PALMIERI, Eugenio Ferdinando
PALMIERI, Eugenio Ferdinando. – Nacque il 14 luglio 1903 a Vicenza, da Federico, colonnello emiliano, e da Olimpia Bagliani, entrambi di discendenze asburgiche. Primogenito, ebbe una sorella: Edvige.
Per quanto il padre desiderasse per il figlio la carriera militare e la madre, ‘donna di casa e di chiesa’, lo volesse arcivescovo, Palmieri fu ‘scrittore veneto’, come dichiarò nel testamento di voler essere ricordato, racchiudendo in questa identità le anime di poeta, drammaturgo, critico teatrale e cinematografico.
Subito dopo la nascita, la famiglia si trasferì a Rovigo, ove precocemente si manifestarono inclinazioni e ambizioni letterarie, nonché la passione per la poesia e il teatro in dialetto: undicenne, sapeva leggere non solo il veneziano ma anche il bolognese e il milanese, stimolato dal padre curioso di ogni lingua nazionale, di ogni parlata e letteratura dialettale. L’amore per il teatro e le maschere si espresse in Palmieri bambino nel gioco dei burattini che faceva nel cortile di casa per un pubblico di coetanei, con scene di carta da lui pitturate e costumi tagliati dalla sorella.
Lo spirito indipendente si manifestò già a quindici anni, quando, insofferente, abbandonò la scuola superiore e decise di autodisciplinare la sua formazione leggendo e imparando solo ciò che gli piaceva. Altrettanto precoce fu la vocazione drammaturgica, che si espresse a diciotto anni nel comporre con l’amico Luigi Romano Molinari una commedia in dialetto veneto: Nuvole, rimasta inedita.
Nel 1922, non ancora ventenne, cominciò a lavorare come critico drammatico per Il Corriere del Polesine diretto da Pino Bellinetti; il suo primo elzeviro lo dedicò a Goldoni di cui divenne poi sottile interprete rinnovandone la critica (Teatro di Carlo Goldoni, Torino 1961).
Con Bellinetti, tra il 1923 e il 1927, Palmieri animò le serate attorno al Caffè Lodi di Rovigo, coinvolgendo un gran numero d’intellettuali e artisti tra cui: Diego Valeri, Edmondo Rho, Guido Consigli, Enzo Duse, Aldo Luzzati, Gastone Martini, Gigi Fossati, Gino Pinelli, Virgilio Milani, Livio Rizzi. Una sorta di scapigliatura polesana che trovò espressione nella rivista L’Abbazia degli illusi, fondata dallo stesso Palmieri e Giuseppe Marchiori nel 1927 ma durata un solo anno.
A Rovigo scoprì il teatro veneto attraverso le maschere e la commedia dell’Arte della compagnia di Emilio Picello; assiduo frequentatore del teatro sociale conobbe, accanto alle compagnie dialettali venete, anche il teatro classico e non, italiano e straniero nelle interpretazioni delle compagnie di Serafino Renzi e Achille Majeroni.
Nel 1923 l’incontro con Albertina Bianchini, giovane attrice e capocomico, lo stimolò a comporre la prima opera teatrale: Strampalata in rosablu ovvero Arlecchino e Allegria oggi sposi (poi messa in scena dalla compagnia Bianchini nel 1924 al teatro Palladio di Vicenza). Circa l’attività di commediografo, che interessò la prima parte della vita, sono individuabili due fasi (Mangini, 1983): dal 1923 al 1932 e dal 1933 al 1939; fatta salva nel 1952 la scrittura di Nudo alla meta di cui però si dichiarò unico autore l’amico Enzo Duse (Cuppone, 2003, pp. 46-48).
