Etnostoria
L'etnostoria è una prassi di ricerca che si è affermata negli anni quaranta tra gli antropologi statunitensi nell'ambito d'indagini di carattere storico-etnografico sulle popolazioni indiane del Nordamerica e si è sviluppata nell'ultimo cinquantennio in contesti diversificati di ricerca, contraddistinti da una molteplicità di riferimenti teorici e metodologici. L'etnostoria è fin dall'inizio più un'indicazione di metodo che una vera e propria disciplina; essa registra a più livelli la crescente insoddisfazione dei cultori delle discipline etnoantropologiche e di quelle storiche, i quali, una volta chiamati a operare in contesti di 'frontiera' metodologici o disciplinari, sentono di non poter restare confinati all'interno dei tradizionali ambiti d'indagine senza tradire il senso stesso del proprio mestiere. Da questo punto di vista, l'etnostoria fa parte del più vasto ampliamento dei confini disciplinari che ha caratterizzato le scienze sociali particolarmente nel dopoguerra, e del tentativo di ridefinirne gli ambiti di riferimento originari in modo da poter cogliere e analizzare più compiutamente la crescente complessità del reale.
L'esplosione etnostorica ha coinvolto nell'ultimo trentennio una parte significativa della produzione etnografica e storiografica relativa alle popolazioni cosiddette non letterate del mondo, con particolare riguardo alle popolazioni indiane d'America, le civiltà precolombiane, le popolazioni aborigene del Nuovo Mondo (particolarmente Australia e isole del Pacifico), le popolazioni dell'Africa e dell'Asia (v. Vansina, 1966; v. Cohn, 1968; v. Carmack, 1972; v. McBryde, 1978; v. Dirks, 1987). L'ampiezza degli ambiti geoculturali di riferimento e le differenti metodologie impiegate dagli studiosi nelle loro indagini specifiche hanno progressivamente ampliato gli iniziali parametri di riferimento - gli studi storico-culturali sugli Indiani d'America - per confluire in un approccio interdisciplinare fortemente caratterizzato dalla fusione di più ambiti e metodi d'indagine. Dopo l'iniziale impostazione data alla disciplina, "lo studio delle popolazioni primitive sulla base di documenti scritti e altre fonti non antropologiche", essa è stata definita più recentemente come "l'uso di metodi e materiali storici ed etnologici per lo studio della natura e delle cause del cambiamento all'interno di culture definite attraverso concetti e categorie etnografiche" (v. Axtell, 1979, p. 2). La rivista statunitense "Ethnohistory", fondata nel 1954 per dare spazio ai nuovi studi etnostorici, mentre si autodefiniva agli inizi rassegna trimestrale "di storia documentaria della cultura e dei movimenti delle popolazioni primitive, con particolare riguardo agli Indiani d'America", a partire dagli anni settanta si proclama dedita allo studio "della storia e dei processi culturali delle singole popolazioni del mondo abitato, a qualunque livello di organizzazione socioculturale appartengano, con particolare riguardo alle popolazioni non-industriali" (v. Wiedman, 1986, p. XII).
Sulla base di tali premesse è chiaro che le diverse elaborazioni teoriche e metodologiche che sono state via via formulate sull'etnostoria hanno risentito della diversa natura delle società studiate, del loro tipo di organizzazione sociale e ambientale, delle forme di contatto e/o di dominazione intrattenute con le culture europee, della natura e della qualità della documentazione disponibile, nonché dell'orientamento dei singoli studiosi - soprattutto storici e antropologi - che ne hanno fatto l'oggetto dei propri studi. In assenza di un'elaborazione teorica univoca, l'etnostoria resta fondamentalmente una pratica storiografica d'indagine che interseca più terreni e mestieri, e unisce in modo particolare il contributo teorico e terminologico delle discipline etnoantropologiche con il metodo critico derivato dall'indagine storica. Essa è pertanto affine, da un lato, alla storia culturale intesa in senso antropologico e dall'altro all'etnografia o antropologia storica, così come questa viene definita dagli storici moderni (v. Deschamps, 1968; v. Axtell, 1979; v. Burguière, 1980; v. Le Goff, 1979).
