Ettore Pais
Ettore Pais fu una delle figure dominanti nella storiografia del tardo Ottocento e del primo Novecento e, considerato che Karl Julius (Carlo Giulio) Beloch privilegiò la storia greca e che Gaetano De Sanctis era più giovane di lui, può essere ritenuto il fondatore della scuola di storia romana in Italia. La sua assai intensa attività gli procurò grande rinomanza; ma diede anche adito a svariate accuse, prime fra tutte quelle dell’ipercriticismo, derivante dal suo attaccamento al metodo tedesco, e della mancanza di idee unificanti. Queste accuse, le innumerevoli controversie, il suo nazionalismo e il suo avvicinamento al fascismo hanno molto pesato sull’obiettività di giudizio nei suoi confronti.
Ettore Pais nacque in Piemonte a Borgo San Dalmazzo (Cuneo) il 27 luglio 1856. Trascorse parte della fanciullezza in Sardegna, l’isola paterna, sua terra di elezione. Ventiduenne, si laureò presso la facoltà di Lettere di Firenze, dove ebbe come maestri Girolamo Vitelli e Domenico Comparetti, discutendo una tesi filologica sul Sardanios gelos. Fu professore al liceo di Sassari e direttore del Museo archeologico locale e, tra il 1883 e il 1885, anche di quello cagliaritano. Tappa decisiva nell’avvio della sua carriera scientifica fu il biennio (1881-83) trascorso a Berlino alla scuola di Theodor Mommsen (1817-1903), che lo arruolò tra i suoi «Mirmidoni» e gli affidò il compito di preparare gli Additamenta al 5° volume del Corpus inscriptionum latinarum. Nonostante le tipiche «fluttuazioni di germanofilia e germanofobia» (Treves 1979, p. 1154), al metodo storiografico mommseniano – che arricchì le sue già congrue esperienze – rimase sempre fedele, mostrando grande rispetto per il maestro anche quando in disaccordo.
Vincitore di concorso, dal 1886 insegnò all’Università di Palermo. Due anni dopo passò all’ateneo di Pisa, inaugurando un periodo particolarmente fecondo: nel 1894 comparve la Storia della Sicilia e della Magna Grecia, nel 1898-1899 i due tomi della Storia di Roma, opera che gli diede fama internazionale. Nel 1891 fondò con Amedeo Crivellucci la rivista «Studi storici» (poi «Studi storici per l’antichità classica»). Dal 1899 si trasferì all’Università di Napoli, dove ebbe anche la direzione del Museo nazionale e degli scavi di Pompei e incappò in fastidiose noie giudiziarie. Dopo una gratificante parentesi in America (1905-1906), insegnò a Roma, tenendo corsi di epigrafia, papirologia giuridica e antichità romane. Nel 1918 Beloch, di nazionalità tedesca, fu privato della cattedra di storia antica, che passò a Pais, radicalizzando le già forti tensioni con la scuola dello studioso germanico. Al reintegro di Beloch, nel 1923, tenne la cattedra di storia romana fino al 1931, anno del collocamento a riposo. A partire dal 1910 fu un susseguirsi di onori accademici (tra cui i Lincei) e politici (Senato), corrispondenze di Accademie e Istituti culturali in tutta Europa, lauree honoris causa.
Un turning point fondamentale nella vita, anche scientifica, di Pais furono gli anni attorno al 1911 quando, in occasione del V Congresso della Società italiana per il progresso delle scienze, pronunciò un famoso discorso che mostrava come il suo nazionalismo di ispirazione risorgimentale si fosse evoluto in senso dinamico e aggressivo, cosa che favorì l’adesione al fascismo, di cui apprezzava la valorizzazione della cultura italiana e del mito di Roma. La sua operosità si concretizzò in numerosissimi lavori minori e in opere fondamentali, specie sulla storia di Roma arcaica. Morì a Roma il 28 marzo 1939.
