Eugenica
di Garland E. Allen
Eugenica
sommario: 1. Introduzione. 2. Evoluzione storica. 3. Le teorie genetiche contemporanee e le loro basi scientifiche: a) genetica medica; b) genetica del comportamento umano. 4. Eugenica ed etica: a) considerazioni generali; b) un caso particolare: il DDAI. ▭ Bibliografia.
1. Introduzione
Lo studio della genetica umana ha compiuto progressi rivoluzionari a partire dagli anni sessanta. Il breve catalogo delle malattie ereditarie umane iniziato nel 1964 dallo studioso di genetica medica Victor McKusick è diventato oggi un'opera in tre volumi che elenca oltre 12.000 malattie di origine genetica (v. McKusick, 199812). Alla fine del XX secolo, lo studio della genetica umana si è focalizzato principalmente sul Progetto genoma umano, un'impresa congiunta di livello internazionale mirata a determinare le sequenze di paia di basi nei segmenti funzionali conosciuti del DNA umano (circa il 5° del totale). In concomitanza con tale progetto, i genetisti hanno individuato la localizzazione di alcuni geni (il locus su un particolare cromosoma e la sequenza specifica del DNA all'interno di tale cromosoma) responsabili di un certo numero di malattie ereditarie, come la fibrosi cistica e la corea di Huntington, per molte delle quali sono oggi disponibili test prenatali. I progressi tecnologici hanno permesso di mettere a punto strumenti di diagnosi prenatale del genotipo fetale, consentendo così ai genitori di conoscere in anticipo l'assetto genetico dei nascituri. Alcuni studiosi di genetica molecolare hanno messo in evidenza le potenzialità di tecniche perfezionate che consentirebbero di sostituire geni difettosi (la cosiddetta terapia genica), o di fornire sostituti farmacologici di prodotti genici alterati (farmacogenetica).
A seguito di queste nuove scoperte e delle loro possibili applicazioni terapeutiche, vari studiosi di biologia, genetica, medicina e bioetica hanno espresso vive preoccupazioni in merito alla possibile comparsa di una nuova 'eugenica'. Il termine, che deriva dal greco εὐγενής e significa 'di buona nascita', fu coniato nel 1883 dal geografo, statista ed erudito Francis Galton, il quale proponeva di utilizzare le conoscenze sull'ereditarietà per eliminare gli individui 'inadatti' e malati della società e impedire loro di riprodursi, incoraggiando invece la riproduzione dei 'più adatti', così da accrescere il vigore complessivo della specie umana. Tuttavia, l'eugenica è stata sempre una disciplina oltremodo controversa, in quanto implicava un controllo della riproduzione umana attraverso decisioni su chi dovesse o non dovesse riprodursi. Essa investiva questioni riguardanti la salute individuale e pubblica, nonché le basi genetiche delle differenze razziali ed etniche rispetto a caratteristiche generali quali 'intelligenza', 'ritardo mentale' e 'valore sociale'. Sul piano politico, i principî dell'eugenica vennero invocati nei dibattiti sulla legislazione relativa all'immigrazione, alla sterilizzazione degli 'inadatti', all'aborto e al controllo delle nascite. Nella maggior parte dei paesi l'eugenica era considerata un'alternativa scientificamente avanzata ai programmi che perseguono un miglioramento sociale intervenendo sull'ambiente, come le misure assistenziali, l'educazione e i servizi sociali.
Ai suoi inizi, l'eugenica si basava su una concezione rigida dell'ereditarietà, secondo la quale gran parte delle caratteristiche umane - dalla statura alla predisposizione per determinate malattie (tubercolosi, epilessia), dalle capacità intellettuali (genialità o ritardo mentale) ai tratti di personalità o sociali (criminalità, pauperismo, sindrome maniaco-depressiva) - sarebbero controllate ciascuna da un unico gene o da un numero limitato di geni. Nel classico dibattito 'natura/cultura', l'eugenica si collocava quindi chiaramente sul versante della 'natura': "i geni sono destini", affermavano alcuni fautori della nuova disciplina.
Memori dell'eugenica del passato, molti studiosi di bioetica - ma anche larga parte dell'opinione pubblica - si chiedono oggi con preoccupazione se sia fondata la tesi secondo cui i tratti di personalità e la costituzione fisica degli esseri umani sono in ampia misura determinati geneticamente e quale uso verrà fatto delle attuali conoscenze genetiche. Ad esempio, le informazioni sulla struttura del genoma dei singoli individui devono essere o meno tutelate dal diritto alla privacy? È legittimo per i datori di lavoro richiedere un 'profilo genetico' del personale già assunto o in via di assunzione al fine di individuare coloro che potrebbero avere menomazioni tali da tradursi in una perdita economica per l'azienda? È lecito che le compagnie di assicurazione richiedano test genetici sui feti, rifiutando la copertura assicurativa a coloro che risultano affetti da anomalie genetiche? In che misura i geni determinano effettivamente il fenotipo? In che misura, in altre parole, i geni sono 'destino'?
Questi e molti altri interrogativi, ancora in larga misura irrisolti da scienziati, medici e giuristi, hanno suscitato il timore che con l'affermarsi di una 'nuova eugenica' le decisioni sulla riproduzione possano basarsi su concetti idealizzati o irrealistici di 'perfezione' dell'uomo, o sui costi dell'assistenza a individui nati con una qualche forma di disabilità (genetica o meno). Al di là dei dibattiti giuridici e religiosi sulla moralità dell'aborto in sé, le preoccupazioni etiche relative all'interruzione della gravidanza a causa di anomalie genetiche accertate o sospettate del feto sono al centro delle discussioni attuali nell'ambito della bioetica. Quanto deve essere grave l'anomalia diagnosticata nel feto perché sia giustificato l'aborto? A quali pressioni sociali ed economiche sono sottoposte le famiglie che devono assistere un bambino disabile? Chi dovrebbe prendere le decisioni in merito - la famiglia, il medico, il sistema sanitario (sia esso pubblico, come nella maggior parte dei paesi industrializzati, o privato, come negli Stati Uniti), o enti statali al di fuori dell'ambito sanitario?
Se tali questioni siano da considerare o meno attinenti all'eugenica dipende dall'ampiezza che viene data all'accezione del termine. I fautori di una definizione estremamente ampia dell'eugenica, come ad esempio Troy Duster o Philip Kitcher, vi includono pressoché tutte le decisioni riproduttive che influenzerebbero la composizione genetica della generazione successiva (il pool genico). Quanti invece intendono il concetto in un'accezione ristretta (v. Allen, 1986) identificano l'eugenica esclusivamente con quelle pratiche (come la legislazione diretta o le regolamentazioni indirette del sistema previdenziale) che limitano le modalità riproduttive per il bene 'della società intera' (è questo quello che si potrebbe definire il modello della 'salute pubblica', incentrato su una regolamentazione del comportamento individuale finalizzata al bene della popolazione nel suo complesso). Quest'ultima accezione riallaccerebbe l'uso attuale del termine eugenica al suo significato storico. In questo articolo adotteremo l'accezione ristretta, perché includere sotto il concetto di eugenica tutte le decisioni riproduttive significherebbe trascurare distinzioni importanti, come quella tra decisioni prese autonomamente dalle famiglie, ossia sulla base di criteri 'endogeni', e decisioni imposte alle famiglie o agli individui in forma ufficiale o non ufficiale da pressioni esterne. Inoltre, usare il termine eugenica nell'accezione più ampia significherebbe ignorare il fatto che il vocabolo ha una sua precisa vicenda storica, e quindi un complesso di connotazioni che non possono essere eliminate arbitrariamente.
