MUTI, Ettore
MUTI (Muty), Ettore (Ettore Angelo). – Nacque a Ravenna il 22 maggio 1902, da Cesare, impiegato del Comune di modeste condizioni economiche, e da Pietra Celesta, detta Celestina, Gherardi. Aveva due sorelle: Linda e Maria. Il cognome originario, Muty, venne italianizzato in Muti dopo la prima guerra mondiale
Numerosi aneddoti ne testimoniano la vivacità e la scarsa propensione allo studio fin da giovanissimo. Sembra che il soprannome Gim – che usò a più riprese, anche con D’Annunzio, che lo chiamava «Gim dagli occhi verdi» o «Gim il piccolo filibustiere», e durante la guerra di Spagna – nascesse proprio dalle sue scorribande con un gruppo di amici ravennati con cui reinventava le azioni del protagonista del giornalino L’Esploratore.
Esponente di punta di quella generazione che, non avendo partecipato alla guerra, vedeva nello squadrismo l’occasione di combattere, ne fu però un rappresentante anomalo: era riuscito infatti nell’impresa che alcuni sognavano senza provarci (o riuscirci), scappando di casa per ben due volte per partecipare alla guerra. Cercò di giungere al fronte la prima volta nel dicembre 1915, ma fu presto individuato dai carabinieri a Cormons e rispedito a casa (in questa occasione si dice addirittura avesse incontrato Raffaele Cadorna). Ci riprovò con più successo nel 1917, falsificando la sua data di nascita nei documenti e riuscendo così a farsi arruolare nel 6° reggimento di fanteria della Brigata Aosta e successivamente facendosi inserire, volontario, nel 1° reparto d’assalto, tra gli Arditi. Partecipò così, tra l’ottobre e il novembre 1917, alle azioni di Col Beretta e Col Moschin e, successivamente, nel giugno 1918, con il 20° reparto d’assalto, alla battaglia sul Piave. Venne tuttavia rintracciato prima del 4 novembre e rimandato a casa.
La sua voglia di combattere non si era però per niente sopita: subito dopo essersi iscritto al movimento fascista (Ansaldo, 1995), decise di raggiungere D’Annunzio e i suoi compagni arditi a Fiume e di partecipare alla conquista della città nel settembre 1919, rimanendovi fino al dicembre 1920. Malgrado la giovane età fece parte della squadra degli uscocchi, impegnati in azioni corsare e violente, e partecipò in questo contesto alla presa del piroscafo Cogne, partito da Napoli per andare in America e dirottato verso Fiume nel settembre 1920. Quando si chiuse l’esperienza fiumana, con lo scontro tra gli occupanti e l’esercito italiano nel cosiddetto Natale di sangue, Muti era già tornato da qualche tempo a Ravenna, dal padre malato.
A Ravenna lavorò in banca per un breve periodo, ma quella vita non faceva per lui; visse quindi di espedienti, spostandosi frequentemente. Era però sicuramente nella sua città natale dall’inizio del 1922 quando partecipò a diverse imprese squadriste: in particolare a quelle sanguinose del luglio e alla mobilitazione per la Marcia su Roma. Da quando Mussolini fu capo del governo, la sua carriera fu tutta interna al fascismo. Dal 1° febbraio 1923 fece parte della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, inizialmente entrando nella seconda legione, ma passando poi al ruolo di seniore ferroviario. Dal 1925 fu comandante interinale, divenendo successivamente titolare dell’81a legione, anche se nel 1926 fu messo in riserva.
Il 3 dicembre 1925 sposò Fernanda Mazzotti, malgrado – sembra – la resistenza della famiglia di lei: il padre della sposa era presidente della Cassa di risparmio di Ravenna e non condivideva la scelta della figlia di un uomo che doveva apparirgli un arrampicatore sociale, neppure troppo raccomandabile. In questa fase le condizioni economiche di Muti erano abbastanza buone, e, secondo i Carabinieri locali, viveva «senza sfarzo» (Regi Carabinieri, 8 ottobre 1927 in Arch. centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 12), ma si dedicava molto all’automobilismo. Negli anni successivi però cominciò a fare debiti, che vennero probabilmente ripagati dal suocero.