Nella prima si palesa una scelta di campo coraggiosa nel considerare il teatro in dialetto teatro d’avanguardia per rompere le convenzioni della tradizione arroccata su personaggi ottocenteschi o futili vaudevilles della nuova borghesia. Il rinnovamento del teatro veneto si realizza da subito dal punto di vista sia della forma sia dei contenuti con l’uso di un dialetto reinventato, sintesi di veneziano e veneto della Terraferma, arricchito da influenze letterarie che spaziano dal simbolismo francese alla tradizione goldoniana, abilmente trapiantate nella campagna veneta del primo Novecento, raccontata nell’inedita cruda realtà paesana con sguardo capace di giudizio etico. Si ricordino: Ladama inamorada e Tic Tac! (1926), messe in scena dalla compagnia Bianchini; Fiori barufe e basi (1928), composta con Taulero Zulberti, messa in scena dalla compagnia Ernesto Zanon e poi da Cesco Baseggio; La corte de le pignate (1929), prima commedia moderna in dialetto rovigotto, messa in scena nel 1932 dalla Filodrammatica stabile polesana che, nello stesso anno, portò in scena anche l’Osteria del Moro Bianco. Questa fase non riscosse molto successo né da parte del pubblico, né di una critica che percepì un contrasto irrisolto tra il contesto ambientale molto caratterizzato e lo slancio lirico letterario. Palmieri stesso commentò Strampalata in rosablu «l’unico insuccesso o clamoroso insuccesso del Teatro Veneto nell’entre-deux-guerres» (Commedie in veneto, Padova 1969, p. 117).
Nel 1928 Palmieri si trasferì a Bologna per lavorare al Resto del Carlino da semplice redattore; due anni dopo divenne, su suggerimento di Gherardo Gherardi, direttore della critica teatrale e seguì da subito Il Maggio fiorentino e la Biennale Teatro di Venezia. In questo periodo conobbe Lea Maranesi, con cui si unì in matrimonio e che gli fu accanto tutta la vita svolgendo per lui mansioni di segretaria.
Nel 1930 pubblicò la prima raccolta di poesie Rovigo de note (Rovigo); tuttavia, la stagione poetica di Palmieri sulla metà del decennio poteva considerarsi già conclusa: importante fu il riconoscimento del valore espresso da Pasolini (in Passione e ideologia, Milano 1960, pp. 104-106) anche come garante culturale di tutta la produzione dialettale veneta, a sua volta ritenuto da Palmieri una fra le voci più importanti della letteratura, in controtendenza con l’atteggiamento generale degli intellettuali del tempo.
Palmieri, considerandosi debitore di Gino Piva, diede alla poesia dialettale un sentimento e un’atmosfera personali, immettendo in essa un «realismo insolitamente crudele» (E.F. Palmieri, Tutte le poesie, a cura di A.M. Battizocco - G.A. Cibotto, Venezia 1989) e ruppe con il gusto dominante dei primi anni Trenta.
Se del 1931 è Arlecchino finto principe – insignito del premio Viareggio, cui seguirono Remengo (1932) e Lazzarone (1934) –, dal 1933 prese avvio la seconda e più fortunata fase drammaturgica con l’opera in dialetto di fondo polesano la Fumara che, in scena al teatro Nuovo di Verona con la compagnia Giachetti-Micheluzzi, rappresentò il primo importante successo. Nel 1935 pubblicò Le pecore: prima e ultima opera in lingua, perché Palmieri, sentendosi non apprezzato, decise di tornare definitivamente al dialetto. Nel 1936 compose la commedia più amata e messa in scena: Quando al paese mezzogiorno sona. Con l’ultima commedia del 1939, Scandalo sotto la luna, concluse, appena trentaseienne, questa seconda fase rivelativa d’una raggiunta maturità artistica e maggiore consapevolezza espressiva: frutto di una drammaturgia e di una scrittura che, dietro lo slancio lirico, facevano trapelare un tono disincantato, sarcastico e severo nel giudizio etico del difficile periodo storico in cui versava l’Italia.
Esaurita l’attività di commediografo Palmieri diede più spazio a quella, ben presto prioritaria, di critico teatrale (e, dal 1937, cinematografico) sempre per Il Resto del Carlino.
All’attività di critico si deve tutto ciò che si sa sul teatro veneto in Italia e in genere sul teatro in dialetto scritto e recitato in Italia (R. De Monticelli, L’attore, Milano 1988, pp. 57-61): ebbe il merito di riproporre all’attenzione l’opera di Bertolazzi, colse l’importanza di Viviani autore, riconobbe il ‘teatro umoristico’ dei fratelli De Filippo nel contesto della scena partenopea. Si distinse, inoltre, per indipendenza e autonomia di giudizio, che spesso lo resero inviso ai centri di potere. Considerato un intellettuale anarchico e aristocratico, manifestava la sua natura anche nelle piccole abitudini, ad esempio nello scegliere a teatro sempre una poltrona in fondo alla platea, per lasciare vuoto nelle prime file il posto che gli spettava.