2. Evoluzione storica
Sebbene avesse coniato il termine alla fine del XIX secolo, Galton non creò una disciplina, in quanto non disponeva di una solida teoria dell'ereditarietà sulla quale basare specifici programmi eugenici. Le cose cambiarono nel 1900, con la riscoperta degli esperimenti sull'ibridazione dei piselli che il maestro di scuola e frate agostiniano Gregor Mendel aveva condotto a Brno (nell'attuale Repubblica Ceca, all'epoca parte dell'Impero austro-ungarico) tra gli anni cinquanta e sessanta dell'Ottocento. Le ricerche di Mendel furono pubblicate nel 1865, ma rimasero pressoché sconosciute sino all'inizio del XX secolo. Tra il 1910 e il 1920 la genetica mendeliana ottenne riconoscimento internazionale grazie al lavoro di ricercatori quali l'inglese William Bateson, gli statunitensi Thomas Hunt Morgan e Rollins Adams Emerson, il danese Wilhelm Johannsen, il tedesco Erwin Baur e il russo Sergej Cíetverikov. L'opera di Mendel rappresentava la prima teoria generale dell'ereditarietà e sembrava applicarsi a tutte le specie vegetali e animali, inclusa la specie umana. Essa prometteva di rivoluzionare le tecniche di ibridazione per migliorare le specie agricole e suggeriva la possibilità di applicare metodologie scientifiche per migliorare la specie umana. L'eugenica ottenne quindi una considerevole attenzione e per parecchi decenni condivise il prestigio di cui godeva la genetica sperimentale e di laboratorio, allora in rapida espansione. Il movimento in favore dell'eugenica conobbe la sua massima fioritura negli Stati Uniti tra la metà e la fine degli anni venti, nei paesi scandinavi negli anni trenta ed ebbe la sua applicazione più ampia in Germania dopo l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti, nel 1933. Vennero adottate leggi in seguito alle quali furono sterilizzate negli Stati Uniti più di 60.000 persone tra il 1907 e il 1963; altre 60.000 furono sterilizzate in Svezia tra il 1928 e la metà degli anni sessanta, e oltre 400.000 in Germania tra il 1933 e il 1941. Anche il programma di eutanasia, che alla fine degli anni trenta sostituì in Germania quello di sterilizzazione, si basava su principî eugenici e fu ritenuto uno strumento per eliminare 'vite non degne di vivere' (lebensunverwerten Leben).
L'eugenica non si esauriva in un programma di informazione destinato a medici privati e consulenti matrimoniali, ma comprendeva anche un programma di ricerca e uno di azione sociale. Il primo era finalizzato a raccogliere informazioni sugli schemi di trasmissione ereditaria di vari caratteri fisici e fisiologici e di tratti di personalità/mentali. Il metodo di ricerca standard consisteva nel raccogliere informazioni sulla ricorrenza di un particolare carattere in una data famiglia e nel costruire una mappa genealogica basata su tali informazioni. Il profilo di ricorrenza poteva indicare se il carattere in questione fosse dominante o recessivo (in termini mendeliani), legato o meno al sesso, ecc. Utilizzando tale metodo, fu subito chiaro che patologie come il daltonismo, il nanismo, l'emofilia, la brachidattilia e la polidattia, la corea di Huntington, ecc., erano ereditarie e seguivano le leggi di Mendel. Ma si sosteneva, in base all'analisi genealogica, che anche tratti più attinenti alla sfera sociale e mentale, in ultima istanza di maggior interesse per gli eugenisti - ad esempio il pauperismo, l'alcolismo, la sindrome maniaco-depressiva, la depravazione morale, l'oligofrenia e la talassofilia - fossero genetici. Tuttavia, le informazioni eugeniche non erano chiaramente interpretabili per una serie di problemi: 1) la difficoltà di definire tratti psichici e comportamentali estremamente generici; 2) la difficoltà di ottenere informazioni attendibili sull'occorrenza del tratto in questione in determinati individui (in quanto deceduti o non accessibili all'analisi); 3) gli errori statistici dovuti al fatto che gli esseri umani hanno una prole poco numerosa; 4) il fatto che i membri di una famiglia condividano non solo un'eredità biologica, ma anche ambiente culturale e stili di vita (ad esempio le abitudini alimentari), il che fa sì che a volte sia difficile distinguere tra eredità biologica e tratti acquisiti per affinità ambientale. Tuttavia, tali problemi non impedirono agli studiosi di eugenica di manifestare preoccupazione per il crescente deterioramento genetico dell'uomo moderno e di proporre metodi per contrastarlo.
I programmi sociali dei fautori dell'eugenica variavano da paese a paese, ma in generale si incentravano su attività di propaganda mirate a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'importanza di prevenire la proliferazione di individui affetti da tare ereditarie e, ove possibile, sulla proposta di varie forme di legislazione finalizzate a questo scopo. Le iniziative legislative si focalizzavano in larga misura sul controllo dell'immigrazione e sulla sterilizzazione coatta, anche se in alcuni paesi, ad esempio in Francia, furono compiuti maggiori sforzi per migliorare l'assistenza sanitaria pubblica in generale e in particolare quella alle madri e ai bambini. In Inghilterra i fautori dell'eugenica ebbero un ruolo determinante nell'approvazione del Mental defective act del 1913, ma a parte questo non riuscirono ad andare oltre la diffusione della dottrina eugenica attraverso la Eugenics Education Society (EES). Negli Stati Uniti gli eugenisti ebbero maggior successo politico, specialmente sotto l'egida del biologo Charles B. Davenport e del suo protetto, Harry Hamilton Laughlin, che lavorarono all'Eugenics Record Office (ERO) di Cold Spring Harbor, New York. Laughlin elaborò un 'modello di legge sulla sterilizzazione' che fu utilizzato in numerosi Stati come base per una legislazione in materia, e la sua testimonianza davanti al Congresso sull'inferiorità genetica dei nuovi immigrati (provenienti dall'Europa orientale, dai paesi mediterranei e dai Balcani, e soprattutto Ebrei di qualunque provenienza) ebbe un ruolo determinante nell'approvazione nel 1924 di una delle prime, importanti leggi restrittive sull'immigrazione emanate dagli Stati Uniti, il Johnson-Reed act.
