GARIN, Eugenio Antonio
Nacque a Rieti il 9 maggio 1909, figlio di Francesco e di Teresa Barbagli.
Il nonno, intendente di Finanza, si era trasferito dalla Savoia in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre era originaria di San Giustino nel Valdarno; il padre – allievo di Girolamo Vitelli, in rapporti amichevoli con Giorgio Pasquali, che scrisse il suo necrologio su Atene e Roma – era un giovane e valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo greco, per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi improvvisa – morì il 26 luglio 1920, a poco meno di quarant’anni – ne stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente, pesanti responsabilità.
Garin ebbe, anche per questo, un'infanzia e un'adolescenza assai difficili e tormentate, che ebbero un peso nel rafforzare i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere, dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di vivere e di lavorare.
Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati – comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio assiduo e «disperatissimo», la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia, la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse a soli 16 anni, nel 1925, alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze e si laureò col massimo dei voti in filosofia il 25 giugno 1929 con una tesi su Joseph Butler, preparata sotto la guida di Ludovico Limentani. A Firenze aveva compiuto anche gli studi elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale aveva insegnato il padre e dove incontrò Maria Soro, nata a Sassari il 20 agosto 1908, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile, il 17 luglio 1930.
Garin era nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella città del padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia; ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì rapporti con personalità come Pasquali, e conobbe compagni di studi ai quali restò legato tutta la vita, italiani e non italiani: Jacob Teicher, Nicolai Rubinstein, Cesare Luporini, il quale, nel 1979, rievocando gli anni della sua formazione (Qualcosa di me stesso, in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M. Moneti, numero speciale de Il ponte, LXV [2009], 11), ricordò come il giovane Garin eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei per maturità e sapere.
In quegli stessi anni, Garin conobbe due maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità intellettuale e scientifica: Francesco De Sarlo e, soprattutto, Limentani, che lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese pubblicati nei primi anni Trenta, confluiti poi nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano 1942).
Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate negli anni 1929-30 e 1930-31, Garin, ottenuta nel 1930 l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo tredicesimo nella graduatoria generale, fece nel 1931 il concorso per l'insegnamento di filosofia e storia nei licei per «sedi determinate», e lo vinse, dopo essere stato esaminato da una commissione presieduta da Augusto Guzzo. Prese servizio il 16 settembre dello stesso anno come professore straordinario di filosofia e storia presso il Liceo scientifico Stanislao Cannizzaro di Palermo, dove rimase fino al 15 settembre 1934, quando – dopo molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia scientifici – fu trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario, filosofia e storia al Liceo scientifico Leonardo da Vinci.
Gli anni palermitani furono assai importanti e fecondi per Garin: per gli incontri umani e intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante volume Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, pubblicato a Firenze nel 1937, ma già pronto fin dal 1935. Fu a Palermo che scrisse in gran parte il suo primo libro di argomento umanistico, servendosi delle «eccellenti biblioteche pubbliche» della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo Reale, col «suo singolare fondatore e direttore, il dottor Amato Pojero, l'amico di Giovanni Gentile e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro 'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto» (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor, LIV [1999], 6, p. 732).
A spostare Garin dagli studi iniziali sull'Illuminismo inglese verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità di fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in quegli stessi anni stava studiando il Bruno 'inglese' sulla scia della importante monografia su La morale di Giordano Bruno, pubblicata nel 1924.
Ma alla base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, Garin, in un testo degli anni Settanta (lettera a Saveria Chemotti del 16 febbraio 1978, la cui minuta è conservata presso il Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa), a segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia del mondo.
È in questo contesto che si inseriscono sia il libro su Pico sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica (in La Rinascita I [1938], 4, pp. 100-146) in cui questo intreccio di motivi si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle risalenti a Gentile.
Come testimoniano anche i molteplici richiami alla interpretazione di Konrad Burdach – messa in circolazione in Italia, nel 1935, anche da Delio Cantimori –, a quella data Garin era su un'onda assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò molto i suoi lavori su Giovanni Pico, invitandolo a collaborare al Giornale critico della filosofia italiana, sul quale aveva cominciato a pubblicare fin dal 1932 con un saggio su L’etica di Giuseppe Butler (XXXIII, pp. 281-303).