Parlando della storiografia degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primi del Novecento, Arnaldo Momigliano (1950, pp. 89-92) non esitò ad accusarla di «meschinità indubbia di temi e di soluzioni», in quanto in essa venivano trascurati gli studi di religione, economia, cultura, diritto e si continuava a tornare alle medesime trite questioni di cronologia, di critica delle fonti, di storia istituzionale, frutto di una totale passiva dipendenza dalla cultura storiografica tedesca. Questa dipendenza, che pure in precedenza aveva dato deciso impulso innovativo alla storiografia italiana, aveva alla fine prodotto seri danni, da cui solo grandi figure, quali Ettore Ciccotti, Gaetano De Sanctis, Guglielmo Ferrero e Corrado Barbagallo, in qualche modo la riscattarono. Pais solo in parte avrebbe contribuito al riscatto. Il giudizio non completamente positivo sul grande storico sardo-piemontese, in fondo tipico di gran parte della storiografia a lui relativa, derivava, in Momigliano, da un riconoscimento dei meriti acquisiti con la frequentazione della scuola mommseniana da cui avrebbe derivato salde conoscenze epigrafiche, di diritto pubblico, di geografia storica, ma risentiva dello scarso apprezzamento per un metodo che denotava la «strana resurrezione del pirronista settecentesco», informatissimo di leggende, eccessivamente speculatore, senza comprensione, però, del divenire storico. Giudizio analogo davano il suo grande avversario, De Sanctis, gli storici e i filosofi fautori dello storicismo idealistico (tra cui lo stesso Benedetto Croce) e dell’antifilologismo dilagante, per non dire degli storici aderenti al materialismo storico; e che è stato successivamente ripreso da tanti altri studiosi. Una riconsiderazione dei suoi scritti (compresi i pochi di contenuto teorico), più obiettiva e meno fuorviata da pregiudizi, porta però a conclusioni più moderate.
Nella lunghissima attività scientifica di Pais si è soliti individuare due fasi distinte, per alcuni addirittura nettamente contrapposte, con svolta intorno al 1911. La prima fase si apre con il periodo degli studi a Firenze, dove si laurea acquisendo dai suoi maestri competenze soprattutto filologiche. Gli impegni museali di Sassari e di Cagliari gli consentiranno di accumulare altre importanti esperienze di tipo antiquario, affinate con le indagini sul territorio.
I temi dei lavori apparsi in quegli anni – desumibili da un elenco comprendente circa 200 titoli – danno conferme di quanto spesso si legge su Pais, ma offrono anche la possibilità di ulteriori considerazioni. Cade nel 1881 la pubblicazione de La Sardegna prima del dominio romano, frutto di ricerche condotte negli anni sassaresi e stimolate soprattutto da Atto Vannucci e dal suo intendimento di rivalutare, come già Giuseppe Micali, le realtà regionali dell’Italia preromana. Alla storia della sua isola Pais non cesserà mai di lavorare e parecchi anni dopo (1923) pubblicherà due volumi sulla Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano.
Nell’opera giovanile si riscontra un Pais in certo qual modo regionalista (Salmeri, in Aspetti della storiografia di Ettore Pais, 2002; Gabba 2003), il quale considerava la conquista romana come un deprecabile colpo di mano che avrebbe posto fine a un alto grado di civiltà e cultura. Nell’opera più matura il regionalismo permaneva, ma non era più fine a se stesso, bensì subordinato a una migliore conoscenza della storia d’Italia, ormai stabilmente, ed è questo un sicuro suo merito, al centro delle attenzioni scientifiche e politiche dello storico. Discorso analogo va fatto per la Sicilia, dove, a Palermo, Pais inaugurò la sua lunga carriera accademica e dove recepì le forti istanze regionalistiche alimentate dal fallimento degli ideali risorgimentali, che inducevano ad assimilare la conquista romana a quella piemontese. La lettura dell’ancora utile lavoro su Alcune osservazioni sulla storia e sulla amministrazione della Sicilia durante il dominio romano (1888) fa constatare come lo storico fosse convinto che la dominazione romana avesse inaugurato nell’isola una fase di regresso rispetto al glorioso passato. Fu però un Pais di breve durata quello che coltivò siffatte idee, dal momento che già nella sua Storia della Sicilia e della Magna Grecia, del 1894, lavoro nel quale per primo rielaborava materiali da altri trascurati, la posizione è decisamente mutata: la vicenda della Sicilia ora gli appare fondamentalmente come quella di una secolare contrapposizione di cartaginesi e greci, con la conseguenza che la sua storia e quella della Magna Grecia vengono ad assumere un carattere di unitarietà, già individuato da Beloch, ma quasi ignorato da buona parte della storiografia precedente.