In Germania, il manuale Grundriss der menschlichen Erblichkeitslehre und Rassenhygiene redatto nel 1921 da tre illustri antropologi, Eugen Fischer, Erwin Baur e Fritz Lenz, contribuì notevolmente a diffondere le idee eugeniche nelle università e nelle scuole di medicina, anche se non fu promulgata alcuna legge in materia prima dell'avvento al potere dei nazionalsocialisti, nel 1933. Molti dati furono raccolti dai ricercatori, sotto la guida di Fischer, presso il Kaiser-Wilhelm-Institut für Anthropologie (KWIA), che dopo il 1933 divenne il centro di studi sull'eugenica e l'igiene della razza del Terzo Reich. Fu in tale istituto, ad esempio, che vennero inviate parti del corpo di gemelli monozigoti uccisi nei campi di concentramento per essere sottoposte ad analisi biologiche da Josef Mengele negli anni quaranta (il direttore dell'Istituto all'epoca era un protégé di Fischer, Otmar Freiherr von Verschuer). In Scandinavia i fautori dell'eugenica fecero pressioni in favore di una normativa sulla sterilizzazione nell'ambito delle politiche di Welfare State, ma leggi in tal senso furono approvate solo sulla scia dell'esempio nazista. Gli eugenisti francesi non riuscirono a far approvare alcuna normativa in materia di eugenica, se non una serie di provvedimenti sull'assistenza sanitaria alle madri e ai bambini (i Francesi in genere non erano attratti dalla genetica mendeliana e trovavano più accettabile dal punto di vista sia biologico che sociale, l'idea dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti). Neppure il movimento eugenico russo riuscì a far approvare alcuna legislazione e negli anni trenta fu sciolto in quanto considerato un'organizzazione razzista.
Durante la prima metà del XX secolo, tutti gli studiosi di eugenica sostenevano la scientificità della disciplina (derivata dalla genetica mendeliana, all'epoca materia d'avanguardia) e la sua efficienza. Il richiamo alla scienza era ovvio: se i problemi sociali erano il risultato dell'aumentata frequenza di 'geni difettosi ereditari' nella popolazione, allora si trattava di un problema di tipo scientifico, che poteva essere risolto con gli strumenti della scienza. I fattori sociali - salari insufficienti, condizioni di vita e di lavoro malsane, affollamento in quartieri degradati - non erano in alcun modo responsabili, e quindi non si rendeva necessario affrontarli. Se la causa dei problemi sociali era riconducibile ai geni difettosi di certi segmenti della popolazione, coloro che controllavano lo statu quo e ne traevano vantaggi non avevano alcun bisogno di cambiare le loro prassi.
Meno ovvio risultava il richiamo alla 'efficienza', invocata quale principale giustificazione dell'eugenica fondamentalmente perché, come ha messo in luce Sheila Weiss, la sua logica era impeccabile. Efficienza significava 'efficienza nazionale', ossia l'individuazione precoce e la prevenzione dei problemi sociali prima che si presentassero. In questo senso, tutti i movimenti a sostegno dell'eugenica concordavano sul fatto che essa costituiva l'approccio più razionale a problemi rivelatisi storicamente irrisolvibili, quali la criminalità, il pauperismo, la prostituzione, l'oligofrenia, la sindrome maniaco-depressiva, i comportamenti antisociali, e via dicendo. Negli Stati Uniti l'eugenica abbracciava principî in qualche modo associati al 'progressismo', per il quale l'efficienza costituiva un elemento essenziale. Anche in Gran Bretagna, Francia e Germania i movimenti in favore dell'efficienza nazionale e industriale affini al progressismo avevano largo seguito. Di fatto, in Germania durante il Terzo Reich la logica della politica di sterminio nazista si fondava, oltre che sull'ideologia della razza superiore, proprio sull'efficienza. In questi casi 'efficienza' significava eliminazione dei problemi sociali prima del loro verificarsi. Era contrario all'efficienza, sostenevano gli eugenisti, permettere la nascita di individui geneticamente tarati per poi trovarsi costretti a impiegare le limitate risorse a disposizione della società per assisterli o per porre rimedio ai problemi da essi creati. Di conseguenza, sterilizzare un adulto tarato prima che generasse una progenie affetta dalle stesse tare era considerato un modo per porre la scienza al servizio dell'efficienza nazionale. Pressoché ovunque, l'argomento dell'efficienza esercitava una notevole attrazione alla luce dei caotici e apparentemente incontrollati effetti sociali ed economici prodotti dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione nel corso dello sviluppo del capitalismo di fine Ottocento-inizi Novecento (occorre ricordare, a questo proposito, che il crollo mondiale delle borse del 1929 rese drammaticamente evidente la mancanza di risorse per l'assistenza agli indigenti di qualsiasi tipo, contribuendo ad aumentare, come ha osservato Diane Paul - v., 1995 -, la popolarità delle misure eugeniche).
Le sinistre connotazioni del movimento eugenico del passato hanno gettato una lunga ombra sulla genetica medica contemporanea. Se molti genetisti e ricercatori sostengono che le basi scientifiche dell'attuale genetica umana sono assai più solide di quelle delle vecchie teorie eugeniche e che non esiste il pericolo del profilarsi di un nuovo movimento coercitivo, i critici dell'eugenica non sono affatto convinti che quest'ultimo punto possa esser dato per scontato. Molti temono che sotto etichette quali 'consulenza genetica' o 'pianificazione familiare' si possano contrabbandare pratiche eugeniche, e che altre pressioni sociali ed economiche, più sottili ma non meno invasive, possano prendere il posto delle vecchie misure eugeniche imposte dallo Stato. Lo spettro dell'eugenica, secondo molte voci critiche, non sarebbe affatto scomparso e la conoscenza della storia del movimento dovrebbe servire da monito per le politiche attuali.
In questo dibattito, molto dipende dal significato che viene attribuito al concetto di 'eugenica' nel nuovo contesto del XXI secolo. Coloro che paventano un uso distorto delle nuove informazioni genetiche evocano l'immagine del vecchio movimento eugenico e delle sue degenerazioni. Quanti ritengono invece che le nuove conoscenze offrano la possibilità di ridurre la frequenza delle malattie genetiche ereditarie hanno in mente una eugenica di nuovo tipo, che può essere impiegata per alleviare le famiglie da gravi oneri economici e psicologici. Uno dei nodi cruciali del dibattito attuale è relativo al grado in cui il genotipo di un individuo determini effettivamente il fenotipo in modo prevedibile. In altre parole, quanto siamo oggi più certi che in passato che molti caratteri, specialmente di ordine sociale o comportamentale (alcolismo, sindrome maniaco-depressiva, eccessiva propensione al rischio) siano genetici in un qualsivoglia significato rilevante del termine? E con quale accuratezza possiamo prevedere il fenotipo adulto anche nel caso di patologie associate con certezza a genotipi specifici (come la fibrosi cistica, la corea di Huntington, la sindrome di Down)? Larga parte dell'opinione pubblica, incluse persone con una discreta preparazione scientifica, si lascia influenzare da semplicistici manuali o da divulgazioni dei media in cui il genotipo viene considerato equivalente al fenotipo. Esamineremo in modo più approfondito questo problema nel prossimo capitolo.
3. Le teorie genetiche contemporanee e le loro basi scientifiche
a) Genetica medica
Negli ultimi venticinque anni, le scoperte più importanti nel campo della genetica umana hanno riguardato la genetica medica, cioè l'identificazione, la mappatura e a volte, più di recente, il sequenziamento di geni associati a determinate malattie (o, se non a vere e proprie malattie, a determinati disturbi). Le malattie ereditarie, fortunatamente, sono per la gran parte abbastanza rare (con un'incidenza che alla nascita varia da 1:10.000 a 1:100.000), ma alcune ricorrono con una frequenza alquanto elevata (da 1:2.000 a 1:5.000) e hanno spesso esiti piuttosto gravi, per cui sono state oggetto di considerevole attenzione. Tra queste patologie figurano la sindrome di Tay-Sachs (o idiozia amaurotica familiare), la corea di Huntington, la fibrosi cistica (CF), l'anemia falciforme, la talassemia e altre malattie ematiche collegate a emoglobine anormali, l'ipercolesterolemia familiare, le sindromi di Hunter e di Hurler, la fenilchetonuria e l'alcaptonuria, e una serie di malattie dovute ad aberrazioni cromosomiche (sindrome di Down, sindrome di Turner e sindrome di Klinefelter). Queste malattie genetiche presentano diverse caratteristiche che pongono una serie di problemi più generali, di ordine sia medico che sociale.
