Montale, Eugenio
Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896 da famiglia borghese e trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra la città natale e Monterosso (nelle Cinque Terre). Non fece studi classici a scuola, ma fu sostanzialmente autodidatta, come testimonia il diario del 1917 (Montale 1983). Combatté nella prima guerra mondiale.
Amico di intellettuali antifascisti attivi a Genova, Milano e Torino (Camillo Sbarbaro, Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti), pubblicò nelle edizioni di Piero Gobetti Ossi di seppia (1925, seconda edizione con aggiunte 1928), raccolta poetica dal linguaggio fortemente innovativo, pervaso dal paesaggio ligure. Trasferitosi a Firenze, vi abitò fino al 1948, anno in cui, assunto come redattore al «Corriere della sera», andò a vivere a Milano. Agli anni fiorentini risalgono Le occasioni (1939), segnate dalla presenza segreta di Irma Brandeis, studiosa americana conosciuta a Firenze nel 1933, mentre la terza raccolta di versi, La bufera e altro (1956), comprende anche poesie dedicate a un’altra e diversa figura femminile, la poetessa Maria Luisa Spaziani, altri testi legati ai viaggi del giornalista inviato speciale e si chiude con due poesie di tema civile (“Piccolo testamento” e “Il sogno del prigioniero”).
Prosatore raffinato e critico importante (Farfalla di Dinard, 1956; Auto da fé, 1966; Fuori di casa, 1969; Sulla poesia,1976), Montale come poeta praticamente tacque dopo la pubblicazione de La bufera e altro fino al 1971, quando Satura, libro meno difficile dei precedenti e più aperto al linguaggio colloquiale, gli conferì una larga popolarità, confermata dalle raccolte successive: Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1980). Senatore a vita dal 1967, ottenne il Premio Nobel nel 1975. Morì a Milano nel 1981.
Per il prestigio, la notorietà e la funzione di modello per i poeti della generazione successiva Montale è stato il primo poeta italiano ad avere in vita un’edizione critica delle poesie (Montale 1980). L’intera produzione in versi e in prosa fu pubblicata postuma in quattro volumi nei Meridiani Mondadori.
La grande novità del linguaggio poetico di Ossi di seppia è la dispersione lessicale, cioè il ventaglio di parole che l’autore impiega per ottenere una netta individuazione degli oggetti, e gli effetti fonico-ritmici che ne fanno uno degli esempi più tipici della poesia italiana del Novecento (lo si deduce dalle concordanze: Savoca 1987).
Il lessico, composito e ricco molto più della media poetica contemporanea, riprende la forza fonica e semantica della lezione dantesca, unendola alla precisione terminologica, talora a sfondo dialettale, inaugurata da ➔ Giovanni Pascoli; l’accostamento con parole di bassa frequenza, talora prelevate dal fastoso repertorio di ➔ Gabriele D’Annunzio, è privato comunque del compiacimento che era proprio di quest’ultimo (su problemi e aspetti del lessico montaliano, cfr. Mengaldo 1975; Balduino 1976; Zolli 1989). Al limite, le parole di D’Annunzio possono essere ironizzate, come accade in “Falsetto”, dedicato a Esterina, adolescente provetta tuffatrice, il cui titolo indica il controcanto sorridente, in falsetto appunto, delle tonalità dannunziane (grigiorosea, paventare, assembrare «assomigliare», elisie sfere, la dubbia dimane, equorea creatura). “I limoni” contiene la nuova poetica del giovane Montale, che pare rivestire la sua parola di rarità («bossi ligustri o acanti»), ma vuole in realtà tenerla al livello della vita reale: fossi, pozzanghere, orti assolati con piante di limoni; il paesaggio ligure insomma, con la sobrietà e l’asprezza che lo caratterizza e che Montale aveva in parte trovato in poeti liguri come Camillo Sbarbaro o Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Di qui parole in rima di suono forte, talora esemplate sul Dante della Commedia oppure su quello delle rime petrose: sterpi, serpi, scricchi e picchi di “Meriggiare pallido e assorto”. Dalle allitterazioni e dal lavorio fonico-timbrico di Montale (le cui correzioni negli autografi instaurano di solito parole più ricercate o comunque fonicamente più forti) gli altri poeti del Novecento avrebbero tratto una lezione di rilievo. In quest’ambito parole colte e termini quotidiani si combinano in strutture metriche che riconoscono e trasgrediscono gli schemi tradizionali, rendendo memorabili certi versi montaliani: «O rabido ventare di scirocco», «alide ali dell’aria» (alide «aride»), «lancia a terra una tromba di schiume intorte», «tremuli scricchi / di cicale dai calvi picchi».
