ETRURIA
La trattazione che segue, per ragioni di carattere pratico, è articolata in due capitoli, concernenti rispettivamente i due grandi distretti dell'E., quello settentrionale e quello meridionale, ma va ricordato che per gli antichi, così come per i moderni, la nazione tirrenica costituisce una realtà solidale, unificata da fondamentali fattori di natura strutturale quali la lingua, la religione, le modalità di occupazione del territorio. È interessante, a tale proposito, notare come questa realtà essenzialmente unitaria abbia trovato ima sua espressione in fatti di natura politica, quale la costituzione della lega dei dodici popoli, o culturale, quale l'elaborazione di una peculiare mitologia (includente anche le leggende sulle origini) e di una propria tradizione storica, distinta da quella romana.
Tuttavia, pur all'interno della koinè etrusca, il versante settentrionale presenta in qualche modo una sua connotazione e individualità, che appare in funzione non tanto di fattori di tipo strutturale, quanto della conformazione del territorio e della sua collocazione geografica, della peculiarità delle risorse naturali (si pensi ai giacimenti minerari) e di avvenimenti storici contingenti. Sul piano culturale infine l'unico fenomeno che possa in qualche modo esprimere questa sorta di unità regionale appare al momento la documentazione epigrafica, che nelle norme grafematiche (notazione di velari e sibilanti) si differenzia fino dal suo nascere rispetto a quella del versante meridionale, tradendo una precisa scelta da parte di una scuola scrittoria locale.
E. settentrionale. - Configurazione geografica e risorse. - Pur emergendo chiaramente in recenti opere di buona divulgazione una giusta tendenza alla rivalutazione del ruolo - attivo e interagente - del contesto geografico entro il quale si svolse la vicenda della civiltà etrusca, si deve constatare come la ricerca sia tuttora ben lontana dal proporre un soddisfacente modello di ricostruzione del paesaggio antico, naturale e antropico, della regione. Se da una parte può soccorrere la presumibile fondamentale invariabilità, dall'epoca etrusca a quella odierna, della conformazione fisica del territorio (rilievo, rete idrografica, giacimenti del sottosuolo); se inoltre preziose notizie sono desumibili, per quanto in forma indiretta, da fonti antiche quali Strabone o Livio, ancora estremamente sporadica e lontana dalla pratica dell'archeologia attiva rimane la corretta acquisizione di dati naturalistici mediante analisi di tipo paleobotanico e archeozoologico.
Ancora più complesso è poi il problema della determinazione dei confini della nazione etrusca, dal momento che ogni tentativo di questo tipo deve basarsi su un'opera di capillare indagine archeologico-culturale globale (comprendente, cioè, anche l'aspetto epigrafico) estesa su intere fasce di territorio di tipo «marginale». Si capisce così come rilevanti novità abbiano potuto emergere in questo campo ancora nell'ultimo decennio, in particolare per il confine etrusco-ligure, dopo che l'avvio di ricerche sistematiche nell'estremo lembo nord-occidentale della Toscana ha comportato una più precisa definizione dell'etnografia antica del comprensorio.
Da una parte infatti Pisa con il suo entroterra ha rivelato un'inconfondibile pertinenza alla facies etrusca almeno da epoca villanoviana, dall'altra la Versilia fino a Seravezza appare in tutto omogenea con il territorio pisano, almeno a partire dallo scorcio del VII sec. a.C. A questo deve aggiungersi il fatto che il silenzio archeologico, che per l'Età del Ferro si registra nel territorio interposto tra il basso corso del Magra e la linea Seravezza-Pietrasanta, potrebbe sottendere una reale assenza di insediamenti stabili e dunque inserirsi in un più vasto quadro di occupazione strutturata per comprensori, secondo il modello vigente nell'E. villanoviana. Inoltre, la cospicua produzione di cippi di marmo apuano, attestata a Pisa dalla prima metà del VI sec. a.C. e diffusa anche in Versilia, rimandando con ogni probabilità a uno sfruttamento diretto dei giacimenti della materia prima, costituisce in qualche modo una prova a favore dell'occupazione da parte degli Etruschi di tale distretto.
Possiamo dunque affermare che il limite del popolamento etrusco nella regione viene sempre più chiaramente ad attestarsi su un confine di tipo naturale, quale il corso del Magra, inducendo a recepire nel suo senso letterale il passo in proposito di Strabone (V, 2,5), che considera il fiume come discrimine tra le due etnie, rispecchiando sì, probabilmente, la ripartizione amministrativa augustea, ma riferendo tale situazione anche al passato, quando cita come sue fonti «molti scrittori».
A parte il notevole spostamento verso Ν del confine tra Etruschi e Liguri, confine che rimase sempre lontano dalla valle dell'Arno, almeno altri due dati rilevanti emergono dalle recenti ricerche su questo territorio. Il primo di essi consiste nel carattere di variabilità della frontiera stessa tra i due popoli in funzione della cronologia; il secondo nella sua spiccata permeabilità e apertura, che fanno dell'estrema E. settentrionale una cerniera di collegamento fra lΈ. propria e l'Oltrappennino. Da un lato infatti il fenomeno della discesa ligure in Versilia è stato puntualizzato nei suoi termini cronologici (prima metà del IlI-primi decenni del II sec. a.C.) e topografici (all'interno della fascia montana a Ν di Camaiore); dall'altro le valli fluviali che intersecano in senso longitudinale la catena montuosa - dal Serchio all'Ombrone pistoiese, al Bisenzio, al Sieve, all'alto Arno, all'alto Tevere, - si sono rivelate quasi senza eccezione percorse da itinerari, la maggior parte dei quali già attivati in età arcaica.
Ugualmente aperto al mondo esterno dovette essere il confine occidentale dell'E. settentrionale, costituito da una lunga linea di costa frastagliata e punteggiata di approdi, che va intesa come un sistema integrato con le antistanti isole dell'arcipelago toscano. Se infatti dal punto di vista politico si trattò fin dall'età arcaica di una barriera impenetrabile, come dimostra tra l'altro l'assenza di qualsiasi stanziamento straniero (fenicio o greco) sul suolo etrusco, dal punto di vista del commercio e dello scambio culturale si trattò invece di una formidabile fascia di contatto con ogni tipo di circolazione marittima.
Quanto poi al corso del Tevere, che costituisce il limite orientale della regione, numerose vicende storiche, dalla discesa di Porsenna a Roma ai movimenti colonizzatori, alla stessa calata delle orde galliche e dell'esercito di Annibale, dimostrano che si trattò in assoluto della più grande arteria di comunicazione dell'Italia centrale, e dunque non certo di una linea di confine chiusa. Venendo infine al limite meridionale, se deve individuarsi un fattore di differenziazione all'interno della koinè etrusca e se esso risiede essenzialmente nelle norme grafematiche, allora pare legittimo assumere come confine tra i due versanti il corso dell'Albegna e da qui una linea ideale che si ricongiunga con il Tevere passando a Ν di Volsinii e Sovana e a S di Chiusi e Perugia.
La regione compresa entro i confini appena tracciati presenta un paesaggio collinare, che si articola in un rilievo complesso e frazionato, in numerosi bacini intermontani e in una vasta pianura costiera.
La vegetazione spontanea dovette consistere (salvo una sua maggiore estensione) nelle medesime associazioni vegetali che anche attualmente sussistono nelle diverse fasce altimetriche, cioè nella macchia mediterranea e bosco sempreverde su coste e retrostanti pianure, nella selva submediterranea e submontana e infine, al di sopra dei 900-1000 m, nelle faggete.
Un discorso assai dettagliato meriterebbe il problema del paesaggio agrario, vale a dire della pratica dell'agricoltura e dell'allevamento, un tema sul quale, oltre che di alcune, ancora scarse, analisi di tipo naturalistico, possiamo usufruire della testimonianza delle fonti letterarie e della documentazione archeologica. Per l'età più antica (Bronzo Recente) disponiamo del dato di Belverde di Cetona, che documenta la compresenza di colture di leguminose (fava, pisello) e di cereali del tipo a cariosside vestita (triticum spelta), ma soprattutto del tipo superiore o a cariosside nuda, oltre a orzo e miglio. Con sorpresa degli stessi studiosi, vi fu riscontrata l'assenza totale di farro, il «far quod appellatur Clusinum» (Colum., II, 6,3), un cereale di tipo non pregiato, ma dotato di grande adattabilità anche in condizioni disagiate di clima e di terreno (Plin., Nat. hist., XVIII, 19, 83), al quale anche le frumentationes romane del V sec. a.C. devono avere almeno in parte attinto. L'abbondanza della produzione cerealicola del distretto settentrionale è infine testimoniata dal fatto che, secondo il passo di Livio (XVIII, 45, 15-18) relativo ai contributi alla spedizione di Scipione del 205 a.C., tutte le città della regione, eccetto Populonia, dettero anche frumento.
Quanto alla preziosa coltura del vino, derivata dai Greci e molto fiorente nell'E. meridionale già dalla seconda metà del VII sec. a.C., essa risulta assente in età arcaica nel distretto settentrionale, ma all'inizio del IV sec. a.C. è proprio con il vino che Arrunte di Chiusi va ad allettare i Galli (Liv., V, 33).
Circa infine la pratica dell'allevamento, i dati di S. Rocchino (VI-IV sec. a.C.), di Montecatino in Val Freddana (VI-V sec. a.C.), di Populonia (III sec. a.C.) concordano nell'indicare come base dell'alimentazione carnea il suino, mentre bovini, pecore e capre risultano di norma macellati in età adulta, e dunque dopo essere stati utilizzati per la produzione di latte, oltre che, nel caso dei buoi, per il lavoro agricolo e, nel caso delle pecore, per la produzione di lana.
Passando ora alle risorse del sottosuolo, mentre per i giacimenti di minerali di piombo e d'argento delle Alpi Apuane (zone del Bottino e di Valdicastello) non si ha prova sicura dell'utilizzazione antica, si ha al contrario piena certezza dello sfruttamento da parte degli Etruschi - ma risalente già all'Età del Bronzo - delle miniere delle Colline Metallifere prospicienti la valle del Cecina (zone di Montecatini Valdicecina, Castellina Marittima, Riparbella), di quelle ubicate sulle colline del comprensorio Campiglia Marittima-Massa Marittima (Monte Valerio, Monte Rombolo, Monte Calvi, Serrabottini) e infine c.i quelle che, uniche, ebbero grande fama per gli antichi (Ps. Aristot., Mir., 93), le riserve dell'Elba, localizzate nella parte orientale dell'isola. Cospicue tracce di attività estrattive (scorie, pozzi) sono state rinvenute nelle aree dei giacimenti del campigliese e del massetano, e un gruppo di forni di riduzione, a graticola, risalenti all'VIII-VII sec. a.C., fu rinvenuto negli anni '30 nella Valle del Temperino. Nell'Isola d'Elba lo sfruttamento delle miniere è documentato solo da cumuli di scorie, mentre un impianto industriale (seconda metà VI-IV sec. a.C.) adibito alla riduzione del minerale è stato individuato a Populonia, sulla pendice della Porcareccia. Numerosi rinvenimenti (Ischia, Pisa, Genova) indicano tuttavia che soprattutto in età arcaica il minerale dovette essere smistato anche allo stato grezzo.
Di un certo interesse, infine, appare la recente scoperta di un cospicuo sfruttamento da parte degli Etruschi di Pisa delle riserve marmifere dei Monti Apuani, per la produzione di sculture di impiego quasi esclusivamente funerario, la cui diffusione copre una vasta area dall'agro pisano a quello fiesolano, volterrano e populoniese, ma forse anche con un'appendice oltrappenninica. Si tratta di una tradizione artigianale colta, che nasce nel VI sec. a.C. per l'avvento di artigiani ionici e che costituisce il necessario precedente di quella, assai più cospicua, di età romana, con la quale si salda del resto senza soluzione di continuità.
Principali vicende storiche. - Per le età più antiche della civiltà etrusca (Età del Bronzo e del Ferro) di grande rilevanza risultano le leggende di fondazione e in particolare quelle di origine locale (non così, p.es., quella della migrazione dalla Lidia), le quali, elaborate in piena epoca storica, proiettarono sul remoto passato le concezioni proprie del loro tempo, ma sulla base - è lecito supporlo - di reali nozioni collettive tramandatesi oralmente e divenute coscienza comune. È interessante notare come in tali leggende il versante settentrionale e padano della regione sia costantemente incluso e a pieno titolo, a riprova di un'originaria solidarietà culturale ed etnica con il resto della regione, ben evidente anche sul piano delle manifestazioni archeologiche (p.es. l'area di diffusione dell'orizzonte culturale villanoviano). Nel mito della fondazione della nazione etrusca da parte dei Pelasgi, nato già sullo scorcio del VI sec. a.C., sono presenti originariamente - a parte cioè le tarde applicazioni della leggenda - Spina, Cortona, Cerveteri; a Tarconte, eponimo di Tarquinia ed eroe nazionale per eccellenza, si attribuisce la fondazione anche di città dell'area settentrionale quali Cortona, Pisa e la dodecapoli padana incentrata su Mantova.
Quanto ad accadimenti storici in senso proprio, il distretto settentrionale fa il suo ingresso sullo scenario dell'Italia centrale durante il regno di Tarquinio Prisco (616-578 a.C.), quando una coalizione formata da Chiusi, Arezzo, Volterra, Roselle, Vetulonia accorse in aiuto dei Latini entrati in conflitto con Roma (Dion. Hal., III, 51-54). La veridicità dell'episodio è stata di recente rivalutata alla luce della documentazione archeologica, che evidenzia forti contatti tra il bacino dell'alto Fiora e il basso corso del Tevere, alla base dei quali sta probabilmente lo scambio dei metalli dei giacimenti vetuloniesi. Questi avvenimenti lasciano intravedere inoltre fin da epoca molto antica il rapporto privilegiato che intercorre tra l'E. settentrionale e il Lazio, mentre la menzione delle singole città sembra indicare come sia già operante una sorta di lega settentrionale, che si colloca a sua volta all'interno della più generale lega delle città etrusche.
Con la seconda metà del VI sec. a.C. l'E. settentrionale è teatro di profondi rivolgimenti, provocati da scontri bellici e soprattutto da vasti movimenti migratori e di truppe. Nello scacchiere dell'alto Tirreno, che già aveva visto gli stanziamenti focesi della colonia di Marsiglia (600 a.C.) e del fondaco di Aleria in Corsica (565 a.C.), l'avvenimento cruciale è la battaglia che si combattè tra la flotta fócese da una parte e, dall'altra, una forza navale congiunta di Etruschi e Cartaginesi nelle acque antistanti la costa orientale della Corsica (545 a.C.). Dal racconto di Erodoto (I, 162-167) sembra comunque doversi dedurre che da parte etrusca lo scontro - che sancì la sostanziale inferiorità dell'elemento greco - non coinvolse direttamente le comunità del distretto settentrionale, ma fu sostenuto interamente da navigli di estrazione meridionale, presenti nell'alto Tirreno a causa dell'attività commerciale in direzione delle coste provenzali nonché della gestione delle risorse minerarie elbane.
A differenza di quanto accadde per l'episodio di Alalia, i fatti che impegnarono direttamente le comunità locali sono da una parte il movimento di colonizzazione verso le terre dell'Oltrappennino, in particolare emiliano, e dall'altra le imprese militari del re di Chiusi Porsenna, due fenomeni che non a caso si originano nel cuore della regione, in quel distretto del Chiana tradizionalmente collegato al Lazio e ora caratterizzato da particolare dinamismo. È costantemente e unicamente a questa regione che riconducono, pur nelle diverse tradizioni, le fonti antiche a proposito delle fondazioni etrusche della Padania, quando, come nel caso di Ellanico (citato da Dion. Hal., I, 28,3), istituiscono un rapporto privilegiato tra Spina e Cortona, accomunate dall'origine pelasgica, ovvero indicano, con Virgilio (Aen., X, 198-203), come fondatore di Mantova Ocno, figlio del Tevere, il quale, come apprendiamo da Servio (Aen., X, 198), era ritenuto altresì figlio o fratello dell'ecista di Perugia Auleste, e fondatore anche di Felsina.
