EUGENIO Vulgario
I dati certi della biografia di E. sono pochissimi; e per alcuni episodi, particolarmente importanti, della sua vita si possono avanzare solo ipotesi molto insicure.
Non vi sono invece dubbi sul suo nome: tramandato più volte e sempre nella stessa forma nella silloge dei suoi trattati, lettere e poesie conservata nel codice Bambergense (Staatliche Bibliothek) P.III.20 (Canon. I), in beneventana, che Winterfeld (pp. 407nota 4, 412) faceva risalire all'anno 999 ricollegandolo allo scriptorium cassinese, mentre Fischer e Lowe lo hanno attribuito all'inizio del X secolo, tra il 904 e il 911.
Il nome Vulgarius, secondo Meyvaert (p. 356 nota 3), deve riconnettersi a Vulgarum, Vulgarium, Vulgariorum gens, termini che nell'Alto Medioevo indicavano la Bulgarorum gens come attesta il registro di Giovanni VIII (872-882). La conoscenza che E. possiede della letteratura latina classica porta, però, a escludere che fosse nato o fosse stato educato in quei territori piuttosto che in Italia, come già aveva supposto Diimmler (p. 40). Tanto pìù che il suo nome, la conoscenza che dimostra della lingua greca e alcune poesie da lui dedicate ad Atanasio [III], vescovo di Napoli, al duca di Napoli Gregorio IV, al vescovo di Salerno Pietro e al duca di Benevento Atenolfo I possono far ritenere non solo che fosse nato in Italia, ma che fosse anche vissuto in una città dell'Italia meridionale: probabilmente con una permanenza a Napoli, secondo l'ipotesi di Dümmler (p. 41). Il nome Vulgarius, dati i rapporti che tra IX e X secolo intercorrevano tra le coste dell'Italia meridionale, specialmente quelle pugliesi, e quelle della Dalmazia, potrebbe quindi riferirsi all'origine della famiglia di E. e non alla sua nascita nei territori della Bulgarorum gens.
Non si conosce la data della sua nascita, che va comunque posta nel IX secolo, più precisamente nella seconda metà, come sembrano indicare i trattati con i quali E. partecipò attivamente alle tumultuose vicende del Papato tra la fine del IX e gli inizi del X secolo. I suoi scritti e le sue poesie rivelano un letterato di professione, probabilmente un grammatico e un retore. Non vi sono, però, elementi per precisare se e dove esercitò questa professione. L'ipotesi che abbia insegnato a Napoli, forse nella scuola vescovile, si basa sulle sue poesie dedicate a illustri personaggi dell'area napoletano-beneventana e sull'esistenza nella città partenopea, in questo stesso periodo, di una fiorente scuola episcopale. La sua fama è essenzialmente legata al fatto di essere stato, insieme con Ausilio, il grande difensore della validità delle ordinazioni di papa Formoso (891-896). E va osservato che egli si trovò a difendere l'operato di un pontefice che non solo aveva guidato la missione evangelizzatrice in Bulgaria ma che con grande insistenza era stato richiesto come arcivescovo della Bulgarorumgens, cioè di quella stessa gens da cui probabilmente discendeva la famiglia di Eugenio. Pare estremamente verosimile che sia stato ordinato prete dallo stesso Formoso. In questo caso la decisione di Sergio III (904-911) di considerare nulle le ordinazioni del periodo formosiano lo avrebbe colpito personalmente privandolo del sacerdozio.
L'atteggiamento di E. nei riguardi di Sergio III non fu però sempre univoco. Se lo attacca nei suoi trattati, in alcune poesie e nelle lettere lo esalta per la sua attività di costruttore non lesinandogli complimenti e adulazioni che rivolge anche ad altri personaggi della stessa corte papale come la vestarissa Teodora e il vescovo e apocrisario Vitale. Diverse sono state le interpretazioni di questo ondeggiante atteggiamento di Eugenio. Alcuni lo hanno considerato un tentativo di conciliarsi i favori del pontefice, il quale, probabilmente irritato per i suoi duri attacchi, chiedeva il suo trasferimento a Roma, forse per costringerlo ad abbandonare definitivamente le sue posizioni. Altri lo hanno interpretato come un vero e proprio passaggio tra gli antiformosiani. In questo caso potrebbe essere E., secondo l'ipotesi avanzata da Winterfeld e accettata con molte cautele da Manitius, l'amico di cui parla Ausilio nel De ordinationibus a Formoso papa factis, che si era schierato in un secondo momento, contro le ordinazioni di Formoso.