Non si trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio, nella importanza che già in questi anni Garin cominciava ad assegnare alla tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni (il saggio su Una fonte ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a essere ripreso e profondamente modificato nel 1958, uscì originariamente in La Rinascita, III [1940], pp. 202-232). Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai principali riferimenti filosofici di Garin in questi anni: René Le Senne, Gabriel Marcel, Etienne Gilson, Louis Lavelle, forse il più importante di tutti, quello al quale si sentì a lungo più vicino.
Sono tutti autori di area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben presente negli scritti storici di Garin sul Rinascimento di questo periodo, pur mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo bibliografico del libro su Giovanni Pico). Mancano, invece – con l'importante eccezione di Ernst Cassirer, presente già nel libro del 1937 – riferimenti altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare da Martin Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di altri importanti esponenti della generazione di Garin, come Luporini, suo amico fin dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici che per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico.
È una mancanza che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese fu una componente centrale della formazione di Garin, e che essa – insieme al pensiero inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta insieme alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gli Enciclopedisti.
Il primato della cultura di matrice francese era, del resto, un tratto diffuso della generazione di Garin e, in modo particolare, dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui in quegli anni era bibliotecario e direttore Eugenio Montale –, e la Biblioteca Filosofica di Arrigo Levasti e Piero Marrucchi, una personalità notevole, alla quale Garin rimase sempre legato e che ricordò in pagine molto intense, rievocando quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui viveva il ricordo di una figura come Carlo Michelstaedter, alla quale anche Garin dedicò, a più riprese, molta attenzione.
Tornato a Firenze alla fine del 1934, nell'anno accademico 1935-36 ebbe un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia. Nel 1937 ottenne, poi, la libera docenza in storia della filosofia.
Nel 1938, quando per effetto delle leggi razziali Limentani dovette lasciare la cattedra di filosofia morale, la facoltà decise di non chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a Garin, come il miglior discepolo di Limentani.
Nei modi possibili in quei tempi difficili, Garin espresse pubblicamente la sua fedeltà al maestro con cui si era formato, tenendo, il 30 gennaio 1940, una conferenza presso la Biblioteca Filosofica di Firenze in cui attaccò a fondo ogni forma di storicismo – identificato con il relativismo – rivendicando, da un lato, il valore della lotta, e dell'‘ostacolo’, sulla scia di Le Senne; ribadendo, dall'altro, e con massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e persecutore, che nessuna Provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo, risarcire. Dopo la morte di Limentani, ne redasse poi un commosso necrologio, pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Ludovico Limentani (1884-1940), Firenze 1941).
Aveva, intanto, cominciato a partecipare a concorsi per ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a vincere nel 1949, quando risultò primo ternato in quello per professore straordinario alla cattedra di storia della filosofia dell'Università di Cagliari (la commissione era formata da Antonio Aliotta, presidente, Eustachio Paolo Lamanna, segretario, e da Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Ugo Spirito). Precedentemente, nel 1938, nel 1942 e nel 1949, aveva partecipato, venendo dichiarato «maturo», a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente, dall'Università di Messina e dall'Università di Napoli (quest’ultimo si svolse in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei risultati della prima).
Difficili sul piano accademico e anche personale, quegli anni furono però fertilissimi dal punto di vista scientifico: oltre a una serie di saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Giovanni Papini (con il quale ebbe, allora, un rapporto intenso), Garin pubblicò due importanti antologie: la prima, Il Rinascimento italiano (Milano 1941), commissionatagli da Gioacchino Volpe e stampata nella collana dell'ISPI; la seconda, Filosofi italiani del Quattrocento (Firenze 1942), uscita come pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di Garin in quel momento: una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani del Quattrocento, a cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di Coluccio Salutati.
