi di 'normalizzazione', cioè a tentativi di trattare tali comportamenti come casi di eventi ammessi dal gioco. Secondo Garfinkel questo tipo di 'aggiustamento' delle regole agli eventi, un aggiustamento necessario per mantenere un senso del mondo in comune, era reso possibile principalmente dal fatto che ogni regola porta con sé una speciale clausola aggiuntiva, la clausola dell''eccetera' - vale a dire che nessuna regola o sistema di regole è completo in se stesso, se non altro nel senso che non specifica le circostanze della propria applicazione, un punto cruciale per la prospettiva etnometodologica sul quale torneremo più avanti (v. § 3c). Il secondo risultato notato da Garfinkel è che la percezione della stranezza di un comportamento cresceva quando un soggetto continuava a cercare di normalizzare la discrepanza tra comportamento e regole mantenendo un senso inalterato di queste ultime, cioè precludendosi di cambiare quadro di riferimento, anche in presenza di casi estremi di violazione.
Altri esperimenti concernevano non più i giochi, ma la vita ordinaria. Uno di questi implicava la rottura dell'idealizzazione della congruenza dei sistemi di rilevanza mediante l'insistente richiesta rivolta dallo sperimentatore a interlocutori ben conosciuti di chiarire il senso di espressioni ordinarie. Per esempio: "Venerdì sera mio marito e io stavamo guardando la televisione. Mio marito disse di essere stanco. Io risposi: - Stanco come? Fisicamente, mentalmente o soltanto annoiato? - Non so, più che altro fisicamente, credo. - Vuoi dire che ti fanno male i muscoli o le ossa? - Non lo so. Non essere così tecnica. (Qualche minuto dopo). - In tutti questi vecchi film i letti hanno lo stesso tipo di testate in ferro battuto, disse mio marito. - Cosa vuoi dire, in tutti i vecchi film, solo in alcuni di essi o solo in quelli che hai visto? - Ma che ti succede? Sai benissimo quello che voglio dire. - No, vorrei che tu fossi più specifico. - Piantala! Sai benissimo quello che voglio dire!" (v. Garfinkel, 1967, p. 43). Oppure: "La vittima salutò allegramente con la mano e disse: - Come stai? - Come sto rispetto a cosa? La mia salute, la mia situazione finanziaria, il mio andamento scolastico, la mia tranquillità psicologica, la... - (Rosso in faccia e perdendo improvvisamente il controllo). Senti, stavo solo cercando di essere gentile! Francamente, non me ne frega niente di come stai!" (ibid., p. 44).
Come appare da questi esempi, la violazione della reciprocità delle prospettive non produceva soltanto la rottura di un ordine cognitivo, di un mondo esperito in comune, ma anche un senso di giustificata ostilità da parte dei soggetti. Essi consideravano l'intelligibilità di ciò che dicevano come qualcosa a cui avevano moralmente diritto, qualcosa la cui sistematica messa in questione era illegittima e richiedeva delle spiegazioni. In breve, questi esperimenti mostrano che ordine cognitivo e ordine morale sono strettamente connessi tra loro, che gli attori si ritengono moralmente responsabili dello svolgimento delle attività necessarie a sostenere le apparenze normali, a rendere le loro azioni sensate e intelligibili.
