Eugenio II
Nonostante la sua origine non sia specificata nel più antico manoscritto delle biografie papali del sec. IX, E. fu verosimilmente romano, come riferiscono posteriori esemplari del Liber pontificalis. Quando nell'824 fu elevato al trono pontificio era preposto al titolo presbiteriale di S. Sabina, da molto tempo arcipresbitero della Chiesa romana e, senza dubbio, già in età avanzata. Gravi disordini avevano segnato la fine del pontificato del suo predecessore, Pasquale. Personaggi conosciuti per i loro legami con i Franchi si erano visti confiscare i beni e alcuni erano stati messi a morte. Due di loro, alti dignitari del "patriarchium", erano stati assassinati in Laterano da membri della "familia Sancti Petri", la milizia delle colonie agricole della Chiesa romana. Prima ancora che i Franchi potessero condurre a termine un'inchiesta, Pasquale I negò con giuramento qualsiasi complicità in quei fatti, pur affermando che le vittime avevano meritato la loro sorte. Tale giuramento non placò gli spiriti, e l'ostilità di una parte del popolo romano nei riguardi del pontefice fu tale che alla sua morte, avvenuta probabilmente l'11 febbraio 824, la salma non poté essere tumulata in S. Pietro. La scelta del successore scatenò un conflitto tra i partigiani del papa defunto, appoggiati con ogni probabilità dal grosso della burocrazia ecclesiastica, e i loro avversari, sostenuti dalla nobiltà laica. Dapprima ci fu una doppia elezione; poi, la nobiltà laica riuscì a imporre come proprio candidato E., che era sostenuto anche dal monaco franco Wala, consigliere del giovane imperatore Lotario I e impegnato a favorire l'elezione di un pontefice disposto a collaborare alle necessarie riforme. E. fu consacrato prima del 6 giugno 824: il Liber pontificalis (p. 69) riferisce che uno dei primi atti del suo pontificato fu una nuova decorazione della basilica di S. Sabina sull'Aventino, della quale era in precedenza stato preposto ("ecclesiam beatae Savinae martyris […] post pontificalem sibi ad tributam gratiam, ad meliorem cultum perduxit et picturis undique decoravit"). Difficile stabilire in cosa consistette l'intervento, anche se il Ciampini gli attribuisce le pitture sui muri divisori delle navate: di solito è identificato come opera di E. il coro, dal momento che nel Cinquecento Pompeo Ugonio lesse inciso sul cancello bronzeo della "schola cantorum" il nome del papa. Al tempo di E. può anche risalire la decorazione dell'arco trionfale (G. Matthiae). Ad E. un'epigrafe del X-XI secolo attribuisce la traslazione, nella stessa chiesa di S. Sabina, delle reliquie di Alessandro, Evenzio e Teodulo, dal loro originale luogo di sepoltura nella catacomba di Pretestato sull'Appia (cfr. R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl). Tra i primi atti del suo pontificato si preoccupò di far seppellire in S. Pietro il predecessore e si affrettò a comunicare alla corte franca il suo insediamento. I Franchi desideravano che i loro partigiani - o almeno le loro famiglie - ottenessero riparazioni per i danni subiti, e volevano anche mettere fine agli abusi e ai disordini che troppo spesso caratterizzavano la vita politica romana, minata dalle lotte tra fazioni. Sapendo di poter contare sulla collaborazione di E., l'imperatore Ludovico il Pio inviò a Roma il figlio Lotario per prendere le misure necessarie: dopo aver proceduto ad un'inchiesta, il giovane sovrano attribuì la responsabilità dei disordini alla perversità e alla debolezza di alcuni papi (Leone III e Pasquale I), e alla cupidigia dei loro funzionari. Per questi motivi Lotario promulgò nel novembre 824 la sua celebre Constitutio Romana. La costituzione prevedeva la riparazione degli eccessi già avvenuti, proibiva per l'avvenire qualsiasi tipo di saccheggio (artt. 1 in fine, 2, 6, 7) ed emanava anche disposizioni di ordine più generale. Tutti coloro che si trovassero sotto la protezione dell'imperatore o del papa erano dichiarati inviolabili, ma non per questo esentati dall'obbedienza al pontefice e ai suoi funzionari (art. 1). Per quanto riguardava i "Romani" in generale, essi avrebbero dovuto scegliere la legge secondo la quale volevano da allora in poi essere giudicati: così veniva estesa a Roma la concezione franca della personalità del diritto (art. 5). Altre misure miravano a migliorare, attraverso il controllo imperiale, l'amministrazione