In primo luogo, tutte le patologie incluse nel catalogo di McKusick hanno basi genetiche rigorosamente verificate: è stata effettuata la mappatura dei corrispondenti loci all'interno del genoma e la comunità medica internazionale concorda nel considerarle malattie che hanno sicuramente base genetica.
Più problematica risulta una seconda caratteristica della maggior parte delle malattie genetiche, ossia la frequente variabilità della loro espressione sia da individuo a individuo, sia in organi diversi nello stesso individuo. Consideriamo tre patologie ormai assai familiari ai genetisti: la sindrome di Down, la fibrosi cistica e l'anemia falciforme.
La sindrome di Down è causata dalla presenza di un cromosoma supplementare nella coppia di cromosomi 21 (trisomia 21). Gli individui con questo genotipo mostrano gradi variabili di ritardo mentale e neuromotorio. Sino alla metà del XX secolo, i bambini affetti dalla sindrome di Down venivano per la maggior parte ricoverati in età precoce in istituti e spesso vi rimanevano per tutta la vita (molti morivano verso i 40-50 anni). A partire dagli anni cinquanta, tuttavia, alcuni ricercatori realizzarono che i bambini affetti dalla sindrome di Down possedevano una vasta gamma di tratti comportamentali e capacità mentali: alcuni erano gravemente ritardati, ma altri riuscivano ad apprendere compiti relativamente complessi ed erano in grado di imparare a condurre una vita autonoma. In molti casi, anziché essere internati in istituti, i bambini Down furono affidati alle cure familiari, con risultati che gli osservatori giudicarono eccezionali. Il genotipo non forniva una misura accurata del potenziale fenotipo.
La fibrosi cistica (CF) è una patologia causata da un singolo gene recessivo (CFTR, Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator) che compromette i canali del cloro in vari tessuti e organi, principalmente polmoni, fegato, reni e tratto gastro-intestinale. Si tratta di una delle malattie genetiche più diffuse, con un'incidenza pari a 1:2.000. Gli individui eterozigoti per la patologia (CF/cf ) non presentano alcun sintomo, si trovano cioè nella stessa condizione di quelli con la forma non mutante del gene (CF/CF). Gli individui omozigoti per la mutazione (cf/cf ), invece, presentano diversi sintomi, la cui ampiezza ed epoca di insorgenza variano considerevolmente da individuo a individuo. È stata determinata la sequenza completa delle basi nucleotidiche che costituiscono il gene responsabile della CF, ed esiste un test per stabilire se un individuo (adulto o feto) sia omozigote per la mutazione. Vi sono oltre 600 paia di basi all'interno del gene in cui possono verificarsi delle mutazioni, ma alcune sono assai più frequenti di altre. Il fatto che le mutazioni possano riguardare siti diversi spiega alcune differenze nell'espressione fenotipica del gene, ma esiste una considerevole variazione fenotipica anche tra i soggetti adulti che presentano esattamente la stessa mutazione. Le ragioni di tale variabilità sono in larga misura sconosciute, ma l'ipotesi più accreditata è che essa derivi sia dal background genetico (ossia da altri geni presenti nel genoma di un individuo), sia da fattori ambientali (dieta, abitudine al fumo, consumo di alcol, stile di vita in generale, ecc.). Di certo una molteplicità di fattori può interagire con il gene della CF e modificarne l'espressione.
Un caso meglio conosciuto in cui è notevole l'influenza esercitata dal background genetico è l'anemia falciforme, anch'essa dovuta a un gene recessivo (Hbs). Si tratta di una patologia debilitante che si manifesta negli omozigoti Hbs/Hbs, nei quali riduce la capacità di trasporto dell'ossigeno da parte dell'emoglobina e provoca una grave alterazione (collasso) dei globuli rossi; gli individui che ne sono affetti muoiono sovente prima dei trent'anni. Tutti gli esseri umani hanno anche un gene per un altro tipo di emoglobina, l'emoglobina fetale (HbF), che è sintetizzata durante la vita fetale. Normalmente, diversi mesi dopo la nascita cessa la sintesi di emoglobina fetale e inizia quella di emoglobina adulta (l'emoglobina patologica della falcemia è una variante dell'emoglobina adulta). Tuttavia, per ragioni ancora sconosciute, alcuni individui omozigoti per il gene della falcemia continuano a sintetizzare emoglobina fetale anche in età adulta, riuscendo in tal modo a compensare le carenze dovute all'emoglobina patologica, per cui essi risultano sani.
Il fatto importante emerso dallo studio di patologie come la fibrosi cistica e la falcemia (e altre analoghe) è che per la maggior parte delle malattie non esiste una corrispondenza biunivoca tra genotipo e fenotipo adulto. I geni hanno quelle che vengono definite 'norme di reazione', ossia gamme di espressione che variano entro determinati limiti ambientali. Così, anche disponendo di test in grado di stabilire se un soggetto (adulto o feto) presenta o meno una data mutazione, non è possibile prevedere con esattezza come sarà il fenotipo adulto. Questa incertezza ha importanti implicazioni per la consulenza genetica e per i programmi eugenici.
b) Genetica del comportamento umano
Una delle nuove branche della genetica sviluppatasi in anni recenti è la cosiddetta 'genetica del comportamento', una disciplina in rapida espansione alla quale fanno riferimento varie riviste (tra cui "Behavior genetics") e società professionali (ad esempio la Behavior Genetics Association). Negli ultimi due decenni del XX secolo la genetica del comportamento si è affermata come un importante settore di ricerca interdisciplinare in cui confluiscono etologia, evoluzionismo, genetica e psicologia.
La genetica del comportamento è una branca delle scienze biologiche che studia le componenti genetiche, o ereditarie, del comportamento animale. Attualmente lavora in questo campo un nutrito gruppo di ricercatori, i quali studiano il comportamento di organismi animali non umani - dagli organismi monocellulari come i Protozoi ai Primati - mentre un gruppo relativamente più ristretto si occupa della genetica del comportamento umano; in quest'ultimo caso, ovviamente, ragioni pratiche ed etiche impediscono di ottenere i dati genetici con gli usuali metodi di laboratorio, che prevedono incroci pianificati e controlli rigorosi delle condizioni ambientali in cui si sviluppa la prole. Qualunque sia il tipo di organismo studiato, tuttavia, molti degli scienziati che si occupano di genetica del comportamento sperano di poter far luce sugli aspetti generali e sulle cause del comportamento umano, anche se non pochi guardano con profondo scetticismo ai tentativi di cercare analogie tra il mondo animale e il mondo umano, o di applicare direttamente le scoperte relative alle specie non umane a quella umana. Questa frattura ha pesato sulla genetica del comportamento per oltre un secolo, sfociando nel 1995 in una aperta scissione all'interno della Behavior Genetic Society (un'organizzazione professionale internazionale), con la costituzione di un'organizzazione separata da parte degli studiosi del comportamento degli organismi non umani. Nonostante queste controversie, la genetica del comportamento ha grandi potenzialità per quanto riguarda lo studio dell'evoluzione e del significato adattivo del comportamento in molte specie animali non umane.