Come render conto di questo fenomeno? Una spiegazione funzionalista potrebbe sostenere che la violazione delle procedure che garantiscono l'accountability minaccia la possibilità stessa di una comprensione reciproca, l'esistenza di un mondo condiviso: gli attori reagiscono moralmente perché sono impegnati nella difesa di un ordine simbolico che li protegge dal caos cognitivo. Ma la spiegazione offerta da Garfinkel è alquanto diversa. In realtà, egli osserva, sebbene gli esperimenti di rottura avessero lo scopo di produrre situazioni prive di senso, inintelligibili, ciò non si verificava. Gli attori non erano afferrati neppure per un momento dal dubbio che i loro interlocutori davvero non capissero. Piuttosto li consideravano come persone che, per qualche motivo, facevano deliberatamente finta di non capire. Insomma, l'indignazione morale suscitata dagli esperimenti di rottura non era provocata dalla generica preoccupazione per il mantenimento di un astratto ordine cognitivo, ma dalla legittima irritazione nei confronti di un particolare interlocutore che, volontariamente, per qualche sua specifica, anche se misteriosa e forse spiacevole, ragione, deviava da un presupposto normale della conversazione. Gli esperimenti di rottura, facendo emergere il carattere normativo del mantenimento dei presupposti dell'atteggiamento naturale, non contrapponevano quindi comportamenti intelligibili a comportamenti privi di senso, ma comportamenti normali a comportamenti devianti (e quindi, come tali, intelligibili), le cui ragioni non erano chiare ma potevano essere cercate e trovate. Detto in altri termini, qualsiasi cosa gli attori facessero all'interno dell'atteggiamento naturale non era in grado di distruggere i presupposti dell'atteggiamento naturale stesso.
Finora abbiamo cercato di chiarire l'oggetto dell'etnometodologia - l'analisi delle pratiche che producono l'intelligibilità del mondo sociale, che permettono di renderlo account-able - e di mostrare come tali pratiche non hanno solo una dimensione cognitiva, ma anche morale. Siamo ora giunti nel cuore del problema e possiamo chiederci come funzionano le pratiche di accountability. La risposta degli etnometodologi è che esse sono contrassegnate dalle caratteristiche della riflessività e della 'indessicalità'.
Il modo più semplice per abbordare il tema della riflessività è partire da quello che Garfinkel, sulla scorta di Karl Mannheim, chiama "metodo documentario di interpretazione", intendendo con tale termine un processo interpretativo che tratta ogni particolare concreto come un 'documento' di una configurazione sottostante, come qualcosa che rimanda a essa: "Non solo la configurazione sottostante è derivata da questi particolari documenti concreti, ma essi a loro volta sono interpretati sulla base di 'ciò che sappiamo' della configurazione sottostante. Ognuno dei due è usato per elaborare l'altro" (v. Garfinkel, 1967, p. 78). Questa circolarità riflessiva tra parte e tutto è ovviamente tutt'altro che ignota alla riflessione metodologica nel settore delle scienze umane. Per non fare che qualche esempio, si ritrova nella tesi fenomenologica dell'integrazione da parte della coscienza di diverse presentazioni sensoriali in un insieme unitario; nelle teorie della psicologia della Gestalt; in tutta la tradizione ermeneutica; inoltre, sebbene le sue implicazioni non siano sempre valutate a fondo dalla teoria sociale, è un argomento affrontato specificamente da una branca della sociologia, la sociologia della conoscenza. Ma Garfinkel non si limita a sostenere che il metodo documentario è un elemento invariante di ogni atto percettivo e cognitivo; egli afferma qualcosa in più, cioè che la riflessività non è solo una caratteristica dei processi cognitivi, bensì della stessa azione sociale.
Dire che l'azione è riflessiva significa dire che in ogni momento del suo svolgersi essa costituisce - cioè mantiene, altera o, comunque, elabora - il senso del contesto in cui si dispiega ed è a sua volta costituita da esso. Da un lato, la sua realtà e oggettività dipende dal suo essere vista come inserita in un contesto, in un ordine sociale stabile e oggettivo; dall'altro, il senso che le caratteristiche di un contesto sono oggettive e reali è un effetto dell'azione.