Il 13 settembre 1927 fu ferito gravemente da un bracciante ravennate, Leopoldo Lorenzo Massaroli, che gli sparò con una rivoltella nella piazza principale di Ravenna, mentre si trovava con altri ufficiali della milizia. L’attentatore fu immediatamente ucciso, forse dal fuoco dell’avversario storico di Muti, il segretario federale del fascio di Ravenna, Renzo Morigi; Muti venne invece ricoverato per un mese per ferite multiple.
Malgrado l’attentato fosse considerato di matrice politica, dal momento che furono ritrovate in tasca a Massaroli (Buzzi 1995-96, pp. 61 s.) medaglie di Giacomo Matteotti e Andrea Costa, l’attentatore era iscritto al sindacato fascista dei braccianti ed era recentemente stato assunto al locale zuccherificio grazie al segretario federale: le notizie dell’avvenimento sulla stampa vennero quindi limitate al massimo. Questo non evitò un arresto in massa degli antifascisti ravennati, anche se furono messe sotto controllo le squadre per evitare rappresaglie.
Negli anni successivi, alcune voci e dichiarazioni – che procedettero fino al 1930 – cercarono di smentire che proprio Morigi avesse ucciso Massaroli (per questa vicenda si veda Arch. centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Pubblica Sicurezza, 1930-31, b. 327, ma anche la tesi di Nicola Buzzi, 1995-96), come dichiarato invece anche dalla sentenza della Corte d’Assise.
All’indomani dell’attentato, a Ravenna il clima si fece sempre più pesante: Muti, accusato di contatti con persone ritenute sospette, a sua volta tacciava la classe dirigente fascista locale di eccessivo allineamento sulle posizioni dei proprietari terrieri a danno dei sindacati fascisti, una linea di conflitto classica tra squadristi e classi dirigenti politiche in quegli anni. L’attrito fra Muti e i dirigenti fascisti giunse al culmine, a fine marzo 1929, quando il prefetto di Ravenna scrisse a Mussolini per informarlo delle tensioni che attraversavano il fascismo locale: lo scontro personale tra Muti e il segretario federale Morigi si era fatto più aspro a causa di una lettera di quest’ultimo, che denunciava alcuni commenti critici di Muti sul recente Concordato tra Stato e Chiesa e in particolare l’influenza eccessiva di padre Pietro Tacchi Venturi sul segretario di Stato vaticano Pietro Gasparri. Queste accuse vennero contestate da Muti, che fu tuttavia smentito da altri gerarchi: egli era per altro un noto anticlericale – provocò nel 1930 anche alcuni disordini al congresso eucaristico di Faenza – e la denuncia appare quindi verosimile.
In seguito a queste polemiche Muti fu costretto ad andarsene dalla sua città natale. Dalla primavera del 1929 visse per lo più lontano da Ravenna, ma i suoi rapidi passaggi provocavano preoccupazioni nelle autorità locali, per il favore che godeva negli ambienti squadristi, ma anche per la sua attitudine all’uso della forza. Il segretario federale e il prefetto ritenevano infatti che continuasse a istigare membri della Milizia e chiedevano al ministero dell’Interno di proibirgli di recarsi nella città e occuparsi di fatti locali. Ogni volta che Muti tornava a Ravenna veniva seguito e controllato a vista da uomini del prefetto e dei suoi movimenti era informato anche il ministero dell’Interno (Arch. di Stato di Ravenna, Prefettura, Arch. di Gabinetto, b. 35). Nel settembre 1929 il console della Milizia Nino Macellari si lamentò che Muti avesse sottratto armi alla milizia (50 bombe e una mitragliatrice) e fece aprire un’inchiesta e anche il capo della Polizia Arturo Bocchini domandò che essa fosse condotta con la massima energia per verificare se l’accusa fosse fondata. Muti riuscì a difendersi, affermando che le armi erano di sua proprietà: la mitragliatrice fu ritrovata successivamente presso il comando della Milizia.