pontificia, e particolarmente quella della giustizia. Nell'Urbe dovevano essere istituiti due "missi" permanenti, uno del papa, l'altro dell'imperatore, con l'obbligo di fare ogni anno al sovrano franco un rapporto sul modo in cui ognuno dei "duces" e degli "iudices" rendeva giustizia e osservava la Constitutio. Inoltre era loro dovere di far conoscere al papa le lamentele avanzate contro i suoi funzionari. Il papa avrebbe in tal caso potuto rimediare immediatamente facendo intervenire i "missi" permanenti, o lasciare al "missus" imperiale il compito di informare l'imperatore, che avrebbe mandato un suo rappresentante a regolare la questione (art. 4). Tutti coloro che esercitavano in Roma il potere giudiziario dovevano presentarsi all'imperatore, di modo che egli conoscesse i loro nomi e il loro numero, ed anche perché potesse ricordare loro gli obblighi connessi alle loro cariche (art. 8). Un altro articolo (art. 3) riguardava l'elezione pontificia e prevedeva il controllo imperiale sulla sua regolarità. Sotto pena d'esilio, viene proibito a chiunque non abiti a Roma di ostacolare in qualsiasi modo i Romani, i soli a cui "antiquitus fuit consuetudo concessa per constitutionem sanctorum patrum eligendi pontificem". Contrariamente a una opinione largamente diffusa, questo articolo non abolisce affatto, velatamente, la decisione del concilio romano del 769 che limitava l'intervento della popolazione romana all'acclamazione del papa eletto dal clero. Il ruolo sempre più importante avuto dall'aristocrazia laica nell'elezione propriamente detta avvenne a dispetto del regolamento conciliare e creò una situazione di fatto che fu sanzionata nell'892 e poi, più esplicitamente, nell'898 (cfr. O. Bertolini, pp. 76 ss.). Infine, la costituzione impegna tutti a testimoniare al papa obbedienza e rispetto (art. 9). Si possiede il testo di un giuramento che Lotario, d'accordo con E., impose allora al clero e ai laici di Roma. Esso comprende tre clausole: i Romani saranno fedeli all'imperatore, fatta salva la fedeltà giurata al papa; si opporranno a che l'elezione pontificia avvenga difformemente dalle norme canoniche e giuridiche; non consentiranno alla consacrazione dell'eletto prima che questi abbia prestato, alla presenza di un "missus" imperiale e del popolo, il giuramento che E. aveva fatto "sponte" e "per scriptum, pro conservatione omnium". La terza clausola dimostra che E. si era impegnato con giuramento scritto "a rispettare, e a far rispettare dagli organi esecutivi del proprio governo temporale, i legittimi diritti di tutti coloro i quali ad esso erano sottoposti, per quanto concerneva l'integrità delle loro persone e dei loro beni. In ciò consisteva la conservatio omnium" (O. Bertolini, p. 73). Il papa manifestò così solennemente la sua adesione alla Constitutio Romana: tale adesione fu volontaria, come sottolineano pure gli Annales regni Francorum. Si ritiene in generale che la costituzione di Lotario e i giuramenti prestati nell'824 abbiano nettamente modificato il carattere dei rapporti tra la corte franca e il papato. Opponendosi a questa opinione corrente, alcuni storici (particolarmente W. Ullmann, The Origins, pp. 117 s.; Th.F.X. Noble, The Republic, pp. 308-22) considerano la Constitutio Romana niente più che un'estensione del Ludovicianum già promulgato nell'817 da Ludovico il Pio, un documento molto favorevole al papato anche se permetteva all'imperatore di intervenire, in alcune circostanze, negli affari romani. La costituzione di Lotario non avrebbe in sostanza modificato lo spirito del Ludovicianum e vi avrebbe semplicemente aggiunto le misure concrete giudicate indispensabili per garantire al pontefice un'efficace protezione. Tale tesi attribuisce però troppo poca importanza alla diffidenza manifestata da parte di Lotario nei riguardi dell'amministrazione pontificia e alla sua volontà di esercitare su di essa un efficiente controllo; inoltre, trascura anche la terza clausola del giuramento dei Romani, che non si può ritenere non autentica, come pensa l'Ullmann, né ridurre a una semplice conferma dell'alleanza coi Franchi, come fa il Noble. Certamente Lotario desiderava proteggere il papato, dato che la costituzione insiste sull'obbedienza dovuta dai Romani al sommo pontefice; ma, assai più che nel Ludovicianum tale protezione vi appare, sul piano temporale, come quella elargita