Un esempio, ripreso da uno studio di Wieder (v., 1974, pp. 167 ss.) sulle norme di una sottocultura giovanile, può aiutare a chiarire questo punto. Un minorenne in una casa di rieducazione rispose a una richiesta d'informazioni da parte di un sorvegliante con la frase "Io non faccio la spia". Ora, anche un enunciato ordinario come questo ha importanti effetti riflessivi. In primo luogo esso a) definisce ciò che è successo prima: "mi hai chiesto di fare la spia"; b) definisce ciò che fa chi produce l'enunciato: "io non faccio la spia"; c) formula un motivo per render conto dell'azione che viene compiuta con l'enunciato: "le regole interne del gruppo dei minorenni proibiscono di fare la spia"; d) indica e costituisce la permanenza dei rapporti di ruolo tra gli interlocutori (uno esterno, l'altro interno al gruppo giovanile), ponendo così l'interazione in un contesto transituazionale. In secondo luogo l'enunciato, nella sua qualità di azione, a) sanziona la condotta del sorvegliante, qualificandola come una richiesta di fare la spia e quindi valutandola moralmente in senso negativo; b) tende a chiudere quell'argomento di conversazione; c) lascia il sorvegliante nell'ignoranza di ciò che avrebbe potuto apprendere qualora vi fosse stata un risposta; d) segnala le conseguenze - ostilità, silenzio, ecc. - derivanti da un'eventuale insistenza del sorvegliante nel porre di nuovo la domanda. In breve, l'enunciato definisce riflessivamente un contesto di attività e, al tempo stesso, essendo parte di quelle attività, ha conseguenze sul loro svolgimento.
La tesi dell'indessicalità è strettamente connessa a quella della riflessività: essa si riferisce al fatto che ogni descrizione è legata al contesto della sua produzione: quindi indica molto di più di quanto esprime 'letteralmente' e il suo significato non può essere pienamente delineato astraendo dai particolari contestuali della situazione. Garfinkel non intende semplicemente riferirsi al tradizionale problema del referente dei termini deittici, ma sottolineare che, poiché un enunciato è in primo luogo un'azione, il suo senso non può essere compreso prescindendo dal tipo di attività, inevitabilmente situata, che esso compie. Quando questa tesi fu espressa, alla fine degli anni cinquanta, suscitò forti reazioni critiche, ma ciò dipendeva essenzialmente dal fatto che, a quel tempo, la concezione del linguaggio prevalente nella comunità sociologica era esclusivamente referenziale. A distanza di trent'anni la posizione di Garfinkel appare meno radicale e sembra convergere sostanzialmente con quanto sostengono la sociolinguistica e la pragmatica - cioè che il significato di un enunciato non dipende solo dal suo contenuto proposizionale, ma anche e soprattutto dalla sua forza illocutiva, dalla cornice metacomunicativa in cui è inserito.
Garfinkel afferma ripetutamente che riflessività e indessicalità caratterizzano inevitabilmente e irrimediabilmente ogni azione e ogni account. Tutte le azioni ricostituiscono riflessivamente le proprie circostanze; e non esiste nessun enunciato il cui senso possa esser pienamente compreso transituazionalmente, indipendentemente dal contesto. Anche un enunciato rivolto a una comunità scientifica ed espresso con ragionevole chiarezza, come la famosa frase di Durkheim "La realtà oggettiva dei fatti sociali è il fondamentale principio della sociologia", è aperto a molteplici interpretazioni: "A seconda delle occasioni può essere interpretato da un gruppo di sociologi come una definizione dell'attività dei membri dell'associazione di sociologia, come il loro slogan, come il loro compito, come un'importante realizzazione, come una millanteria, come una giustificazione, come una scoperta, come un fenomeno sociale o come una costrizione sul loro lavoro di ricerca" (v. Garfinkel e Sacks, 1970, pp. 337-338).