A un livello cronologico precedente l'Età del Ferro, quando nella Padania si constata la più antica presenza etrusca con la facies villanoviana, si ritiene vada invece riferita la tradizione testimoniata dai commentatori di Virgilio (Serv. auct., Aen., X, 198) e da Verrio Fiacco (HRR, frg. 2), ma risalente all'erudito volterrano Aulo Cecina, che vuole la dodecapoli padana fondata dall'eroe panetrusco Tarconte.
L'archeologia conferma, come è noto, il quadro offerto dalle fonti, dal momento che l'area emiliana risulta coerente con l'E. settentrionale tra l'altro negli usi grafematici (con una particolare indicazione in senso chiusino), ma indica anche come tutto il versante settentrionale della Toscana sia coinvolto nel movimento migratorio, dall'agro volterrano-pisano (cfr. i peculiari cippi marmorei con basi a teste d'ariete da Marzabotto) a quello fiesolano (stele a ferro di cavallo di Bologna).
È in questo clima di forti tensioni espansionistiche che matura l'avventura di Porsenna, re di Chiusi, il quale, esteso il suo dominio al territorio volsiniese (Plin., Nat. hist., II, 54), intervenne con il suo esercito a Roma, in aiuto dell'ultimo re dei Tarquini testé destituito dal potere, cingendo d'assedio la città per due anni, anche se con esito non vittorioso. Nel 504 anche l'attacco che il figlio di lui Arrunte portò ad Aricia fu respinto dai Latini, opportunamente coadiuvati dal tiranno di Cuma Aristodemo (Liv., II, 9-14; Dion. Hal., V, 21-36).
Con il V sec., un periodo che vede 1Έ. settentrionale interna assestata su una pacifica situazione di floridezza, il distretto marittimo e minerario è teatro di una serie di gravi conflitti, il cui esito comporterà profondi mutamenti anche nei rapporti di forza interni all'Etruria. Da Diodoro Siculo (XI, 88) siamo dettagliatamente informati circa una spedizione che i Siracusani inviarono nel 453 a.C. contro la Corsica (occupata dagli Etruschi) e l'Elba «poiché i Tirreni praticavano la pirateria», con questo dovendosi intendere, secondo una recente proposta di Colonna, gli Etruschi di estrazione meridionale che tradizionalmente gestivano le risorse minerarie. Se questa prima spedizione fallisce (secondo Diodoro per la corruzione del comandante Phayllos), una seconda impresa, guidata da tale Apelle, portò di lì a poco a una vera conquista dell'Elba: un evento della cui storicità si è dubitato per la mancanza di riscontri archeologici particolarmente evidenti, ma che va inteso probabilmente come un'azione volta a sottrarre lo sfruttamento minerario agli Etruschi dell'area meridionale, tradizionalmente antagonisti dei Siracusani, per consegnarlo poi alle comunità etrusche locali, in primo luogo Populonia.
II IV sec. si apre per l'intera nazione etrusca con una serie di gravi mutilazioni della sua compagine territoriale, riguardanti anzitutto le emanazioni coloniali campane e padane - messe in crisi rispettivamente dalla discesa di Sanniti e di Celti - cui seguirà a breve la perdita della città più meridionale dell'Etruria propria, Veio, la cui caduta nel 396 a.C. (Liv., v, 22,8), dopo dieci anni di guerra, segna la prima tappa dell'inesorabile avanzata romana lungo l'asse del Tevere. In questo frangente, il distretto settentrionale fu coinvolto nel passaggio delle orde galliche il cui esito sarebbe stato il disastroso sacco di Roma (390 a.C.): proprio a Chiusi, anzi, è ambientata la già accennata vicenda di Arrunte, al quale si attribuisce la responsabilità, secondo la tradizione riportata da Livio(V, 33), di avere attirato i Galli con il vino e gli altri prodotti della sua fertile terra.
Dopo questi fatti, bisogna arrivare alla metà del secolo per trovare ancora nelle fonti scritte menzione del distretto settentrionale, nel frattempo rimasto appartato rispetto al primo grande scontro che oppose Roma alle città etrusche meridionali, la guerra romano-tarquiniese del 358-351 a.C. Da un frammento degli Elogia Tarquiniensia apprendiamo che Aulo Spurinna, capo tarquiniese della lega delle città etrusche, condusse una spedizione «normalizzatrice» ad Arezzo per sedare un bellum servile, un conflitto sociale scatenato dalla classe subalterna che appare il necessario precedente di quello, famoso (Liv., X, 3, 1-2), del 302 contro la potente famiglia dei Cilnii, il quale provocò però, significativamente, l'intervento di un esercito non più etrusco, ma romano, guidato da M. Valerio Massimo.
Già con la guerra del 311-308 a.C. il distretto settentrionale era entrato infatti nell'orbita delle operazioni belliche di Roma, che consistettero in rapide azioni a distanza di saccheggio e che si prolungarono fino al 295, estendendosi dalla zona interna (Volsinii, Perugia, Cortona, Arezzo) a quella costiera (incursioni a Roselle nel 302 e a Volterra nel 298). Nel 294, dopo la sconfitta subita nel- l'anno precedente da Galli e Sanniti, alleati degli Etruschi, a Sentino, in Umbria, e dopo ripetuti scontri svoltisi nel distretto centrale interno, nonché la presa di Roselle, fu conclusa una tregua di quaranta anni con Volsinii, Perugia, Arezzo (Liv., X, 37).
Una decisa ripresa delle ostilità si ebbe tuttavia nel 284, quando sappiamo da Polibio (II, 19-20) che i Galli Senoni invasero i dintorni di Arezzo e sconfissero inizialmente l'esercito romano, subendone poi nel loro proprio territorio una sconfitta che portò alla fondazione della colonia di Saena Gallica (Senigallia); successivamente, nel 283 a.C., gli Etruschi, alleatisi con i Galli Boi, subirono una grave disfatta presso il lago Vadimone, nelle vicinanze di Orte.
Siamo ormai vicini alla capitolazione definitiva, la qua- le avvenne con ogni verosimiglianza a seguito degli avvenimenti del 280 a.C., quando il console romano Tiberio Coruncanio celebrò il suo trionfo su Vulci e Volsinii. Ciò indusse le città del distretto settentrionale ad accettare con Roma trattati di alleanza (foedera) le cui condizioni, per quanto non esplicitate da nessuna fonte, dovettero essere alquanto gravose, comportando di norma pesanti tributi in milizie e in beni primari (Liv., XXVIII, 45, 13-20).
Dopo gli avvenimenti del 280 a.C., si instaura nell'E. settentrionale un generale clima di pacificazione, cui fanno eccezione soltanto distretti di interesse strategico quali quello nord-occidentale e quello interno. Il versante costiero nord-occidentale dell'E. riveste in quest'epoca un ruolo del tutto particolare nella politica di Roma, come porta d'accesso all'inquieto mondo ligure è, soprattutto, come base per la programmata penetrazione militare in direzione del Mediterraneo occidentale: Corsica e Sardegna anzitutto, che furono definitivamente conquistate nel 238 a.C., e quindi anche Spagna e Gallia Narbonese. In un simile piano di espansione Pisa ha un ruolo fondamentale: nel 225 a.C. vi sbarca dalla Sardegna l'esercito che avrebbe sbaragliato i Galli a Talamone (Pol., lI, 27-28); nel 218 il console P. Cornelio Scipione usufruisce del suo porto come base nelle operazioni contro Annibale; dal 195 la città ospita gli eserciti e la flotta romana impegnati nelle campagne contro i Liguri, la cui sconfitta (177 a.C.) segna la definitiva pacificazione di tutto il distretto. Alquanto più complessa la situazione appare nel versante interno della regione, che fu coinvolto nel 225 a.C. nell'ultima calata dei Galli e nel 217 subì le devastazioni delle truppe di Annibale. Ambedue queste vicende videro le città etrusche schierate dalla parte di Roma, nella quale dovette vedersi l'unica seria garanzia di difesa. L'atmosfera muta dopo la battaglia di Canne (216 a.C.): in particolare per l'E. si ricorda un tentativo di defezione del 208 a.C. ad Arezzo (Liv., XXVII, 24), che provocò da parte romana l'imposizione della consegna come ostaggi dei figli dei senatori e la vera e propria occupazione della città da parte di guarnigioni militari, la cui presenza appare dettata però anche da esigenze di difesa nei confronti del pericolo celtico e dell'imminente discesa di Asdrubale. Ma nel complesso il fenomeno della ribellione etrusca durante la guerra annibalica deve essere stato un fermento di proporzioni alquanto limitate.
Con la conclusione della guerra annibalica e di quella ligure della quale si è detto, inizia realmente il processo della romanizzazione dell'E., un fenomeno politico ma anche culturale, che si verifica globalmente con un certo ritardo rispetto al versante meridionale, facendo dell'E. toscana una sorta di luogo di conservazione delle tradizioni nazionali. Il processo si verifica su molteplici piani, che vanno dalla costruzione della grande rete viaria alla concessione della cittadinanza a talune élites locali al trasferimento a Roma di grandi gentes come quella, volterrana, dei Cecina, alla graduale sostituzione del latino all'etrusco come lingua scritta, e si conclude dal punto di vista formale nel 90 a.C. con l'inclusione degli Etruschi nella cittadinanza romana, concessa a tutti gli Italici.
I tumultuosi avvenimenti dal I sec. a.C., come le devastazioni sillane a Populonia, Volterra, Chiusi, Arezzo, Fiesole (82 a.C.) o la guerra di Perugia (40 a.C.) appartengono ormai a un nuovo corso storico, così come l'ultimo affascinante capitolo della vicenda etrusca, quello del revival e della sopravvivenza di tipo retrospettivo e culturale, che interessò precocemente l'antiquaria romana, non meno che la cultura moderna.
Modalità di occupazione del territorio. - Nell'Età del Bronzo Finale e soprattutto nella sua fase più tarda (X sec. a.C.) il popolamento appare concentrato nella fascia costiera interposta tra la Versilia e il Grossetano, ivi comprese le due isole d'Elba e del Giglio. Un'evidenza particolarmente significativa è costituita dai numerosi ripostigli di oggetti bronzei: Pariana (MS), Colle alle Banche- Camaiore (LU), Gabbro (LI), Limone (LI), Elba-S. Martino, Giglio-Campese. A essi si aggiungono numerosi insediamenti le cui tracce, più o meno cospicue, punteggiano la zona e tra i quali menzioniamo solo i più rilevanti: a parte alcuni materiali di non chiarissima connotazione da varie località delle colline versiliesi, l'agro pisano appare inserito in questa facies con uno strato del riparo della Romita di Asciano e con trovamenti sporadici nel centro urbano; la documentazione, già cospicua, del territorio livornese si arricchisce con il sepolcreto di Colognole e la fase più antica di quello di Quercianella. Alla medesima fase è ascrivibile il primo uso della necropoli delle Ripaie di Volterra, ubicata immediatamente a SE della rupe sulla quale sorge la città, e, in ambito populoniese, gli insediamenti di Riva degli Etruschi presso San Vincenzo, di Torre Mozza sul golfo di Follonica e, nelle adiacenze della futura città, gli insediamenti di Baratti e di Poggio del Molino, con la necropoli di Villa del Barone. Nel territorio vetuloniese, oltre alla necropoli di Sticciano Scalo e all'insediamento di Poggio Diaccialone, i sepolcreti - che saranno protourbani e urbani - di Poggio alla Guardia e Poggio Belvedere hanno restituito una prima fase dell'Età del Bronzo Finale. Più a S, una sepoltura di Monte Argentario si aggiunge all'evidenza del ripostiglio dell'Isola del Giglio.
Bisogna ricordare che queste testimonianze non sono disseminate capillarmente nel territorio, bensì disposte per comprensori (Pisa-Versilia, valle del Cecina-Volterra, Elba-promontorio di Piombino, agro vetuloniese, Giglio-Argentario); e che tali comprensori coincidono pressoché esattamente con la dislocazione dei giacimenti minerari. Il quadro topografico dei rinvenimenti e, tra essi, la cospicua presenza di ripostigli di oggetti bronzei inducono a ritenere dunque che l'elemento di attrazione del popolamento siano le risorse metallifere e che la preziosa materia prima sia da quest'epoca sfruttata e lavorata dalle comunità locali, come sembra dimostrare anche la connotazione regionale dal punto di vista tipologico che ora assume il repertorio della loro produzione.
Nell'area interna della regione le presenze di tipo protovillanoviano, che pure vanno continuamente affiorando, mostrano un carattere di maggiore sporadicità: in un territorio molto vasto che si estende dall'alto e medio corso dell'Arno all'agro chiusino-perugino si contano soltanto tracce non molto consistenti di abitati a Capraia-Limite (medio Valdarno), a Fiesole (strati sottostanti il tempio ellenistico), in scavi urbani di Chiusi e Perugia, cui si aggiungono il noto ripostiglio di asce bronzee da Porta
Pispini a Siena e un esemplare da Sarteano. Il quadro degli stanziamenti, macroscopicamente inteso, non sembra mutare sostanzialmente nella prima fase dell'Età del Ferro (IX sec. a.C.), quando insediamenti cospicui si conoscono soltanto nelle aree minerarie, cioè nei medesimi comprensori (a parte la Versilia) che già nel Bronzo Finale avevano conosciuto un'occupazione intensa, ferma restando una diversa organizzazione interna dei nuovi abitati, il cui addensamento prefigura più o meno chiaramente il costituirsi dei futuri poli urbani.
Attorno alla collina sulla quale sorgerà la città di Vetulonia si conoscono nel IX sec. a.C. due grandi agglomerati di necropoli, ubicati rispettivamente a E (Poggio alla Guardia, Poggio alle Birbe, Poggio al Bello, Poggio Belvedere) e a O (Colle Baroncio, Dupiane), che avranno tra l'altro continuità fino all'epoca classica e oltre. Nelle vicinanze, risale al IX sec. a.C. la necropoli di Nomadelfia con il relativo abitato di Colle delle Macinale, destinati ambedue a una breve durata, cancellati probabilmente dal processo sinecistico che sta alla base del costituirsi del polo urbano di Vetulonia. Un'occupazione ugualmente cospicua, anche se maggiormente frazionata, si riscontra in ambito populoniese, dove si conoscono tre nuclei di necropoli, tutti disposti a poca distanza dalla costa (Poggio della Porcareccia, San Cerbone, Casone, Piano e Poggio delle Granate, risalenti all'inizio del IX sec.; Poggio del Molino, databile a epoca leggermente più tarda e presto abbandonato). A ciò si aggiungono le significative attestazioni dell'Isola d'Elba, costituite dalla tomba a ziro di Montagna di Campo e dalle sepolture in grotta di Monte Calamita, queste ultime nel cuore dell'area mineraria. In ambito volterrano infine, la necropoli delle Ripaie, già nota dal Bronzo Finale, registra ora un'utilizzazione cospicua, che avrà continuità almeno fino alla prima metà del VI sec. a.C.; anche il territorio tuttavia conta diversi insediamenti, tra i quali si ricordano la necropoli di Quercianella, il sepolcreto di Casagia-Cerreta, materiali sporadici dalla zona di Belora-Riparbella, tutti siti destinati a una lunga vita, sia pure non continuativamente.
Globalmente considerata dunque, la tipologia del popolamento nell'area mineraria toscana appare espressione di una politica mirata su obiettivi di interesse primario, quali l'individuazione di siti di felice ubicazione dal punto di vista delle comunicazioni (Vetulonia, Volterra), lo sfruttamento dislocato delle risorse minerarie (insediamenti dell'Elba e della valle del Cecina), l'uso e il controllo degli approdi costieri (insediamenti del golfo di Baratti, Quercianella).