Purtroppo non è possibile accogliere l'una o l'altra interpretazione del comportamento di E. perché entrambe sono ricche di congetture, ma povere di dati certi, che sono, da un lato, la richiesta di Sergio III che E. raggiunga Roma e il suo tentativo di sottrarsi a questo trasferimento, dall'altro, la discrepanza fra i trattati sulla questione formosiana nei quali l'autore attacca l'operato del pontefice e le lettere e le poesie favorevoli a Sergio III. Si aggiunga che non sappiamo se E. fosse libero o in prigione quando redigeva le poesie e lettere in questione perché l'unica testimonianza che, su tutta la vicenda, è stata da lui tramandata non è esplicita per una corruzione nel testo che ha suscitato a sua volta correzioni e interpretazioni contraddittorie.
In due lettere indirizzate una a Sergio III (n. VI) e l'altra al vescovo Vitale (n. VII), il poeta, che si definisce vecchio e stanco, mentre in altri scritti sottolinea anche la sua povertà, chiede al pontefice - e invoca l'aiuto di Vitale per sostenere la sua supplica - il permesso di non recarsi a Roma, come richiesto dal papa, anche se con parole amichevoli. Nella lettera a Sergio III aggiunge che non gli si neghi "absolutionem et benedictionem licentianique abitandi cellulam meam" (Dümmler, p. 145). In questo modo Dümmler, il primo editore della silloge degli scritti di E. ma soprattutto colui che ha riportato alla luce la sua figura di polemista e poeta, ha emendato la lezione corrotta "licentiam coe aborandi cellulam", tràdita dal manoscritto bambergense, e ha ritenuto che il poeta vivesse in quel momento in solitudine, in un monastero nel quale forse aveva cercato rifugio. Winterfeld editore, nei Monumenta Germaniae Historica, delle lettere e delle poesie di E. non ha accettato questa emendatio, che pur sanava una grave corruttela del testo, ritenendo che la correzione proposta da Dúmmler creasse una contraddizione tra due frasi contigue. A Winterfeld non sembrava infatti credibile che E. affermasse che "letus et liber in saeculurn vadens longum tibi (sc. Sergio III) in terris eternumque in celis regnare dictu felici perorem" (Winterfeld, p. 418), quando nella frase immediatamente precedente ("ficentianique habitandi cellulam meam") aveva chiesto, secondo la sua interpretazione, di rimanere prigioniero. Ma allo stesso tempo l'editore dei Monumenta riteneva impossibile proporre una qualsiasi correzione al passo che giudicava insanabilmente corrotto di cui, però, dava una lettura diversa da quella offerta da Dümmler ("licentiani coe uborandi", lezione corretta in "co&aborandi" nello stesso manoscritto). Utilizzando la frase "letus et liber in áaeculum vadens" come base della sua ricostruzione, egli riteneva che E. chiedesse a Sergio III, che lo aveva imprigionato, di essere liberato. Identificava quindi con grande probabilità il luogo della sua prigionia con Montecassino, poiché nel codice Cassinese 439, che Winterfeld riteneva prodotto come il codice bambergense in quello scriptorium monastico, era tramandata, tra altri versi anonimi, una poesia (n. XVII) attribuita a "Petrus seu Guiselgardus grammaticus" nell'edizione del primo volume dello Spicilegium Casinense, ma in realtà di E., come dimostrato dalla silloge bambergense. La presenza di questa poesia in un manoscritto cassinese era per Winterfeld l'indizio di un legame tra l'autore e Montecassino. Ma tra l'883 e il 949 la comunità cassinese, dopo la distruzione del monastero da parte dei Saraceni, si trovava in esilio a Teano e poi a Capua, Meyvaert hafatto anche notare che già M. Inguanez, riprendendo una osservazione di E. A. Lowe (The Beneventan script., Oxford 1914, p. 330), aveva stabilito, nel suo Codicum Casinensium manuscriptorum catalogus, che il manoscritto 439 era stato copiato molto probabilmente in Puglia.