Sono anni, e temi, nei quali la nota religiosa risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo. Nel 1947 pubblicò per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia di testi tolstoiani – Ultime parole –, nei quali è affermato con nettezza il primato della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo economico e sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso Garin a ricordare nel 1954 che anni prima, nel pieno della guerra, aveva attraversato una vera e propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul terreno scientifico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del linguaggio, nel forte ruolo assegnato in quegli anni a fra Girolamo Savonarola, un autore che gli fu sempre carissimo, ma che nel 1943 arrivò ad affiancare al Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze.
In questi anni spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione dei testi fondamentali di Giovanni Pico della Mirandola: De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno (Firenze 1942); Disputationes adversus astrologiam divinatricem (ibid. 1946-52) un'impresa imponente, che contribuì a mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente del Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che Garin avrebbe proposto nel libro del 1947, Der italienische Humanismus, pubblicato nella collana diretta da Ernesto Grassi per l'editore Francke di Berna (ristampato poi nel testo originale presso Laterza nel 1952).
Furono lavori resi possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante di quanto in genere si pensi, della cultura italiana di quegli anni: Enrico Castelli, il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di Pico nell'ambito dell’Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal Regio Istituto di studi filosofici da lui presieduto e del quale Garin fu anche segretario della sezione toscana –, si impegnò con molta tenacia e costanza, a tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo scientifico Leonardo da Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo lavoro.
Garin sottolineò più volte che non c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e la fine dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita sul piano sia intellettuale sia politico.
Dopo un periodo connotato dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro dagli articoli che nel 1946 pubblicò sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei principali intellettuali di riferimento.
Alla base di questo netto spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura politica.
Sul primo punto, fu decisivo, nel 1947, l'incontro con le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la rivista di cui, dal 1946, era diventato redattore – cioè, in effetti, direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza nel 1955 (ma preparate dagli articoli usciti alla fine degli anni Quaranta su Leonardo e sul Giornale critico della filosofia italiana fondato da Gentile e diretto allora da Ugo Spirito).
Dal punto di vista strettamente politico, per quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai venuto meno, interesse religioso di Garin: era infatti profondamente laico, non laicista. Riteneva necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, anzi pensava che dalla confusione dell'uno e dell'altro potesse derivare una degenerazione di entrambi. Dopo il 18 aprile 1948, il partito della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo giudizio, a corrompere il carattere morale degli italiani. Perciò considerò negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con il Partito comunista nella valutazione dell'articolo 7, Garin vide in esso la forza più intransigentemente schierata a favore di una concezione laica dello Stato e, in genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per una autentica esperienza religiosa.
I due piani – quello culturale e quello politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due volumi pubblicati da Vallardi nel 1947 (si tratta dell'opera: La filosofia, da non confondere con la Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi nel 1945: uno de suoi libri più belli, più vivaci, più liberi).
Le Cronache di filosofia italiana del 1955 erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta di autobiografia di una intera generazione, quella nata al tornante del primo decennio del secolo – la stessa di Norberto Bobbio, nato anch'egli, come Garin, nel 1909, e autore, nello stesso 1955, di Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista diversi e con strumenti differenti. In Garin, assai più che in Bobbio, era infatti presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia come sapere storico (Bari 1959) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato come relazione al primo Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini e cose, come Palmiro Togliatti rilevò, nel 1955, nella sua recensione a Cronache di filosofia italiana (Rinascita, 1955, n. 6).
Non solo: la lezione di Gramsci, in forme assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che Garin dedicò al Rinascimento negli anni Cinquanta e fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e Garin fossero, proprio nel merito, profondamente differenti.
Quando si parla di Eugenio Garin si pensa, in genere, alla sua interpretazione del Rinascimento come 'Umanesimo civile'. È giusto, ma riduttivo per due ordini di motivi: in primo luogo, essa svolge funzioni e ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici; in secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta Garin riformulò in modo profondo la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali dal 14. al 18. secolo, Roma-Bari 1975: uno dei suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni nel 1961, nel quale spicca in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Coluccio Salutati a Bartolomeo Scala, pubblicato originariamente in Rivista storica italiana, LXXI [1959], pp. 185-209).