da un'autorità superiore che vuole unire alla "defensio" il potere di "correctio" inerente alla funzione imperiale. Nondimeno sarebbe eccessivo parlare di una "mise en tutelle de la papauté" (L. Halphen, p. 211), poiché è necessario operare delle distinzioni tra la teoria e la realtà. Si ignora fino a qual punto la Constitutio Romana fosse applicata sotto il breve pontificato di E.; si sa solo che durante la sua permanenza a Roma Lotario fu attento a che non restasse lettera morta la riparazione degli eccessi che erano avvenuti. Sembra anche che abbia inviato in Francia e imprigionato degli "iudices" rei di abuso di potere, che poi sarebbero stati liberati per intercessione del pontefice (cfr. O. Bertolini, p. 71 n. 61, che pensa che non si possano ritenere vittime del pontificato di Pasquale I questi "Romani iudices qui Francia tenebantur captivi", di cui parla il Liber pontificalis). Tuttavia non resta alcuna traccia di una qualsiasi attività dei "missi" permanenti nei documenti successivi all'824, e gli interventi posteriori degli imperatori sul funzionamento della giustizia romana furono in effetti rari e inefficaci. Sul piano giudiziario è quindi possibile dubitare che dopo E., se non già sotto il suo pontificato, la costituzione di Lotario abbia avuto una portata pratica (P. Toubert, pp. 1196-200). D'altronde alcuni successori di E. nel sec. IX furono consacrati senza che i Romani avessero atteso la venuta del "missus" imperiale. In tale materia, tutto dipendeva dunque dalle circostanze e dai rapporti di forza. Mentre faceva concessioni sul piano politico, E. ebbe occasione di affermare l'indipendenza della sua Chiesa su quello religioso. Nel novembre dell'824 arrivò a Rouen, dove si trovava Ludovico il Pio, un'ambasciata dell'imperatore bizantino Michele II, con una lettera in cui egli si augurava, oltre a un rafforzamento della pace, l'appoggio dei re franchi in un negoziato col papa a proposito del culto delle immagini. La ripresa dell'iconoclastia a Bisanzio dopo l'815 aveva suscitato l'opposizione del papato, che difendeva le decisioni prese dal secondo concilio di Nicea (787) in favore dell'iconodulia. Pur denunciando gli eccessi degli iconoduli, l'imperatore d'Oriente si dichiarava a favore di una posizione intermedia tra l'iconodulia e l'iconoclastia intransigente; nel contempo chiedeva a Ludovico il Pio e a Lotario di facilitare la missione dei suoi inviati a Roma e di ordinare che fossero scacciati dalla città gli iconoduli greci che vi si erano rifugiati e conducevano una campagna contro la politica religiosa imperiale. I Franchi ritenevano opportuno tenere il giusto mezzo tra i due eccessi, e pertanto la lettera di Michele II fu ben accolta. Ludovico il Pio decise di inviare a Roma, verosimilmente insieme con l'ambasciata bizantina, il vescovo Freculfo di Lisieux e un certo Adegar. Non è noto come i negoziati si siano svolti, ma è certo che gli inviati greci e franchi nulla ottennero quanto alla sostanza della disputa: E. si limitò ad autorizzare Ludovico a riunire dei vescovi franchi per esaminare il problema facendo ricerche in proposito sulla letteratura patristica, restando inteso che si sarebbe trattato di una assemblea consultiva e non di un vero concilio. Il papa intendeva mantenere le sue prerogative in campo dottrinale, che d'altronde lo stesso Ludovico non intendeva affatto contestare. L'assemblea si tenne effettivamente a Parigi nel novembre dell'825, e i vescovi parlarono con rispetto dell'autorità della Sede apostolica; nondimeno criticarono l'atteggiamento romano nei riguardi delle immagini e, con l'aiuto di numerose citazioni dei Padri, indicarono al pontefice dove fosse, a loro parere, la verità. I vescovi redassero, ad uso di E., una bozza di lettera, che speravano sarebbe stata inviata dal pontefice a Costantinopoli, in cui egli manifestava la volontà di risolvere la disputa adottando la posizione franca. L'assemblea annetté il documento al processo verbale delle riunioni, cui aggiunse anche la bozza di una lettera da inviarsi ad E. da parte di Ludovico il Pio. L'imperatore si guardò bene dall'inviare a Roma i documenti tali e quali, e chiese a Geremia, arcivescovo di Sens, e a Giona, vescovo di Orléans, di compilare un sunto della documentazione patristica raccolta dall'assemblea. In seguito, i due vescovi sarebbero dovuti andare dal papa per