Indicativa fu la polemica con Silvio D’Amico sull’importanza del teatro dialettale esplosa nel 1936 e riportata ne Il teatro italiano (1937) del critico romano e nel Teatro italiano del nostro tempo (Bologna 1939) di Palmieri, riguardo la posizione di Ferdinando Martini in difesa del teatro regionale come teatro nazionale, negando uno e affermando l’altro. Palmieri ribatté duramente a D’Amico, ma la difesa del teatro dialettale pesò anche in chiave ideologica: iscritto al Partito nazionale fascista, Palmieri sostenne il teatro dialettale come ‘teatro del popolo’ per accondiscendere forse all’ideologia fascista. Tuttavia, se durante il regime pagò l’inimicizia con D’Amico, nel dopoguerra pagò i trascorsi fascisti, a conferma dell’integrità di fondo che lo rendeva un personaggio sempre scomodo.
Come critico cinematografico fu tra i primi a occuparsi della Biennale Cinema e pubblicò Vecchio cinema italiano (Venezia 1940; II ed., a cura di P. Micalizzi, Vicenza 1994), la prima storia del cinema muto italiano, diventata uno strumento fondamentale di consultazione e che Palmieri rivendicò lamentando più volte la consuetudine di saccheggiare l’opera senza citarla. Illustrativo dell’attività è anche il volume La frusta cinematografica (Bologna 1941) che raccoglieva le recensioni per il settimanale Film (firmate con gli pseudonimi di Lunardo per le critiche di costume e Tabarrino per le stroncature).
Nel 1944 Palmieri si trasferì a Milano dove lavorò come critico cinematografico per L’Illustrazione Italiana, Milano Sera, Il Tempo, Epoca e La Notte, ultima testata per cui scrisse. Dal 1950 cominciarono i rapporti con il neonato Piccolo Teatro. Alla morte di Renato Simoni (1952), che per cinquant’anni era stato il critico teatrale del Corriere della sera, fu candidato a sostituirlo ma gli fu preferito Eligio Possenti, per l’opposizione di Paolo Grassi, con cui Palmieri intrattenne una lunga corrispondenza in cui si può leggere l’evoluzione del rapporto.
Di questi anni sono da ricordare anche le collaborazioni con l’Enciclopedia dello spettacolo, come consulente per il teatro dialettale italiano, e Sipario. Fu inoltre importante fautore dell’introduzione del teatro, in particolare dialettale, in televisione. Ormai critico affermato, Palmieri, che, oltre a un carattere severo e al rigore, era persona di grande generosità, strinse alcune amicizie importanti con personalità in vista, tra cui Giulio Andreotti, Giovanni Spadolini, Ornella Vanoni, Francesco Malipiero, Sergio Pugliese.
Nel 1962 tornò a vivere a Bologna dove, ridotta la critica militante e concentrato nel lavoro di ricerca, cominciò a stilare una bibliografia ragionata del teatro dialettale, che tuttavia non riuscì a condurre a termine.
Morì a Bologna il 26 novembre 1968.
Opere: Fra le opere non citate nel testo: Bene gli altri (Bologna 1932); Il teatro veneto (Milano 1947); Del teatro in dialetto: saggi e cronache, a cura di G.A. Cibotto (Venezia 1976).
Fonti e Bibl.: Il lascito di Palmieri (comprensivo di articoli, recensioni, locandine, caricature, foto, giornali, riviste, volumi, libretti, copioni, manoscritti, dattiloscritti, lettere, cartoline), dopo essere transitato dall’Archivio di Stato di Bolzano, è custodito a Merano dal nipote Nando Maria Bottacini che ne cura l’archiviazione e la pubblicazione sul sito http://www.ef-palmieri.it/. La consistente biblioteca e lo studio sono stati donati all’Università di Padova. Su P. si vedano in particolare: G. Marchiori, E.F. P.L’uomo, il poeta, il commediografo, il saggista, Padova 1969; N. Mangini, Schede per una storia della drammaturgia veneta: E.F. P., in Otto-Novecento, 1983, n. 3-4; Strampalata in rosablu, a cura di R. Cuppone, Pesaro 2003; L’abate degli illusi: sulle strade di E.F. P., Rovigo 2006; Una giornata di studi su E.F. P., Atti del convegno, Venezia 2008.