La tesi di fondo della genetica del comportamento umano, sostenuta perlopiù da psicologi e psichiatri, è che alcuni tratti di personalità - tra cui l'alcolismo, la sindrome maniaco-depressiva, la schizofrenia, la timidezza, l'obesità, l'aggressività e la violenza, la propensione al rischio, il deficit di attenzione (ADHD, Attention Deficit Hyperactivity Disorder, o DDAI, Disturbo da Deficit di Attenzione con Iperattività) e l'omosessualità - abbiano una componente genetica. I dati a sostegno di questa tesi sono attinti in larga misura da studi condotti sull'adozione e da studi di associazione genotipo-fenotipo. Gli studi sull'adozione, basati soprattutto su dati provenienti dai paesi scandinavi, confrontano la manifestazione di un tratto comportamentale in un bambino con la manifestazione del medesimo tratto nella sua famiglia biologica e in quella adottiva. Se la correlazione risulta alta tra i bambini adottati e i genitori biologici, ma bassa (o inferiore) tra i bambini adottati e le famiglie adottive, si assume che ciò indichi che il tratto in questione ha una significativa componente genetica. Quando possibile, vengono utilizzati anche gemelli (sia identici che eterologhi) che vengono confrontati tra loro e con le rispettive famiglie adottive. Si è talvolta cercato di dimostrare attraverso studi di associazione che certi comportamenti sono correlati non solo con quelli dei parenti biologici stretti, ma anche con determinati markers molecolari o cromosomici, come è stato ipotizzato nel caso di un'anomalia nel gene per la monoammina-ossidasi (un enzima responsabile della degradazione di un gruppo di neurotrasmettitori), che contribuirebbe a determinare un comportamento aggressivo, o in quello di un marker sul cromosoma X (Xq28) che sarebbe responsabile dell'omosessualità maschile. Peraltro, nessuna di queste ipotesi è stata pienamente confermata quando si è cercato di verificarle in popolazioni diverse da quelle sulle quali è stato condotto lo studio originario.
Vari critici della genetica del comportamento umano - ad esempio Jonathan Beckwith della Harvard Medical School, Peter Breggin, direttore del Center for the Study of Psychiatry di Bethesda, o Steven Rose della Open University in Gran Bretagna - ritengono che i risultati ottenuti dai ricercatori in questo campo siano del tutto inattendibili. Essi rilevano come tutti gli studi che pretendono di aver individuato un determinante genetico per uno specifico comportamento umano siano inficiati da gravi problemi di ordine metodologico, che possono essere raggruppati nelle seguenti quattro categorie principali.
In primo luogo, i tratti del comportamento umano dovrebbero essere definiti in modo tale da poter essere diagnosticati da qualsiasi osservatore adeguatamente addestrato, ma i critici rilevano che ciò risulta particolarmente difficile per comportamenti quali la criminalità, l'aggressività, l'alcolismo, la sindrome maniaco-depressiva, la schizofrenia, l'omosessualità e molti altri. Si tratta infatti di comportamenti assai complessi e giudicare se un individuo rientra effettivamente in una data categoria può essere estremamente soggettivo (Robin Hood e Garibaldi possono essere giudicati criminali o eroi a seconda del punto di vista della persona che effettua la classificazione). Gli psichiatri attualmente si pongono il problema se la schizofrenia e la sindrome maniaco-depressiva siano davvero malattie diverse oppure manifestazioni differenti della stessa malattia. Inoltre, è vero che possono esservi delle differenze genetiche tra gli individui: ad esempio, alcuni mostrano una minore tolleranza all'alcool di altri, in quanto il loro organismo metabolizza tale sostanza meno velocemente; tuttavia, non è possibile istituire un'equivalenza diretta tra questa condizione e il comportamento sociale che etichettiamo come 'alcolismo'. Poiché sulla definizione di un determinato tratto possono esistere discordanze così ampie, non sorprende che gli studiosi di genetica del comportamento umano trovino difficile anche solo riprodurre gli stessi risultati dei colleghi e, ancor di più, effettuare una chiara analisi genetica.
Riguardo alla categoria successiva - che comprende i problemi relativi alla raccolta dei dati sulle famiglie, i fratelli, i figli adottivi, ecc. - i critici sostengono che molti studi genetici del comportamento umano sono difettosi sotto vari aspetti. Alcuni si basano su campioni troppo piccoli e quindi non rappresentativi; tale problema si pone in particolare per le ricerche sui gemelli identici allevati separatamente (i famosi studi sui gemelli di Cyril Burt, che hanno costituito la base di tante ricerche sull'ereditarietà del quoziente di intelligenza, si basavano su un campione di sole 53 coppie di gemelli, messo insieme in oltre quarant'anni di ricerche). Altri studi non effettuano controlli adeguati. Nel 1995 Dean Hamer e i suoi collaboratori al National Cancer Institute degli Stati Uniti condussero uno studio su un campione di 40 coppie di fratelli omosessuali, trovando in 33 coppie un marker genetico sul cromosoma X; tale riscontro li portò a ipotizzare che la predisposizione di tali individui al comportamento omosessuale fosse determinata da alcuni geni localizzati sul cromosoma vicino a quel marker. Lo studio, però, non diceva se altri fratelli (non omosessuali) appartenenti alle stesse famiglie avessero quel marker, nel qual caso la correlazione con l'omosessualità avrebbe perso ogni valore. Altri problemi posti dalla raccolta dei dati riguardano l'uso di metodi non standardizzati per determinare quali individui presentino il carattere in questione (differenti procedure/criteri diagnostici, valutazioni effettuate in condizioni differenti) e i sistemi di selezione dei soggetti da studiare (in molti casi vengono reclutati dei volontari, il che può compromettere l'oggettività dei risultati in quanto la scelta tenderà a cadere su individui con determinati tipi di personalità, o che accentuano deliberatamente alcune loro caratteristiche per essere inclusi nell'esperimento o per rimanervi).