Tutto questo però non significa che nella vita quotidiana gli attori incontrino ordinariamente problemi di comprensione reciproca. Al contrario, all'interno dell'atteggiamento naturale riflessività e indessicalità sono fenomeni privi di interesse. Le proprietà riflessive dell'azione non sono neppure notate, a meno che non vengano evidenziate con l'aiuto di esperimenti di rottura o di altre procedure che consentano di vedere il metodo documentario al lavoro (v. Garfinkel, 1967, pp. 79-88). E, per quanto riguarda l'indessicalità, da un lato gli attori riescono a circoscrivere il senso dei termini ordinari del linguaggio mediante un continuo compromesso e aggiustamento tra la generalità dei descrittori e la specificità di ciò che viene descritto; dall'altro, a livello di cornice metacomunicativa dell'atto linguistico, l'azione compiuta da un enunciato è chiarita riflessivamente dalla struttura sequenziale della conversazione (v. cap. 4).
Tuttavia, mentre gli attori sono generalmente a proprio agio nel maneggiare a tutti gli scopi pratici le caratteristiche indessicali e riflessive del linguaggio, si trovano immediatamente in difficoltà appena cercano di eliminare tali caratteristiche e di trattare i propri enunciati 'letteralmente', come se essi fossero indipendenti dalle circostanze della loro produzione. Per Garfinkel questa incorreggibilità dell'indessicalità vale anche a livello scientifico. Ciò ovviamente implica una valutazione critica della teoria sociologica, perché la sua ambizione consiste nel costruire modelli le cui proposizioni siano costituite non da espressioni indessicali, ma da asserzioni indipendenti dal contesto e stabili nel tempo. Analizziamo più in dettaglio questo punto.
Al livello teorico più generale, la critica che l'etnometodologia rivolge alla sociologia è di disinteressarsi del problema cognitivo dell'ordine sociale, cioè di dare per scontata la questione dell'intelligibilità della realtà sociale invece di tematizzarla come un importante oggetto di ricerca. Se questo esaurisse il problema, la critica potrebbe essere intesa come una proposta di divisione del lavoro, nel senso che l'etnometodologia potrebbe dedicarsi a studiare i presupposti cognitivi dell'organizzazione sociale integrando i suoi risultati con quelli ottenuti dalla sociologia, la cui validità resterebbe intatta. Ma le cose non stanno in modo così semplice. Non solo, infatti, la sociologia non analizza i presupposti cognitivi dell'ordine sociale, ma è costretta a basarsi su di essi nelle sue indagini. E ciò, secondo gli etnometodologi, comporta serie difficoltà sia a livello di raccolta e analisi dei dati che a livello di teorizzazione dell'azione.
Per quanto riguarda il primo punto, l'immersione della sociologia nell'ordine cognitivo condiviso dagli attori la conduce a un'acritica accettazione dei 'fatti sociali' da studiare, invece che a un esame delle pratiche che permettono che vi siano dei fatti sociali riconosciuti come tali. Questo tipo di critica è stato sviluppato dall'etnometodologia soprattutto a proposito dell'uso delle statistiche ufficiali nel campo della devianza (anche se può essere logicamente esteso a ogni altro settore della sociologia). Per esempio, uno studio di Cicourel (v., 1968) sulla delinquenza giovanile negli Stati Uniti ha chiaramente mostrato che un ampio numero di considerazioni di senso comune influenza la categorizzazione di un atto come deviante. Secondo questo studio, poliziotti e giudici, essendo convinti dell'esistenza di un rapporto tra le condizioni della famiglia cui appartiene un minorenne e le probabilità che egli commetta un reato, tendevano a trattare le infrazioni dei ragazzi che provenivano da famiglie divise e disorganizzate più seriamente di quelle dei ragazzi che provenivano da famiglie regolari. Di conseguenza, i reati commessi dai primi erano più frequentemente registrati nei rapporti di polizia, giudicati dai tribunali e puniti con misure di reclusione. Il nocciolo della tesi di Cicourel è che certi assunti fondamentali sulla delinquenza giovanile producono differenti trattamenti dei minorenni e quindi differenti tassi statistici che, a loro volta, vengono usati per sostenere la validità degli assunti iniziali. La stessa circolarità appare all'opera nell'analisi dei suicidi. Atkinson (v., 1978) ha sostenuto che le concezioni che la polizia ha del 'suicidio tipico' influenzano profondamente la categorizzazione di casi particolari di morte improvvisa e quindi le statistiche ufficiali. Di conseguenza le analisi sociologiche del suicidio basate su queste ultime sono inevitabilmente condannate a decodificare le concezioni di senso comune del suicidio che avevano guidato la raccolta iniziale dei dati.