Sviluppando il discorso e insistendo su Gli elementi sicelioti ed italioti nella più antica storia di Roma (1893), Pais approdò alla conclusione che Roma sarebbe stata l’erede di Siracusa nella lotta contro i cartaginesi, instaurando così una significativa connessione tra (Magna) Grecia, Sicilia e Roma. Altro aspetto di tale connessione sarà poi più chiaramente individuato nella Storia di Roma del 1898-1899, in cui lo storico rifletté a lungo sulla fortissima presenza di tradizioni storiografiche greche nella storia di Roma arcaica, con un’insistenza poco gradita al rivale De Sanctis (Scritti minori, 3° vol., 1972, pp. 429 e segg.), ma che oggi gode di apprezzamento diffuso. Si trattava, nella sostanza, di una concezione unitaria della storia d’Italia, non isolata alla fine del Novecento (e a cui avevano aderito lo stesso Ruggiero Bonghi e De Sanctis). Nonostante il severo giudizio di Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, la Storia della Sicilia e della Magna Grecia può considerarsi tra le opere migliori di Pais nella prospettiva della fusione tra lavoro filologico e speculativo che fu sempre il suo tallone di Achille.
L’obiezione più frequente al metodo di Pais è quella dell’ipercriticismo, cioè di un approccio negativo fine a se stesso e aprioristico nei confronti della tradizione storiografica, che per i detrattori avrebbe superato ogni limite. Termini come solipsismo, monomania e simili si trovano spesso accoppiati nelle loro malevole accuse. Il successo arriso alle correnti storiografiche, filosofiche e politiche ostili allo storico sardo-piemontese ha reso tale giudizio quasi incontrastato tra gli addetti ai lavori. Ci sono state voci autorevoli, come s’è detto, arrivate a farne un pirronista settecentesco redivivo (anche Treves 1979, p. 1159); questo in maniera, oltreché ingenerosa e parzialmente mirata – dato che caratterizzerebbe solo una fase della carriera di Pais –, anche inesatta, nella misura in cui non tiene conto delle sostanziali differenze tra il radicale scetticismo pirronistico e il criticismo del nostro storico, che mai osò negare valore alla storia in sé o sostenere a priori che non si potesse ricostruire la storia di Roma arcaica. Vedeva nella tradizione storiografica su Roma arcaica un cumulo di leggende e falsità, costruite tra 5° e 3° sec. a.C. con metodo combinatorio e ispirandosi (secondo quanto proposto già da Friedrich von Schlegel: Mazzarino 1954, p. 34) alla cultura greca, con lo scopo di giustificare eventi storici contemporanei. Il suo approccio critico, condotto sulla base di una rigorosa applicazione del metodo, in una serie impressionante di ricerche analitiche, fu pertanto da lui considerato premessa indispensabile alla ricostruzione della storia politica di Roma, che era andato rinviando, rassegnandosi alla fine a delegarla a forze più fresche delle sue (Gabba 2003, p. 1018 e seg.). Niente autorizza a giudicare questa specie di «messianismo storiografico» – riscontrabile anche a proposito della storia dell’impero, che non trattò, da un lato, per i forti pregiudizi anticlericali che gli inibivano gli indispensabili studi sul cristianesimo, dall’altro, perché la riteneva ancora un corpo vivo e perciò non suscettibile di critico esame storiografico – come dettato da rassegnazione o consapevolezza di incapacità scientifica e intellettuale.
