RAVASCHIERI, Ettore
RAVASCHIERI, Ettore. – Nacque il 27 giugno 1591 da Giovanni Ambrogio e da Beatrice de Gennaro, figlia di Orazio, nobile napoletano.
La famiglia paterna, originaria del Levante ligure, discendeva dai conti di Lavagna ed era stata aggregata all’‘albergo’ dei Fieschi alla riforma costituzionale della Repubblica di Genova del 1528. Dediti alle attività commerciali e finanziarie, alcuni esponenti del casato – tra cui Giovanni Ambrogio e i suoi fratelli – erano migrati nel Regno di Napoli per svolgervi i propri traffici e si erano in seguito affermati attraverso il possesso di pubblici uffici e feudi, l’acquisizione di onori e titoli, l’ascrizione al seggio nobile napoletano di Montagna, l’adozione di stili di vita e valori condivisi dalle élites regnicole.
Rimasto orfano, Ettore passò sotto la tutela dello zio Pier Francesco che si trasferì nel Mezzogiorno per adempiere alle disposizioni del fratello defunto e condusse lucrosi affari nelle province calabresi, investendo i profitti nel mercato feudale, in espansione da fine Cinquecento, con vantaggio di tutta la famiglia. Nel 1596 ottenne la terra di Badolato con il casale di Sant’Andrea, comprata a suo nome dallo zio; quando però si deteriorarono i rapporti con il tutore, che gli rimproverava un’eccessiva prodigalità, si vide contestato il possesso del feudo. Allorché la morte di Pier Francesco indusse al compromesso i beneficiari della sua pingue eredità, lasciando prevalere il senso di coesione familiare, Ravaschieri si aggiudicò il possedimento conteso, nonché la villa napoletana a Chiaia e alcune entrate su terre calabresi, mentre ai Ravaschieri di Belmonte andarono il palazzo nella capitale e i feudi di Tortora e Soreto.
All’inizio del XVII secolo, Ravaschieri mise insieme un esteso complesso territoriale sul versante ionico della Calabria Ulteriore, comprando nel 1606 Cardinale, su cui ottenne il titolo ducale nel 1611, nel 1609 Satriano, divenuto dal 1621 centro del Principato omonimo, comprensivo di Davoli e San Sostene, nel 1615 Cropani e nel 1623 Simeri con il casale di Soveria. Nel 1630 cercò di impadronirsi della città demaniale di Taverna che, minacciando di fare «peggio che le Fiandre», riuscì a evitare l’infeudazione, mentre nell’anno precedente aveva acquisito Vico con i suoi casali, un possedimento in Terra di Lavoro, eccentrico rispetto agli altri. Gli investimenti calabresi, integrati con l’acquisto di beni burgensatici per accrescere, oltre il reddito, il potere locale del signore, andavano inquadrati entro le complessive strategie del principe, interessato al commercio dei prodotti della provincia e, in particolare, al grano esportato dal porto di Crotone, non lontano dal suo complesso feudale. In quegli anni difficili, in cui si aggravò la frattura tra baroni e vassalli, Ravaschieri fu dapprima chiamato a rispondere in Collaterale delle vessazioni perpetrate a danno delle comunità soggette e poi costretto a fronteggiare i tumulti scoppiati nei suoi possedimenti già prima della rivolta di metà Seicento.
Nello stesso periodo costruì la propria fortunata carriera all’ombra della Monarquía, diventando il capo politico dei genovesi a Napoli. Servì sia nelle province con il ruolo di preside sia nella capitale, e nel 1626 fu nominato consigliere soprannumerario del Collaterale. Animato da fervente lealismo, assecondò la stretta fiscale sul Regno, messa in atto per provvedere alle necessità della guerra che, divampata in Europa centrale, era giunta a investire la penisola italiana. Si dichiarò, inoltre, personalmente disposto a sacrificare ai bisogni della Corona l’ingente somma di 40.000 ducati, assicurandosi in contropartita il Toson d’oro, che gli fu conferito nel 1633 ma di cui differì il pagamento. Abile uomo d’armi, provvide alla leva militare nel Regno, giocando sulle sue capacità di persuasione e sui vincoli di autorità e deferenza che lo legavano alle popolazioni. Nel 1625, allorché si verificò lo scontro tra Genova e i Savoia, alleati rispettivamente di Spagna e Francia, soccorse la Repubblica reclutando nel Mezzogiorno un tercio che comandò in qualità di maestro di campo. Nel 1627 Genova, in segno di gratitudine, dispose la sua ascrizione al Liber nobilitatis.
Si adoperò nella lotta antiturca in Mediterraneo, specie per la salvaguardia del Regno e delle province calabresi con l’obiettivo non disinteressato di proteggere lo svolgimento delle attività economiche cui era legata parte delle sue fortune. Per la perizia dimostrata, nel 1633 fu nominato vicario generale delle province dal viceré Manuel de Guzmán conte di Monterrey, convinto di incentivare l’arruolamento militare demandandolo a un unico responsabile. Quando la diretta partecipazione della Francia al conflitto acuì la pressione sul Mezzogiorno, esposto agli attacchi della flotta transalpina e dei suoi alleati turchi, il principe fu creato maestro di campo generale delle compagnie del battaglione cui era affidata la difesa del Regno; conservò la carica fino a tarda età e in quel ruolo si adoperò per respingere il tentativo di occupazione del Regno compiuto da Enrico di Lorena nel 1654.
Durante la rivolta del 1647-48 si schierò con la Corona, impegnandosi per conciliare le posizioni del viceré con le richieste dei ribelli, e fu tra i firmatari dei capitoli concessi alla popolazione insorta. Ristabilita la pace, in virtù del proprio lealismo e della specchiata ortodossia religiosa fu messo a capo della prestigiosa Congregazione dei nobili della chiesa del Gesù, segno evidente della sua compiuta integrazione nella élite partenopea.
Nel 1622 aveva sposato una donna dell’aristocrazia genovese radicata nel Mezzogiorno, Porzia Cigala figlia del principe di Tiriolo, traendo dall’unione cospicui vantaggi materiali e simbolici. Poiché il suo lungo matrimonio rimase sterile, nel 1656 Ravaschieri, in precedenza autorizzato dal Cattolico a disporre della successione nei beni feudali, testò in Napoli e designò erede del proprio patrimonio, sottoposto a fedecommesso primogeniturale, Francesco Ravaschieri, figlio del cugino Geronimo e di Isabella de Gennaro. Attribuì lasciti generosi ai fratelli del futuro principe, prevedendo, in caso di estinzione di una delle discendenze, la sostituzione tra linee maschili con l’esclusione delle donne e stabilendo che, qualora tutte fossero venute a mancare, i suoi averi andassero alla Compagnia di Gesù.
Morì il 22 novembre 1658 non si sa se a Satriano o a Vico, dove si era ritirato per sfuggire alla peste. In base alle sue disposizioni fu sepolto nel convento dei padri riformati che aveva fondato a Satriano.
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