Infine, cellula ha come precipuo significato quello di "cella del monaco", benché Novati abbia addirittura visto nella cellula di cui parla E. non quella di un monaco, ma quella di un letterato, che, spinto dalla sua miseria o esagerandola per avere un maggiore guadagno, avrebbe offerto a Sergio III le sue poesie. Di fronte alla richiesta di raggiungere Roma, E. - secondo Novati - avrebbe resistito per amore della sua patria ("Hoc nimirum unum est, quod precor, soluinque quod milii aeque carum est ut vita cariusque patriac Winterfeld, p. 418), per timore dei danni della vita di corte (n. VII), per coltivare nella solitudine le sue attività di studio, e non dunque per la paura di dover ritrattare la sua difesa delle ordinazioni formosiane.
Se una corruzione nella tradizione manoscritta non permette quindi di stabilire nulla di sicuro sulla situazione di E. nel momento in cui redigeva la lettera a Sergio III, suscitando come si è visto le ricostruzioni più diverse, la mancanza assoluta di notizie non permette di sapere se sia rimasto nella sua cellula o abbia dovuto raggiungere Roma.
Non si conoscono la data e il luogo della morte di Eugenio.
Si può solo osservare che i personaggi identificati tra quelli a cui indirizza le sue lettere e le sue poesie morirono tutti al più tardi entro il 917, eccetto il vescovo di Napoli Atanasio III, morto dopo il 956 ma salito alla cattedra episcopale nel 911, o più probabilmente nel 907; E. comunque - secondo Winterfeld - sembra essere già morto quando Ausilio componeva il De ordinationibus a Formoso papa factis, che si data al 911. La morte di E. dovrebbe comunque essere avvenuta trascorsi i primi venti anni del X secolo. Ma la sua produzione letteraria, accettando la datazione di Lowe (Scriptura Beneventana, I, Oxford 1929, tavv. XXXIV-XXXV) del codice bambergense tra il 904 e il 911, dovrebbe essersi conclusa entro il primo decennio del X secolo. Infatti anche il calendario in versi, anonimo e anepigrafo, attribuitoglì dal Meyvaert e tràdito nel manoscritto Madrileno (Biblioteca nacional) 19 (A 16) - l'unica opera non tramandata anche nella Silloge Bambergense che è però sicuramente priva di alcune carte - ha come termine ante quem della sua datazione la lettera al vescovo e apocrisario Vitale redatta certamente durante il papato di Sergio III, morto nel 911.
Gli scritti di E. possono essere ricondotti a due ambiti, uno di polemica teologica ed ecclesiologica, a proposito del problema della legittimità del papato di Formoso e della validità delle sue ordinazioni, l'altro poetico. Un gruppo a parte è costituito dalle quattro lettere, di cui due indirizzate a Sergio III (la prima con dei versi), una al vescovo Vitale e una alla vestarissa Teodora.