Fin dagli inizi l'etnostoria si caratterizza come una risposta pragmatica che gli studiosi delle società etnologiche del passato hanno dato ai problemi delle loro ricerche, vista l'impossibilità di "organizzare spedizioni sul terreno nel passato" (v. Lurie, 1961, p. 89): di qui il ricorso alle fonti documentarie, patrimonio tradizionale degli storici (gli archivi, le fonti scritte, le indagini archeologiche), e il loro confronto con i risultati della ricerca sul terreno tra i discendenti, i sopravvissuti, o i succedanei delle culture oggetto di studio, e con la loro rappresentazione del proprio passato. Le fonti orali, le tradizioni storiche trasmesse di generazione in generazione, i lasciti culturali e materiali del passato filtrati attraverso gli 'archivi viventi' delle culture contemporanee sono altrettanti mezzi per acquisire il nuovo punto di riferimento dell'indagine storiografica postcoloniale sulle popolazioni extraeuropee, il 'punto di vista' degli indigeni sulla propria cultura (cfr. Josselin de Jong, in Zuidema, 1964; tr. it., p. XXIX). Di qui anche il continuo e necessario ricorso alla prassi inter- e metadisciplinare (cfr. Romano, in Murra, 1975; tr. it., pp. XIII-XVI) e l'intreccio di percorsi di ricerca capaci di restituire una visione 'globale' delle società oggetto di studio, una "storia a tutto tondo" (v. Washburn, 1961, p. 41) in cui i fatti vengano isolati da un punto di vista storico per poter essere colti tuttavia nel loro essere sistema caratterizzato da uniformità e costanti etnologicamente intese.
I caratteri distintivi dell'etnostoria rimangono pertanto fortemente collegati al momento della sua nascita, ossia all'iniziale collegamento tra indagine etnografica e indagine storica, ed è da questo momento che occorre partire per ricostruirne la portata originaria e l'insieme di riflessioni e dibattiti che da allora hanno fortemente caratterizzato il suo percorso di studi e ricerche.
L'etnostoria si afferma negli anni quaranta sulla scia di ricerche storiche ed etnologiche sulle popolazioni aborigene dell'America settentrionale e si espande in seguito oltre gli originari ambiti di ricerca, pur rimanendo fortemente ancorata alla tradizione iniziale dell'incontro, nuovo per quegli anni, tra sapere storico e prassi etnografica. Per capire la novità di questo incontro occorre ricordare i difficili rapporti che fin dagli inizi l'antropologia intrattiene con la storia, considerata disciplina più affine all'arte che alla scienza, interessata ai fatti individuali e collettivi nella loro irripetibilità e scansione temporale, più che a processi e meccanismi sociali colti nella loro uniformità e diffusione nello spazio. Anche quando l'antropologia si autoproclama - come fa la neonata London Anthropological Society nel 1863 - "scienza dell'umanità" e si propone di "tracciare la storia primitiva dell'Uomo" (v. Voget, 1975, p. 132), è a livello puramente teorico e filosofico che l'analisi viene condotta sulla base di astratti modelli evolutivi denominati 'stadi di sviluppo': la ricerca antropologica, che E.B. Tylor riconosce base imprescindibile della nuova "scienza della cultura", non ha molto a che vedere con la storia; non a caso i suoi modelli di riferimento sono tratti dalle scienze naturali e dalle sue classificazioni; la storia dell'umanità è percepita come "un capitolo della storia della natura" e risponde "a leggi altrettanto definite come quelle che reggono il movimento dei flutti, le combinazioni degli acidi e delle basi, il crescere delle piante e degli animali" (v. Tylor, 1871, vol. I, p. 2).