Guardando all’impegno a difesa della critica quale strumento razionale per l’indagine storica, Pais andrebbe meglio accostato a studiosi di altra caratura come Louis de Beaufort (m. 1795), cui espressamente riconosceva meriti metodologici non sorpassati neanche dall’avanzato criticismo tedesco (come scriveva in Ancient legends of Roman history, 1905, pp. 2-3). Il grande innovatore, Barthold Georg Niebuhr (1776-1831), veniva da lui ignorato, perché accusato di eccessivo azzardo da parte di Mommsen. Ma neanche lo stesso Mommsen, secondo Pais, avrebbe alla fine colto nel segno, quando riteneva fededegni i primissimi storici di Roma e non così falsificata come quella esterna la storia costituzionale della città. Sul rigetto di entrambe queste conclusioni si innestò lo sviluppo delle sue rigorose e particolareggiate indagini (Ridley 1975-1976, p. 523), intese sempre, però, come indispensabile presupposto per la ricostruzione della storia di Roma.
Aver frequentato giovanissimo a Berlino la scuola di Mommsen era stato decisivo per la sua formazione. Superato il timore reverenziale, egli aveva assorbito i principi del metodo storiografico del maestro tedesco e affinato le conoscenze di storia amministrativa e soprattutto epigrafiche, perfezionamento cui contribuì in maniera notevole la collaborazione alla realizzazione dei Supplementa Italica al 5° volume del Corpus inscriptionum latinarum contenente le iscrizioni della Gallia Cisalpina. Il monumentale lavoro, concluso nel 1884, fu pubblicato soltanto nel 1888 con il patrocinio dell’Accademia dei Lincei. Alla stessa impostazione si deve Le colonie militari dedotte in Italia dai Triumviri e da Augusto del 1884 (lavoro forse migliore che non quello di analogo contenuto del 1924).
All’«Illustre Maestro» Pais rimase sempre legato. Anche quando non fu d’accordo con le sue conclusioni, anche quando il suo orgoglio nazionalistico lo collocò su opposte barricate e l’antimommsenismo crescente gli consigliava di prendere le distanze, si mostrò sempre deferente. Proprio a cavallo dell’anno della morte di Mommsen (1903) curò una traduzione della Römische Geschichte, anche se lo stesso autore la riteneva ormai del tutto superata.
Per giustificare la sua posizione, ribadì a più riprese come non sempre le loro idee erano coincise. A coloro che lo accusavano di eccessivo germanismo, Pais rispondeva ricordando come Mommsen amasse moltissimo l’Italia e i maestri italiani, primo tra tutti Bartolomeo Borghesi. Soprattutto insisteva sulla grandezza di uno storico sempre attento alla rigorosità del metodo, costantemente alla ricerca della verità, della corretta interpretazione delle fonti. Mancava al suo intento apologetico la capacità di inquadrare Mommsen nella coinvolgente atmosfera delle contese teorico-storiografiche e politiche dello storicismo tedesco (cfr. Mazzarino 1966, p. 69; Mazza 2010, pp. 119 e segg.). Ma un simile inquadramento presupponeva competenze che Pais possedeva poco o affatto (Treves 1979; Lepore 1990). Consapevole della sua carenza, a più riprese cercò di correre ai ripari. Come con la prolusione pisana del 1889 (Della storiografia e della filosofia della storia presso i Greci), cui si deve attribuire modestia di risultati («un documento […] di confusionismo, o se vogliamo usare un altro termine eufemistico, di eclettismo»: Lepore 1990, p. 33): gli mancava e sempre gli mancò, nonostante gli sforzi fatti per indossarla, la «camicia» della «filosofia», per citare le irridenti parole (Per la scienza dell’antichità, 1909, pp. 503 e seg.) di un De Sanctis troppo piccato per la dura recensione paisiana ai primi due volumi della Storia dei Romani. Del resto, si dichiarò sempre – anche quando in Senato si oppose decisamente alla riforma scolastica di Giovanni Gentile – risolutamente ostile alla fusione di storia, metodologicamente intesa come filologica interpretazione delle fonti, e filosofia. Non è banale infine ricordare come la fedeltà sia metodologica sia ‘politica’ a Mommsen gli abbiano precluso, al contrario di Beloch e dei suoi allievi, la possibilità di adeguarsi al fruttuoso indirizzo di Eduard Meyer (1855-1930).