Al di fuori di questo comprensorio le testimonianze della prima fase villanoviana risultano assai meno rilevanti. Se il quadro di Pisa e delle sue adiacenze (trovamenti sporadici dall'area urbana e dintorni, strato dell'Età del Ferro della Romita di Asciano) appare tuttora mal definibile cronologicamente, testimonianze più consistenti sono state restituite dal territorio fiorentino-fiesolano con le tombe più antiche rinvenute alla fine del secolo scorso nel centro di Firenze e con frammenti ceramici restituiti dai livelli più profondi dello scavo del tempio di Fiesole. Un silenzio pressoché totale si riscontra poi nel territorio interposto tra il Valdarno inferiore e il comprensorio Chiusi-Perugia, le cui testimonianze rimangono comunque piuttosto povere: per l'agro chiusino, oltre al ripostiglio di Goluzzo, si conoscono alcuni rasoi di bronzo; analogamente, per Perugia, l'unico oggetto databile in questa fase è una spada ad antenne da località Fontivegge, nei pressi dell'attuale stazione ferroviaria.
Nella seconda fase villanoviana (Vili sec. a.C.), soprattutto avanzata, il quadro del popolamento della regione appare notevolmente arricchito, con un'occupazione intensiva e frammentata del territorio. Mentre rari sono i casi di insediamenti abbandonati per ragioni che possano ricondursi a un processo sinecistico di tipo classico (Poggio del Molino a Populonia, Nomadelfia-Poggio delle Macinale vicino Roselle), numerosissimi sono gli insediamenti di nuova fondazione, in alcuni dei quali, soprattutto nel distretto costiero, è forse da vedere un fenomeno pilotato dagli aggregati maggiori e di origine più antica allo scopo di meglio controllare la viabilità e meglio sfruttare e presidiare le risorse.
Nel comprensorio vetuloniese risale a questo momento l'occupazione della collina di Roselle, motivata probabilmente dalla necessità di controllare il basso corso dell'Ombrone, così come lo sfruttamento minerario è alla base della nascita dell'insediamento dell'Accesa, attestato per quest'epoca unicamente dalla necropoli, destinato a perdurare almeno fino alla fine del VI sec. a.C. Un'analoga politica di insediamenti dislocati si coglie nell'agro populoniese, come sembra indicare la presenza di bronzi dell'VIII sec. a Donoratico (ancora una volta un sito costiero), il ripostiglio del Bambolo e la necropoli di cremati di Monte Pitti (Campiglia), nell'area dei giacimenti di rame, mentre i due ripostigli di Valle Gneccarina (Chiessi) e di Colle Reciso nell'Isola d'Elba confermano il crescente interesse per l'area mineraria del ferro. Nell'agro volterrano il quadro già articolato degli insediamenti si arricchisce di ulteriori abitati, la maggior parte dei quali sorge sullo scorcio dell'VIII-inizio del VII sec. a.C.: nelle adiacenze della futura città, al vecchio sepolcreto delle Ripaie si aggiunge quello della Guerruccia, ubicato a NO; nella valle del Cecina sono documentati (più o meno adeguatamente) insediamenti a Belora, Casale Marittimo, Bibbona, Pomarance, nella valle dell'Era a Villamagna, Terricciola, Laiatico. Nella valle dell'Elsa risalgono all'VIII sec. a.C. piccoli nuclei dislocati nei dintorni di Casóle, materiali da S. Gimignano e l’oppidum di Monteriggioni. Nell'agro pisano-versiliese si annoverano l'abitato di S. Rocchino, destinato a un ruolo emporico di grande importanza, e gli insediamenti del Bientina, sorti significativamente all'innesto di due direttrici fluviali, quella dell'Arno e quella del Serchio, o di un ramo di esso. Con analoga funzione nascono verso la fine del secolo l'abitato di Ginestra, presso Montelupo, allo sbocco delle valli del Pesa e del Bisenzio, e quello di Castellina di Quinto, che si sommano alle attestazioni, già ricordate, di Fiesole e Firenze.
Mentre per l'alto Valdarno, per l'agro aretino e per l'alta valle dell'Ombrone non possediamo alcuna documentazione, Cortona, dalle cui adiacenze si conoscevano trovamenti sporadici (ripostiglio di asce nel Museo dell'Accademia da località Sodo, notizie di sepolture nei pressi di Camucia e immediatamente fuori delle mura della città), ha restituito recentemente tracce di un'abitazione di VIII sec. nell'attuale centro urbano. Allo stesso modo, a Perugia resti di insediamenti ubicati attorno al colle della città sono stati di recente rinvenuti o reidentificati nei materiali dei vecchi scavi. Quanto infine all'agro chiusino, oltre al sito di Chiusi con i suoi immediati dintorni (frammenti ceramici in saggi urbani, necropoli di Poggio Renzo e La Fornace), si individuano gli insediamenti di Sarteano (necropoli dell'altipiano di Solaia) e di Chianciano (tomba in località Toile a S dell'attuale centro). Fin da quest'epoca sembra delinearsi dunque un modello .di occupazione del territorio basato su una fondamentale articolazione in oppida che rimarrà sostanzialmente immutata fino all'ellenismo.
Con l'avvento dell'Orientalizzante (VII-prima metà VI sec. a.C.) continua e si accelera pressoché ovunque nella regione, e soprattutto dalla metà del VII sec. a.C., la tendenza all'occupazione dislocata del territorio, che comporta sia la persistenza dei vecchi abitati, sia la creazione di nuovi insediamenti. A Vetulonia, mentre la vitalità dell'aggregato protourbano è dimostrata anche dalla continuità d'uso delle vecchie necropoli, delle quali particolarmente ricca appare quella orientale (Circolo dei Lebeti, Tomba del Duce, Tumido della Pietrera), dalla metà del secolo tutto il territorio appare intensamente occupato, con netta predilezione, oltre che delle aree minerarie, delle direttrici fluviali e della zona costiera. A parte il caso, straordinario, dell'Accesa, dove all'inizio del VI sec. viene fondato un vero e proprio villaggio abitato da una comunità direttamente impegnata nella lavorazione dei minerali, le emergenze di questo fenomeno sono costituite per lo più da necropoli o, talora, da tombe isolate: nella valle del torrente Sovata, il Tumulo di Poggio Pelliccia con ricchissimi corredi (ultimi decenni del VII-prima metà V sec. a.C.) e la necropoli di tumuli di S. Germano; nella valle del Bruna, il gruppo di tumuli di Selvello; verso la costa, la grande necropoli di tumuli di Val Berretta e il sepolcreto di Pian d'Alma.
Per Populonia, proiettata sui traffici e sullo sfruttamento delle risorse minerarie elbane, e dunque priva di un forte interesse per l'entroterra, il fatto più rilevante appare dalla metà circa del VII sec. a.C. l'aggrupparsi delle sepolture nella parte centrale del golfo di Baratti (S. Cerbone, Porcareccia, Casone), dove emergono grandi tumuli, contenenti corredi ugualmente di prestigio. Il fenomeno sembra essere indizio dell'esistenza di un processo di tipo sinecistico, come confermerebbe anche il silenzio archeologico pressoché totale del territorio per quanto esiguo, nel quale nessuno dei siti occupati in epoca precedente ha continuità. Di particolare rilevanza appare l'abbandono dell'abitato di Monte Pitti, ubicato nel cuore dei giacimenti cupriferi del Campigliese, che sembra motivato dal netto prevalere dell'interesse per lo sfruttamento delle riserve di ferro elbane.
Una situazione profondamente diversa si riscontra nel territorio volterrano, nel quale, di contro alla scarsissima evidenza di tombe di prestigio nelle necropoli urbane, i siti già occupati nella tarda Età del Ferro appaiono abitati da élites aristocratiche che accedono anche - uniche a Ν di Vetulonia - all'apparato del lusso tipico delle corrispondenti classi dell'E. meridionale e dalla metà del secolo innalzano anche monumenti di prestigio come tombe a tumulo. Si deve a scavi recenti e tuttora inediti la scoperta a Casale Marittimo di una necropoli della quale fa parte anche una sepoltura entro cista litica con corredo «principesco» del secondo quarto del VII sec. a.C.; tombe a thòlos sono note ancora a Casale Marittimo, Bibbona, Casaglia-Cerreta, Querceto, una necropoli di tombe a camera a Gesseri, una tomba a cista litica a Rocca Sillana. Nella valle dell'Elsa, invece, che costituisce il limite orientale del territorio, il popolamento - intenso per evidenti ragioni di controllo e sfruttamento della viabilità - presenta un modello di organizzazione alquanto dissimile, che non conosce emergenze di tipo aristocratico, ma appare piuttosto imperniato sull’oppidum di Monteriggioni (numerose tombe a camera nella necropoli del Casone), sul centro minore di S. Martino ai Colli e su piccoli abitati dislocati lungo l'asse viario che congiunge Colle Val d'Elsa a Volterra (tombe a camera di Campiglia e Dometaia).
Nel comprensorio pisano-versiliese la prima metà del VII sec. a.C. è rappresentata al momento da attestazioni altamente significative pur nella loro esiguità numerica, che consistono (oltre al livello più antico di S. Rocchino) in frammenti di bucchero recuperati negli ultimi anni nel centro urbano di Pisa (in modo non sistematico perché da strati giacenti al di sotto della falda idrica), e in un piccolo attingitoio anch'esso di bucchero recentemente scoperto tra i materiali della Grotta del Leone di Agnano. In particolare, quest'ultimo oggetto, databile al più tardi nel secondo quarto del VII sec. a.C. e importato dall'E. meridionale, documenta, insieme a due anforette coeve da S. Rocchino, l'inserimento di questa zona nel circuito commerciale che dall'iniziò, del VII sec. a.C. collega l'E. meridionale all'emporio di Chiavari e che avrà grande incremento dopo la fondazione di Marsiglia. Con lo scorcio del VII-prima metà del VI sec. a.C. la documentazione archeologica manifesta un forte incremento: mentre non mancano materiali dal centro urbano, nell'area periurbana occidentale (area Scheibler) è stato scavato in anni recenti un livello di abitazione dell'inizio del VI sec. a.C. contenente anche anfore greche e ceramiche dell'E. meridionale, oltre che scorie ed ematite elbana. Per l'entroterra disponiamo dei livelli arcaici della Romita e della Grotta del Leone, cui si aggiungono recenti trovamenti del Bientina (Chiarone di Capannori) e della periferia sud-orientale di Lucca (necropoli di Via Squaglia): tutti contesti di tono minore, privi di materiali importati, riconducibili allo sfruttamento agricolo, o agricolo-pastorale, delle campagne. Per la Versilia si devono menzionare, oltre ai livelli di S. Rocchino con la ricca gamma delle importazioni, le importanti tombe di Villa Mansi di Camaiore, di Pozzi (Seravezza) e di Querceta (Seravezza), quest'ultima con un'iscrizione di possesso etrusca. Un'ultima importante evidenza è costituita infine dai piccoli approdi costieri che sono emersi nel corso di recenti ricognizioni di superficie nell'area Stagno-Coltano-S. Piero a Grado, a S della città e nella zona dell'attuale foce del Serchio, a ulteriore testimonianza della decisa proiezione del territorio sulle attività commerciali marittime. Pur nel carattere ancora pionieristico dell'archeologia pisana, dalla distribuzione degli insediamenti di età orientalizzante di questo tipico territorio di confine emergono comunque chiaramente da un parte il carattere etrusco della cultura materiale e del popolamento, dall'altra il quadro di una occupazione «mirata», gestita dal centro protourbano di Pisa, che privilegia la fascia costiera, l'area collinare settentrionale prospiciente i bacini marmiferi apuani e il confine con i Liguri, il baluardo collinare orientale (Monti Pisani), lo sbocco dell'itinerario appenninico del Serchio (Lucca, Bientina).
Nella fascia dell'E. interna comprendente il Mugello, la valle del Pesa, l'alta valle dell'Ombrone, il fenomeno tipico della seconda metà del VII sec. a.C. è costituito dal disseminarsi lungo gli assi viarî, o all'imbocco di essi, di grandi tumuli, tra i quali si ricordano solo i più noti e rilevanti: nell'agro fiesolano i monumenti di Artimino-Comeana (Montefortini, Boschetti) e di Quinto Fiorentino (Montagnola e Mula); nella valle del Sieve il Tumulo delle Mozzette presso S. Piero a Sieve (da ricordare anche l'abitato di Poggio di Colla presso Vicchio); nella valle del Pesa i tumuli del Calzaiolo e di S. Angelo a Bibbione; nel Chianti il grande monumento di Montecalvario presso Castellina; nell'alta valle dell'Ombrone il Tumulo del Molinello presso Asciano, ma anche la necropoli di tombe a camera del Poggione. Tutto il fenomeno sembra provare l'inesistenza, o comunque la scarsa influenza sulle strutture del popolamento, di poli di attrazione protourbana e la presenza, al contrario, di forti gruppi gentilizi dislocati in siti nodali per lo sfruttamento delle risorse, ivi compresa quella fondamentale della viabilità. Di questo stato di cose sono indizio particolarmente eloquente la residenza di Murlo, sede di un piccolo potentato locale e l'altra, molto poco nota, di Piano Tondo presso Castelnuovo Berardenga.
Nel comprensorio dell'alta valle del Chiana ambedue i lati della grande arteria appaiono fittamente presidiati, ma con modalità nettamente differenti: se a occidente le consistenti necro; poli di tombe a camera di Lucignano, Bettolle, Foiano, con il loro ampio excursus cronologico dall'Orientalizzante recente all'ellenismo, sembrano adombrare una struttura del popolamento per oppida, sul lato orientale della valle spiccano i grandi «meloni» di Carnuda e del Sodo (I e II tumulo), mentre nessuna traccia di tombe a camera è stata finora rinvenuta nel territorio, né nei dintorni della città, per la quale tuttavia recenti scavi urbani hanno rivelato insospettati livelli di frequentazione databili nella seconda metà del VI sec. a.C. A proposito poi del secondo Tumulo del Sodo, si deve menzionare il recente ritrovamento di una scalinata monumentale di accesso, decorata alle estremità della balaustra con due gruppi scultorei gemelli che rappresentano un eroe in lotta con un leone. Si tratta di un eccezionale monumento di mano ionica, ispirato molto da vicino a modelli del tipo dell'altare di Capo Monodendri presso Mileto. È suggestivo pensare che proprio sulla base di un tumulo di questo tipo, con il suo trasparente messaggio di esaltazione del valore individuale, siano potute nascere le leggende locali sull'eroe straniero fondatore della città, di volta in volta detto Nanas pelasgo, Nanos-Ulisse, oppure Corito, cui sarebbe toccato comunque in sorte di finire a Cortona i suoi giorni e di venire onorato con un degno sepolcro.
Nell'agro perugino si riscontra un silenzio pressoché totale fino alla metà del VI sec. a.C., quando nel territorio emergono i due gruppi gentilizi di S. Mariano e di S. Valentino di Marsciano, che ripropongono nella profusione degli arredi di lusso e allusivi del rango (carri) un costume funerario - e un modello di vita - ormai desueto nell'E. propria e anche settentrionale, che trova piuttosto riscontro in ambiente italico (Monteleone di Spoleto, Todi). Nel vasto comprensorio chiusino infine, pure intensamente indagato dal secolo scorso, è noto un unico monumento di prestigio, il Tumulo di Poggio Gaiella, per di più ubicato in area marginale, prospiciente il lago e la Val di Chiana. Nel resto del territorio le tombe di epoca orientalizzante (esclusivamente a ziro fino alla metà del VII sec. a.C. e successivamente anche a camera) appaiono disseminate nelle campagne e spesso ubicate nelle necropoli già in uso, senza che nella loro dislocazione possa cogliersi un qualche principio di accentramento e soprattutto di accentramento privilegiato intorno a Chiusi. Si ricordano le principali evidenze: nelle vicinanze di Chiusi, tombe a camera di Dolciano con il celebre canopo; a Sarteano, necropoli di tombe a ziro e a camera dell'altopiano di Solaia e tombe a ziro in località Madonna della Tea; a Cetona sepolcreto di tombe a ziro di Cancelli; a Montepulciano, tomba a camera con canopo in località S. Albino; a Chianciano tomba a ziro nel centro attuale, tomba a camera di Poggio alla Sala, necropoli in località La Pedata di tombe a ziro e a camera; al confine tra Chiusi e Città della Pieve, tomba a camera della Pania.