I due scrittì, nati dalla questione formosiana, sono stati realizzati durante il pontificato di Sergio III, quando fu ripresa la politica di invalidazione delle ordinazioni formosiane estendendola a tutta l'Italia. Ma non si conosce né per il De causa Formosiana libellus né per il De causa et negotio Formosi papae l'anno esatto in cui furono redatti perché anche per il primo trattato le esplicite indicazionì offerte da E. sono contradditorie. Infatti il De causa Formosiana libellus, edito da Dümmler, è in forma di lettera indirizzata alla Chiesa romana da un concilio venuto a conoscenza della ripresa delle persecuzioni contro i formosiani e tenutosi "aput Lucetiam Belgicarum" nel diciassettesìmo anno (910) dell'impero di Carlo III (Carlo il Semplice). Ma la data del gio appare immediatamente molto problematica in quanto subito dopo nel testo si ricorda che il concilio di Ravenna (898) si era tenuto "praeterito anno". Nello scritto, partendo dalla decìsione dì Sergio III che poneva a vescovi ed ecclesiastici, ordinati da Formoso, il grave dilemma se accettare di essere nuovamente ordinati sacerdoti o di essere ridotti allo stato laicale, si cerca innanzitutto di dimostrare la validità dell'elezione di Formoso al papato. Si affrontano perciò i problemi della scomunica comminatagli da Giovanni VIII, dell'accusa di essere venuto meno al giuramento di ridursi allo stato laicale, e di quella di aver cambiato diocesi. E. insiste soprattutto sulla riabilitazione di Formoso più che sulla sua scomunica e, per il cambiamento di sede vescovile, ricorda i casi precedenti come quello di papa Marino I (882-884), passato da Cere a Roma. In modo particolare l'autore osserva che la validità dell'elezione di Formoso non era mai stata contestata durante i cinque anni del suo pontificato e che è ancora più grave che i "Romani" considerino nulle le ordinazioni di un pontefice che essi stessi avevano eletto. Ma all'interno di questo tema generale E. si occupa anche di problemi che toccano più marginalmente la causa formosiana per poi, riprendendo il tema centrale, riaffermare non solo la impossibilità che i morti siano giudicati dai vivi, come era avvenuto nel caso del processo di Formoso, ma soprattutto che, anche se Formoso fosse stato indegno, le sue ordinazioni sarebbero state comunque valide. A sostegno della sua tesi E. reca esempi tratti dalla storìa e dalla tradizione ecclesiastica; ma le sue argomentazioni più che fondarsi su una conoscenza approfondita del diritto canonico - anche se si serve delle Decretali pseudo-isidoriane e della Collezione in 452 titoli - si basano su ragionamenti dialettici.
Sebbene più breve e meno articolato, il secondo trattato, il De causa et negotio Formosi papae, è indubbiamente più originale. Scoperto da Bellaize in un manoscritto di Fécamp, in cui era tràdito anonimo, fu attribuito dal Mabillon nei Vetera analecta ad Ausilio. Ma l'attribuzione e l'indirizzo dello scritto nel codice bambergense fugano ogni dubbio: "uulgarij in defensionem formosi papae. Eugenius Vulgarius Petro diacono fratri et amico". Il trattato nasce dunque dalla richiesta dì un diacono Pietro che avrebbe interrogato E. sulla questione formosiana; è redatto in forma di dialogo tra un "Insimulator", che rappresenta l'accusa contro Formoso, e un "Actor", che ne rappresenta la difesa. Approfondendo la tendenza manifestata nel De causa Formosiana libellus, cui E. sembra fare riferimento quando afferma di aver già parlato di questi argomenti precedentemente, l'autore fonda anche qui il suo ragionamento più su argomentazionì logiche che su testi patristici e conciliari. Nella difesa di Formoso e delle sue ordinazioni E. riprende e arricchisce un concetto già espresso nell'altro trattato: ricollegandosi alla posizione di Incmaro di Reims, fatta propria dagli antiformosiani, secondo cui tra i sacramenti amministrati dal deposto vescovo Ebbone solo il battesimo era valido, E. insiste sul legame che esiste tra ordinazione e battesimo, in quanto entrambi sono inseparabili dall'anima che li ha ricevuti. E agli oppositori dì Formoso che sostenevano che la deposizione e la scomunica avevano privato questo del potere di ordinare l'autore ribatte che il sacerdozio è "ab accepto inseparabile sicut baptisinum.". Come si è battezzati una volta per sempre così si è sacerdoti una volta per sempre. Non rispettare questo principio per E. è gravissimo, tanto che giunge ad assimilare la riordinazione dei sacerdoti all'eresia donatista poiché nella ordinazione come nel battesimo il sacerdote è solo il tramite dell'opera di Dio: anche un sacerdote indegno può dunque amministrare sacramenti validi. Secondo Saltet, le argomentazioni di E. sono così lucide e chiare da anticipare quelle enunciate alla fine del XII secolo; mentre Haring ha fatto, notare che E. sul legame tra battesimo e ordinazione arriva alle conclusioni di Ausilio pur non rifacendosi ad Agostino.