Va, tra gli altri, a Giuseppe Cardinali e a Santo Mazzarino il merito di aver sottolineato, nei necrologi del 1939, l’importanza degli anni attorno al 1911, considerati quelli di una conversione di Pais dall’ipercritica a una «critica temperata» (a metà tra l’acrisia e la cieca negazione per sola smania di negare). A dimostrazione che la conversione non fu totale, basti ricordare il negazionismo dei tre lavori successivamente dedicati ai Fasti (il cui insuccesso avrebbe, al contrario, fornito «la prova apagogica dell’autenticità», per dirla con la nota frase belochiana). Ma un’evoluzione è indubbia e si accompagnò alla conquista del senso politico della storia e a più decise opzioni di carattere nazionalistico. La testimonianza più efficace di tale trasformazione è indicata nel discorso tenuto al V Congresso della Società italiana per il progresso delle scienze (1911) sul tema La storia antica negli ultimi cinquanta anni con speciale riguardo all’Italia. In esso (e in altri scritti coevi) Pais rivendicava autonomia alla storia antica, liberandola dai legami wolfiani con la filologia classica che la disancoravano del tutto dalla funzione di sostrato culturale per gli studi di politica (Cardinali 1939).
Non a caso il discorso di Roma è stato ritenuto «cruciale»: in esso si avverte chiaramente l’esigenza, dettata da motivazioni eterogenee, di porsi sullo stesso piano di «storici capaci di ricostruzioni d’impianto schiettamente politico e modernizzante» (Cagnetta, in Aspetti della storiografia di Ettore Pais, 2002, pp. 79-80). Nel procedere della sua attività, Pais si era trovato di fronte una difficile alternativa. Da un lato, riteneva ineludibile la fedeltà al rigido metodo dei maestri d’Oltralpe, di cui temeva fortemente il giudizio, dall’altro, sentiva anche di dovere reagire alle accuse di quanti lo criticavano per quella che potremmo definire renitenza alla «filosofia», per la sua incapacità di dare unità organica al suo lavoro incentrandolo su idee guida centrali.