Con la seconda metà del VI sec. a.C., il fenomeno più rilevante nell'E. settentrionale appare senz'altro la formazione delle città in quanto organismi urbanistici, che avviene con un ritardo di circa un secolo rispetto al versante meridionale della regione e il cui aspetto più macroscopico è costituito dall'erezione dei circuiti murari urbani.
A questo proposito, occorre peraltro avvertire subito che, a differenza di quanto era accaduto nell'E. meridionale, il fenomeno non appare generalizzato in tutta la regione, né tanto meno univoco nelle sue modalità. Ugualmente non univoca, ma alquanto differenziata, appare la ripercussione che la formazione urbana comporta sul popolamento del territorio.
Occorre comunque sempre tenere presente che, a parte la scarsa pratica dell'archeologia urbana, un elemento di forte problematicità in questo campo di indagine è dato dall'utilizzazione esclusiva (del resto imposta dallo stato delle conoscenze) della ceramica attica come criterio di datazione di livelli archeologici e di siti, e dunque di continuità/discontinuità di vita, e per di più in un'epoca, come la seconda metà del V sec. a.C., in cui l'E. propria non è più l'interlocutore privilegiato del commercio greco.
Comunque sia, allo stato attuale delle ricerche, la regione presenta un panorama piuttosto variegato che, sia pure spogliato delle ragioni contingenti che si sono appena esposte, non può non rispecchiare in qualche misura un'effettiva situazione antica.
Muovendo dalla zona costiera meridionale, nel comprensorio Vetulonia-Roselle, con il formarsi dei due organismi urbani (la cinta muraria di Roselle si data intorno alla metà del VI sec. a.C., quella di Vetulonia, forse, poco più tardi), la vita dei numerosi insediamenti del territorio si esaurisce in un periodo che va dalla metà del VI sec. (Murlo) alla prima metà del V sec. a.C. (siti dell'agro vetuloniese), mentre in nessuno dei due centri urbani si coglie traccia per l'intero V sec. di una simile netta cesura, fermo restando il carattere di tono minore del panorama archeologico vetuloniese.
A Populonia, dove l'organismo urbanistico si costituisce ugualmente sullo scorcio del VI sec. a.C. con la costruzione della cinta muraria, recentemente datata su base stratigrafica, e le necropoli urbane rivelano per tutto il V sec. a.C. un'ininterrotta fioritura testimoniata anche dall'importazione di ceramica attica, l'esiguo retroterra, già spopolato o quasi dall'Orientalizzante, non registra alcun movimento di rioccupazione. Più che a una vera dialettica città-campagna, il fenomeno sembra comunque imputabile a un comprensibile disinteresse per questa parte del territorio da parte di una città fortemente proiettata sul mare, e per i traffici, e per lo sfruttamento delle miniere di ferro. È proprio sull'Isola d'Elba infatti che nella seconda metà del V sec. a.C., dopo l'intervento siracusano, il controllo della città si traduce nella creazione di piccoli insediamenti in zone di ubicazione nodale, quali le colline prospicienti il golfo di Portoferraio (necropoli di Casa del Duca e di Le Trane) e l'area dei giacimenti minerari (Grassera).
Una rarefazione delle presenze dalla fine del VI sec. a.C. e poi un vero spopolamento dalla prima metà del V sec. a.C. si coglie anche sul versante occidentale del territorio volterrano, ivi comprese le alte valli dell'Era e del Cecina, dove nessuno dei siti occupati dalla tarda Età del Ferro o dall'Orientalizzante mostra segni di continuità. Il fenomeno si pone in significativa coincidenza cronologica con il compimento della formazione urbana, che una serie di consistenti indizi - se non una sequenza stratigrafica certa - indurrebbe a collocare appunto sullo scorcio dell'età arcaica. Non mancano poi elementi, come la presenza, sia pure non massiccia, di ceramica attica della seconda metà del V sec. a.C., che siano indizio di un certo benessere della città, ininterrotto fino alla grande fioritura del IV-III sec. a.C. Assai più sfumata invece appare la situazione del popolamento sul versante orientale del territorio, dove, pur nell'ambito di una generale rarefazione delle testimonianze archeologiche, soprattutto delle campagne, oppida come Monteriggioni e S. Martino ai Colli manifestano segni, sia pure non macroscopici, di vitalità. Questo stato di cose si deve probabilmente a una precisa politica messa in atto dallo stesso centro urbano, il quale, se può avere costituito un polo di attrazione (conflittuale o non) per i piccoli potentati aristocratici stanziati nelle aree minerarie del versante occidentale, può avere al contrario riposto un preciso interesse a che i vecchi oppida del confine orientale mantenessero la loro fondamentale funzione di presidio.
Al contrario di quanto avviene per la gran parte del territorio volterrano, nel distretto gravitante attorno a Pisa l'organizzazione urbana, che recenti scavi regolari nella periferia Ν della città consentono di datare al terzo quarto del VI sec. a.C., si pone in perfetta sincronia da una parte con la cessazione degli abitati della fascia immediatamente periurbana, dall'altra con una vera e propria esplosione di insediamenti dislocati nel territorio, ubicati spesso in aree di interesse già precedentemente individuate. Mentre valorizza al massimo la sua vocazione emporica (v. i livelli di questo periodo di Piazza del Duomo e di Piazza dei Cavalieri), la neoformata città potenzia la sua politica di occupazione mirata dell'entroterra, cui si aggiunge ora, l'attivazione dell'itinerario della valle del Serchio, fondamentale percorso di collegamento con la valle dell'Enza, che appare fittamente punteggiato di rinvenimenti (Ponte a Moriano, Pian della Rocca, ecc.). Nettamente privilegiato appare inoltre, per la sua evidente funzione difensiva, il sistema collinare che funge da baluardo orientale del territorio, dalla Versilia (abitato di Casa Baldi presso Seravezza) ai Monti Pisani, sui quali viene installato un sistema di fortezze (Monte Spazzavento, Monte Castellare) la cui evidenza, emersa in questi ultimi anni, attende ancora di essere adeguatamente valorizzata. Questo grandioso fenomeno di organizzazione territoriale comportò probabilmente anche un qualche processo di microcolonizzazione e di emancipazione di abitanti delle campagne, se così deve interpretarsi la straordinaria evidenza di un cippo proveniente dalla campagna a Ν della città (località Arena, metà del V sec. a.C.) recante una formula onomastica intermedia tra il tipo patronimico e il tipo gentilizio, pertinente dunque con ogni probabilità a un personaggio di recente integrazione sociale. Anche il versante orientale dei Monti Pisani (Romito di Pozzuolo), la piana lucchese e l'area del Bientina appaiono intensamente abitati e sembrano rientrare a pieno titolo nel «programma di gestione delle campagne» promosso dal centro urbano, del quale costituiscono il necessario retroterra agricolo. Di particolare interesse, oltre alla nota tomba da Rio Ralletta nel Bientina con deposizione entro il cratere attico del Pittore del Porco e ricco corredo di oreficerie, appare il villaggio di Tempagnano, alla periferia orientale di Lucca, il cui carattere di piccolo aggregato di abitazioni dotato di servizi comuni sembra adombrare una sorta di fondazione voluta o promossa dal potere cittadino. Poco dopo la metà del V sec. a.C. tutto questo sistema di abitati, compreso quello urbano, sembra vivere una fase di recessione, per ragioni che al momento non sono chiare, forse comunque non univoche, ma riconducibili a una molteplicità di fattori, in parte interni, climatici (cfr. i livelli di inondazione del Bientina), in parte addirittura di politica internazionale (scorrerie siracusane nell'alto Tirreno).
Nell'agro fiorentino-fiesolano la classe dei monumenti tipica dell'età arcaica (ultimi decenni del VI-primi decenni del V sec. a.C.) è quella delle stele e dei cippi di pietra serena, segnacoli funerari che costituiscono per l'archeologo una sorta di fossile guida privilegiato per la lettura della tipologia del popolamento. Ora, la dislocazione di tali monumenti che, oltre agli attuali centri urbani di Fiesole, Firenze, Pistoia, punteggia ugualmente le valli dell'Ombrone, degli affluenti di sinistra del Bisenzio e del Sieve, sembra indiziare un modello di occupazione del territorio articolato ancora per nuclei sparsi, che privilegia le direttrici viarie, e dunque non ancora toccato da alcun principio di aggregazione urbana. Siamo ancora sostanzialmente in linea con la situazione del periodo orientalizzante, come sembra confermare spesso il dato di provenienza delle stele stesse da siti già occupati in epoca precedente (p.es. zone di Artimino, di Quinto Fiorentino, di S. Piero a Sieve) e ancora di più l'ideologia di esaltazione aristocratica insita nelle rappresentazioni che esse recano, quali il defunto munito di insegne allusive del rango (lituo) o di un armamento di carattere preoplitico. Per quanto riguarda il centro di Fiesole, mentre l'archeologia non ha al momento individuato con certezza alcuna fase strutturale relativa a un eventuale processo di costituzione urbana in epoca precedente alla costruzione delle mura (seconda metà del IV sec. a.C.), recenti saggi di scavo hanno tuttavia restituito materiali ceramici che si dispongono cronologicamente (a parte i frammenti villanoviani per i quali v. sopra) dallo scorcio del VII a tutto il V sec. a.C. e poi all'intera età ellenistica. Ora, poiché nessuno dei siti occupati in età orientalizzante e arcaica manifesta segni di sopravvivenza dopo la fine del VI o al massimo l'inizio del V sec. a.C., eccetto l'avamposto occidentale di Artimino, si potrebbe con una qualche legittimità formulare l'ipotesi che proprio in quest'epoca si sia verificato il processo sinecistico, al quale dunque si potrebbe imputare l'abbandono degli insediamenti sparsi. Quanto all'abitato di Artimino - con quello, vicino, di Montereggi - l'ininterrotta vitalità dall'Orientalizzante al Tardo Ellenismo può trovare una spiegazione plausibile nella funzione fondamentale di presidio dello sbocco dell'itinerario dell'Ombrone, che dobbiamo supporre funzionante per tutto questo arco di tempo.
Non altrettanto vitale dopo l'inizio del V sec. appare al contrario il percorso del Sieve, il Mugello, nel quale si constata un lungo vuoto di documentazione fino al III sec. a.C. Poiché, inoltre, a partire dalla fine del VI sec. a.C. e soprattutto durante il V sec., l'altro grande percorso appenninico, quello del Casentino, appare straordinariamente fiorente, come dimostrano - tra numerosi altri rinvenimenti - il santuario di Pieve a Socana e la stipe del Falterona ricca di bronzi votivi di grande pregio, sembra di poter dedurre che il silenzio archeologico del Mugello sia dovuto in quest'epoca al convogliarsi dei traffici verso l'Oltrappennino su due direttrici preferenziali forse perché più dirette: a O quella dell'Ombrone-Reno, a E quella dell'Arno-Montone.
Nel comprensorio dell'alta valle del Pesa, dell'alta valle dell'Ombrone grossetano, dell'alta valle del Chiana, a partire dalla seconda metà del VI sec. a.C. viene a cessare il sistema di popolamento imperniato sui grandi gruppi aristocratici testimoniati dai tumuli, dei quali quello abbandonato in epoca più tarda (intorno alla metà del V sec. a.C.) risulta il «Melone» di Camucia. Il fenomeno si pone ancora una vòlta in concomitanza cronologica, che non può essere casuale, con il costituirsi dei due poli urbani che coinvolgono più o meno da vicino il territorio, cioè Arezzo, per il quale è accertata un'urbanizzazione sullo scorcio del VI-inizio del V sec. a.C. (necropoli di Poggio al Sole, terrecotte templari di Piazza S. Iacopo, santuario di Fonte Veneziana), e Cortona, per la quale una vicenda analoga potrebbe essere avvalorata dai recenti trovamenti nell'attuale centro. Si deve probabilmente a una precisa politica messa in atto dalle due città (soprattutto Arezzo) da una parte l'attivazione del percorso del Casentino, che dava diretto adito al versante romagnolo oggetto di una recente colonizzazione, dall'altra il persistente impegno nel mantenere in piena funzione i vecchi oppida nati da tempo a presidio dell'itinerario della valle del Chiana. La vitalità e la fioritura di tali abitati è attestata in quest'epoca dall'importazione di preziose e rare ceramiche attiche anche della seconda metà del V sec. a.C. (Alberoro, 20 km a SO di Arezzo, Marciano, Casalta-Lucignano, Bettolle-Foiano). A fronte della messe di informazioni cospicua, se non sistematica, disponibile per il comprensorio del Chiana, assai diversa la situazione appare nell'adiacente territorio perugino, le cui campagne risultano del tutto spopolate fino alla capillare occupazione di età ellenistica, dal momento che le due emergenze aristocratiche di Castel S. Mariano e di S. Valentino non hanno restituito alcun segno di continuità. Ancora una volta si deve peraltro notare come proprio sullo scorcio dell'età arcaica l'addensarsi intorno al sito della città di necropoli di tombe a camera (Sperandio, Palazzone) indichi la formazione di un vero centro urbanistico, la cui fioritura sarà ininterrotta fino alla romanizzazione.
Assai più complessa infine la situazione risulta nel vasto comprensorio di Chiusi, dove il processo della formazione urbana non sembra avere interessato soltanto il centro maggiore e, soprattutto, non sembra avere esercitato una preponderante e duratura attrazione sul popolamento del territorio. Se infatti il concentrarsi dei cippi di pietra fetida e delle tombe dipinte ha fatto supporre a ragione l'esistenza di un processo sinecistico attorno a Chiusi, è anche vero che del fenomeno non sono emersi riscontri archeologici nei recenti scavi urbani. Allo stesso tempo i rinvenimenti che vanno moltiplicandosi nella zona di Chianciano - da dove è nota anche la provenienza di circa venti cippi di pietra fetida - e soprattutto nella necropoli in località Le Piane-La Pedata, inducono a ipotizzare il costituirsi in questa località almeno di un secondo polo urbano, sia pure di carattere minore.
Come è stato giustamente notato, tuttavia, la parentesi urbana di Chiusi, che non a caso coincide con l'apogeo della personalità di Porsenna, è destinata a breve durata e la dislocazione a maglie larghe dei monumenti tipici dell'età classica, le statue-cinerario, indica che nella seconda metà del V sec. a.C. è già in atto un deciso ritorno delle aristocrazie ai piccoli centri sparsi nelle campagne. Questa situazione viene così a saldarsi senza soluzione di continuità con il fenomeno della rioccupazione delle zone rurali che, altrove in E. segna, nel corso del IV sec. a.C., un'inversione di tendenza rispetto a un precedente stato di spopolamento. Nel comprensorio chiusino dunque - caso pressoché unico in E. - appare sostanzialmente ininfluente quella dialettica città-campagna che caratterizza altrove il territorio in età preellenistica, manifestandosi ora nell'attrazione (conflittuale o non) esercitata dagli organismi urbani su precedenti stanziamenti di tipo aristocratico, ora nell'emanazione da parte delle città stesse di oppida satelliti, ora anche in movimenti di colonizzazione interna.