Soprattutto nelle sezione dei cosiddetti ossi brevi si fa denso il lavoro di mistione tra vocaboli di diverso tenore e provenienza diversa: nelle medesima poesia, “Arremba su la strinata proda”, si trovano il raro divelge, il lezioso fanciulletto, il verbo intensivo svolacchia, accanto ad arrembare («accostare» del lessico marinaresco ligure), strinata («bruciacchiata», anche regionale) e buffo («soffio», arcaico e ligure).
Le occasioni sono il punto più alto della poesia montaliana, che promuove in Italia la poetica e le manifestazioni linguistiche del correlativo oggettivo, teorizzato e praticato negli stessi anni da Thomas Stearns Eliot in Inghilterra. Si impone ora la tematica amorosa, che rinvia ancora al filone dantesco per la ricchezza del lessico, l’energia nella rappresentazione degli oggetti esterni e l’onomaturgia, cioè il gusto delle coniazioni d’autore: verbi derivati da sostantivo o aggettivo – che figurano anche nella Bufera e altro – come indorarsi, dispiumare, inostrare, annottare, inastarsi, diramare, lingueggiare, valori peregrini come affabulare transitivo «rendere qualcuno materia di favola» (cfr. Mengaldo 1975).
Montale guarda anche a ➔ Francesco Petrarca, soprattutto nella sezione centrale dei Mottetti, nucleo di rime ‘amorose’ destinato a continuare nella parallela sezione Finisterre de La bufera e altro. Il poeta stesso nel saggio Intenzioni. Intervista immaginaria (1946) parla di una sua esperienza petrarchesca, non nel senso del ➔ monolinguismo che tradizionalmente si attribuisce a Petrarca rispetto al plurilinguismo di ➔ Dante, ma nel senso della ‘contemplazione’ e concentrazione lirica; accantonati i riferimenti biografici o fattuali, la lirica si concentra su epifanie attese e talvolta deluse (Montale 1976: 567-568).
L’icona femminile è esito moderno del tradizionale profilo salvifico e angelicato della donna, segnato da un certo platonismo cui non sono estranei i poeti inglesi amati e tradotti da Montale (W. Shakespeare, W. Blake, R. Browning, T.S. Eliot), mentre la potente figurazione oggettuale è spesso il correlativo tangibile di un sentimento o di una situazione psicologica che insegue il persistere della figura femminile nella memoria in improvvisi, strani guizzi e accadimenti esterni, al di là della separazione: sono gli sciacalli al guinzaglio visti sotto i portici di Modena, il ramarro che dantescamente «scocca / sotto la grande fersa / dalle stoppie», lo scoiattolo che «batte la coda a torcia sulla scorza», l’assorto «pescatore d’anguille dalla riva», l’irrompere di «scarni / cavalli».
La sintassi si inarca in costruzioni complicate da anastrofi (➔ anastrofe), il lessico è sovente molto sostenuto e allude alla tradizione, talora solo per gli aspetti fonetici (vilucchio «erba simile al convolvolo», interminato «infinito», discolora, cinabro, meriggio, cane lionato «cane di colore fulvo», tregenda, frigidari «luoghi freddi», con le varianti colte padule «palude», vanire «svanire», lito «lido»), con inserti più usuali e qualche voce toscana, assimilata negli anni fiorentini, che perdura nel terzo libro (il gasista, la cavolaia «tipo di farfalla», i mutilati sulle sedie a rotelle, i cavalli del Palio di Siena chiamati brocchi; e poi marroni «castagne», il mezzodì, la rena «sabbia», il ramaiolo «mestolo»). Non mancano citazioni musicali (Montale aveva studiato da baritono e operò a lungo come critico musicale) e da lingue straniere («Per amor de la fiebre» e «Adiós muchachos, compañeros de mi vida», in “Sotto la pioggia”).