Nell’ottobre 1929, comunque, a seguito di questa inchiesta, si traferì a Roma, dove divenne comandante della 120a legione, per poi passare qualche mese dopo all’11a legione.
La moglie e la figlia Diana, nata proprio in quell’anno, rimasero a Ravenna, mentre la sua vita sentimentale fuori dalla città natale si faceva sempre più chiacchierata. A Roma, ebbe sicuramente varie amanti, tra le quali Araceli Ansaldo y Cabrera, figlia del conte di Lerin, grande di Spagna, e cugina di Giovanni Ansaldo, di cui era ospite a Roma.
Nel dicembre 1931 entrò a far parte della Milizia portuaria a Trieste, forse grazie anche all’intercessione di Costanzo Ciano: fu console e poi comandante della III legione portuaria a partire dal 1933 e fino al 1935. Nel 1934 prese anche un brevetto per diventare aviatore. Con l’apertura della campagna in Etiopia, però, chiese a Ciano di prendere «assolutamente» parte attiva al conflitto: se non fosse stato possibile includerlo nei reparti della Milizia, che fosse almeno inserito nei reparti d’assalto, con il grado, che aveva già avuto, di sergente (lettera di Muti a Ciano, 13 gennaio 1935, in Arch. Centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 12, f. Muty, Ettore).
A giustificazione di questa richiesta, in una lettera successiva a Ciano affermava che si sarebbe sentito «degenere» se non avesse partecipato alle prime operazioni dell’impresa, e chiedeva, almeno, il comando, «in qualsiasi forma, con qualunque grado» di una squadra di truppa di colore, anche se il suo desiderio era entrare in aeronautica (lettera dell’8 febbraio 1935, ibid.).
Fu così che nell’ottobre 1935 partì con la 15a squadriglia bombardieri, prendendo congedo dalla Milizia: a dicembre aveva già conquistato la prima medaglia di bronzo e nel 1936 divenne capitano pilota per meriti di guerra. Nel luglio 1936, a seguito delle imprese belliche di cui si era reso protagonista, fu convocato da Galeazzo Ciano per compiere una missione segreta a favore dei legionari franchisti in Marocco. A partire da quel momento fece parte dell’aeronautica a tempo indeterminato. La guerra in Spagna gli portò il grado di maggiore e una medaglia d’oro, la prima, per meriti militari, e quattro di argento. Nel 1938 anche Francisco Franco gli concesse una medaglia al valor militare. Fu sempre Galeazzo Ciano a inviarlo nell’aprile 1939 a Durazzo per un’operazione di spionaggio «con una piccola squadra di uomini a sua immagine e somiglianza» nel corso dell’occupazione dell’Albania (Ciano, 1946, p. 72). Qui ottenne un’ulteriore medaglia d’argento.
Grazie alle sue capacità di combattente e alla sua giovane età Muti era considerato l’ideale dell’‘uomo nuovo’ creato dal fascismo. Anche per questo Ciano ne fece uno dei suoi e ne favorì l’ascesa politica, nella speranza di poterlo guidare e plasmare a suo vantaggio. Nell’agosto 1939 fu così nominato consigliere nazionale della Camera dei fasci e delle corporazioni e all’inizio di ottobre 1940 Ciano fece avere a Mussolini il suo curriculum vitae, annotando che era «degno di un guerriero dell’Alto Medio Evo» (ibid., p. 178). Il genero di Mussolini stava così preparandogli l’incarico a segretario del Partito nazionale fascista, che infatti arrivò a fine ottobre dello stesso anno, quando Achille Starace venne costretto a dimettersi. La fiducia di Mussolini e soprattutto di Ciano, che tanto aveva contribuito alla sua ascesa politica, svanirono abbastanza rapidamente, mentre dall’inizio della guerra Muti era sempre meno presente a Roma, dopo aver chiesto di partecipare alle attività belliche nell’aeronautica in qualità di maggiore pilota, lasciando la gestione del partito in sua vece al sindacalista Pietro Capoferri. Si susseguirono comunque i riconoscimenti. Nell’estate del 1940 ottenne una medaglia d’argento per l’attacco aereo a un centro petrolifero nemico nel Mediterraneo; nel settembre 1940 l’ambasciatore Hans Georg von Mackensen gli consegnò, a nome di Hitler, le insegne della gran croce dell’Ordine dell’aquila tedesca. Il 30 ottobre 1940 si dimise dall’incarico di segretario del PNF, ufficialmente per dedicarsi completamente alla guerra (Il Lavoro, 31 ottobre 1940) e fu sostituito da Adelchi Serena.