A orientare in maniera esplicita la conversione fu il peculiare contesto culturale e politico, agitato dal dibattito sulla spedizione libica e dalla relativa esaltazione di ideologie nazionalistiche non più di stampo risorgimentale e mazziniano (incentrate su principi unitari e identitari), ma più dinamiche e aggressive, decise a imporre con la forza la sovranità della ricostituita nazione italiana negli spazi mediterranei per lei vitali. Pais era sempre stato un fervente patriota e fu facile per lui adeguarsi al cambiamento indotto dalle nuove idee. Niente meglio della storia romana, del resto, poteva rispondere alle esigenze dello spirito del tempo e offrire argomenti consonanti con il sentire nazionalista, in cui sempre più numerosi intellettuali si riconoscevano, ivi compresi studiosi insospettabili come Guglielmo Ferrero, che in un discorso tenuto al Campidoglio (1910) non aveva esitato a dichiararsi sostenitore del primato intellettuale degli italiani, eredi di Roma. Probabilmente il discorso era funzionale alla creazione di una cattedra di storia romana a Roma, rispondente all’esigenza di liberarla dal tecnicismo della storiografia dominante e di rendere le vicende del passato romano più fruibili in proiezione politico-morale. Pais (che nutriva anch’egli aspirazioni per una cattedra romana) si oppose, coinvolgendo nella polemica Beloch, con il quale i buoni rapporti del passato si erano lentamente incrinati: la sua origine germanica gli avrebbe impedito di insegnare storia romana «con animo e con cultura italiana», come era indispensabile (Cagnetta, in Aspetti della storiografia di Ettore Pais, 2002, p. 81). Non rispondeva alla bisogna neanche Ferrero, che egli inseriva tra quegli storici inclini alle lusinghe dell’arte e del diletto, capaci di sfruttare scaltramente la dura fatica dell’indagine del vero cui altri si sottomettevano. Alle stesse idee di fondo va ricondotta la polemica con la cerchia dell’Istituto storico italiano, dove si tendeva a escludere come estranea ai compiti la storia di Roma.
La conversione al nazionalismo aggressivo, che non fu repentina come non fu necessariamente strumentale, ebbe una sanzione definitiva per Pais in seguito al successo della politica coloniale e all’affermarsi del fascismo, al quale, dopo qualche titubanza dettata dalle sue idee (liberali, massoniche, anticlericali), si conformò. La sua produzione scientifica si orientò di conseguenza: le prefazioni dei volumi che pubblicò nell’ultima fase della sua vita sono a tal proposito estremamente istruttive. Inutile dire come per il Pais nazionalista il tema dell’imperialismo romano sia diventato centrale proprio perché c’erano in esso forti analogie con l’attualità. La lotta di Roma con Cartagine si configurava per lui come lotta per il controllo del Mediterraneo, vitale per Roma come per l’Italia dei suoi tempi: la necessità della conquista rispondeva alla necessità di difendersi. Da qui gli attacchi contro quegli studiosi, come De Sanctis, ostili all’imperialismo romano.
Aver individuato motivazioni ideali e politiche e principi storiografici di più ampio respiro può essere considerata una conquista se rapportato al tecnicismo che aveva caratterizzato buona parte della produzione del primo Pais. Ma era destino che filologia e storia non dovessero mai completamente fondersi nella sua opera. Nella fase della pura esegesi delle fonti egli lavorò sulla materia con impareggiabile maestria tecnica, senza però mai calarvisi; il fatto, politico, religioso, etnografico, sociale, economico o giuridico che fosse – per quanto non assente, come gli veniva rimproverato – non era assimilato dallo spirito dello scrittore: l’analisi della fonte, considerata come dato oggettivo, staccato, tendeva a rimanere fine a se stessa. Lo stesso distacco, sia pur capovolto, rimane nelle opere della seconda e ultima fase dell’attività paisiana, quando le motivazioni di matrice ideale e politica o i principi di una generale teoresi storiografica non appaiono sufficientemente calati nella concreta realizzazione dello storico. L’impressione dell’esteriorità e della giustapposizione provocò un immediato collegamento genetico con la peculiare attualità politica di quegli anni: com’è facile constatare dalla lettura delle opere, «quasi a supplire al loro mancato, o carente, trasferimento nella sua ricostruzione storica», Pais si diede a ripetere quelle idee fino alla noia, calamitando dure accuse di piatto conformismo, se non di servilismo nei confronti del regime (Gabba 2003, p. 1017).