Il secondo tipo di critiche riguarda la teoria normativa dell'azione. Malgrado le numerose varianti di questa teoria, che occupa un ruolo egemone nella disciplina sociologica, il suo nucleo centrale è estremamente chiaro: l'ordine sociale è il prodotto di azioni coordinate, guidate da norme o regole condivise dagli attori. Ora, è facile vedere come questa affermazione teorica riposi su due presupposti. Il primo è che, per poter agire in maniera coordinata, è necessario non solo che gli attori ottemperino a norme comuni, ma anche che siano in grado di identificare nello stesso modo le situazioni a cui le norme si applicano. Tuttavia l'esistenza di questo consenso cognitivo, assolutamente indispensabile per la struttura deduttiva della teoria normativa, è teoricamente problematico. Le situazioni e i contesti non si presentano infatti agli attori già suddivisi in classi prefissate a cui applicare le regole: al contrario, le regole devono essere applicate a specifiche configurazioni di circostanze, ognuna delle quali può non essere identica all'altra e che, in ogni caso, possono essere costruite dagli attori in modi diversi. Naturalmente ciò non vuol dire che l'applicazione consensuale di una regola sia sempre particolarmente difficoltosa. Ma i numerosi casi in cui una regola è efficacemente 'seguita' in pieno accordo non devono far dimenticare i casi di disaccordo nell'interpretazione delle regole, cioè i casi in cui non vi è consenso sul fatto che un'istanza ricada sotto la regola. Ciò significa che non esistono implicazioni logiche di una regola: in ogni situazione concreta è logicamente possibile sia assimilare un nuovo caso alla regola, argomentando la sua analogia con esempi precedentemente accettati dell'applicazione della regola, sia rifiutare tale assimilazione, sottolineando l'unicità del caso nuovo. Come afferma Garfinkel, con un'espressione che avrebbe potuto essere sottoscritta da Wittgenstein (che, in un contesto filosofico, ha anticipato completamente la problematica etnometodologica su questo punto), una regola è sempre applicata "per un'altra prima volta" e la sua applicazione va giustificata in base a valutazioni specifiche, locali e contingenti.
Il secondo presupposto della teoria normativa criticato dall'etnometodologia è che essa tratta le circostanze in cui si trova l'attore come essenzialmente immutate dal suo corso di azione, cioè trascura sia la riflessività dell'agire che la dimensione temporale inerente al suo svolgimento. Invece di concepire l'attore come un individuo che, nel dispiegarsi di una sequenza di azione, compie inevitabilmente delle scelte e in ogni momento ricostituisce riflessivamente il contesto del suo agire, lo considera una sorta di cultural dope che applica meccanicamente una norma a circostanze predefinite.
In breve, secondo gli etnometodologi il determinismo della teoria normativa è basato su un'illusione ottica che, partendo dal risultato dell'azione, lo imputa retrospettivamente a norme concepite come cause necessarie e sufficienti, trascurando i fenomeni della indessicalità e della riflessività. L'alternativa che essi propongono non consiste ovviamente nel contestare l'esistenza di regole e massime di condotta in quanto tali, ma nel riformulare il loro ruolo, che da regolativo diviene costitutivo. Esse cessano cioè di essere considerate come qualcosa che determina l'azione e sono invece viste come risorse impiegate dagli attori per dare un senso alla condotta, per costituire riflessivamente le circostanze e le attività cui sono applicate. All'interno di questo paradigma interpretativo si può dire, ricorrendo alla vecchia metafora del gioco, non tanto che il gioco segue le regole, quanto che le regole, attraverso le attività interpretative degli attori, seguono il gioco e rendono i suoi eventi normali e comprensibili.