Ne La Bufera e altro la sezione Finisterre continua e sviluppa i Mottetti: la donna vi assume il nome mitologico di Clizia, figlia dell’Oceano amata e abbandonata dal Sole, con attributi che la costruiscono anche tramite altre figurazioni mitologiche («trasmigratrice Artemide ed illesa») e per valori semantici e coloristici opposti: fuoco / gelo, rosso / bianco, luce del lampo e sguardo d’acciaio della donna, una frangia che diventa ala o piumaggio angelico. Molti ancora i termini rari o molto specifici (candire transitivo, il dantesco fossa fuia, il nerofumo della spera ossia lo specchietto annerito, le coturnici «uccelli della famiglia dei fasianidi», la variante piova per «pioggia»).
Non a caso intitolata dapprima Romanzo, La bufera e altro è tematicamente e soprattutto linguisticamente più complessa e variegata rispetto alle Occasioni: compaiono molti più luoghi, anche esotici, le figure femminili si atteggiano per opposizione l’una all’altra, il linguaggio prende man mano movenze più aggressive e più vicine al parlato, anche in rapporto ai temi che nei testi ultimi diventano civili, se non politici.
Nelle sezioni “Flashes” e dediche e soprattutto nei Madrigali privati un’altra donna, chiamata con il soprannome di volpe, si contrappone a Clizia per immagini più fisiche e prosastiche: chiaviche, topi, il poeta paragonato a un rospo, l’acceleratore dell’automobile, il tandem, il treno e le tortore a Sesto Calende, il Cottolengo.
Con Satura e le raccolte successive, dopo circa quindici anni di produzione esclusivamente in prosa e giornalistica, trionfano una sintassi più feriale, il lessico della conversazione intellettuale o della filosofia, accanto a espressività e parole del vissuto quotidiano: zaffate, zattere di sterco, scolaticcio, zimbello, bimba scarruffata, infilascarpe, fico secco. E poi giochi metalinguistici e figure etimologiche straniate come predicato / predicante, arrestato / arrestante, avvento / avvenibile (“Gerarchie”). Si infittiscono anche i nomi stranieri e i forestierismi (pack, crème caramel, marché aux puces, bourbon, steeplechase), mentre si assiste a un ritorno di dialettalismi liguri, come buridda «piatto di stoccafisso e patate», in una sorta di apocalissi verbale che non risparmia nemmeno la presa in giro di sé stesso.
Se questo nuovo atteggiamento ha reso molto popolare la poesia montaliana, la critica meno benevola ha giudicato questo volontario spogliare la figura del poeta di ogni aura di nobiltà una caduta di tensione procurata, quando non una sorta di snobismo qualunquistico.
Montale, Eugenio (1976), Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori.
Montale, Eugenio (1980), L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini & G. Contini, Torino, Einaudi.
Montale, Eugenio (1983), Quaderno genovese, a cura di L. Barile, Milano, Mondadori.
Balduino, Armando (1976), Per un glossario montaliano, in Id., Messaggi e problemi della letteratura contemporanea, Venezia, Marsilio, pp. 13-29.
Mengaldo, Pier Vincenzo (1975), Da D’Annunzio a Montale, in Id., La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, pp. 13-106.
Savoca, Giuseppe (1987), Concordanza di tutte le poesie di Eugenio Montale. Concordanza, liste di frequenza, indici, Firenze, Olschki, 2 voll.
Zolli, Paolo (1989), Montale e la lessicografia italiana, in Per la lingua di Montale. Atti dell’incontro di studio (Firenze, 26 novembre 1987), a cura di G. Savoca, Firenze, Olschki, pp. 71-91.