CARAFA, Ettore
Conte di Ruvo, nacque in Andria il 29 dicembre del 1767, primogenito di Riccardo duca d'Andria, gran siniscalco del Regno, e di Margherita Pignatelli di Monteleone, dama di compagnia della regina. A dieci anni entrò nel collegio dei nobili in Napoli al vico dei Bisi, quindi fu affidato agli insegnamenti di F. Laghezza di Trani, da tempo amico della famiglia. Questi, massone e di idee libertarie ed egualitarie, ebbe una indubbia influenza sulla formazione del C., erede di una delle più antiche famiglie della feudalità napoletana, fedele sin dal principio alla dinastia borbonica. Intorno al 1790 il C., accompagnato dal Iaghezza, si recò prima a Vienna e poi, contro il parere e celandolo alla famiglia, giunse a Parigi, dove rimase senz'altro affiascinato dai principi rivoluzionari di libertà e di eguaglianza. Tornato a Napoli, prese a frequentare circoli massonici, liberali e giacobini: partecipò di frequente alla "conversazione politica" riunita in casa dell'abate Salfi, e già nel maggio 1792 faceva parte dell'Accademia di chimica, istituita da A. Giordano e da C. Lauberg, futuro capo del governo provvisorio della Repubblica. Ma fino al 1793 il C. partecipò più all'attività culturale di questi circoli che all'impegno diretto nell'attività politica, accentuatasi peraltro in occasione dell'arrivo a Napoli della squadra navale francese comandata dal Latouche-Tréville. Nell'ottobre 1793 fu tra i promotori della nuova loggia massonica sorta nella dimora di F. Pignatelli principe di Strongoli, che, pur senza trasformarsi in vero e proprio circolo giacobino - come avrebbe voluto il Lauberg - divenne luogo di contestazione, con banchetti in cui si inneggiava a Voltaire, e che si concludevano col canto della Marsigliese, punteggiati da offensivi riferimenti ai simboli e alle persone della famiglia reale.
Questi atteggiamenti, cui si accompagnava l'uso di vestire secondo la moda francese. furono motivo di un primo processo intentato nel 1794 dalla giunta di Stato contro il C., giudicato però imputato di "terza classe" per la mancanza di prove dirette, e assolto quindi in istruttoria. L'inquisizione di Stato del 1795 ebbe invece conseguenze ben più gravi per il C., soprattutto per le puntuali denunzie rese da Ferdinando e Mario Pignatelli in cambio della impunità. Accusato di "brugiamento di alcune carte intagliate, indicanti i gigli borbonici, allusivo dell'abominazione e distruzione della famiglia Borbone", e di aver rivolto "ingiurie e scherno al ritratto di Sua Maestà la regina, danzando e cantando innanzi detto ritratto l'inno marsigliese in atto di disprezzo", il C. fu arrestato il 19 luglio 1795 e incarcerato in Castel Sant'Elmo. La prigionia durò quasi tre anni, fin quando le voci di un probabile uso della tortura da parte degli inquisitori accelerarono un piano di evasione portato a compimento il 17 apr. 1798, con la complicità del tenente Ferdinando Aprile, condannato poi alla pena di morte tramutata in ergastolo, e la probabile connivenza del capitano generale Francesco Pignatelli di Strongoli. Il C. riuscì ad allontanarsi dal Regno e - secondo alcune fonti - giunse prima a Roma, quindi a Milano, capitale della Repubblica cisalpina, dove entrò nelle simpatie del Joubert, comandante dell'armata d'Italia, che lo avrebbe raccomandato al generale Championnet, con le cui truppe il C. rientrava nel Regno nel gennaio 1799.
Costituita la Repubblica partenopea, il C. si dimostrò forse il più valente capo militare napoletano, nelle varie azioni che guidò in diverse province (Principato Ultra, Terra di Bari) per sedare le immediate e continue "insorgenze" dei contadini, aizzati dal clero e dai reazionari, ma anche naturalmente ostili a una repubblica di signori, di proprietari terrieri e di stranieri predatori.