È significativo che le tarde edizioni o riedizioni della Storia romana paisiana presentino un deciso ampliarsi delle citazioni bibliografiche in rapporto alle fonti documentarie (collegabile con le accuse di «dimenticanza dei predecessori» o di assenza di autopsia mossegli dai detrattori); e poi un crescente prevalere delle sezioni narrative su quelle filologiche, fatto invece da addebitare al convincimento che fosse superfluo riproporre le analisi critiche già pubblicate e intese come atto preliminare, introduttivo alla narrazione della storia politica. Visto in questa prospettiva il Pais disperatamente scettico della prima fase viene fuori sicuramente riabilitato. Così come del resto viene riabilitato riflettendo su quanto di buono la sua tenace operosità ci ha lasciato. A parte la validità di tante singole interpretazioni, si deve dare un giudizio positivo ai suoi pionieristici lavori sul mondo siceliota e magnogreco, a quelli sulla colonizzazione romana in Italia, a quelli dedicati a indagini storico-geografiche su regioni e città della penisola, a quelli, infine, sui testi straboniani.
Ma è la sua eccezionale erudizione, in linea con l’attuale tendenza a rivalutarla (si pensi soprattutto ai forti richiami mazzariniani), che ci obbliga a ritenere Pais uno storico a pieno titolo, anzi un grande storico, capace di raccogliere dai secoli precedenti la sfida sulla valutazione della tradizione storiografica su Roma arcaica e trasmetterla alle future generazioni, i cui progressi – se e quando ci sono stati – devono molto anche a una comprensione delle lingue italiche o dell’etrusco e a una disponibilità di dati archeologici di gran lunga superiori che non ai tempi dello storico sardo-piemontese.
La Sardegna prima del dominio romano, «Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei», classe di scienze morali, storiche e filologiche. Memorie, s. III, 1881, 7, pp. 259-378.
Le colonie militari dedotte in Italia dai Triumviri e da Augusto, «Museo italiano di antichità classica», 1884, 1, pp. 1-38.
Corporis inscriptionum latinarum Supplementa Italica, fasciculus 1, Additamenta ad vol. V Galliae Cisalpinae, Romae 1884.
Alcune osservazioni sulla storia e sulla amministrazione della Sicilia durante il dominio romano, «Archivio storico siciliano», nuova serie, 1888, 13, pp. 113-252.
Della storiografia e della filosofia della storia presso i Greci, Livorno 1889.
Gli elementi sicelioti ed italioti nella più antica storia di Roma, «Studi storici», 1893, 2, pp. 145-89 e 314-57.
Storia della Sicilia e della Magna Grecia, 1° vol. (ma unico pubblicato), Torino-Palermo 1894.
Storia di Roma, 2 tt., Torino 1898-1899.
Gli elementi italioti, sannitici e campani nella più antica civiltà romana, Napoli 1900.
Ancient legends of Roman history, New York 1905.
La storia antica negli ultimi cinquanta anni con speciale riguardo all’Italia, «Rivista d’Italia», novembre 1911, pp. 694-721.
Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, 4 voll., Roma 1913-1920.
Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, 4 voll., Roma 1915-1921.
Sui fasti consolari, in Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, 2° vol., Roma 1916.
Fasti triumphales populi romani, 2 tt., Roma 1920.
Il liber coloniarum, Roma 1921.
Italia antica: ricerche di storia e di geografia storica, 2 voll., Bologna 1922.
Storia della colonizzazione di Roma antica, Roma 1923.
Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, 2 voll., Roma 1923.
Serie cronologica delle colonie romane e latine dall’età regia fino all’impero: 1, Dall’età regia al tempo dei Gracchi, in «Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei», classe di scienze morali, storiche e filologiche. Memorie, s. V, 1923, 17, 8, pp. 311-55; 2, Dall’età dei Gracchi a quella di Augusto, in «Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei», classe di scienze morali, storiche e filologiche. Memorie, s. VI, 1925, 1, 5, pp. 342-412.
Dall’età dei Gracchi a quella di Augusto, Roma 1925.
Storia dell’Italia antica, 2 voll., Roma 1925.
Storia di Roma dalle origini all’inizio delle guerre puniche, 5 voll., Roma 1926-1928.
Storia di Roma durante le guerre puniche, 2 voll., Roma 1927.
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