A partire dalla seconda metà del IV sec. a.C., si assiste ovunque nel distretto settentrionale a un grandioso movimento di rioccupazione delle campagne, che inizia con la rivitalizzazione dei vecchi oppida (p.es. Monteriggioni o i centri dell'alta valle del Chiana e della valle del Cecina), nonché con la creazione di postazioni di tipo difensivo, per raggiungere il suo floruit nel II sec. a.C. con una moltiplicazione capillare delle unità insediative sparse, che è praticamente impossibile menzionare singolarmente. A differenza di quanto era accaduto in epoche precedenti, il fenomeno non appare in contraddizione, bensì in perfetta consonanza anche politica con la rivitalizzazione delle città, nelle quali si assiste di nuovo a grandiose opere di monumentalizzazione, come la costruzione (Fiesole, Arezzo, Perugia) o l'ampliamento (Vetulonia, Populonia, Volterra) delle cinte murarie e la fondazione di nuovi edifici di culto (Vetulonia, Populonia, Volterra, Fiesole, Arezzo). Allo stesso modo, il fenomeno dello sfruttamento agricolo intensivo, testimoniato soprattutto nel III-II sec. a.C. dagli insediamenti fortemente frazionati, non appare in antinomia, ma anzi in perfetta integrazione con l'altra grande branca della produzione, quella artigianale, p.es. nel campo delle ceramiche. Particolarmente illuminante a questo proposito appare la situazione di Populonia, dove la città, pur potenziando al massimo lo sfruttamento del ferro elbano e addirittura riattivando la coltivazione dei giacimenti minerari del Campigliese, promuove anche un'occupazione dell'entroterra a scopo agricolo.
Se la linea di tendenza che si è appena tracciata appare senz'altro generalizzabile, è da osservare tuttavia come, in funzione di particolari contingenze storico-geografiche, il fenomeno registri localmente anche comportamenti peculiari, dei quali ci limiteremo a illustrare qualche esempio.
Di particolare interesse appare l'evidenza di una serie di fortezze, che sulla base di scarsi precedenti del V sec. a.C. (p.es. quelli dell'agro pisano) vengono fondate nella seconda metà del IV sec. nell'intento di presidiare siti che, per diverse ragioni, dovettero apparire a rischio in un generale clima di crescente insicurezza, dopo gli ultimi attacchi siracusani al porto di Pyrgi (382 a.C.), il profilarsi dell'espansionismo romano per terra e per mare, le reiterate discese attraverso i passi appenninici delle orde di Galli e poi anche di Liguri. Mentre possiamo ritenere che alcune, se non la totalità delle fortezze installate sui Monti Pisani nel secolo precedente, rimangono in uso, insediamenti di questo tipo sorgono sullo scorcio del IV sec. un po' in tutta la regione: nell'agro chiusino Casa al Vento (presso il passo di Castelluccio La Foce), nell'agro vetuloniese Scarlino e Poggio Castiglione, sull'isola d'Elba almeno M. Castello di Procchio e Castiglione di S. Martino, nell'area mineraria campigliese Castelluccio; nel Chianti Castellina Vecchia presso Castellina, nel Mugello Poggio di Fraseóle (Dicomano) e Poggio di Colla (Vicchio). Non è inopportuno peraltro notare che alla medesima esigenza di sicurezza si risponde nelle città con la costruzione, e poi con l'accurata opera di manutenzione, delle cinte murarie, che racchiudono spazi la cui stessa ampiezza denota la previsione di un loro uso per l'eventuale ricovero di popolazioni suburbane e rurali.
Ma, tornando alle fortezze installate nel territorio, non è un caso forse che tutte quelle che sono state indagate di recente e in modo sistematico risultino abbandonate o distrutte nella seconda metà del III sec. a.C., e sempre in concomitanza con interventi, più o meno diretti, delle forze militari romane, la cui presenza nella regione diventa in quest'epoca particolarmente pesante sia nel distretto interno sia sullo scacchiere marittimo. È il caso quest'ultimo delle fortezze dell'Elba, la cui disattivazione si verifica parallelamente alle operazioni normalizzatrici condotte dalla flotta romana nell'alto Tirreno (265 a.C.) e delle postazioni del Mugello, la cui funzione di presidio dei transiti e di avamposto commerciale nei confronti del mondo gallico viene verosimilmente vanificata dalla forte presenza militare romana.
In un frangente del tutto analogo si pone l'abbandono degli insediamenti (non fortificati) della Versilia (S. Rocchino, Bora dei Frati) e dell'area lucchese (Romito di Pozzuolo, Ponte a Moriano, Ponte Gini nel Bientina), quando, nella seconda metà del III sec. a.C., il drastico intervento militare romano sconvolge una convivenza, anche commerciale, di fatto instauratasi con le popolazioni liguri, che dall'inizio del secolo si erano insediate sul massiccio apuano, nell'alta valle del Serchio e nell'alta Valdinievole.
Nei primi decenni del II sec. a.C., nel momento in cui i territori prospicienti la sponda sinistra dell'Arno appaiono intensamente popolati e Pisa stessa (con il suo entroterra e la parte meridionale del suo agro) mostra uno stato di grande fioritura economica, la zona collinare ubicata a Ν del fiume, dalla Versilia al Mugello, teatro di ripetuti scontri tra gli eserciti romani e le popolazioni liguri a occidente, galliche a oriente, manifesta nel popolamento evidenti segni di recessione. Ne sono causa da una parte la sopraggiunta inospitalità e insicurezza dell'ambiente, dall'altra il venire meno delle possibilità di scambi con le vicine popolazioni non etrusche. Mentre per il Mugello non si dispone per quest'epoca di ricerche sistematiche, per il versante occidentale, meglio noto a seguito di recenti indagini, sappiamo che la fondazione delle due colonie di Lucca (180 a.C.) e di Luni (177 a.C.) comportò l'impatto su un territorio già provato dalle vicende belliche del drastico piano della riconversione centuriale. Ne consegue una lunga e complessa fase di trasformazione, di cui rimangono scarse testimonianze archeologiche, costituite da qualche abitato di altura (Monte Altissimo, Monte Lieto in Versilia, Foci di Gello nella media valle del Serchio) e tombe a cassetta sparse (Celiniea di Pariana in Versilia, Pian della Rocca nella media valle del Serchio, Montale Agliana nel Pistoiese), pertinenti a gruppi liguri residuali, ma anche da sepolture, ovvero piccole necropoli, come quella di Marlia che, adottando la deposizione entro anfora secondo un costume funerario portato dai Romani, ma conservando anche elementi di corredo tipicamente liguri, documentano forme di integrazione tra le diverse componenti della nuova compagine sociale.
Venendo all'agro cortonese-aretino, questo territorio - di interesse nodale dal punto di vista strategico perché situato all'innesto degli itinerari appenninici sull'asse viario Chiana-Tevere - appare fin dall'inizio del IV sec. a.C. teatro delle turbolente discese dei Galli e dall'inizio del secolo successivo degli scontri bellici tra questi ultimi e gli eserciti romani. Infine, nel 217 a.C., vi si abbatté il rovinoso passaggio delle truppe di Annibale. Questo stato di cose non sembra tuttavia ripercuotersi negativamente sull'occupazione del territorio, dal momento che nel III-II sec. il popolamento manifesta una forte proiezione sulle campagne, secondo un modello che, pur in assenza di ricerche sistematiche, appare non dissimile da quello vigente nel resto dell'E. interna. Anche il Casentino offre per l'intera età ellenistica segni di vitalità, come dimostra, oltre a rinvenimenti minori, la vicenda del santuario di Pieve a Sòcana, che ha rivelato non solo una frequentazione ininterrotta dal V sec. a.C., ma anche una fase di ristrutturazione edilizia databile alla metà del II sec. a.C. e documentata da terrecotte architettoniche.
Un decisivo impulso alla fioritura di tutto il comprensorio, così come di quello chiusino, fu infine recato nel II sec. a.C. dal passaggio della grande rete stradale romana, costituita dalle vie Clodia, Cassia e Flaminia.
La regione tuttavia nella quale con particolare evidenza si colgono gli effetti positivi della pax Romana è il vasto comprensorio volterrano-chiusino-perugino, per il quale la cospicua documentazione archeologica costituita dai cinerari di pietra e il ricco patrimonio epigrafico hanno consentito negli ultimi venti anni un notevole approfondimento delle ricerche, anche sullo specifico problema del rapporto tra i centri urbani (tutti e tre fiorentissimi) e i relativi territori. Ora, a un'analisi dettagliata si rivela come, pur all'interno di un generale movimento di occupazione dislocata delle campagne, dettata anche dall'instaurarsi di uno sfruttamento agricolo di tipo intensivo, il fenomeno assuma nei tre distretti connotazioni virtualmente differenti. Nell'agro volterrano la rioccupazione delle campagne, pur avendo il suo floruit nel II sec. a.C., quando si moltiplicano le necropoli minori, ha la sua origine almeno all'inizio del III sec. a.C. e privilegia i castella già individuati in epoca arcaica. La popolazione dislocata nelle campagne, scarsissimamente documentata dal punto di vista epigrafico, appare costituita da un ceto di aristocrazia minore talora imparentato con il corrispondente ceto urbano, che dipende dal centro anche nella ricezione dei modelli culturali e dei prodotti artigianali, e che negli ultimi decenni del II sec. a.C. appare già in fase di inurbamento. Dei ceti subalterni non si coglie alcun fenomeno di affrancamento, a differenza di quanto accade invece in ambito chiusino-perugino. Nel territorio chiusino il vero profondo mutamento nelle strutture dell'occupazione si avverte dopo la guerra annibalica, quando le campagne appaiono addirittura parcellizzate a livello di unità poderali. Queste piccole proprietà appaiono gestite da un ceto, che si evidenzia bene archeologicamente (uso di cinerari di scarso pregio, soprattutto di terracotta lavorati a stampo) ed epigraficamente (uso estesissimo della scrittura), di agricoltori di condizione sia libera sia servile, ovvero di recente integrazione nel corpo dei cittadini di pieno diritto. Una situazione sociale in qualche modo analoga si rivela nel territorio perugino, dove pure la struttura del popolamento appare diversa, addensata cioè in sobborghi suburbani nei quali doveva esercitarsi anche il controllo delle campagne, dove gli abitati sono dislocati a maglie larghe. Anche qui la popolazione del territorio appare globalmente di tipo «medio» e include una notevole percentuale di personaggi di rango servile e di neoliberi.
Il quadro socio-economico che sembra dunque emergere - sia pure con un certo grado di problematicità - dall'archeologia di questo territorio è quello di una situazione di mediazione tra le esigenze delle due classi che le fonti latine dipingono come irrimediabilmente opposte, quella dei domini e quella dei servi, protagonista quest'ultima di ripetuti bella servilia nel III sec. a.C. e nel 196 di una coniuratio servorum, (Liv., XXXIII, 36, 1-2). È stato ritenuto dunque che, come risoluzione di uno stato di tensione non più procrastinabile, le aristocrazie detentrici del possesso agrario in queste fertili terre abbiano faticosamente instaurato con la controparte un accettabile livello di compromesso, che poté comportare anche la distribuzione (in proprietà o in gestione) di appezzamenti di terreno coltivabile e talora la vera e propria integrazione nei diritti politici.
Non stupisce quindi che questo sistema basato su un equilibrio precario, ma di fatto, sia stato tenacemente difeso dagli Etruschi nei confronti di ogni progetto politico potenzialmente capace di metterlo in crisi, come la legge agraria di Druso (91 a.C.) e addirittura le pressanti istanze messe in atto dagli altri popoli italici per ottenere la cittadinanza romana (90 a.C.). Con questo evento, che segna per l'Italia e anche per l'E. una vera cesura storica, si inaugura, sia pure faticosamente, un processo di riconversione territoriale che appartiene ormai a una nuova epoca.
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Sulle coltivazioni minerarie. - Zona delle Colline Metallifere: E. Fiumi, La «facies» arcaica del territorio volterrano, in StEtr, XXIX, 1961, p. 253 ss. - Distretto campigliese-vetuloniese: AA.VV., Ricerche archeologico-minerarie in Val Fucinata, in StEtr, XI, 1937, p. 305 ss.; F. W. von Hase, Zum Fragment eines orientalischen Bronzeflügels aus Vetulonia, in RM, LXXIX, 1972, p. 155 ss.; E. Formigli, M. Cristofani, Le coltivazioni minerarie e la metallurgia, in M. Cristofani (ed.), Gli Etruschi in Maremma, cit., p. 182 ss.; G. Camporeale e altri, Massa Marittima. Lago dell'Accesa, in G. Camporeale (ed.), L'Etruria mineraria (cat.), Milano 1985, p. 125 ss. - Su tutti gli aspetti del problema e in particolare sulle miniere elbane: L'Etruria mineraria. Atti del XII Convegno, cit., passim. - Sullo sfruttamento delle riserve di marmo apuane: M. Bonamici, Il marmo lunense in epoca preromana, cit., passim.
Principali vicende storiche. - Trattazioni generali sulla storia etrusca: M. Cristofani, W. V. Harris, La storia degli Etruschi fra letteratura classica ed evidenza archeologica, in M. Cristofani (ed.), Gli Etruschi. Una nuova immagine, cit., p. 32 ss.; M. Torelli, M. Cristofani, La società e lo stato, ibid., p. 100 ss.; M. Pallottino, Storia della prima Italia, Milano 1984; id., Etruscologia, Milano 19847; M. Torelli, Storia degli Etruschi, cit., passim. - Sulle leggende di fondazione: G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, in ArchCl, XXXII, 1980 (1983), ρ. 1 ss.; D. Briquel, Les Pélasges en Italie, Roma 1984; id., L'origine lydienne des Etrusques, Roma 1991. - Per l’E. di età arcaica nel quadro del Mediterraneo: J. Heurgon, Il Mediterraneo occidentale dalla preistoria a Roma arcaica (trad, it.), Roma-Bari 1986. - Per i rapporti tra Roma e l'E. in età arcaica: D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica, in QuadUrbin, X, 1970, pp. 3-158; M. Cristofani (ed.), Etruria e Lazio arcaico. Atti dell'incontro di studio (QuadAEI, 15), Roma 1987. - Per l'aspetto archeologico: G. Colonna, Ricerche sull'Etruria interna volsiniese, in StEtr, XLI, 1973, p. 45 ss.; id., Società e cultura a Volsinii, in AnnFaina, II, 1985, p. 101 ss. - Sulla lega: G. Camporeale, Volsinii e la dodecapoli etrusca. Storia del problema, in AnnFaina, II, 1985, p. 11 ss.; M. Torelli, I duodecim populi Etruriae, ibid., p. 37 ss.; G. Perl, Nomen etruscum, in H. Heres (ed.), Die Welt der Etrusker. Internationales Kolloquium, Berlino 1990, ρ. 101 ss.
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(M. Bonamici)
E. meridionale. - Per quanto riguarda i confini convenzionali dell'E. meridionale, risultano di agevole definizione quelli meridionali, rappresentati dal Tevere, dopo la confluenza del Paglia (a SE) e dalla costa tirrenica (a SO); di più vaga definizione è l'artificiosa delimitazione con il resto dell'E., indicativamente rappresentata dalla linea scandita dalla vallata del Fiora e dai massicci dell'Annata e del Cetona. Se e interessante notare come proprio tra il Fiora e l'Albegna venga a dissolversi la continuità morfologica del paesaggio caratterizzato da vasti tabulati tufacei o calcarei, nella quale potrebbe riconoscersi l'unica frattura geografica significativa con l'E. centro-settentrionale, appare più corretto prendere in considerazione per intero i territori attribuibili a Vulci e Volsinii, il che porta a comprendere nell'E. meridionale anche quella porzione dell'Umbria moderna che fronteggia il territorio di Todi.