Agli inizi di febbraio, incaricato dallo Championnet di sedare l'insurrezione nel Principato Ultra, il C. si diresse verso Avellino, dove formò una legione di parecchie centinaia di uomini, male equipaggiati e mediocremente armati. Si mosse intorno al 10 febbraio, e riportò in pochi giorni l'ordine repubblicano a Volturara, Salsa, Sorbo e Montemarano, "usando più l'ingegno che la forza", come riferirà a Ignazio Ciaia presidente del governo provvisorio e al generale Macdonald nel rapporto conclusivo del 26 febbraio. Una scaramuccia si svolse quindi a Chiusa presso Montoro, conclusasi favorevolmente per le truppe repubblicane ch'ebbero solo due morti e quattro feriti, mentre fra gli insorti si contarono ventiquattro morti e numerosi feriti. Dopo questo primo vittorioso scontro, il C. fu abbandonato dalla maggior parte della sua truppa raccogliticcia e, rimasto con un centinaio di uomini, si ritirò nella pianura di Serino e ordinò alle municipalità di pagare il soldo alle sue truppe. Il giorno seguente, 16 febbraio, si ritrovò con ottocento soldati e ordinò alla città di Solofra razioni per 1.500 uomini per intimorire i rivoltosi concentrati a Montoro, responsabili dell'uccisione del commissario francese Colombo. Inviò quindi "un proclama terribile e minaccioso", che sortì immediatamente l'effetto della resa incondizionata del paese insorto, dove - secondo la narrazione del cameriere del C. - "le persone facoltose e principali inclinavano alla repubblica, ma dovevano andare con prudenza giacché il minuto popolo teneva pei Borboni".
L'insorgere di rivolte realiste nelle province diveniva intanto sempre più preoccupante, e i comandanti francesi in Napoli - prima Championnet, quindi Macdonald - organizzarono due spedizioni dirette a riportare l'ordine in Puglia e in Calabria. La Capitanata fu pacificata dal generale Duhesme che riportò, il 25 febbraio, una brillante vittoria sui realisti concentrati a San Severo. Richiamato a Napoli il Duhesme, il comando delle truppe francesi fu affidato al generale Broussier che, rivoltosi verso la Terra di Ban, arrivò con settemila uomini a Barletta il 16 marzo, dove fu raggiunto il giorno successivo dalla legione napoletana del C., col quale si trovavano il fratello Carlo, Florestano Pepe e circa un migliaio di volontari. La resistenza più accanita all'esercito repubblicano fu sviluppata proprio, nella città di Andria, feudo e luogo natale del C., che, ritenendo di poter convincere i suoi sudditi, si avviò a parlamentare, ma fu accolto dalle fucilate dei difensori della città, fino all'ultimo leali verso la Corona e ribelli a una repubblica rappresentata dal loro antico feudatario. Dopo una strenua lotta il C. entrò, il 23 marzo, nella città, dove la resistenza continuò in numerosi scontri corpo a corpo, fin quando fu appiccato l'incendio alle porte, e il generale Broussier "ordinò allora che la città fosse abbandonata alla licenza militare", come riferisce il C. che inutilmente aveva cercato di opporsi al saccheggio e alla distruzione della città. Le truppe repubblicane si rivolsero quindi contro Trani, che fu conquistata e saccheggiata il 1º aprile.
I successi della spedizione furono interrotti dal richiamo a Napoli del C., che ricevè dal governo provvisorio l'ordine di dirigersi verso gli Abruzzi per difendere la fortezza di Pescara che i Francesi dovevano lasciare per impegnarsi in operazioni militari fuori dello Stato napoletano. A giudizio del Cuoco, "la ritirata di Carafa fu un vero male per quelle province e per la repubblica intera".