Al secondo ambito degli scritti di E., quello poetico, appartiene il calendario in versi, costituìto da due componimenti in esametri: il primo, di 12 versi, è una sorta di prologo, il secondo, di 191 versi, è il calendario vero e proprio che segue lo sviluppo dell'anno liturgico, incominciando e finendo con il Natale. Per Meyvaert, editore del componimento, E. ha avuto come modello un libro liturgico con molti punti di contatto con i sacramentari che si ricollegano alla famiglia detta del "Gelasiano dell'VIII secolo" e in particolare con il sacramentario di Monza. Ma se nel calendario in versi E. adopera il metro più usuale, l'esametro, nelle altre poesie si serve invece di metri piuttosto rari, utilizzando veri e propri giochi retorici. In un componimento dedicato a Sergio III (n. V), in metro parhemiacum, tutti i versi, eccetto il sesto, terminano con la lettera a. Nel De ⟨Syllogismis dialectice> Ipotheticali ⟨ter> (n. XXII) utilizza, oltre alla inevitabile congiunzione "igitur", solo monosillabi. Il carme amebeo dedicato ad Atenolfo I (n. XXIII), secondo Cilento (Italia, pp. 154s.), può avere un senso nella sua parte centrale numerando le nove lettere del nome "Atenolfus" dal quale in base alle indicazioni dei versi si ricavano anagrammate le parole "fons" e "valeto". E. si mostra estremamente abile nel costruire acrostici, da quelli più semplici, come nella poesia Ad Iohannem levitam (n. XV), nella quale la prima lettera di ogni verso forma il nome del destinatario "Iohannes"), a quelli più complessi, come in un'altra poesia (n. II), dedicata ancora a Sergio III, nella quale riesce a creare l'acrostico - che è a sua volta un esametro - "Aeternum salve presul stans ordine Petri", servendosi non solo della prima e dell'ultima lettera di ogni verso, ma anche di quella centrale legando queste ultime due lettere rispettivamente al telestichio e al mesostichio. Dimostra una uguale capacità nel formare carmi figurati. Nel componimento n. XXXVII, nel quale compare il nome di Sergio III, servendosi di dieci esametri dei quali il primo è di ventisette lettere, il secondo di ventotto e così via fino a raggiungere nell'ultimo trentasei lettere, costruisce una poesia che assume graficamente la forma di un organo. Una delle quattro poesie dedicate all'imperatore bizantino Leone VI il Saggio (886-912) è addirittura a forma di piramide (n. XVI). In questa, come negli altri componimenti, la cui struttura è particolarmente complessa, aggiunge ai versi un testo in prosa nel quale spiega le caratteristiche della sua costruzione. In tutte le sue poesie rivela una buona conoscenza di metri diversi. È in grado di utilizzare il ferecrazio (n. III) come il tetrametro giambico (n. XII), il metro saffico (n. IV) con la stessa abilità con cui usa l'anapesto isosillabico (n. XVII), l'adonio (n. XIX), l'asclepiadeo (n. XVIII).