4. Principali direzioni della ricerca empirica
Come appare da questa breve esposizione, la rilevanza dell'etnometodologia è prevalentemente di ordine teorico-epistemologico e i suoi contributi s'inseriscono all'interno della svolta post-positivistica della teoria sociale (per un'analisi di questo punto v. Giglioli e Dal Lago, 1983, pp. 9-49). Tuttavia l'approccio etnometodologico ha anche influenzato alcune direzioni di ricerca empirica, delle quali segnaliamo qui quelle che ci sembrano più importanti.
Come abbiamo visto, uno dei temi maggiormente studiati da Garfinkel, che lo riprende direttamente dalla tradizione fenomenologica e lo riformula in una prospettiva sociologica, riguarda il modo in cui gli attori attraverso il metodo documentario d'interpretazione usano il ragionamento di senso comune per tipizzare e rendere normale e intelligibile l'ambiente sociale in cui sono situati. Una buona parte dei primi lavori empirici stimolati dall'etnometodologia si situa in questa area collocandosi principalmente nel settore della devianza, forse perché in esso i processi di tipizzazione sono più facili da identificare e studiare. Per esempio, uno studio di Sudnow (v., 1965) sui 'reati normali' mostra come gli avvocati d'ufficio nei tribunali californiani impieghino dei modelli del tipico reo e del tipico reato per caratterizzare i loro difesi e per impostare la condotta processuale; un lavoro di Wieder (v., 1974) su una casa di correzione per minorenni mette in luce come il loro uso di un codice d'onore influenzi profondamente il modo in cui essi e i loro sorveglianti percepiscono gli eventi all'interno dell'istituzione; un saggio di Sacks (v., 1972) esplora i modi in cui i poliziotti di ronda costruiscono tacitamente la loro zona come un territorio di 'apparenze normali'; e così via.
È importante sottolineare, dato che questi lavori sono stati spesso confusi con quelli improntati alla labelling theory e, più in generale, all'interazionismo simbolico, che gli approcci alla devianza delle due scuole sono diversi, anche se mostrano dei punti di contatto. Per gli interazionisti la devianza è un fatto sociale oggettivo, anche se radicato nei processi d'interazione sociale e paradossalmente prodotto proprio da quelle organizzazioni il cui compito istituzionale consiste nel controllare il comportamento deviante. Per gli etnometodologi, invece, ciò che conta soprattutto e preliminarmente nello studio dei fenomeni devianti è l'analisi dei meccanismi di senso comune che permettono di render conto di un comportamento come deviante, e ciò al di fuori di qualsiasi prospettiva 'ironica', che emerge soltanto quando si paragona impropriamente la razionalità scientifica con la razionalità della vita quotidiana.
Un secondo importante gruppo di analisi empiriche improntate alla prospettiva etnometodologica riguarda lo studio del modo in cui vengono mantenute le realtà istituzionali. Il punto di partenza è qui rappresentato dal saggio su Agnes precedentemente discusso, nel quale Garfinkel esamina in qual modo gli attori riproducono invisibilmente e inconsciamente l'istituzione del genere. Tra i lavori successivi che hanno sviluppato questa linea di ricerca vanno menzionate alcune analisi che si occupano specificamente del mantenimento dei sistemi di intelligibilità. Particolarmente interessante tra di esse è lo studio di Pollner (v., 1987) sulle pratiche che permettono di mantenere fermo il senso di realtà caratteristico dell'atteggiamento naturale, cioè il senso di un mondo-conosciuto-in-comune, anche in presenza di circostanze che minacciano tale assunto. Basandosi specialmente su dati empirici tratti da osservazioni etnografiche nelle aule dei tribunali, Pollner nota che, nel caso di diverse e contraddittorie versioni dello 'stesso' fatto, vengono messe in atto procedure che, imputando la discrepanza a errori cognitivi, a menzogne o ad altre cause, permettono di mantenere la credenza in una realtà oggettiva popolata da oggetti ed eventi definiti, non contraddittori e identici a se stessi. Alla pari delle "elaborazioni secondarie di credenze" descritte da Evans-Pritchard nel suo classico studio sugli Azande, queste pratiche costituiscono uno strumento con cui viene eliminato ogni attacco al nostro senso della realtà mondana.