Lo storicismo culturale e diffusionista che si afferma in Europa, soprattutto in Germania e in Austria, a seguito delle ricerche antropogeografiche di Friedrich Ratzel (1844-1904) e di quelle storico-culturali di Fritz Graebner (1877-1934) per poi estendersi al resto d'Europa e agli Stati Uniti, ribalta in parte l'originario rifiuto della storia: l'antropologia culturale americana (soprattutto Franz Boas, 1858-1942) e la teoria dei 'cicli culturali' (Kulturkreis) di padre Wilhelm Schmidt (1868-1954) si basano entrambe sulla possibilità per gli studiosi d'individuare 'tratti' e 'complessi' culturali storicamente definiti e di rintracciarli nelle culture dei diversi gruppi umani attraverso lo studio specifico delle loro migrazioni e dei loro contatti. Il modello di fondo della scuola storico-culturale è il sasso gettato nell'acqua stagnante: "Ogni sviluppo culturale emanava da un punto focale e si estendeva all'esterno come tanti cerchi in uno stagno [...]. I tratti più antichi si trovavano perciò ai margini della sfera di diffusione, e il cerchio più largo corrispondeva a quello più vecchio" (v. Voget, 1975, p. 355).Con Franz Boas, che dalla nativa Germania emigra nel 1887 negli Stati Uniti, ottenendo due anni dopo la cattedra di antropologia presso l'Università di Columbia a New York, il metodo storico torna a essere parte integrante della ricerca etnologica, specie negli Stati Uniti, dove gli studenti vengono invitati a studiare dal vivo le culture primitive - gli archivi viventi della cultura umana - per carpire tracce e segni delle culture del passato (v. Bernardi, 1974, p. 176). La ricerca di ogni possibile fonte documentaria - storica, archeologica, linguistica, museologica, iconografica - e la raccolta sul campo di dati etnografici e della memoria storica trasmessa all'interno delle stesse popolazioni oggetto di studio diventano così i nuovi terreni di confronto e di analisi per l'antropologia culturale americana. Con Boas il metodo storico diretto diventa la base del nuovo metodo etnologico: "L'indagine storica deve essere considerata il test critico richiesto dalla scienza per trasformare i fatti osservati in eventi aventi valore di prova" (v. Boas, 1940, p. 279).
È in questo ambito che la prima elaborazione del concetto di etnostoria viene formulata da un etnologo statunitense, Clark Wissler, allorché organizza nel 1909 presso l'American Museum of Natural History di New York un'esposizione congiunta di materiali archeologici ed etnografici relativi alle culture indiane della regione inferiore del fiume Hudson, allo scopo di ricostruire la vita pre- e protostorica di un insieme umano topograficamente delimitato sulla base di reperti archeologici e di dati etnografici raccolti sul terreno. Nell'introduzione al volume che illustra i criteri di raccolta della mostra Wissler afferma che tutti i suoi collaboratori avevano seguito "uno stesso metodo generale di ricostruzione della cultura preistorica saldando insieme i materiali etnostorici e archeologici disponibili" (v. Wissler, 1909, p. XIII). Questo metodo generale era l'etnostoria, un termine che Wissler per primo introdusse per definire essenzialmente la "ricerca d'informazione etnologica nei documenti storici" (v. Hulkrantz, 1967, p. 113).La lezione di Wissler non fu persa. Un suo allievo, l'etnologo William Fenton, nel ricordare l'aspra controversia che negli anni trenta oppose Franz Boas (v., 1936) ad Alfred Kroeber (v., 1935) sul ruolo della storia nelle discipline etnoantropologiche, ricorda di essere stato sottoposto, come tutti gli allievi che seguivano in quegli anni i seminari di Wissler presso l'Università di Yale, "a dosi massicce di fonti documentarie. La biblioteca, le collezioni dei musei, il soggiorno sul terreno tra informatori viventi, e infine i manoscritti di archivio erano le fonti cui tutti noi venivamo indirizzati" (v. Fenton, 1962, p. 7).
Intanto, mentre il diffusionismo degli inizi del secolo perdeva rapidamente colpi in Europa di fronte agli attacchi funzionalisti dell'antropologia sociale britannica, da Malinowski a Radcliffe-Brown (quest'ultimo insegnò presso l'Università di Chicago tra il 1931 e il 1937), con esso perdeva terreno anche il peso del metodo storico negli studi etnologici. In questi anni, e durante tutta la prima metà del secolo, la ricerca etnostorica non fu tuttavia abbandonata, e la particolare congiunzione della ricerca etnografica sul terreno e dell'uso di metodi e materiali storico-documentari per la ricostruzione etnologica di culture storiche primitive rimase patrimonio acquisito dell'antropologia culturale americana tra le due guerre. Così le indicazioni di metodo di Paul Radin (v., 1933) e le indagini di John Swanton (v., 1942 e 1946) sulle tribù indiane della costa orientale, e ancora gli studi di William Fenton sulle bande degli Irochesi o quelli di William Strong e di Julian Steward, rispettivamente sugli Indiani delle grandi pianure e delle regioni intramontane del Nordamerica, costituiscono il filo di continuità tra le prime intuizioni dei pionieri e l'esplosione etnostorica degli anni quaranta e cinquanta. Questi ultimi saggi, raccolti nel volume collettaneo che venne offerto a John Swanton al termine dei quarant'anni spesi al servizio dell'American Bureau of Ethnology (v. Smithsonian Institution, 1940), mostrano la costante fertilità dell'approccio etnostorico tra le due guerre e il forte richiamo del suo appello interdisciplinare.