La natura geologica di questa regione, particolarmente ricca di risorse naturali, ne consentì il precoce sfruttamento da parte dei suoi abitanti, esercitando nel contempo una forte attrazione sui prospectores provenienti dai mari della Grecia e da Oriente, in cerca di materie prime. La fascia costiera evidenzia naturalmente una decisa vocazione marittima e commerciale, aperta già nell'Età del Bronzo ai traffici con l'Italia meridionale e l'Egeo, svolgendo altresì un ruolo fondamentale nella politica delle prime fondazioni greche nel Tirreno. Come l'entroterra, essa è contraddistinta dalla feracità del suolo, ricordata anche dalle fonti letterarie (Diod. Sic., V, 40; Varro, Lingua lat., I, 9), dalle vie di penetrazione fluviali e dalla favorevole viabilità interna. I collegamenti interni e una rete distributiva variamente organizzata nel tempo permettevano poi lo smistamento sulla costa delle risorse comprendenti i prodotti minerari provenienti sia dall'E. settentrionale che dal massiccio della Tolfa.
La problematica relativa all'«origine» del popolo etrusco è stata superata dal concetto di formazione della realtà etnica e territoriale dell'E. storica. Il manifestarsi di tale processo formativo va collocato già nelle fasi recente (Subappenninico, XIII sec. a.C.) e finale (Protovillanoviano, XII-X sec. a.C.) dell'Età del Bronzo: le fasi del Bronzo Finale di Tolfa (XI sec. a.C.) e di Allumiere (X sec. a.C.), appaiono particolarmente avanzate dal punto di vista sociale e tecnologico-produttivo, come testimoniato tra l'altro dagli aspetti funerari e dalle dimore «principesche» (Monte Rovello, risalente al Bronzo Recente, e Luni sul Mignone).
Questi fenomeni sembrerebbero riconducibili all'affermarsi, già nell'XI-X sec. a.C., di gruppi gentilizio-aristocratici e a un parziale controllo da parte di questi dei rapporti produttivi di tipo complesso legati allo sfruttamento agricolo della terra.
Nell'E. meridionale i numerosi, ravvicinati e relativamente piccoli villaggi del Bronzo Finale unificano attorno a sé i territori di c.a 50 km2, in precedenza occupati dai numerosi villaggi in cui si articolavano le comunità della piena Età del Bronzo; essi si dislocano prevalentemente su alture naturalmente o artificialmente difese (media di 4 ha): tre dei centri nei quali negli ultimi decenni sono stati intrapresi scavi - Luni sul Mignone, San Giovenale e Monte Rovello - hanno restituito, sia pur in quantità esigua, frammenti di ceramica micenea. Questi materiali, insieme ai frammenti di oggetti cultuali bronzei ciprioti del XII sec. rinvenuti nei ripostigli di Piediluco e Contigliano, attestano nella più vasta area medio-tirrenica la presenza di prodotti di prestigio provenienti dall'Oriente, destinati a una élite per la loro intrinseca valenza ideologica oltre che commerciale.
Pur nella sostanziale continuità culturale, la fase di passaggio dall'Età del Bronzo alla prima Età del Ferro segna una frattura nella tipologia e nella dislocazione topografica degli insediamenti, con un improvviso balzo in avanti nel processo di progressiva selezione e concentrazione degli abitati in atto dalla media Età del Bronzo.
Ai numerosi centri precedenti si sostituiscono alcuni grandi abitati, definibili come protourbani, che costituiscono il nucleo iniziale delle città di età storica di Veio, Cerveteri, Tarquinia, Orvieto e Vulci. Mentre il supporto orografico dell'insediamento mantiene le stesse caratteristiche dell'età precedente, aumentano invece la sua estensione (c.a 130 ha) e il territorio controllato (1000/2000 km). Centri minori come Gran Carro e la serie dei villaggi della costiera tirrenica attestano la pluralità delle scelte insediative della prima Età del Ferro: ai centri protourbani e a quelli di più piccole dimensioni su pianoro munito se ne affiancano altri in luoghi privi di difese naturali e facilmente accessibili. I «centri minori» si ritengono posti in un rapporto di dipendenza gerarchica da quelli maggiori, e destinati sia a un'ottimizzazione dello sfruttamento agrario del territorio sia a un suo controllo politico-amministrativo, al quale non doveva essere estraneo il crescente interesse per le vie di comunicazione finalizzate a scambi terrestri e marittimi. Sebbene sia ancora profondamente radicata l'immagine primitivista dei centri protourbani dell'E. meridionale formati, nella fase iniziale della prima Età del Ferro (IX sec. a.C.), da più villaggi indipendenti che coesistono sullo stesso pianoro, tende sempre più a prevalere una ricostruzione storica che privilegia la valutazione della sostanziale coesione programmatica, politica e topografica che presiedette alla loro formazione e al corrispondente abbandono dei centri del Bronzo Finale.
L'aspetto culturale villanoviano, corrispondente alla prima Età del Ferro (IX-VIII sec. a.C.), sembra dapprima presentare sulla base delle evidenze funerarie un'eguaglianza sociale testimoniata dall'uniformità del rito e del corredo legato all'incinerazione: ben presto si enfatizza però il ruolo eminente, connesso ad attività guerriere e di comando, svolto da determinati individui all'interno della stessa compagine sociale. Ne sono esempi già la panoplia da Poggio dell'Impiccato a Tarquinia e poi quella della tomba 871 di Casale del Fosso di Veio; in entrambi i casi, accanto alla funzione guerresca, vengono sottolineati aspetti rituali simbolici legati a forme di prestigio sociale.
Alla base della differenziazione sociale riscontrabile in misura crescente nei corredi del Villanoviano evoluto sono verosimilmente lo sviluppo economico basato su forme di appropriazione privata della terra, il controllo di beni destinati allo scambio e l'affermazione definitiva di strutture gentilizio-clientelari con relativa suddivisione in classi, alla cui formazione non saranno stati estranei modelli culturali greci. I contatti con il mondo «precoloniale» sono attestati dalla presenza, in contesti funebri, di coppe geometriche euboico-cicladiche; un ruolo preminente è svolto in questa fase dall'approdo tiberino di Veio e, segnatamente, da Tarquinia, dove la recezione di forme vascolari e di modelli di comportamento elitari provenienti dalla Grecia sono immediati, come conferma il corredo della tomba 158 del Poggio Sopra Selciatello, del IX sec. a.C., comprendente tra l'altro vasi di impasto locale che ripetono la forma greca del cratere per il vino: il simposio, simbolo dello «stile di vita» aristocratico viene immediatamente fatto proprio da ceti emergenti.
I contatti commerciali e gli imprestiti culturali non riguardano soltanto l'ambito mediterraneo, ma anche il mondo halstattiano (v. gli elementi di influsso centroeuropeo negli elmi crestati da Veio e nell'elmo bronzeo a calotta dalla tomba 2 di Poggio dell'Impiccato), italico centro-meridionale (brocca daunia dalla tomba 78 della stessa necropoli) e sardo (bronzetto e barchetta nuragici dalla necropoli di Cavalupo di Vulci). Anche le fonti ricordano la molteplicità dei contatti commerciali etruschi, estesi sino alla Sicilia (Strab., V, 2,7; Ephor. apud Strab., V, 2,2), a cui non dovettero essere estranee precoci forme di attività predatoria, diffuse nel mondo antico nell'ambito delle attività mercantili, e il cui primato spetterà, in età orientalizzante, a Cerveteri.
La creazione dell’empòrion di Pithecusa e la fondazione di Cuma (c.a metà Vili sec. a.C.), entrambe opera di coloni euboici, conferiscono un carattere di stabilità e regolarità ai contatti commerciali e culturali tra il mondo greco e quello etrusco: tali contatti non interessano solamente la circolazione di beni materiali, ma anche quella di artigiani stranieri detentori di tecniche particolari. I quali non tarderanno a impiantare officine proprie lì dove maggiore sarà la richiesta, dando luogo a esempi di commistione tra i repertori tipologici e figurativi greci e quelli villanoviani. Durante la facies orientalizzante sarà rilevante il ruolo degli artigiani euboici e orientali di Pithecusa nella diffusione e trasmissione dei repertori figurativi e delle tecniche metallurgiche di origine assira e urartea nell'Italia tirrenica.
La recettività etrusca nei confronti della somma delle esperienze culturali e materiali provenienti dal mondo greco e - per tramite di questo e dei Fenici - dal Vicino Oriente, caratterizza difatti il periodo orientalizzante (fine VlII-inizi VI sec. a.C.). La differenziazione sociale in atto dalla prima Età del Ferro si è ormai definita nella preminenza del ceto aristocratico, detentore di ingenti ricchezze legate complessivamente al commercio, allo sfruttamento agricolo, al controllo dei mezzi di produzione e all'impegno di forza lavoro servile.
L'alto potenziale economico e la disponibilità di materie prime fa dell'E. meridionale costiera la prima destinataria di oggetti di lusso stranieri e del bagaglio ideologico da essi rappresentato, dando esito a un processo di acculturazione in senso greco e orientale non connesso a forme di predominio politico - come invece accadrà per le popolazioni magnogreche - che si impianta su un substrato locale fortemente caratterizzato e cosciente delle proprie potenzialità sociali ed economiche. Non sono poi da trascurare i fattori di sviluppo legati a rapporti di interazione ed emulazione interni alla compagine sociale, particolarmente forti lì dove coesistono, nell'ambito di un'organizzazione nazionale o federale, organismi urbani paritari e relativamente autonomi.
Una delle implicazioni più macroscopiche a livello culturale è l'introduzione, intorno al 700 a.C., della scrittura. L'alfabetizzazione, di matrice euboica e specificatamente cumano-pithecusana, interessa in questa prima fase l'aristocrazia; la presenza, per tutto il VII sec., di alfabetari nei corredi sepolcrali principeschi, come l’arỳballos di bucchero con alfabeto e sillabario da Cerveteri, l'anforetta iscritta da Monte Acuto presso Veio o la tavoletta scrittoria dalla Tomba degli Avori di Marsigliana d'Albegna, connota il processo di alfabetizzazione come elitario. Comunque nel corso dello stesso secolo la scrittura diviene comune anche tra gli artigiani che firmano i loro prodotti, siano essi greci come Aristonothos, autore dell'omonimo cratere da Cerveteri, con scene di èpos odisseico, o etruschi, come il Velthur della citata anforetta da Monte Acuto. Nel VI sec., in coincidenza con i processi di «democratizzazione» interni alla società etrusca di cui si dirà, la scrittura interesserà gruppi più ampi.
Lo sviluppo urbanistico in atto vede in questa fase l'avanzata economica di Tarquinia, seguita da Veio e Vulci, e l'emergere, dalla fine dell'VIII sec., della potenza di Caere. I modelli greci vengono recepiti anche a livello di organizzazione statale, come esemplifica la lega dei duodecim populi Etruriae (Strab., V, 2), sorta su possibile suggestione della Lega Ionica. Nell'ambito della sostanziale autonomia politica e commerciale delle singole città-stato e del loro controllo territoriale, questa organizzazione a carattere federale avrebbe assunto l'aspetto di un'associazione religiosa e politica con adunanze annuali nel santuario di Voltumna (Liv., IV, 23,5) presso Volsinii.
L'integrazione nelle strutture sociali e cittadine etrusche di stranieri - e non solo artigiani - provenienti dal mondo greco è ricordata dalla tradizione sul nobile corinzio Demarato, giunto a Tarquinia nel 675 a.C. con un seguito di artigiani e artisti che avrebbero tra l'altro contribuito allo sviluppo artistico e tecnico centro-italico (Plin., Nat. hist., XXXV, 16).
Tra l'VIII e la metà del VI sec. a.C. il Mar Tirreno è interessato dal fenomeno della «talassocrazia» etrusca (Dion. Hal., I, 11) ma anche dal diretto controllo etrusco sia sulla Campania interna, che sulle vie di penetrazione continentale verso il meridione, testimoniato dalle tombe principesche di Preneste, dai re etruschi di Roma e da testimonianze etrusche a Lavinio e Satricum. Lo attestano non soltanto le importazioni straniere, ma particolarmente il diffondersi in tutto il bacino mediterraneo, dall'Africa e dalla Spagna fino alla Grecia e all'Asia Minore, di prodotti etruschi come i buccheri, la ceramica etrusco-corinzia, le anfore vinarie. Queste ultime attestano l'avvenuto impianto, intorno alla fine del VII sec., delle colture vinarie (Vulci, Cerveteri) e olearie in E.; in queste produzioni le aristocrazie reinvestono i proventi dei traffici mercantili traendone, data la grande richiesta interna ed estera, ulteriori ingenti profitti.
Il sistema insediativo territoriale dell'E. meridionale si caratterizza, oltre che per la già ricordata presenza delle cinque città-stato (Veio, Cerveteri, Volsinii, Tarquinia, Vulci) dislocate, come le restanti della «dodecapoli», quasi a corona lungo i confini geografici dell'E. con un controllo diretto degli sbocchi a mare, per la densa occupazione di tutto il territorio, costellato da insediamenti di limitata estensione a carattere agricolo o di maggiore consistenza e di lunga tradizione, posti su posizioni munite. Questi ultimi sono stati talora impropriamente designati con il termine di oppida riferibile, semmai, sulla base della narrazione cesariana, agli abitati protourbani di vasta estensione. Lungo l'arteria fluviale del Tevere è da rilevare, nel largo spazio che si determina tra Volsinii e Veio, l'affermarsi, dall'VIII sec., di Falerii Veteres, il più grande di tutti i centri «minori», connesso a un èthnos sotto certi aspetti da distinguere da quello etrusco, ma comunque di incerta definizione.
Questi centri secondari, disposti omogeneamente nell'E. meridionale dal bacino dell'alto Mignone e del Biedano (Blera, San Giuliano, San Giovenale) ai territori più interni di Acquarossa, Tuscania, Bisenzio, Poggio Buco, Castro, inseriti in un rapporto di relativa dipendenza dai centri maggiori, conoscono sino al VI sec. una fase di notevole vitalità e sviluppo. Il loro fiorire si deve, oltre che alle attività agricole, alla posizione lungo vie interne di comunicazione tra le grandi città. La prosperità raggiunta è attestata dal fenomeno delle tombe rupestri, di origine ceretana, che si propagherà sino a Orvieto (necropoli del Crocefisso nel Tufo, seconda metà del VI sec. a.C.).
Il decadere e, in alcuni casi, la scomparsa violenta, intorno alla fine del VI sec., di questi abitati sono dovuti al generale rivolgimento politico ed economico che investe l'E. meridionale sino alla fine del V secolo. L'espandersi della colonizzazione greca, l'egemonia commerciale di Cartagine dalla Sicilia alla Spagna e la loro reciproca rivalità commerciale e politica limitano di fatto la precedente supremazia marittima degli Etruschi: l'afflusso e le attività concorrenziali di esuli ionici giunti in Italia sotto la spinta persiana e il loro stanziarsi ad Alalia in Corsica culmina, nel 540 a.C., nella battaglia del Mare Sardo (Herodot., I, 163-168). La sostanziale vittoria dell'alleanza etrusco-cartaginese segna comunque una svolta nell'attività commerciale etrusca, conseguente alla divisione delle rispettive zone di influenza tra le due potenze, che comportò l'estromissione del commercio etrusco dalla Sardegna con la preclusione delle vie dell'Occidente e dell'Africa settentrionale. Gli interessi etruschi si rivolgono adesso verso i territori continentali del Nord; nel contempo si restringe il campo di attività delle città costiere a favore delle iniziative commerciali di quelle interne (Orvieto-Volsinii, Chiusi, Etruria settentrionale).
Ferma restando la continuità dei rapporti commerciali e culturali con il mondo greco, testimoniata dalla massiccia importazione di vasi attici e dallo sviluppo dell’empòrion e centro religioso di Gravisca, nel quale la presenza greca cesserà solo nella prima metà del V sec. a.C., la fine del VI sec. è caratterizzata, come accennato, da profondi rivolgimenti interni a carattere sociale.