Tuttavia vedere nelle sue poesie, come ha fatto buona parte della letteratura storica, soltanto i virtuosismi di un letterato che, inserendosi nel solco della rinascita carolingia, si rifà ai metri della poesia classica e al modello di Porfirio Optaziano e dei suoi carmi figurati non è solo troppo semplicistico ma è addirittura estremamente riduttivo. Già a Winterfeld non era infatti sfuggita l'importanza dei componimenti dedicati da E. a Roma; lo studioso tedesco aveva persino ipotizzato che Ottone III, anche per l'interesse che quelle poesie potevano rivestire nel suo programma di renovatio, si fosse fatto copiare l'attuale codice Bambergense, con la silloge degli scritti di E., a Montecassino nel 999, durante il suo viaggio nell'Italia meridionale, e che il manoscritto fosse poi stato donato al duomo di Bamberga da Enrico II che lo aveva ereditato da Ottone III. Gli studi di Lowe (che, come si è visto, data il manoscritto agli inizi del sec. X) hanno privato di ogni fondamento l'ipotesi che il codice Bambergense sia stato prodotto nel 999 per Ottone III. Ma gli studi di Schramm hanno confermato l'intuizione di Winterfeld sull'importanza delle poesie dedicate a Sergio III e all'imperatore bizantino Leone VI il Saggio per l'evoluzione del concetto di renovatio. Per Schramm, E., in quanto profondamente legato alla realtà dell'Italia meridionale, ha dell'Impero un'idea e un'esperienza che - attraverso il tramite della presenza bizantina - risentono più della concezione classica e romana che di quella occidentale e carolingia. Nella poesia n. XVIII, dedicata a Leone VI, l'Impero è destinato a regnare sull'Europa, sull'Asia e sull'Africa soggiogando il mondo della barbarie. E nessuno penserebbe che il saluto indirizzato, nel componimento n. XIX, dal poeta all'imperatore bizantino - concepito quasi come un Gottkaiser - siastato formulato nei primi anni del X secolo. Ma ancora più interessante è, tra le poesie dedicate a Sergio III, quella intitolata Roma caput mundi (n. XXXVIII). In essa E. non esalta semplicemente il primato di Roma, che vede rinascere da un punto di vista monumentale (si veda anche il n. V) essendo stata portata a compimento da Sergio III la ricostruzione del Laterano, crollato sotto Stefano VI (896-897). Ma esalta anche il pontefice in quanto innovatore ed erede delle glorie della Roma classica e per di più "Dignus apostolicus divino munere lectus, / Mistice qui factus conformis imagine divûm" (vv. 6 s.). E. dunque pone, riguardo sia al Papato sia all'Impero, un rapporto tra Dio e autorità che sarà alla base, in opposte direzioni, dello scontro tra la "sacrata auctoritas" dei pontefici e la "regalis potestas" degli imperatori. L'originalità dell'impostazione di E. si spiega, secondo Schramm, per il fatto di non ricollegarsi al mondo della rinascita carolingia ma piuttosto alla tradizione spirituale e culturale dell'età di Cassiodoro, di Boezio e di Gregorio Magno.
Altrettanto significativo, anche se in un quadro totalmente diverso. è il componimento Species comice (n. XXXIA) del quale Vinay, in un fondamentale saggio sulla commedia latina del XII secolo, ha sottolineato l'importanza, accanto alla Cena Cypriani e alla Ecbasis cuiusdam captivi per tropologiam, per comprendere lo stretto e cosciente legame che, come sembra indicare il titolo stesso di questa poesia, esiste nella cultura medievale tra commedia e spectaculum. Secondo Vinay E. dimostra nella descrizione di uccelli e fiere, riuniti per uno spettacolo eccezionale, una singolare capacità di ritrarre scenicamente una favola e un istinto alla pantomima che appare ancora più evidente nella continuazione, in metro diverso (n. XXXIB), della poesia. Essa può sembrare un esercizio versificato di lingua solo a chi si lasci suggestionare dal "gran numero di componimenti mediolatini analoghi" (Vinay, p. 241) e a chi giudichi la produzione letteraria di E. alla luce della sua formazione di grammatico e retore e delle sue citazioni di autori classici. Certo, egli ha conosciuto e studiato i classici (Cicerone, Lucano, Virgilio, Giovenale, Petronio, secondo Dúmmler; solo Virgilio, Orazio, Caprio, i Disticha Catonis secondo Winterfeld; è discusso se abbia conosciuto e utilizzato il codice Etruscus delle tragedie di Seneca, cui sarebbe stata aggiunta l'Ottavia, o un florilegio costruito a fini non solo morali ma anche retorici); ma quel che più conta notare è come la consuetudine con i classici permetta a E. di utilizzarli per cercare di esprimere un mondo spiritualmente e storicamente diverso, con tutte le difficoltà, le contraddizioni che ne derivano, con quel tanto di scolastico e quel tanto di originale che si trova mescolato nei suoi componimenti e nei suoi trattati.