In questi anni la disciplina riceve nuovi impulsi fondamentali. Paradossalmente è un atto estraneo al mondo degli studi che ne provoca l'improvvisa espansione: nel 1946 il Congresso americano approva l'Indian claims act, che permette ai gruppi indiani dislocati sul territorio nazionale d'intentare azioni legali contro il governo federale per ottenere la restituzione delle terre sottratte arbitrariamente dopo la firma dei trattati di pace o un adeguato risarcimento. L'etnostoria ne raccoglie subito i frutti. In pochi anni, tra il 1946 e il 1952, più di 400 cause vengono discusse nelle aule di giustizia federali da collegi di difesa e di accusa che arruolano a sostegno delle rispettive tesi stuoli di storici e di antropologi con il compito di produrre in tribunale 'prove' testimoniali sulla locazione, estensione e natura del controllo da parte indiana dei territori contestati. Vengono così riscoperte, e utilizzate a piene mani, le risorse archivistiche, documentarie e museologiche degli archivi statali e federali, vengono ripubblicati gli scritti e le testimonianze dei primi contatti tra indiani e pionieri, vengono condotti nuovi e ripetuti studi sul terreno a suffragio e a sostegno delle prove documentarie. È di questo periodo l'appello di William Fenton (v., 1952, p. 328) agli etnologi americani perché tornino a fare storia e l'invito a sentirsi "ugualmente a proprio agio sul terreno e in biblioteca". Il risultato sarà una poderosa mole di studi e di nuovi interessi di carattere etnostorico che sfoceranno, nel 1954, nella costituzione dell'American Ethnohistorical Conference, il cui bollettino trimestrale, "Ethnohistory", da allora pubblica ininterrottamente i risultati delle ricerche in questo settore.
Gli anni cinquanta vedono pertanto chiudersi definitivamente la fase di gestazione della disciplina e aprirsi la fase, che è tuttora in corso, di espansione e di assestamento. La prima fase aveva visto l'affermarsi graduale di alcuni principî base dell'etnologia militante, che verranno poi ripresi e dilatati nel nuovo clima anticoloniale degli anni sessanta, creando un significativo collegamento tra l'etnostoria nordamericana e la storia della dominazione europea: l'enfasi per la ricerca diretta sul terreno, tra gli 'archivi viventi' delle culture oggetto di studio, quale necessario correttivo alle fonti documentarie esterne; l'analisi sistemica, di tipo antropologico, da applicare a materiali e fonti storiche (si parte dal particolare per cogliere il generale, l'analogo, l'uniforme); e infine la dichiarata volontà di registrare il 'punto di vista' dell'indigeno più che quello del testimone o del conquistatore esterno mostrano quanto l'opposizione alla storiografia coloniale facesse parte del bagaglio etnostorico di quegli anni.
Così, anche il difficile equilibrio richiesto tra indagine etnografica e metodo storico caratterizzerà a lungo il dibattito teorico intorno alla disciplina: la rivista "Ethnohistory" ne sarà lo specchio fedele lungo tutto l'arco degli anni sessanta e settanta e vi si discuterà a lungo se l'etnostoria sia principalmente "una disciplina separata, una branca dell'antropologia o della storia, una tecnica per analizzare alcuni tipi di fonti, o piuttosto una fucina di dati utili per altre discipline" (v. Trigger, 1982, p. 2). In questi anni si assiste in realtà a un significativo spostamento del dibattito sulla disciplina verso orizzonti più propriamente storiografici. Se l'etnostoria infatti nasce e si afferma all'interno degli studi etnoantropologici, e fino alla fine degli anni sessanta viene sottolineata la sua appartenenza a tale ambito, l'allargamento delle aree geografiche di riferimento, la fine della dominazione coloniale e le nuove metodologie di ricerca sulle culture orali sperimentate sul terreno aprono alla disciplina ulteriori e promettenti ambiti di lavoro etnostorico in America Latina, Asia e Africa (v. Vansina, 1961; v. Cohn, 1961; v. Smith, 1961; v. Adams, 1962; v. Gibson, 1964).