Quanto al terzo ordine di problemi, i critici argomentano anche che negli studi di genetica del comportamento umano si è spesso fatto un uso improprio dei metodi statistici. Una delle procedure statistiche più frequentemente usata e interpretata in maniera erronea è quella della ereditabilità, che si basa sull'analisi della varianza entro una popolazione ben definita. Essa fornisce una stima della quantità di variazione ascrivibile a cause genetiche all'interno di quella popolazione, ma non può in alcun modo essere utilizzata per stabilire il grado di ereditarietà di un tratto in un singolo individuo all'interno di quella popolazione. 'Ereditabile' non significa 'ereditario' nel senso genetico usuale, sebbene molti studiosi di genetica del comportamento umano non mettano in chiaro tale distinzione, specialmente in contesti divulgativi. Ancora più di frequente, inoltre, nella stima dell'ereditabilità vengono ignorati due vincoli inerenti al metodo di valutazione. In primo luogo, tali stime valgono esclusivamente per la popolazione studiata e solo nelle sue condizioni ambientali specifiche: così, la stima di ereditabilità per un dato tratto nella popolazione A non può essere riferita anche alla popolazione B, poiché non sussiste alcuna certezza che i fattori genetici o ambientali delle due popolazioni siano comparabili. I critici sottolineano che lo psicologo di Berkeley Arthur Jensen commise questo errore nel suo famoso studio del 1969 sul quoziente di intelligenza, in quanto applicò le stime di ereditabilità del quoziente di intelligenza in una data popolazione (gli studenti britannici di razza caucasica, popolazione A) a due diverse popolazioni (gli studenti statunitensi di razza caucasica e afro-americana, popolazioni B1 e B2). Questo confronto, stando alle regole dell'analisi dell'ereditabilità, dovrebbe essere considerato non valido. La seconda condizione imposta dal metodo dell'ereditabilità è che tutti i membri di una data popolazione (ad esempio la popolazione A) condividano un ambiente identico o pressoché identico. Il metodo è stato introdotto per la prima volta negli anni trenta come strumento ausiliario per gli allevatori e i coltivatori; ma se questa è una condizione relativamente facile da rispettare nell'ambito delle tecniche di incrocio usate in agricoltura e in zootecnica, chiaramente essa non è applicabile nel caso delle popolazioni umane (ad esempio la popolazione caucasica e quella afroa-americana di una grande città statunitense). Abbiamo già accennato al problema delle dimensioni eccessivamente ridotte dei campioni usati negli studi di genetica del comportamento umano, una caratteristica che rende priva di valore ogni analisi statistica. Nel periodo 1960-1980 molti studi vennero effettuati su meno di dieci coppie di gemelli, e alcuni addirittura su un'unica coppia. Anche il campione formato da quaranta coppie di fratelli omosessuali utilizzato nella ricerca di Hamer menzionata in precedenza è di misere dimensioni se confrontato con il numero di organismi esaminati in qualsiasi studio di genetica del comportamento di specie non umane.
Ma è nel quarto ordine di problemi relativi a questi studi - quello riguardante le conclusioni che vengono tratte dai dati - che i critici rilevano alcune delle più flagranti violazioni di criteri rigorosamente scientifici. Da un lato le conclusioni possono essere presentate come sensazionali ma essere assolutamente banali. Ad esempio - dicono i critici - asserire che da un certo studio risulta che geni e ambiente interagiscono nel produrre un particolare tratto comportamentale è un'ovvietà che non dice nulla di interessante o di utile. In ogni organismo qualsiasi carattere, sia esso fisico, chimico o biologico, è il risultato di una qualche interazione tra componenti genetiche e componenti ambientali. Il problema cruciale è in che modo e in quali condizioni (genetiche e ambientali) quella particolare interazione darà un particolare risultato. Pochissimi studi di genetica del comportamento umano, forse nessuno, sono riusciti a chiarire o precisare tale relazione. Un altro problema è per certi versi l'altra faccia della stessa medaglia: l'interpretazione forzata dei dati di una ricerca, un difetto di cui peccavano sia lo studio di Jensen sulle differenze del quoziente di intelligenza nelle diverse razze, sia quello di Hamer sulla componente ereditaria dell'omosessualità maschile. Una frase come "il gene (o geni) responsabile(i) di ..." dà l'impressione, particolarmente tra i non specialisti, che l'evidenza biologica sia molto più stringente di quanto non sia in realtà.
In sintesi, i dati raccolti dagli studiosi di genetica del comportamento umano nel XXI secolo non sono più attendibili di quelli presentati in studi analoghi condotti negli anni venti o trenta. I problemi etici implicati nella sperimentazione sugli esseri umani rendono difficile ottenere dati rigorosi e conclusivi. L'unico modo per distinguere gli effetti dei fattori genetici dagli effetti dei fattori ambientali sarebbe quello di adottare le tecniche di laboratorio atte a far crescere gli organismi in condizioni ambientali strettamente controllate, cosa ovviamente impossibile nel caso degli esseri umani. Non potendo ricorrere a tali sistemi, gli studiosi di genetica del comportamento umano si devono accontentare di cercare di stabilire una correlazione facendo riferimento ai gradi noti di affinità tra i membri di una famiglia, agli studi su bambini adottati, o a quelli su gemelli identici cresciuti separatamente. Tali dati possono indicare l'esistenza di influenze, ma non permettono di fare asserzioni definitive. Le forzature di molte tesi della genetica del comportamento che si riscontrano in alcune pubblicazioni scientifiche, ma soprattutto nei media, hanno dato luogo ad accese controversie nell'ultimo quarto del XX secolo per le affinità con quelle dell'eugenica del passato.
4. Eugenica ed etica
a) Considerazioni generali
Molti studiosi di genetica e di bioetica paventano che le tesi a favore del determinismo genetico di certe patologie e di certi tratti comportamentali, nonché la formulazione di politiche sanitarie e sociali basate su queste tesi, possano avere gravissime conseguenze sulla situazione economica e sociale della maggior parte dei paesi occidentali. La storia insegna che l'attribuzione di determinati caratteri (in genere quelli considerati indesiderabili) a cause genetiche è stata spesso usata come giustificazione del genocidio, o per interdire la riproduzione a individui (o famiglie) portatori di difetti genetici. Un uso aberrante di tali tesi può avere conseguenze dirette sulla politica sociale oggi non meno che nel passato. Le possibili basi genetiche di disturbi quali l'alcolismo e la sindrome maniaco-depressiva non vengono studiate per scopi puramente teorici; il fine ultimo è quello di ridurre l'incidenza dell'alcolismo e della depressione nella società, e di aiutare gli individui affetti da tali disturbi.
Nonostante i notevoli progressi compiuti dalla genetica rispetto ai primi decenni del XX secolo e nonostante che oggi la popolazione sia più informata sulla materia (sia pure in modo generico), continuano a persistere vecchie nozioni semplicistiche. Nei manuali la corrispondenza mendeliana un gene/un carattere continua a essere presentata come la regola, laddove di fatto esistono ben pochi casi in cui un carattere è controllato da un unico gene. Analogamente, persiste la convinzione che un particolare genotipo (uno o più geni) produca sempre lo stesso fenotipo, convinzione che incoraggia previsioni irrealistiche sia da parte dell'opinione pubblica, sia da parte dei rappresentanti della professione medica sprovvisti di una preparazione specifica nel campo genetico.