Sono gli storici Salvatore Lupo (2000) e Didier Musiedlak (2003) ad avere maggiormente riflettuto sul ruolo della segreteria di Muti, valorizzandone gli elementi di discontinuità e cercando di superare i giudizi della storiografia precedente, basati quasi esclusivamente sui diari di Ciano. Lupo e Musiedlak hanno sottolineato l’importanza della campagna di moralizzazione e di epurazione messa in atto da Muti e Musiedlak in particolare ha notato come la sua segreteria fosse orientata a una politica di rinnovamento attraverso il ripristino al potere nel partito della ‘vecchia guardia’ (p. 481). Si può spiegare così l’immagine di Muti che emerge presso molti giovani cresciuti negli anni del fascismo, ma in parte anche il mito che del fascista ravennate fu fatto durante la Repubblica sociale. Più dubbi vi sono nei confronti della sua politica economica.
Dopo l’esperienza della segreteria, Muti passò gran parte della sua vita al fronte: nel 1941 combatteva nel Mediterraneo, venendo promosso al ruolo di tenente colonnello, mentre a partire dal 1942 fece parte dello Stato maggiore dell’aeronautica. In questi anni cercò a più riprese contatti diretti con Mussolini, al quale, nel 1941, all’indomani di un colloquio, rinnovò fedeltà assoluta, riconoscendo che il suo successo non sarebbe stato possibile senza di lui: «vi sono devoto fino al supremo sacrificio, poiché vi debbo tutto, come italiano, come fascista, come soldato, come privato. Senza di voi, ognuno sarebbe niente. […] Il mio sangue è a vostra disposizione in ogni momento e ovunque» (lettera a Mussolini, febbraio XIX, in Arch. centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 12, f. Muty, Ettore). Nel dicembre 1942 chiese nuovamente di essere ricevuto da Mussolini per riferirgli la situazione delle Isole dell’Egeo da cui era appena rientrato.
Nel 1943, inviato a Madrid per motivi diplomatico-militari, incontrò dopo molti anni di distanza Araceli Ansaldo, ormai sposata, ma madre di un figlio illegittimo di Muti, Carlos Hector, nato nel 1931 (così almeno Ansaldo afferma in un libro di memorie [1995], tuttavia contestato dalla figlia legittima di Muti, Diana). In Spagna, secondo la testimonianza della donna, Muti avrebbe concepito un’altra figlia, Jolanda, nata dopo la sua morte.
Nel febbraio 1943, di ritorno dalla Spagna, Muti si rivolse direttamente al capo del fascismo per smentire alcune dichiarazioni che si diceva avesse fatto sulla sua salute incerta, confermando in questo modo la propria fedeltà a Mussolini e alle ragioni del regime e della guerra. Non è chiaro tuttavia quali furono le sue reazioni alla caduta del fascismo: morì infatti meno di un mese dopo, nella notte fra il 23 e il 24 agosto 1943, in circostanze poco chiare, quando i carabinieri di Pietro Badoglio si recarono ad arrestarlo nella sua villa a Fregene.
Appare difficile appurare se egli facesse il doppio gioco a favore della Germania nazista, se fosse fedele al fascismo mussoliniano o se si fosse adeguato al governo badogliano. Diversi testimoni della vicenda, tra i quali Carmine Senise e Giacomo Carboni, hanno voluto fornire la loro versione su questi fatti, soffermandosi in particolare sul rapporto Muti-Badoglio, ma nonstante alcune indagini della magistratura negli anni Cinquanta, sulla vicenda non si è fatta chiarezza.