Tipica di questo periodo è l'elaborazione teorica di William Sturtevant, che razionalizza lo spettro di azione dell'etnostoria suddividendone i contributi in due aree principali di afferenza: la prima, che egli definisce "etnografia storica", viene coltivata per lo più dagli etnoantropologi ed è omologabile alla ricerca sul terreno, anche se le risposte sono ricavate "dai documenti piuttosto che dagli informatori"; la seconda, la "storiografia delle culture orali", è invece di pertinenza degli storici là dove questi sono chiamati a operare in contesti di società non letterate e dunque debbono fare ricorso a discipline ausiliarie quali l'etnologia comparata, le tradizioni orali, o l'archeologia. L'etnostoria è il risultato finale, il necessario 'riavvicinamento', negli scopi come nei metodi di ricerca, delle due discipline per una migliore messa a fuoco del reale osservato (v. Sturtevant, 1966, pp. 7-8).
Gli anni settanta vedono il prevalente assestarsi della disciplina a livello storiografico. Tra il 1972 e il 1975, nella prestigiosa collana degli handbooks del Bureau of American Ethnology, escono sotto il titolo Guida alle fonti etnostoriche gli ultimi quattro volumi dello Handbook of Middle American Indians. Curata da Howard Cline, uno storico, la Guida intende essere, più che una sintesi, un primo inventario critico delle fonti documentarie sugli Indiani dell'America centrale, e un'indicazione di metodo per la nuova generazione di indigenistas americani. Cline afferma nell'Introduzione che quest'opera, la prima nella lunga tradizione degli handbooks a contenere una specifica sezione etnostorica, "santifica" la disciplina a livello storiografico, anche se ammette l'esistenza di "più di una varietà" etnostorica quale legittima specializzazione sia della storia che dell'antropologia. Cline nega esplicitamente che esista un'"ortodossia" etnostorica e parla piuttosto di una prassi di ricerca differenziata per storici e per antropologi, invocando per i primi l'uso di fonti non storiche per la ricostruzione storiografica, e per i secondi l'uso di fonti non etnografiche per la ricerca antropologica (v. Cline, 1972).
Ma dobbiamo allo storico James Axtell e all'antropologo Bruce Trigger l'elaborazione teorica più compiuta di questo periodo. Secondo il primo le caratteristiche dell'etnostoria degli anni settanta sono ben diverse da quelle, antropologicamente definite, della fase iniziale, quando si limitava all'uso di documenti scritti per lo studio di popolazioni primitive. Essa ora implica la ricostruzione del passato etnografico di una singola cultura o di più culture a confronto: si distingue dall'etnografia storica in quanto è interessata particolarmente allo studio dei fenomeni di contatto (per esempio le frontiere) e ai mutamenti interni dei gruppi oggetto di studio, si serve di "nuovi metodi e materiali" per la ricostruzione storiografica (fotografie e mappe, tradizioni orali ed ecologia, collezioni di musei e reperti archeologici), ma soprattutto presta alla storia "l'uso critico di concetti e materiali etnologici nell'esame e nell'uso delle fonti storiche". Della storia mantiene tuttavia l'orientamento di base, il suo essere la scienza del concreto, del particolare, il rifuggire da astrazioni generali cogliendo allo stesso tempo i caratteri di generalità dei fenomeni particolari e anche di quelli individuali, nella convinzione che "il dissodamento minuzioso e prolungato di uno specifico terreno di coltura dia più frutti teorici di una sarchiatura di superficie su una vasta area di suoli differenti" (v. Axtell, 1979, pp. 4-5).