Una decisa volontà di controllo territoriale da parte delle città egemoni porta alla scomparsa dei centri minori (Acquarossa, Poggio Buco, Bisenzio) o a un drastico ridimensionamento della loro autonomia, nell'ambito di una nuova definizione di unità territoriali e sfere di influenza dei grandi centri urbani, spesso in reciproca rivalità.
Non dovettero essere infine estranee alla strutturazione del nuovo assetto territoriale, il controllo delle vie di comunicazione e delle attività produttive, e la spinta all'acquisizione di terre da redistribuire esercitata dal dèmos urbano in ascesa.
In questa fase primeggiano Caere, Tarquinia e Vulci. Tarquinia allargherà la sua sfera di controllo alla zona delle necropoli rupestri, sottraendola a Caere, ed entrando in contrasto con Volsinii per il lago di Bolsena, del quale controllerà il settore occidentale; nell'area del Fiora, Sovana, alleata di Volsinii, è in conflitto con Vulci.
L'organizzazione interna delle stesse grandi città viene interessata dall'emergere di tendenze a carattere democratico dovute a una crescita sociale ed economica del dèmos contrastante il dominio oligarchico dell'aristocrazia mercantile. In questo quadro si inserisce la presenza di «tiranni democratici» come Porsenna a Chiusi, Thefarie Veliana a Caere, i Tarquini a Roma, per i quali la denominazione di «re» non doveva essere in opposizione al loro carattere demagogico; a costoro è probabilmente da imputare il rilancio dell'agricoltura sotto la spinta dei ceti medio-bassi, così come avvenne nello stesso periodo a Cuma con Aristodemo, il quale infatti offrirà asilo a Tarquinio il Superbo dopo la cacciata da Roma.
Caratteri di avanzamento delle istanze democratiche e del formarsi di una classe relativamente benestante e di pari diritti sono da considerarsi la diffusione del nome gentilizio - già presente in misura limitata nel VII sec. - che si affianca al prenome di tutti cittadini indipendentemente dal loro livello sociale, e la struttura planimetrica egalitaria delle tombe, conseguente a quella urbana, e particolarmente evidente a Volsinii.
Il V sec. vede affermarsi la potenza di Siracusa nel Mediterraneo a opera dei Dinomenidi, con aspetti di aperta ostilità verso gli Etruschi e concretizzatasi nella battaglia di Cuma del 474 a.C. (Diod. Sic., XI, 51). L'attacco etrusco, mirante a prevenire le mire di Ierone nel Tirreno centro-settentrionale, viene annientato dal tiranno; il tramonto effettivo della «talassocrazia» etrusca si completerà venti anni dopo la battaglia di Cuma, con l'attacco siracusano all'Elba e alla Corsica.
L'esito della battaglia di Cuma avrà un effetto destabilizzante anche sui domini etruschi in Campania dove, intorno al 440-420, a seguito delle invasioni sannitiche, si formerà uno stato campano.
Dalla seconda metà del V sec. cala bruscamente l'importazione di ceramica attica, chiudono le zone di mercato (è il caso di Gravisca) con un conseguente mutamento delle rotte del commercio greco nella zona settentrionale-adriatica dell'E., dove primeggiano Adria e il porto di Spina.
Con l'inizio del IV sec. si assiste a una fase di ripresa sociale ed economica fondata su un nuovo assetto sociale. Emerge dai conflitti di fine VI-V sec. una nuova aristocrazia terriera, diversa da quella di età orientalizzante, ma come questa detentrice esclusiva del potere economico e politico, individuato nelle formule magistratuali di stampo repubblicano e nel monopolio dell'aruspicina e della religione, usata sia come formidabile mezzo di controllo e stabilizzazione dell'assetto sociale interno, sia come arma di penetrazione nella compagine politica romana.
Le città conoscono una nuova fase di diffusione di prodotti artistici e di ristrutturazione urbanistica riguardante principalmente la cinta muraria, dovuta con probabilità al pericolo rappresentato dai Galli, dalle popolazioni italiche confinanti e da Roma.
Tra le città dell'E. meridionale il predominio spetta ancora a Tarquinia, la quale deve la sua prosperità alle risorse economiche connesse all'agricoltura, conseguenti al suo ampliamento territoriale sino al lago di Bolsena, a danno anche dell'entroterra ceretano. Ed è infatti lo zilath di Tarquinia, Velthur Spurinna, a condurre nel 413 a.C. un contingente etrusco alleato degli Ateniesi contro Siracusa. La parziale vittoria di questa spedizione, che segna comunque il reingresso temporaneo dell'E. meridionale nelle vicende politiche internazionali nel Mediterraneo, è celebrata in uno degli elogia marmorei rinvenuti a Tarquinia.
Nel 396 a.C. Veio è la prima città etrusca che perde, dopo un assedio decennale, la propria indipendenza a opera di Roma, con conseguente divisione del suo territorio tra la plebe della città vincitrice.
Il pericolo rappresentato da Roma, finora sottovalutato, viene ora compreso dalle città dell'E. interna, ed è ancora Tarquinia, nel 358 a.C., a ergersi a capofila della risposta etrusca, insieme a Volsinii, Falerii e all'incerta Caere, già legata a Roma. L'esito sostanzialmente paritario di questo scontro rafforza comunque la posizione di Roma, la quale nel 295 a.C. sconfiggerà nella battaglia di Sentinum una coalizione di Etruschi, Italici e Galli e, immediatamente dopo, Caere, Vulci e Volsinii.
La perdita progressiva di potere da parte delle grandi città e il loro soggiacere a patti con Roma permette ai centri minori dell'E. meridionale già decaduti in età tardoarcaica, di risorgere e di affrancarsi tramite forme di autogoverno. Il loro rifiorire è ancora attestato da un secondo ciclo di architettura funeraria rupestre, particolarmente rappresentata a Norchia, Castel d'Asso e Sovana e più tardi dalla creazione della Via Clodia (inizi del II sec. a.C.) che collega tra loro le città dell'interno, fatto quest'ultimo che comporta il riconoscimento da parte di Roma delle aristocrazie dell'E. centro-meridionale.
Il nuovo assetto territoriale è dovuto al sistema di produzione basato sullo sfruttamento del lavoro dei servi da parte della nobiltà agraria, insediatasi in questi centri anche per sfuggire alle seditiones sociali delle classi mediobasse, le principali delle quali si ebbero ad Arezzo (302 a.C.) e a Volsinii (265 a.C.). In entrambi gli eventi l'intervento romano viene richiesto dalle stesse aristocrazie etrusche risolvendosi in un bagno di sangue e nel trasferimento, nel caso di Orvieto (Volsinii Veteres), degli abitanti sopravvissuti a Bolsena (Volsinii Novi).
Entro la prima metà del III sec. a.C. può dirsi conclusa la sottomissione dell'E. a Roma; la classe dirigente, contraddistinta da un immobilismo sociale e da un estremo conservatorismo religioso, si appoggia alla classe dirigente romana e cerca l'integrazione con essa, completata intorno al II sec. a.C. Quando poi le guerre imperialistiche romane nel Mediterraneo introdurranno nel sistema produttivo italico il latifondo e il lavoro schiavistico, si assisterà alla definitiva rovina delle campagne etrusche. I Gracchi tenteranno di dare nuova vita all'agricoltura cercando di reinstaurare modelli coloniali, ma saranno duramente ostacolati dall'aristocrazia etrusca che, nel suo immobilismo ostinato, si appella all'apocalittica profezia della ninfa Vegoia riguardante l'inamovibilità dei confini e, di conseguenza, l'inalterabilità della struttura sociale.
Nel 90 a.C. la concessione della cittadinanza a tutti gli Italici, il loro inserimento nelle tribù e la creazione dei municipi, segna la fine delle città etrusche come entità autonome e l'integrazione della storia etrusca in quella della Roma tardo-repubblicana.
Bibl.: Per un inquadramento storico generale: G. Colonna, Problemi di topografia storica dell'Etruria meridionale interna, in Studi sulla città antica. Atti del Convegno, Bologna 1970; id., La cultura dell'Etruria meridionale intema con particolare riguardo alle necropoli rupestri, in Aspetti e problemi dell'Etruria intema. Vili Convegno Nazionale di Studi Etruschi e Italici, Orvieto 1972, Firenze 1974, pp. 253-265; M. Torelli, Per una storia dello schiavismo in Etruria, in DArch, VIII, 1974-1975, pp. 67-78; G. Colonna, Basi conoscitive per una storia economica dell'Etruria, in Contributi introduttivi allo studio della monetazione etrusca. Atti del V Convegno del Centro Internazionale di Studi Numismatici, Roma 1976, pp. 2-23; id., Il sistema alfabetico, in L'etrusco arcaico, Firenze 1977, pp. 7-24; M. Cristofani, Gli Etruschi. Cultura e società, Novara 1978; AA.VV., Le città etrusche, Verona 19783; G. Colonna, Presenza greca ed etrusco meridionale nell'Etruria mineraria, in L'Etruria mineraria. Atti del XII Convegno di Studi Etruschi e Italici, Firenze 1979, Firenze 1981, pp. 443-452; AA.VV., Gli Etruschi e Roma. Atti dell'incontro di studio in onoje di M. Pallottino, Roma 1979, Roma 1981; G. Colonna, Quali Etruschi a Roma, ibid., pp. 159-172; M. Cristofani, Le attività produttive, in M. Cristofani (ed.), Gli Etruschi in Maremma, Milano 1981, pp. 175-219; M. Sordi, La donna etrusca, in Misogenia e maschilismo in Grecia e a Roma, Genova 1981, pp. 46-67; M. Giuffrida Ientile, La pirateria tirrenica, Momenti e fortuna (Kokalos, Suppl. 6), Roma 1983; M. Torelli, Polis e «Palazzo». Architettura, ideologia e artigianato greco in Etruria tra VII e VI sec. a.C., in Architecture et société de l'archaïsme grec à la fin de la république romain, Roma 1983, pp. 471-490; M. Cristofani (ed.), Civiltà degli Etruschi, Milano 1985; M. Pallottino, Etniscologia, Milano 19857; G. A. Mansuelli, Topografia storica della regione etrusca, in G. Pugliese Carratelli (ed.), Rasenna, Milano 1986, pp. 677-713; G. Bartolom, Le comunità dell'Italia centrale tirrenica e la colonizzazione greca in Campania, in M. Cristofani (ed.), Etruria e Lazio arcaico. Atti dell'incontro di studio (QuadAEI, 15), Roma 1987, pp. 37-53; M. Menichetti, Le aristocrazie tirreniche: aspetti iconografici, in A. Schiavone (ed.), Storia di Roma, I, Torino 1988, pp. 75-124; P. Pelagatti, G. Gazzetti, Ricerche territoriali e urbanistiche in Etruria meridionale, in Atti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Firenze 1985,1, Roma 1989, pp. 293-309; L. Quilici, Le antiche vie dell'Etruria, ibid., pp. 451-506; H. Heres (ed.), Die Welt der Etrusker. Internationales Kolloquium, Berlin 1988, Berlino 1990; La grande Roma dei Tarquini (cat.), Roma 1990.
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Dall'arcaismo alla romanizzazione: M. Torelli, Elogia tarquiniensia, Firenze 1975; G. Colonna, La Sicilia e il Tirreno nel V e IV secolo, in Kokalos, XXVI-XXVII, 1980-1981, I, pp. 157-183; M. Torelli, I duodecim populi Etruriae, in AnnFaina, II, 1985, pp. 37-53; G. Colonna, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, in Atti del Secondo Congresso Intemazionale Etrusco, cit., I, pp. 361-374; M. Torelli, Problemi di romanizzazione, ibid., pp. 393-403; G. Colonna, Città e territorio nell'Etruria meridionale, in Crise et transformation des sociétés archaïque de l'Italie antique au Ve siècle a.v.J.C., Actes de la table ronde, Roma 1990, pp. 7-21.
(F. Ceci)
E. romana. - La romanizzazione dell'E. procedette con modalità molto diverse nel Sud e nel Nord della regione. Nel Sud i centri maggiori furono conquistati e privati di gran parte del loro territorio, confiscato per la costruzione di strade e di colonie, ma anche per annullare ogni possibilità di ripresa delle città vinte. Nel resto della regione i Romani rispettarono l'assetto sociale e territoriale (le colonie di Lucca e Luni sorsero in una zona sostanzialmente non etrusca), e attraverso alleanze si garantirono la lealtà delle classi egemoni locali e la loro graduale integrazione nello stato romano, offrendo in cambio una certa indipendenza negli affari interni e l'appoggio militare in caso di attacchi esterni o di conflitti sociali. Questa duplice e opposta politica romana approfondì definitivamente le differenze culturali e sociali che già distinguevano le città settentrionali da quelle meridionali, e contribuì a creare a tutti gli effetti due E., l'una romanizzata massicciamente già dal III sec. a.C., l'altra, di cultura pienamente etrusca, fino alla metà circa del I sec. a.C.
Le fasi della romanizzazione. - Alla fase violenta e coercitiva della conquista iniziata con la precoce sottomissione di Veio nel 396 e proseguita con il controllo assoluto della costa tirrenica confiscata a Caere, Tarquinia, Vulci e Roselle (294-273 a.C.), fanno seguito interventi improntati a un'estrema razionalità organizzativa. In concomitanza con operazioni di colonizzazione incomincia la costruzione della rete stradale romana, realizzata a partire dalla metà del III sec. a.C., che nacque con funzionalità puramente belliche e poi divenne veicolo essenziale della romanizzazione delle campagne e fattore di valorizzazione dei terreni e di diffusione delle proprietà senatorie.
Nel II sec. a.C., mentre la regione veniva coinvolta nei contrasti riguardanti Roma e i territori italici, si manifesta il profondo interesse delle classi senatorie per le potenzialità economiche delle terre etrusche, rivolto in un primo momento agli agri più vicini a Roma, il ceretano e il veientano, dove le antiche città, slegate dai nuovi sviluppi del territorio, lentamente scomparivano. Verso la fine del secolo la crisi della piccola proprietà contadina coinvolge anche le campagne dell'E. centrale, toccando l'apice nei primi anni dello scontro tra Siila e Mario. La riforma graccana che, come sembra, non provvide ad ampie assegnazioni, non modificò sostanzialmente la situazione della regione.
Le fonti riportano limitate notizie di difficile verifica relative ad Arezzo, Ferento, Tarquinia (Lib. col., pp. 215, 216, 219 Liachmann). Nel caso di Tarquinia i nuovi coloni sono stati riconosciuti in un nutrito gruppo di personaggi con nomi non etruschi che compare nel panorama epigrafico tardo-repubblicano della città.
Negli anni successivi, l'esplicita volontà dei domini del Nord di conservare l'equilibrio sociale raggiunto è probabilmente all'origine dalla resistenza da parte di Etruschi e Umbri verso la legge agraria di M. Livio Druso (91 a.C.: App., Bell, civ., I, 36, 162-4). Dovevano in ogni caso sussistere, soprattutto nelle zone costiere e meridionali dell'E., estese sacche di disagio sociale. A Talamone, la documentazione del II sec. a.C. sembra interpretabile in quel senso: il frontone con la rappresentazione della lotta fratricida dei Sette contro Tebe potrebbe alludere proprio alla situazione contrastata del tempo, mentre i depositi votivi rinvenuti nelle vicinanze, con ex voto a forma di armi e attrezzi agricoli, testimoniano un culto di contadini-soldati e, indirettamente, l'esistenza di quella classe di pastori liberi e semi-liberi e di agricoltori privati dei loro possessi, forse in parte di origine etrusca, che costituì poi la base di reclutamento per l'esercito mariano nell'87 a.C. (Plut., Mar., 41). L'insieme dei dati noti sul santuario contribuisce a delineare un ambiente ancora sostanzialmente etrusco o comunque non romanizzato, con caratteri di unicità nell'area conquistata nel III sec. a.C.