La morte precoce e violenta favorì presso gli uomini della Repubblica sociale l’idealizzazione di Muti: fu dipinto come un eroe senza macchia e gli venne dedicata una brigata di camicie nere. In un Consiglio dei ministri di metà dicembre 1943, il fascismo repubblicano stabilì inoltre la concessione di una pensione vitalizia alla famiglia nelle persone della madre, della vedova e della figlia legittima. Il 19 febbraio 1944, a Ravenna, fu celebrato il suo funerale solenne, in seguito allo spostamento della salma dal cimitero del Verano. Anche negli anni successivi alla guerra, la fortuna di Muti fu largamente determinata – più ancora che dalla sua vita – dall’immagine mitica costruita dalla Repubblica sociale nel periodo 1943-45.
Fonti e Bibl.: Arch. centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 12, f. Muty Ettore; b. 47, f. Muti; Ministero dell’aeronautica, Gabinetto, 1939, b. 1, f. Muti; Gabinetto, 1940, b. 3, f. Muti; Ministero dell’Interno, Pubblica Sicurezza, 1927, b. 350; d sis, II sezione, b. 170; 1930-31, b. 327; Arch. di Stato di Ravenna, Prefettura, archivio di gabinetto, bb. 23, 35, 36; si veda anche il Registro di leva per l’anno 1902. Di particolare interesse la tesi di laurea di N. Buzzi, E. M. e altre figure del fascismo a Ravenna, Università di Bologna, anno accademico 1995-96, e la voce biografica contenuta in M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista, 1919-1922, Milano 2003. Per una ricostruzione del clima politico a Ravenna in quegli anni: P.L. Errani, Partito fascista e amministrazioni locali, in La città del silenzio. Ravenna tra democrazia e fascismo, a cura di P.P. d’Attorre, P.L. Errani, P. Morigi, Milano 1988, pp. 151-236. Sull’attentato a Muti: S. Carnoli, P. Cavassini, Nero Ravenna. La vera storia dell’attentato a Muty, Ravenna 2002. Sulla segreteria del PNF: S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma 2000 ad ind.; D. Musiedlak, Lo stato fascista e la sua classe politica 1922-1943, Bologna 2003, ad ind. Per la pensione alla famiglia: Verbali del consiglio dei ministri della RSI settembre 1943-aprile 1945, ed. critica a cura di F.R. Scardaccione, Roma 2002, p. 167. Sui funerali a Ravenna: D.G. Molesi, Quando a Ravenna tuonava il cannone, Ravenna 1986, pp. 70-74; Enzo Tramontani, Pastori nella tormenta. Il clero ravennate cervese negli anni della resistenza 1943-45, Ravenna 2000, p. 91. Diverse memorie e diari fanno riferimento a Muti, in particolare: G. Ciano, Diario 1939-1943, Milano 1946 [1945]; P. Capoferri, Venti anni col fascismo e con i sindacati, Milano 1957; D. Lajolo, Il voltagabbana, Milano 1963; F. Gambetti, Gli anni che scottano, presentazione di R. Zangrandi, Milano 1967; A. Ansaldo, E. M. Gim dagli occhi verdi. Il romantico segreto, la sua tragica fine, a cura di M. Caporilli, Roma 1995. Molte delle notizie aneddotiche risalgono all’intervista alla madre di Muti su Oggi, n. 7, 13 febbraio 1958, intitolata Ignorai per sette anni che mio figlio era stato ucciso. Specificamente sulla questione dell’omicidio si vedano: G. Carboni, Memorie segrete 1935-48, Firenze 1955; C. Senise, Quando ero capo della polizia: 1940-1943, Roma 1947. Tra le pubblicazioni apologetiche segnaliamo almeno D. Carafoli, G. Bocchini Padiglione, E. M. Il gerarca scomodo, Milano 2002, anche se la pubblicistica di questo tipo è molto più ampia.