presentargli la raccolta e discutere con lui con pazienza e umiltà, stando attenti a non spingerlo a un'ostinazione irriducibile. Ludovico li incaricò inoltre di consegnare al pontefice una lettera ben diversa da quelle che il sinodo di Parigi gli aveva proposto di indirizzargli. L'imperatore infatti in essa affermava di volere solo aiutare il papa, senza alcuna pretesa di insegnargli alcunché, e gli suggeriva l'opportunità di inviare ai Greci un'ambasceria, alla quale si dichiarava pronto a unire inviati franchi. Non si sa cosa avvenne in seguito. Ma poiché nessuna fonte - né romana, né franca, né bizantina - attesta l'invio di una delegazione pontificia a Costantinopoli, c'è ragione di ritenere che E. non si lasciò convincere e mantenne con fermezza le posizioni della Chiesa romana contro i due Imperi che speravano in un compromesso. In un altro campo il papa fu costretto a cedere alle pressioni dei Franchi: nell'826 infatti non fu in grado di impedire la traslazione a Soissons delle reliquie di s. Sebastiano, uno dei più importanti martiri romani. D'altra parte è chiaro che la speciale venerazione da parte dei Franchi di tali reliquie giovava molto a tener alto il prestigio di Roma. Sempre nell'826 E. intervenne nell'opera di riforma religiosa intrapresa dai Carolingi. Il 14 e il 15 novembre presiedette in Roma un concilio cui assistettero sessantadue vescovi di diocesi titolari dei territori pontifici e del Regno franco d'Italia. I trentotto canoni promulgati in tale occasione concernono principalmente le elezioni vescovili, la proibizione della simonia, la condotta e i doveri dei vescovi e degli altri membri del clero, l'istruzione dei chierici, i luoghi di culto e i loro servizi, la disciplina dei monasteri, il riposo domenicale, il comportamento dei laici in chiesa e la morale del matrimonio. Due decisioni meritano una particolare attenzione. Nel canone 34, che purtroppo sembra essere stato scarsamente applicato, si prevede la riorganizzazione delle scuole nell'ambito dei vescovati e delle parrocchie più importanti. Il canone 21 riconosce, per la prima volta da parte pontificia, il regime delle chiese private, e pertanto dà un'approvazione ufficiale da parte ecclesiastica a un sistema oramai largamente diffuso, pur cercando di mantenere su di esso un certo controllo da parte dei vescovi. Si stabilisce pertanto che chi abbia edificato, secondo le prescrizioni canoniche, un monastero o un oratorio non possa vedersene tolta la proprietà contro il suo volere; gli è permesso inoltre di designare a sua scelta un sacerdote per assicurare il servizio divino, a condizione che il vescovo locale dia la sua approvazione. Questi due canoni, così come la maggioranza delle altre decisioni conciliari, trovano i loro modelli diretti nella preesistente legislazione carolingia. Non si sa se la convocazione dell'assemblea abbia corrisposto o meno a un desiderio dei sovrani franchi, ma senza dubbio il concilio permise ad E. di riaffermare l'autorità della Sede apostolica: gli atti sottolineano, riprendendo testi precedenti, il ruolo centrale che il papato deve avere nella riforma della Chiesa. Si ha così l'impressione che il papa abbia tentato in quell'occasione di prendere la direzione di un movimento che fino allora era stato abbandonato all'iniziativa dei Carolingi (cfr. principalmente Th.F.X. Noble, The Place, p. 443). Spesso si attribuisce al concilio dell'826 un testo relativo all'elezione del pontefice raccolto nella collezione canonica del cardinale Deusdedit (Collectio canonum, I, 149 [123], a cura di W. von Glanvell, Paderborn 1905, p. 98), ma in realtà quel testo proviene dal concilio romano dell'862 (I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XV, Venetiis 1770, col. 659D; Regesta Pontificum Romanorum, I, pp. 344 s.). Il papa seguì con particolare attenzione anche la missione in Scandinavia di cui in precedenza Ludovico il Pio e Pasquale I avevano incaricato l'arcivescovo Ebbone di Reims: la confermò e approvò la decisione, presa nell'826 dall'imperatore, di aggregare alla missione il monaco Ansgar (l'"apostolo del Nord") e i suoi compagni. E. morì nell'agosto dell'827 dopo aver fatto tutto il possibile per mantenere l'autorità spirituale della Chiesa di Roma pur concedendo, sul piano temporale, ciò che era imposto dalle circostanze.
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