A metà degli anni ottanta l'etnostoria è caratterizzata da un vistoso successo di pubblico e da un'abbondanza di risultati di ricerca. Bruce Trigger, il secondo degli autori qui considerati, nel riconoscere che l'etnostoria si è affermata "come non mai", sottolinea che essa ha avuto un grande seguito soprattutto in Nordamerica, Australia e isole del Pacifico, là dove cioè la storiografia si è confrontata con problemi di 'culture a contatto'. Lo studio dei mutamenti interni alle culture indigene ha permesso inoltre d'interrompere una tradizione eurocentrica che considerava statiche e immutabili le società preletterate e dunque oggetto più di analisi etnografica che storica. I contributi provenienti dall'interno delle stesse società oggetto di studio hanno portato infine a forme di 'revisionismo storico' che hanno stimolato nuove analisi critiche, ma anche brusche e ideologizzate rotture che rischiano di piegare l'etnostoria a disegni o programmi di parte (v. McBryde, 1979, p. 138). Il rimedio, per Trigger, non può essere se non un ritorno al rispetto rigoroso del metodo etnostorico. L'etnostoria è "impossibile senza una buona padronanza delle tecniche storiografiche" (v. Trigger, 1976, p. 17), ma è parimenti impossibile senza "una solida conoscenza etnologica", giacché scrivere la storia di culture non letterate implica il possedere saldamente insieme le capacità di analisi e di metodo delle due discipline: "Gli etnostorici debbono possedere l'arte di saper integrare questi due approcci" (v. Trigger, 1982, p. 10). A distanza di quasi cinquant'anni dalle prime riflessioni storiche di Fenton, l'etnostoria è nuovamente chiamata a risolvere le questioni che insorgono nel suo primario ambito di riferimento, quello metodologico.
Nel suo saggio The training of historical ethnologists in America William Fenton (v., 1952) lamentava il disinteresse degli etnologi americani per le fonti storiche esistenti sulle popolazioni oggetto d'indagine antropologica. L'assenza di un approccio storico era per Fenton il segno di un perdurare tra gli etnologi americani del convincimento diffusionista che "le popolazioni primitive fossero prive di storia" e che pertanto non fosse utile indagarne il passato. Le ricerche allora in corso dello stesso Fenton (v., 1949) sugli Irochesi, di N. Lurie (v., 1961) sui Winnebago, e di H. Hickerson (v., 1960) sugli Algonchini mostravano tuttavia quanto fosse proficuo combinare il 'metodo storico diretto' con l'indagine etnografica, attraverso un procedimento che Fenton aveva definito con il termine di upstreaming, 'risalire la corrente' (v. Fenton, 1949, p. 236). Il metodo, già in uso nella ricerca archeologica, era stato applicato informalmente da studiosi quali Radin (v., 1933) e Swanton (v., 1946) e veniva più tardi riassunto da Fenton come segue: "Alcuni anni fa, quando cercavo di collegare la letteratura etnografica esistente con le mie osservazioni sul terreno tra gli Irochesi, e cercavo di collegare queste ultime con le fonti storiche precedenti, sviluppai un approccio storico diretto che definii 'risalire la corrente' [...]. Il metodo utilizza essenzialmente i modelli culturali esistenti presso società vive per reinterpretare le fonti primarie e ricollegarle a modelli originali in una sequenza diretta risalente all'indietro il flusso storico, riandando così dal presente conosciuto al passato ignoto" (v. Fenton, 1962, p. 12).
Secondo Fenton l'upstreaming si basa su tre premesse di fondo: a) i modelli prevalenti delle culture umane tendono a rimanere stabili attraverso lunghi periodi; b) 'risalire la corrente' significa procedere da ciò che si conosce a ciò che non è conosciuto, dalle fonti recenti a quelle più antiche; c) si devono privilegiare le fonti che mostrano concordanze ai due lati opposti della scala temporale (v. Fenton, 1952, p. 335). Tra le principali fonti etnostoriche Fenton indicava, oltre le fonti storiche, etnografiche e archeologiche tradizionali, le collezioni fotografiche e museologiche giacché "illustrano i tipi fisici, i costumi, gli strumenti, le attività e i luoghi del passato, e rendono pertanto possibile agli studiosi di misurare i cambiamenti e di osservare le stabilità" (ibid., p. 332).
Le premesse metodologiche di Fenton sono state variamente applicate nella ricerca etnostorica degli anni sessanta e settanta, da quella africanistica (v. Vansina, 1966 e 1973) a quella europea (v. Rohan-Csermack, 1967), dall'americanistica indiana (v. Wright, 1968; v. Wiedman, 1986) a quella precolombiana (v. Métraux, 1961; v. Murra, 1975). La ricerca posteriore, pur allargando ulteriormente lo spettro delle fonti considerate utili alla ricerca etnostorica (includendovi variamente "mappe, musica, pittura, fotografie, folklore, tradizioni orali, ecologia, prospezioni di scavo, reperti archeologici, collezioni di museo, usi e costumi, linguistica, toponomastica, e una molteplicità di fonti scritte"), ha sostanzialmente confermato il 'matrimonio consuetudinario' tra le due discipline di base, teso a unire insieme "la dimensione diacronica della storia con la sensibilità sincronica dell'etnologia" (v. Axtell, 1979, pp. 2-4).