Poiché la tesi che i tratti comportamentali (e di altro tipo) abbiano basi genetiche è quasi sempre associata all'assunto della immodificabilità di ciò che è genetico, l'estremizzazione di alcune teorie genetiche solleva una serie di problemi etici e sociali. Quali misure sociali e legislative andrebbero adottate nei confronti di individui che presentano caratteri indesiderabili? Dovremmo permettere che tali caratteri si perpetuino senza esercitare alcun controllo sulla riproduzione di tali individui? Se la timidezza, l'alcolismo o la criminalità hanno origini genetiche, coloro che mostrano tali tratti dovrebbero essere sterilizzati, oppure internati in appositi istituti, si dovrebbe vietare loro il matrimonio, o il permesso di ingresso in un altro paese in qualità di immigrati, oppure ancora dovrebbero essere sottoposti a terapie farmacologiche o di altro tipo? La discussione su questi punti crea problemi a tutti i livelli. Prima di tutto occorrerebbe accertare se tali comportamenti siano realmente patologici, o solo un prodotto di pregiudizi e/o condizioni sociali. L'omosessualità e la timidezza sono malattie? Con il mutamento dei costumi sociali molti comportamenti in precedenza considerati devianti sono entrati a far parte della norma. Ad esempio, alla fine degli anni settanta la quarta edizione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual-IV) della American Psychiatric Association ha eliminato l'omosessualità dall'elenco delle patologie di interesse psichiatrico. I rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso sono stati di conseguenza ridefiniti come facenti parte della gamma dei possibili comportamenti sessuali umani. Analogamente, la timidezza è solo uno dei possibili repertori comportamentali del bambino. Giudicare innati e patologici tutti i comportamenti che non rientrano in uno standard significa già pregiudicare il modo in cui essi verranno affrontati sul piano sia medico che sociale. Limitare i diritti civili degli individui che manifestano tali comportamenti, o trattarli come se costituissero un 'problema' medico (da risolvere con l'ospedalizzazione forzata, la terapia, o la restrizione delle capacità riproduttive) a parere di molti equivarrebbe ad attuare una nuova eugenica.
Un secondo problema etico riguarda la diagnosi e lo screening prenatale. La diagnosi prenatale si serve di tecniche quali l'amniocentesi (prelievo di cellule fetali dal liquido amniotico, che comporta un rischio, sia pure ridotto, di aborto) e l'ecografia per determinare i caratteri genetici del feto. L'amniocentesi può essere utilizzata per diagnosticare l'eventuale presenza di anomalie cromosomiche e, in associazione con l'analisi del DNA, di determinati geni, mentre l'ecografia consente di stabilire il sesso del nascituro e di rilevare altre caratteristiche anatomiche generali (ma non un genotipo specifico). Lo screening genetico consiste in una serie di analisi genetiche effettuate alla nascita o poco dopo e generalmente è impiegato, ad esempio negli Stati Uniti, per diagnosticare malattie ereditarie quali la fenilchetonuria o la falcemia. Tuttavia, l'uso di questi strumenti diagnostici ha sollevato una serie di questioni etiche relative all'assistenza sanitaria e alle politiche sociali.
Nel caso delle indagini prenatali, ad esempio, cosa si dovrebbe fare quando si scopre che il feto presenta la sindrome di Down o la corea di Huntington? A prescindere dal carattere pubblico o privato del sistema sanitario, si pone il problema dei costi futuri dell'assistenza medica, della qualità di vita degli individui affetti da tali patologie e degli effetti psicologici sulle famiglie. Come abbiamo accennato in precedenza, i bambini affetti da sindrome di Down o da fibrosi cistica presentano una vasta gamma di espressione dei caratteri patologici. Gli effetti della corea di Huntington non si manifestano prima della mezza età. Si può forse affermare che tutti gli individui cui le indagini prenatali hanno diagnosticato tali patologie sono da considerare "vite non degne di essere vissute"? Cinquant'anni di vita sana per una persona portatrice del gene dalla corea di Huntington valgono o non valgono la prospettiva di una morte prematura? Per quanto riguarda lo screening genetico per la fenilchetonuria, sinora nessuno Stato negli Stati Uniti ha proposto di abbandonare a se stessi i bambini affetti da tale malattia, ma i costi della dieta in grado di favorire un normale sviluppo mentale non sono di solito coperti dal servizio sanitario, e mantenere il trattamento dietetico opportuno, soprattutto nell'adolescenza, comporta notevoli aggravi finanziari e psicologici per la famiglia. Anche se le patologie diagnosticate sono realmente genetiche, non è chiaro quale debba essere la risposta sociale/medica alla diagnosi e allo screening prenatale.
Coloro che sostengono l'opportunità dei test prenatali e dello screening genetico ritengono irresponsabile da parte delle singole famiglie ignorare l'onere che gli individui affetti da malattie genetiche rappresentano sia per loro stesse, sia per la società intera. Ma non sempre, si sostiene, i genitori ne sono perfettamente consapevoli in anticipo. Negli Stati Uniti - dove i costi dell'assistenza sanitaria sono sopportati dalle famiglie e dai datori di lavori attraverso sistemi previdenziali privati o, nel caso di famiglie indigenti, dallo Stato - le compagnie di assicurazione temono che i loro oneri saliranno alle stelle se non si previene la nascita degli individui affetti da anomalie individuate in anticipo attraverso la diagnosi prenatale. Nei paesi in cui esiste un sistema sanitario nazionale, i fautori della diagnosi prenatale e dello screening genetico ritengono che la società non dovrebbe farsi carico di una situazione (un bambino menomato) che potrebbe essere evitata interrompendo la gravidanza nei primissimi stadi. Secondo questo modo di pensare, la decisione di mettere al mondo bambini non perfettamente sani è sia irrazionale che eticamente ingiustificata, soprattutto in periodi di crisi economica.
Per contro, molti studiosi di bioetica affermano che tali posizioni hanno inquietanti affinità con il richiamo all'efficienza della vecchia eugenica. Così come viene espressa oggi, la preoccupazione per il contenimento dei costi dell'assistenza sanitaria confina con la coercizione eugenica. Ad esempio, se l'assistenza sanitaria (finanziata dallo Stato o privatamente) non copre i costi derivanti dall'allevare un bambino affetto dalla sindrome di Down o dalla corea di Huntington, e nemmeno da una patologia grave come la malattia di Tay-Sachs, le famiglie potrebbero essere sottoposte a forti pressioni a favore di un aborto. Secondo molti studiosi di bioetica, ciò equivarrebbe a limitare in modo coatto la libertà di scelta individuale, anche se la decisione finale non è imposta per legge. Le pressioni economiche o sociali finalizzate a preservare le risorse della società, o la tesi secondo cui, dato l'atteggiamento prevalente della società nei confronti di quelle che sono considerate 'menomazioni', il bambino disabile non sarà mai pienamente accettato e avrà una qualità di vita insoddisfacente, possono essere altrettanto efficaci di una esplicita legislazione in materia, condizionando le decisioni riproduttive della popolazione.
Una questione ancora più generale riguarda la legittimità di fondare decisioni sociali, morali ed etiche su teorie genetiche (o scientifiche in genere) relative al mondo naturale. La scienza può informare, ma non impone necessariamente direttive politiche. I complessi problemi morali ed etici sollevati dalle nuove conoscenze e dalle tecnologie genetiche, in particolare nel settore alquanto controverso della genetica del comportamento umano, hanno indotto a mettere in discussione l'opportunità di finanziare la ricerca sulle basi genetiche della schizofrenia, della criminalità, dei comportamenti compulsivi, dell'omosessualità, ecc. In proposito non sussiste alcuna unanimità di vedute né tra i biologi in generale, né tra gli studiosi di bioetica e gli esperti di politiche scientifiche. Tuttavia, il problema è serio al punto che in anni recenti negli Stati Uniti, in Germania e in Gran Bretagna non sono mancati gli appelli per la sospensione delle ricerche in questo campo. Se da una parte la posizione della comunità scientifica è decisamente a favore del fatto che la ricerca non debba essere sottoposta a limitazioni solo perché i suoi risultati potrebbero essere indesiderabili o essere usati in modo scorretto, come insegnano le vicende storiche dell'eugenica, dall'altra il problema del tipo di ricerca che è opportuno portare avanti non può essere ignorato. Una cosa è una ricerca che produce risultati replicabili e verificabili che restano validi a prescindere dal fatto che siano più o meno desiderabili, un'altra cosa è una ricerca che non potrà mai essere pienamente convalidata e che, data la natura delle metodologie disponibili, resta necessariamente confinata nel regno della congettura e delle mezze verità. Poiché ogni società effettua delle scelte sul modo in cui impiegare i fondi per la ricerca, la questione della qualità dei suoi esiti e dei suoi possibili usi non è affatto irrilevante. Né il fatto di sollevare tali problemi costituisce in sé un ostacolo alla libertà della scienza.