Con l’89 a.C. gli Etruschi, come gli altri alleati italici, ricevettero la cittadinanza romana e le città ebbero poco dopo l'ordinamento municipale con i quattuorviri come magistratura suprema. Formalmente questa data segna l'avvenuta romanizzazione dell'E., ma non ancora l'inizio della pace.
L'archeologia documenta con grande evidenza gli aspetti traumatici dell'intervento sillano in E., contrassegnato da ampie confische e già noti, attraverso le fonti letterarie, per Arezzo, Chiusi, Volterra, Populonia. I tesoretti seppelliti fra l'81 e il 79 a.C. (a Capalbio, in territorio cosano; a San Miniato, presso Firenze; a Montiano, presso Talamone) si affiancano ai segni inequivocabili di distruzione riconosciuti negli scavi di Vetulonia, di Roselle, di Talamone. Quest'ultimo centro, con il grande santuario, non si riprenderà più, restando disabitato fino al VI sec. d.C. La colonizzazione sillana toccò certamente Fiesole e Arezzo. Sono coloni sillani gli Arretini Fidentiores (Plin., Nat. hist., III, 52) testimoniati ancora come comunità autonoma nel I sec. d.C. (CIL, XV, 6675).
Le assegnazioni sillane, insieme con i rapidi e cospicui passaggi di proprietà di quegli anni, portarono alla formazione di nuovi patrimoni fondiari e alla costruzione di nuove ville, soprattutto lungo la costa. Rientrano in quest'ambito le proprietà di Attico nell'Aretino, quelle dei Domizì Enobarbi (Caes., Bell, civ., I, 34, 2) e dei Sesti (Cic., Att., XV, 27, 1) nel Cosano e quelle di P. Clodio (Cic., Phil., XII, 23; Mil., 74) lungo l'Aurelia, nel Rosellano. Le assegnazioni di terra volute da Cesare toccarono forse i territori di Volterra, Capena, Veio, Castrum Novum. Attestazioni di Coloniae Iuliae (Arezzo, Siena, Pisa) vengono in genere considerate triumvirali, con l'eccezione di Castrum Novum e Lucus Feroniae che potrebbero essere state vere colonie cesariane.
Dopo la guerra di Perugia (41 a.C.), che vide lo scontro finale fra la fazione di Ottaviano e quella di Antonio, l'E. fu oggetto di un'ultima imponente operazione di colonizzazione e di distribuzioni viritane che portò all'affermarsi definitivo della cultura romana nella zona settentrionale. Intorno alla metà del secolo o poco dopo si registra infatti l'abbandono generalizzato dell'etrusco nelle iscrizioni; da questo momento la sopravvivenza della cultura etrusca fu legata esclusivamente alle scelte ideologiche delle classi dominanti.
Una vera deduzione coloniale con vasti agri centuriati e nuovi impianti urbanistici ortogonali è riconoscibile a Pisa (Colonia Iulia Opsequens Pisana), a Florentía (che fu fondata ex novo o, al massimo, su un precedente villaggio), a Lucca, ad Arezzo ove la centuriazione presenta due diversi orientamenti, forse riferibili ai successivi interventi sillano e triumvirale. Anche un tratto del territorio di Volterra, la bassa Valdelsa, ebbe una centuriazione, mentre il territorio di Saena Iulia, come quello di Roselle più a S, non sembra conservare traccia di divisioni agrarie. A Pistoia, infine, non è documentata una colonia, ma solo una riorganizzazione urbanistica della città e assegnazioni viritane nel territorio sul quale sembra estendersi la centuriazione di Florentia.
Il progetto di colonizzazione del Valdarno ebbe effetti particolarmente durevoli. Le città prosperarono e l'insediamento rurale conobbe grande stabilità. Almeno fino a tutto il I sec. d.C. sono attive fornaci ceramiche, quale quella di Umbricio Cordo, recentemente indagata al confine fra Arezzo e Chiusi, che produceva sigillata italica per un mercato piuttosto vasto. La situazione appare simile nel senese, dove gli insediamenti maggiori noti sembrano più stationes che ville (La Befa, Pieve al Bozzone) e raggiungono indenni il IV-V sec. d.C. Le aree più vicine alla costa mostrano una particolare vivacità. Il caso di Empoli, porto fluviale sull'Arno compreso nel territorio di Volterra, dove era prodotto un tipo di anfora vinaria che circolò fino al IV sec. d.C., è indicativo della maggiore stabilità dell'economia di questa parte di E. rispetto alle zone meridionali a predominante produzione schiavistica. Sulla costa pisana e volterrana dove, oltre al Portus Pisanus, erano distribuiti diversi scali costituiti da bacini lagunari e foci di fiumi (Isola di Migliarino, S. Piero a Grado, Vada Volaterrana), è stata individuata una rete di siti rurali attivi dalla metà del I sec. a.C. al V d.C., integrata in alcune aree con fattorie e villaggi di età precedente e con ville non molto numerose e distribuite sui terreni migliori, a poca distanza dalla costa e dalla viabilità. Le coltivazioni più diffuse sembrano i cereali, ma non doveva essere trascurabile la produzione di olio (villa di San Vincenzino) e di vino (fornaci di anfore vinarie a Livorno e presso Vada, ville dell'area di Rosignano). Sono presenti nelle stesse aree fornaci di laterizi e di ceramiche fini. L'insieme di questi dati fa supporre che l'intervento di Aureliano a favore di un rilancio della viticultura lungo la Via Aurelia (SHA, Aur., 48, 2) deve forse essere riferito ai territori pisano e volterrano.
L'età imperiale. - La riforma augustea, attuata intorno al 6 d.C., ampliò verso Ν la regione corrispondente alle sedi classiche degli Etruschi, portando il confine dall'Arno-Serchio fino al Magra e includendo i territori di cultura mista etrusco-ligure di Luni, Lucca e Pistoia. La scelta di attribuire all'E, quel lembo di terra che era stato «etruscum antequam ligurum» (Liv., XLI, 13, 4-5) va interpretata nel contesto della arcaizzante politica augustea tesa a utilizzare il massiccio richiamo al passato per assicurarsi il consenso. Ad Augusto si deve probabilmente la ricostituzione antiquaria della lega etrusca, decaduta a seguito della distruzione del Fanum Voltumnae (264 a.C.). La lega augustea riunì quindici popoli, invece dei dodici tradizionali, forse inserendo tutte le comunità che in tempi anche molto lontani avevano fatto parte della lega. Probabilmente si trattò di Pisae, Faesulae, Arretium, Cortona, Perusia, Clusium, Volsinii, Tarquinii, Caere, Populonium, Vetulonia, Rusellae, Vulci, Volaterrae, Veii. La lega ricostituita fu attiva a lungo e molte iscrizioni ne ricordano i magistrati. Ancora ai tempi di Costantino, apud Volsinios (presumibilmente, quindi, nell'antico Fanum Voltumnae) si teneva una festa annuale panetrusca a cui partecipavano anche gli Umbri (editto di Hispellum: CIL, XI, 5265). L'opera antiquaria di Augusto fu completata da Claudio, notoriamente interessato alla storia e alla cultura etrusche. Egli si adoperò per la restaurazione dell'ordo LX haruspicum, il collegio sacerdotale depositario della etrusca disciplina, tenuto in vita dal senato già in età repubblicana per l'autorevolezza dei suoi responsi, facilmente utilizzabili a fini politici.
Le classi dirigenti municipali accolsero con entusiasmo gli interventi imperiali, come dimostrano i monumenti e i cicli statuari legati al culto imperiale (testimoniati sia dai ritrovamenti archeologici sia dalle fonti letterarie ed epigrafiche), che si diffondono nelle città della regione (p.es. a Pisa, Perugia, Roselle, Volsinii, Ferento, Heba, Lucus Feroniae). Caere, decaduta in età tardo-repubblicana, fu oggetto di una monumentalizzazione complessiva. A Roselle, dove non sembra abbia lasciato traccia la colonia del periodo triumvirale, l'età giulio-claudia è segnata da un rifacimento globale degli edifici del centro. Nelle città del Nord, invece, l'attività edilizia è imponente e prosegue anche oltre la fase giulio-claudia: grandi edifici per spettacoli vengono costruiti a Luni, Arezzo, Lucca, Fiesole, Volterra per iniziativa delle classi dirigenti locali o dell'aristocrazia senatoria di origine etrusca, come i Caecina nel caso del teatro di Volterra.
Gli interventi più artificiali, quale la rinascita di Veio, risuscitata dall'intervento augusteo come Municipium Augustum Veiens, ebbero una fioritura limitata: già alla fine del I sec. si colgono i segni di una crisi dovuta all'esaurimento di quel particolare rapporto di alleanza fra aristocrazie municipali e imperatore.
Il secolo compreso fra il 50 a.C. e il 50 d.C. segnò per le campagne di tutta 1Έ. il periodo di massima prosperità e densità di insediamenti. Dall'età flavia si notano profondi mutamenti nell'area più instabile della regione, la costa centro-meridionale. L'insediamento minore si dirada, mentre alcune ville sembrano interessate da cambi di proprietà e dalla riconversione dei fondi a gestione più strettamente schiavistica e intensiva in produzioni meno impegnative. Questi dati sembrano coincidere con il definitivo esaurimento, documentato dalla distribuzione dei contenitori, del monopolio del vino italico prodotto nelle ville schiavistiche dell'Italia centrale intorno a Roma. In questi decenni, inoltre, i senatori provinciali, costretti a possedere almeno un terzo del loro patrimonio in Italia (Plin., Ep., VI, 19), probabilmente acquistarono vaste quote delle proprietà della classe senatoria italica (sulla costa tarquiniese, p.es., sono presenti dei Fabii Fabiani di provenienza ispanica).
Ma il fenomeno che segnò più massicciamente questa fascia del territorio nel periodo compreso tra i Flavi e Adriano è l'espansione delle proprietà imperiali, accompagnata da un'imponente politica edilizia, sia nelle città che nelle campagne. Il tipo edilizio che sembra diffondersi in connessione con l'accrescersi del patrimonio imperiale è la villa marittima. Questo tipo di villa, comparso lungo le coste dell'E. e del Lazio e sulle isole adiacenti nel corso del I sec. a.C., raggiunse uno sviluppo senza precedenti negli ultimi decenni del I sec. d.C.-inizi II, quando si assiste alla fondazione di nuovi complessi o alla monumentalizzazione di edifici precedenti che occulta o rende irriconoscibili le preesistenze. La ristrutturazione della costa raggiunse poi l'apice fra il 103 e il no d.C. con la costruzione del nuovo grande porto traianeo di Centumcellae.
L'espansione della proprietà imperiale investì anche l'interno, privilegiando la vicinanza alle strade maggiori e inglobando talvolta mansiones importanti, con un procedimento simile a quello ché sulla costa determinò L’assorbimento dei porti all'interno delle ville marittime. È questo il caso della mansio di Lorium, sull'Aurelia, proprietà imperiale almeno dal II d.C. (CIL, XI, 3732, 3738), ma forse anche di Careiae sull’Aurelia e di Vacanae sulla Cassia. Le mansiones appaiono inglobate anche nei fundi di personaggi eminenti, come accade in età antonina lungo la Cassia, nel territorio di Ferento dove erano le proprietà di L. Mummius Niger Valerius Vegetus (CIL, XI, 3003). Sulla costa ceretana si segnala il latifondo imperiale della villa Alsiensis (CIL, XI, 3719, 3720, 3724) che comprende due ville (Palo e San Nicola) e tutte le infrastrutture della zona. Nel tratto dove sorge Centumcellae, la fascia costiera, almeno fino a Thermae Tauri nell'interno, appare interamente nelle mani di Traiano e le mansiones di Algae e Rapinium fanno parte dei fundi delle ville marittime. Le Thermae Tauri, come le Aquae Caeretanae più a S ricevono, in questo contesto, un restauro di particolare impegno architettonico.
Il fenomeno si estende anche sulle coste dell'antico vulcente, dove due ville, di cui si può provare con sufficiente certezza l'appartenenza ai beni imperiali, occupano l'area del Portus Cosanus e il golfo di Talamone, mentre alcuni indizi farebbero pensare che le isole del Giglio e forse di Giannutri (Cic., Att., IX, 6, 2-3) e l'Argentario (dove era una mansio Domitiana, e che era anche chiamato Insula Matidiae: Liber Pontificalis, I, 183, Duchesne) fossero proprietà dei Domizi Enobarbi in seguito passate al patrimonio dell'imperatore per successioni ereditarie.
Un forte elemento di omogeneità che caratterizza lo sviluppo di queste ville è l'uso dell'opera mista di reticolato e laterizio, caratterizzata da grande regolarità di esecuzione e da un'adesione ai modelli urbani non riscontrabile nelle tecniche edilizie dei precedenti insediamenti rurali. Notevolissima è poi la presenza di laterizi prodotti da figlinae urbane, almeno fino a Populonia sulla costa e anche nell'entroterra (Valtiberina). Questo «commercio» di mattoni fra Roma e l'E. potrebbe spiegare almeno in parte il funzionamento delle grandi proprietà imperiali e senatorie del periodo: i prodotti dell'entroterra (probabilmente maiali e cereali), insieme con i derivati del pesce allevato negli impianti costieri, avevano come destinazione unica o comunque predominante Roma. Le navi onerarie al ritorno trasportavano come zavorra laterizi di produzione urbana, poi impiegati nelle murature delle ville, nelle stationes o in edifici in città (attestazioni di laterizi urbani provengono anche da Roselle, dalla probabile stazione marittima di Castiglione della Pescaia, dalla villa di Poggio al Mulino di Populonia). Si può supporre che le ville insediate su porti e mansiones abbiano esercitato anche una funzione di controllo e filtro su questi flussi commerciali.
A partire dall'età antonina il contrasto fra la stabilità dell'insediamento dell'E. settentrionale (dove solo l'estremo ager Lunensis si presenta spopolato) e il progressivo spopolamento della costa centro-meridionale si fa stridente. Il diradamento dei siti rurali prosegue fra il III e il V sec. progressivamente, con momenti di crisi acuta che variano nei singoli territori. La riforma dioclezianea, negli ultimi anni del III sec., portò alla fusione delle regiones VI et VII, dando luogo a una nuova unità amministrativa e territoriale, la provincia Tuscia et Umbria in cui fu inclusa, forse, la stessa Roma. Nei decenni finali del IV sec. la Tuscia et Umbria fu nuovamente divisa, ma in senso longitudinale: il confine fra le diocesi Italia Annonaria e Italia Suburbicaria fu infatti spostato dal Magra verso meridione fino a una linea non ben determinabile, ma comunque a S di Volterra.
In accordo con quanto emerge dalle descrizioni di Rutilio Namaziano, che viaggia lungo la costa dell'E. intorno al 416 d.C., il popolamento residuo sembra radunarsi nelle grandi ville-mansiones. In qualche caso queste vengono prescelte come sedi vescovili, per altro di breve durata: accade p.es. ad Aquaviva, sulla Via Flaminia nel territorio di Falerii. Un centro particolare appare quello scavato a Mola di Monte Gelato, ristrutturato agli inizi del V d.C. sulle rovine di una villa e comprendente pochi edifici e una chiesa.
Le campagne, a partire dall'età severiana, iniziano a restituire indizi di impaludamento soprattutto sulle coste della futura Maremma. Ma il segno di decadenza più grave è nel fallimento progressivo delle città che, in qualche caso, vengono abbandonate già nel IV sec. (come Heba) o si riducono ad agglomerati di consistenza demografica minima, persino difficili da localizzare (è il caso di Populonia, sede vescovile di fine V secolo).
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(M. Celuzza)