Le preoccupazioni metodologiche continuano tuttora a essere al centro del dibattito. Fare etnostoria, ha ribadito recentemente Dennis Wiedman, richiede essenzialmente "un insieme di tecniche per raccogliere, organizzare e analizzare tradizioni storiche" (v. Wiedman, 1986, p. XII). Ciò che cambia è l'orientamento: l'antropologo, immerso nella tradizionale dimensione a tempo zero dell'indagine etnografica, continuerà a "lavorare a ritroso [upstream] dal presente culturalmente conosciuto al passato sconosciuto", mentre lo storico tenderà ad articolare la sua ricerca "secondo il fluire del tempo, lungocorrente [downstream], spostandosi dal passato al presente" (v. Axtell, 1979, p. 5).
L'ovvio eclettismo dei riferimenti teorici, dettato dall'estrema varietà di ambiti disciplinari e geo-culturali di riferimento, non può tuttavia oscurare la sostanziale omogeneità di metodo richiesta dal 'mestiere' dell'etnostorico, sia che questi operi tra gli Indiani d'America (v. Trigger, 1976), tra le società orali del confine etiopico-sudanese (v. Triulzi, 1983), o tra gli Aborigeni australiani (v. McBryde, 1978). Certo l'Europa, come oggetto d'indagine, rimane ai margini dell'approccio etnostorico, il cui 'immediato equivalente' europeo sarebbe più lo studio del folklore e delle sopravvivenze preindustriali nelle società moderne che non quello delle 'culture a contatto' del mondo extraeuropeo (v. Trigger, 1982, p. 3). Forse per questo la 'storia orale' europea ha caratteristiche e sistemi di riferimento lontani e diversi da quelli maturati in contesti extraeuropei, e le 'voci del passato' in Europa non sembrano facilmente inseribili nel dibattito etnostorico d'oltremare (v. Passerini, 1978; v. Thompson, 1978; v. Rigoli e Triulzi, 1980; v. Joutard, 1983).
Resta la grande sfida della rappresentazione dell'Altro, del peso e del ruolo della memoria storica in società tradizionali, per lo più prive di scrittura, della ricostruzione di un passato che occorre riscattare dalla sua apparente 'immobilità' attraverso la decodifica di linguaggi culturali diversi, di 'eventi' individuali che mascherano processi collettivi, di nomi di eroi o di vuoti genealogici che indicano momenti di rottura, o di forte cambiamento, dei sistemi tradizionali di potere. L'etnostoria ha l'ambizione di coprire tutto questo ambito di ricerca, e di risolverne i problemi, attraverso l'ottica privilegiata del 'punto di vista' interno alla stessa cultura oggetto d'indagine, sia questo espresso a livello di fonti, di memoria collettiva, o di istituzioni-simbolo della società studiata.
R.T. Zuidema, forse il più grande degli etnostorici contemporanei della società precolombiana, nelle sue considerazioni preliminari al saggio su Cuzco così spiega la straordinaria importanza per la società inca del sistema dei ceque: "Il sistema dei ceque di Cuzco, capitale dell'impero degli Inca, era un metodo per dividere e organizzare in gruppi (ceque) circa quattrocento luoghi sacri nella capitale e nei dintorni. La cura e la manutenzione di questi gruppi di luoghi era assegnata ai diversi gruppi sociali in cui era divisa la popolazione originaria di Cuzco. Il sistema dei ceque può quindi aiutarci a chiarire l'organizzazione sociale di Cuzco. La scelta di questo soggetto dipese dalla necessità di avere un punto di partenza [...]. Io ho cercato solamente di tradurre in termini antropologici l'espressione inca del sistema dei ceque: nell'organizzazione sociale, nella religione, nella mitologia e nella cosiddetta storia [...]. Senza la comprensione delle teorie e dei concetti inca sulla propria cultura, sarebbe interamente incomprensibile quanto è stato riportato dalle cronache" (v. Zuidema, 1964; tr. it., pp. 14 e 31). Forse l'etnostoria è proprio questo: un 'punto di partenza', semplice ma indispensabile, per la rappresentazione non eurocentrica della storia dell'Altro.
(V. anche Società primitive).
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