b) Un caso particolare: il DDAI
I problemi etici che si pongono se i comportamenti umani vengono ritenuti geneticamente determinati ha importanti risvolti sia etici che sociali. In primo luogo, quando i dati genetici sono controversi, tanto i consulenti genetici che i futuri genitori devono decidere quale atteggiamento assumere, perché accettare o rifiutare la teoria che il comportamento è geneticamente determinato implica approcci e politiche diametralmente opposti. Questo dilemma, e le sue vaste implicazioni sociali, possono essere illustrati con l'esempio di un disturbo di recente identificato nei bambini delle scuole elementari statunitensi, noto come 'Disturbo da Deficit di Attenzione con Iperattività' (DDAI). Esso è caratterizzato dall'incapacità da parte dei bambini (in genere di età compresa tra i 5-6 e i 18 anni, anche se in alcune forme è stato individuato anche in adulti) di concentrarsi, specialmente sulle attività scolastiche, di star fermi e di non diventare elementi di disturbo (i soggetti in questione sono 'iperattivi'). Non solo il DDAI è stato inserito nell'elenco delle patologie mediche, ma secondo alcuni ricercatori (tra cui David Comings del City of Hope Medical Center in California), esso avrebbe basi genetiche. La psicoterapia standard spesso si è dimostrata inefficace, per cui genitori e responsabili scolastici si sono orientati in misura crescente verso un approccio farmacologico. Pur in assenza di un solido fondamento genetico, questo approccio ha conseguito un certo successo con la somministrazione di metilfenidato (paradossalmente, uno stimolante). Migliaia di bambini negli Stati Uniti sono stati sottoposti al trattamento con questo farmaco in età assai precoce e in molti casi hanno continuato a usare il farmaco anche in età adulta.
Sebbene i risultati della terapia farmacologica siano stati spesso positivi in termini di rendimento scolastico e miglioramento delle capacità di attenzione, da molte parti è stato sollevato il problema se sia eticamente corretto sottoporre i bambini cui è stato diagnosticato il disturbo a una terapia farmacologica anziché considerare l'ipotesi che fattori sociali - scuole sovraffollate o poco stimolanti, una dieta eccessivamente ricca di carboidrati e di grassi associata a uno stile di vita sedentario (favorito soprattutto dalla diffusione del computer e dei videogiochi per bambini), o problemi familiari - possano esserne alla lunga le cause effettive. Inoltre, è stato osservato che l'approccio genetico-farmacologico attribuisce la responsabilità a presunte carenze biologiche, e quindi legittima la persistenza delle cause ambientali che potrebbero causare il DDAI. Secondo queste critiche, la terapia farmacologica sarebbe una 'soluzione tampone', e lascerebbe inalterate le cause fondamentali del problema.
Inoltre, i critici dell'approccio farmacologico sostengono che sostanze come il metilfenidato sono troppo recenti perché se ne conoscano appieno gli effetti a lungo termine, soprattutto quando vengano somministrate per periodi di tempo molto prolungati o per tutta la vita. In questo caso esseri umani, nella fattispecie bambini, verrebbero usati come cavie per effettuare esperimenti di controllo sociale su larga scala. Il metilfenidato è stato addirittura paragonato al "soma" del romanzo di Aldous Huxley Il mondo nuovo, un farmaco liberamente disponibile ai personaggi del libro che vi ricorrono per alleviare lo stress o per attenuare la percezione di vivere in una società totalitaria.
La genetica del comportamento umano solleva il difficile problema etico di stabilire il confine tra l'uso della scienza per aiutare l'uomo a migliorare la propria qualità di vita e l'uso della scienza per fini di controllo sociale. Anche se tutte le teorie della genetica del comportamento umano risultassero vere, restano problematiche le implicazioni di tali scoperte per la politica sociale. Si potrebbe sostenere che la società dovrebbe garantire più sostegno e maggiori risorse agli individui affetti da autentiche anomalie genetiche. Ma come sottolineano i critici della genetica del comportamento umano, nelle società attuali in cui la copertura previdenziale esclude le patologie di origine genetica, o richiede test prenatali, le teorie dei genetisti del comportamento umano offrono un comodo pretesto per negare a un gran numero di cittadini l'accesso a costose cure mediche. Il problema è tanto più acuto nei casi in cui le stesse evidenze scientifiche sono altamente controverse.
Come accade in pressoché tutte le aree della ricerca scientifica, la natura delle tesi formulate e delle conclusioni che se ne traggono hanno significative ripercussioni sulla sfera etica. Nel caso della genetica del comportamento umano, tali ripercussioni possono essere di portata assai vasta quando riguardano gli atteggiamenti nei confronti dell'assistenza in caso di malattie (incluse quelle mentali), la politica scolastica e quella pubblica (eventuale adozione di misure quali la sterilizzazione o la segregazione forzata di individui ritenuti geneticamente difettosi), e infine il problema della sperimentazione su soggetti umani. Su quest'ultimo problema, peraltro, le posizioni sono abbastanza unanimi. Memore in particolare dell'esperienza nazista, con l'uso sistematico di soggetti umani, tra cui gemelli identici, per studi genetici, la comunità scientifica occidentale ha imposto vincoli espliciti e rigorosi all'impiego di soggetti umani nella ricerca scientifica. Peraltro, sul fatto che alla genetica del comportamento umano siano precluse le tecniche di laboratorio utilizzate per la genetica del comportamento animale, come gli incroci pianificati e la possibilità di far crescere gli individui in condizioni ambientali strettamente controllate, sembra non esservi alcun disaccordo, né all'interno della comunità scientifica, né nell'opinione pubblica.
Più complessi sono i problemi etici posti dalle forzature interpretative dei risultati della ricerca e dagli effetti che tali conclusioni - specialmente quando sono divulgate dalla stampa - hanno sull'opinione pubblica e sulle scelte politiche. Ancor oggi, l'affermazione che un particolare carattere è determinato geneticamente, in tutto o in buona parte, viene intesa nel senso di una immodificabilità del carattere in questione che lascia aperto un limitato numero di opzioni per il trattamento degli individui che ne sono portatori. È a questo proposito che i critici moderni della genetica del comportamento umano evocano lo spettro di una 'nuova eugenica', in cui le teorie genetiche sono usate principalmente a fini di controllo sociale e non già a beneficio degli individui. Se la terapia genica (la sostituzione di geni difettosi con geni funzionanti) diventerà una realtà medica in futuro, emergeranno ulteriori problemi etici con valenze eugeniche. Attualmente, i timori che si affermi una nuova eugenica riguardano ancora principalmente l'adozione di politiche sociali (e mediche) che in un modo o nell'altro limitino i diritti riproduttivi di individui ritenuti portatori di geni difettosi.
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