All'interpretazione del Rinascimento come Umanesimo civile Garin lavorava, in effetti, fin dagli anni Trenta, in convergenza con le ricerche di Hans Baron, del quale nel 1938 fece pubblicare su La Rinascita un importante saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto ai motivi ermetici che Garin tendeva maggiormente a valorizzare, anche in relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva. Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro mutò in modo deciso, e l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del Quattrocento (Milano-Napoli 1952). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò nei primi anni Cinquanta due saggi fondamentali; ma essi ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –, dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e 'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni.
Ne scaturì, in quegli anni, una nuova immagine del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come la retorica, l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non comprese in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo.
Su questo sfondo, Garin si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta anche il problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna, sforzandosi di «mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue origini alla vita delle città italiane fra Trecento e Quattrocento debba considerarsi una delle premesse del rinnovamento scientifico moderno» (come scriveva nella Premessa al volume Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, p. V, pubblicato con Laterza nel 1965: una linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi, anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico, coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico).
In questa accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di Gramsci, che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che Garin dedicò, negli stessi anni, alla filosofia contemporanea, specie a quella italiana. Sono importanti, da questo punto di vista, sia La cultura italiana tra '800 e '900 (Bari 1962); sia, e soprattutto, quello sugli Intellettuali italiani del XX secolo (Roma 1974), che costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza, di Garin nella cultura, e anche nella politica, italiane.
Se si considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono proprio quelli gli anni in cui Garin riuscì a stabilire, nel complesso, un rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università, in Italia e all’estero.
Nel 1952 era diventato professore ordinario di storia della filosofia medievale presso l'Università di Firenze (insegnamento che aveva tenuto per incarico dal 1941 al 1945 e dal 1947-48 al 1948-49); nel 1955 era poi subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della filosofia presso la stessa Università.
Riconoscimenti, e onori, altrettanto importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', dal 1948 ne era anche segretario generale; il 23 luglio 1965 fu eletto socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, diventandone socio nazionale il 23 novembre 1979; il 10 luglio 1975 ricevette dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gli ultimi italiani che l'avevano ottenuta – scrisse, con orgoglio, il 5 luglio 1975 al direttore della Scuola Normale comunicandogli la notizia – erano stati Roberto Longhi e Ranuccio Bianchi Bandinelli).
Al fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, Garin era, a suo modo, un animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Negli anni Cinquanta e per larga parte degli anni Sessanta riuscì a esserlo come non gli era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma il 3 giugno 1960, pubblicandola poi in volume (La cultura e la scuola nella società italiana, Torino 1960).
Negli anni successivi la situazione mutò profondamente; quell'equilibrio, sempre fragile e precario, si incrinò e Garin si distaccò, progressivamente, fino a contrapporsi, dai movimenti culturali e politici che, a cominciare dal 1968, avevano cominciato a scuotere il paese fin dalle fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera e propria rottura, si produsse alla fine del 1971, quando – si legge in una lettera del 16 novembre al preside della facoltà di lettere, Ernesto Sestan (minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore) – fu costretto a interrompere la lezione per il «contegno oltraggioso e provocatorio di uno studente del 2° anno».
Fu una scelta assai meditata, anche se amara, quella di lasciare l’Università di Firenze, che era stata fin dagli anni giovanili la sua Alma Mater, trasferendosi, nell'anno accademico 1974-75, alla Scuola Normale Superiore di Pisa come professore – e anche questa scelta è significativa – di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrisse il 22 giugno del 1974 al direttore della scuola, Gilberto Bernardini, sarebbe stata quella «la conclusione migliore – certo la più onorevole – di un lungo insegnamento» (minuta, ibid.).
Questo non significa che da quel momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella italiana. Anzi: nel 1983 pubblicò, con l'editore barese De Donato, un libro importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unità, riprendendo in forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia del Novecento, nelle sue varie diramazioni. Ma il libro non ebbe un successo paragonabile a quello tributato nel 1974 al volume sugli Intellettuali italiani del XX secolo. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di una crisi che investiva lo Stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente, un intero mondo stava cominciando a finire.
Tanto più colpisce, in questa situazione, il lungo saggio che nel 1991, in controtendenza, Garin dedicò a Giovanni Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche. Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984 era andato definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore emerito della Scuola Normale; nel 1988 aveva lasciato anche la presidenza dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento assunta nel 1978. Era dunque diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento 'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confrontò con Gentile nella lunghissima Introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua scelta.