Il medesimo problema di risolvere il contrasto tra accounts divergenti dello stesso fenomeno ristabilendo un consenso cognitivo si presenta nell'ambito scientifico di fronte a teorie concorrenti. Anche in questo caso, sostengono alcuni recenti lavori di sociologia della scienza ispirati all'etnometodologia (v., per esempio, Gilbert e Mulkay, 1984), la soluzione consiste nell'imputare la divergenza a fattori che distorcono i normali meccanismi cognitivi, salvaguardando così l'assunto iniziale relativo all'esistenza di un sapere scientifico univoco radicato nell'osservazione della natura. Va da sé che né lo studio di Pollner né quello di Gilbert e Mulkay implicano in qualche modo un approccio scettico o solipsistico circa l'esistenza di un mondo oggettivo osservabile e descrivibile sia dal punto di vista del senso comune che da quello scientifico. Piuttosto, sospendendo temporaneamente per scopi euristici la credenza nell'oggettività di quel mondo, essi mostrano alcuni dei modi in cui tale oggettività è creata e mantenuta come un fenomeno intersoggettivo e socialmente organizzato.
Infine, la terza principale area di ricerca empirica dell'etnometodologia è l'analisi della conversazione. Nato agli inizi degli anni settanta ad opera di due collaboratori di Garfinkel, Harvey Sacks ed Emmanuel Schegloff, questo settore è cresciuto e si è diversificato molto rapidamente nell'ultimo quindicennio. Da un lato esso si pone oggi come un punto d'incontro tra diverse discipline interessate al comportamento linguistico: linguistica, pragmatica, psicologia sociale, sociologia, antropologia, scienze cognitive; dall'altro, ha elaborato un approccio e uno stile altamente specialistici, che lo distinguono da altre branche dell'etnometodologia. Questa ampiezza, differenziazione interna e specializzazione precludono la possibilità di riassumere in poche righe gli orientamenti e i principali risultati dell'analisi della conversazione. Ci limitiamo soltanto a notare che, malgrado la sua specificità, essa si riallaccia strettamente alla generale problematica etnometodologica, in quanto le sue questioni centrali riguardano l'indessicalità e la riflessività, il modo in cui viene prodotto un senso definito con strumenti linguistici indefiniti. Nell'ambito di questi interrogativi, l'analisi delle conversazioni sembra muoversi lungo due direzioni. In primo luogo ha cercato d'individuare i vari aspetti dell'organizzazione sequenziale delle conversazioni informali ordinarie, assumendo che queste strutture sintagmatiche vadano trattate come strutture sociali indipendenti dalle caratteristiche psicologiche dei parlanti, i quali anzi si servono della conoscenza tacita che hanno di esse per orientare la propria condotta nell'interazione e interpretare la condotta altrui. (È interessante notare che l'analisi di queste fondamentali procedure sequenziali è altamente cumulativa, indipendentemente dalle particolari culture e dai sistemi linguistici in cui le singole ricerche si sono svolte). In secondo luogo, da qualche anno vi è stato un crescente interesse per la struttura dell'interazione conversazionale in contesti istituzionali precisi - ad esempio classi scolastiche, aule di tribunali, rapporti medico-paziente, ecc. -, un campo di ricerca che per ora sembra mostrare minore convergenza di risultati dell'analisi dei meccanismi sequenziali delle conversazioni informali, in parte forse per la sua recente costituzione, ma assai probabilmente anche perché questo tipo di interazione sembra maggiormente influenzato da variabili storico-culturali.(V. anche Sociologia).
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