Verso la metà di aprile il C. lasciò Napoli e si diresse verso la Capitanata; dopo qualche giorno di sosta a Foggia, si ricongiunse con la sua legione proveniente da Barletta e risalì la strada costiera per gli Abruzzi. Passò per Termoli, Vasto, Lanciano, Ortona a Mare, Francavilla, e giunse verso la fine di aprile a Pescara, dove i Francesi gli consegnarono la fortezza e partirono per l'Aquila. Rimasto con circa duecento uomini, ma ben provvisto di armi, munizioni e vettovaglie, il C. si preparò a sostenere un lungo assedio ed operò anche, nella prima metà di maggio, un paio di vittoriose sortite contro le masse realiste, comandate in questa prima fase dal barone Dario di Chieti. In seguito la situazione andò peggiorando per i difensori repubblicani: non arrivarono i previsti rinforzi di volontari e di Francesi e si rafforzò invece l'assedio da parte di circa quattromila realisti, appoggiati da cannoni e mortai e guidati da un esperto comandante, Pronio. Secondo la relazione del Finoia, che accompagnava il C. anche in questa spedizione, "costui nato in Antrodoco, era stato 14 anni alle galere di Napoli per più omicidi, commessi in risse, non per furti. Non era però uomo di cattivo cuore. Rozzo però e dozzinale". L'assedio continuò fino alla fine di giugno, quando giunse notizia della caduta della Repubblica napoletana.
Il 1º luglio fu firmata la capitolazione della roccaforte di Pescara, che prevedeva per il C. la libertà di raggiungere i Francesi ad Ancona. Ma i disordini scoppiati nella città, anche, per il tradimento di Pietro Sevenno, comandante della piazza per nomina del C., e il conseguente incendio dell'Arsenale insospettirono le truppe realiste, che sgominarono i repubblicani in fuga. Il C., che si trovava in Francavilla a pranzo da Pronio, fu immediatamente arrestato e il comandante realista mandò a chiedere istruzioni al governo.
"Quando Pronio prese Pescara - scriveva il 16 agosto da Palermo re Ferdinando al cardinale Ruffo - spedì un aiutante per darmene parte dicendo che era in suo potere ben custodito il celebre conte di Ruvo, al quale egli aveva promesso la vita, ciò che non era in suo potere. Rispedii io immedisitamente detto aiutante con ordine in risposta di rimetter qui il detto Ruvo colla massima responsabilità vita per vita; fatemi sapere se ciò siasi eseguito dal Pronio...".
Il C. giunse il 19 agosto a Napoli, e venne rinchiuso nel castello del Carmine. Interrogato il 30 agosto dalla giunta di Stato, in cui avevano un ruolo preminente i giudici Speziale e Guidobaldi, fu condannato a morte il 2 settembre e la sentenza fu eseguita la sera del 4 sett. 1799, mediante decapitazione. Come narra il Ceci, "rassegnato ma intrepido salì sul palco, guardando il carnefice ed il patibolo, e dopo essersi spogliato da se stesso mise la sua testa sotto la mannaia". Fu sepolto nella chiesa del Carmine.
Fonti e Bibl.: Proclami,leggi,sanzioni ed inviti così del generale in capo Championnet che delgoverno provvisorio,municipalità e comitati..., Napoli 1799, passim; E. C. conte di Ruvo - Relaz. del suo cameriere Raffaele Finoia, a cura di B. Maresca, in Arch. stor. per le prov. napol., X (1885), 2, pp. 268-308; V. Cuoco, Saggio stor. sulla rivoluz. napoletana del 1799, a cura di F. Nicolini, Bari 1929, ad Indicem; La riconquistadel Regno di Napoli nel 1799. Lettere del card. Ruffo,del re..., a cura di B. Croce, Bari 1943. p. 253; R. Carafa d'Andria, E. C. conte di Ruvo, Roma 1886; G. Ceci, E. C., Trani 1889; N. Nicolini, E. C. conte di Ruvo prima del 1799, in La spediz. punitiva del Latouche-Tréville..., Firenze 1939, pp. 99-124 e ad Ind.; B. Croce, La rivoluz. napoletana del 1799, Bari 1953, adInd.; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento, Milano 1961, pp. 252-63, 273-75, 283-88.