Non era un'impresa facile: i rapporti di Garin con Gentile e con Croce furono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a Gentile: basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia del 1945, e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come dimostrano le Cronache, il suo giudizio sul neoidealismo italiano si approfondì col tempo e divenne assai più ricco e articolato; ma la distanza di Garin dalla 'filosofia dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale, allora e poi, della sua posizione.
Alle origini, le ragioni di quella scelta stavano precisamente qui: sul piano filosofico Gentile apparteneva a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui il giovane Garin aveva riconosciuto il carattere principale del pensiero del nuovo secolo e anche le proprie radici, sia filosofiche sia religiose. Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Erano i motivi che erano presenti anche nel giovane Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare Gramsci, sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume del 1991, sottolineò anche in Gentile, vedendo anzi nella sua lettura di Marx la via attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della praxis, dell'azione, della volontà.
È per queste stesse ragioni – strutturali, non contingenti – che Garin fu, invece, in sostanza, lontano da Croce, pur apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo sentiva distante per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile, tragicità della vita; rifiutava la dissoluzione dell'individuo empirico, che invece per lui era fondamentale.
Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi – in cui si esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale – non vennero mai completamente meno. Nel 1966, in occasione del centenario della nascita di Croce, scrisse un bel saggio sui suoi rapporti con Renato Serra (Serra e Croce, in Belfagor, XXI, 1, pp. 1-13) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ebbe esitazione a schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo.
Con il '68 iniziò una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari modi, nel mondo storiografico, compreso quello di Garin, che operò mutamenti profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della sua interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel Ritratto di Leonardo Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo, XL [1970-72], pp. 1-17), mentre assunsero rilievo essenziale altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita. La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari 1976), che raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège de France fra l'aprile e il maggio 1975. Fin dall'inizio della sua attività Garin aveva dato rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole, poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla base di questo c'era, come sempre in Garin, un convincimento di ordine teorico.
A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse stata presente, e dominante, quella che egli chiamava la 'linea Pico-Sartre', secondo cui l'uomo «non ha una natura (una "specie", una "forma"), ma […] è un atto che si sceglie» (per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Leonardo Amoroso del 17 luglio 1991 [minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa]). Era un convincimento coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini, pensatori come Pomponazzi e, soprattutto, Leon Battista Alberti, sostenitori, l'uno e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della vita, ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo lavorava Garin, e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica precisa, ma destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti. Alberti era stato infatti sempre al centro della sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si configurò come uno dei principali esponenti di una concezione che vede nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da Pomponazzi.
Sono precisamente questi temi, e queste espressioni (citate puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che aveva fatto di alcune Intercenali inedite di Leon Battista Alberti, pubblicate su Rinascimento nel 1964), che attrassero Garin quando si convinse che la linea Pico-Sartre si era infranta ed era stata sconfitta. Né è facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse inciso la crisi che fin dalla fine degli anni Sessanta stava travagliando il mondo storico, dandogli progressivamente il senso – e poi la persuasione – che una intera epoca della cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il Rinascimento e l’Illuminismo.
In un intreccio profondo di autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo Garin sono solcate da toni assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un secolo.
Quando morì, a Firenze il 29 dicembre 2004, non aveva smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte della sua esistenza.
E. G. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana, 4 maggio 2002, a cura di F. Audisio - A. Savorelli, Firenze 2003 (si vedano in particolare i saggi di C. Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia (1929-1947), pp. 15-34 e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. su Giovanni Pico della Mirandola, pp. 65-92); G. e il Novecento, numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana, LXXXVIII [XC], (2009), 2; M. Ciliberto, E. G. Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari 2011; E. G. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, 6-8 marzo 2009, a cura di O. Catanorchi - V. Lepri, con Premessa di M. Ciliberto, Roma-Firenze 2011; Il Novecento di E. G., Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 25-27 febbraio 2010, a cura di S. Ricci - G. Vacca, Roma 2011.