Fonti e Bibl.: J. Mabillon, Vetera Analecta..., Parisiis 17232 pp. 28-31 (2); E. Dümmler, Auxilius und Vulgarius. Quellen und Forschungen zur Geschichte des Papstthums im Anfange des zehnten Jahrhunderts, Leipzig 1866, pp. 39-46, 117-156; Spicilegium Casinense..., Montis Casini 1893, p. 407, VV. 25-32; Poetae Latini Aevi Carolini, in Mon. Germ. Hist., IV, 1, a cura di P. von Winterfeld, Berolini 1899, pp. 406-412, 412-440; H. Fischer, Die Kgl. Bibliothek in Bamberg und ihre Handschriften, in Zentralblatt für Bibliothekswesen, XXIV (1907), pp. 378-382; L. Saltet, Les réordinations. Étude sur le sacrement de l'ordre, Paris 1907, pp. 160-163; L. Duchesne, Les premiers temps de l'Etat Pontifical, Paris 1911, pp. 311 s. nota 1; M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München 1911 pp. 433-436; F. Novati, Le origini, Milano 1926, pp. 226, 233, 236 s., 247, 264-270; P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, I, Leipzig 1929, pp. 50-55; P. Fedele, Accenti d'italianità in Montecassino nel Medioevo, in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo, XLVII (1932), pp. 7-10; D. Pop, La défense du pape Formose, Paris 1933, pp. 26-31 e passim; F. J. E. Raby, A history of secular Latin poetry in the Middle Ages, I, Oxford 1934, pp. 286-288; A. Schebler, Die Reordinationen in der "altkatholischen" Kirche, in Kanonistische Studien und Texte, X, Bonn 1936, pp. 207-210; H. Bloch, Monte Cassino, Byzantium, and the West in the earlier Middle Ages, in The Dumbarton Oaks Papers, III (1946), pp. 168-170; G. Vinay, La commedia latina del sec. XII. (Discussioni e interpretazioni), in Studi medievali, n. s., XVIII (1952), pp. 240-242; N. M. Haring, The Augustinian axiom: Nulli Sacramento iniuria facienda est, in Mediaeval Studies, XVI (1954), pp. 96 s.; G. Brugnoli, La tradizione manoscritta di Seneca tragico alla luce delle testimonianze medioevali, in Mem. della Accad. naz. dei Lincei, classe di scienze morali, stor. e filol., s. 8, VIII (1957), pp. 216-222; G. Billanovich, "Veterum vestigia vatum" nei carmi dei preumanisti padovani..., in Italia med. e umanistica, I (1958), pp. 164-166; D. Norberg, Introduction à l'étude de la versification latine médiévale, in Studia Latina Stockholmiensia, V (1958), pp. 56, 58 s., 84 nota 6; N. Cilento, Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1966, pp. 154 s.; P. Meyvaert, A metrical calendar by Eugenius Vulgarius, in Analecta Bollandiana, LXXXIV (1966), pp. 349-377; N. Cilento, La cultura e gli inizi dello Studio, in Storia di Napoli, II, 2, s.l. né d. (ma 1969), pp. 602, 637 note 1, 3; H. Fuhrmann, Einfluss und Verbreitung der pseudoisidorischen Fälschungen, II, in Mon. Germ. Hist., Schriften, XXXIV, 3, Stuttgart 1973, p. 309 nota 41; W. Trillitzsch, Seneca tragicus - Nachleben und Beurteilung im lateinischen Mittelalter, in Philologus, CXXII (1978), pp. 120-136; P. Stotz, Sonderformen der sapphischen Dichtung..., in Medium Aevum. Philol. Studien, XXXVII (1982), pp. 63-67 e passim; U. Ernst, Poesie und Geometrie. Betrachtungen zu einem visuellen Pyramidengedicht des Eugenius Vulgarius, in Geistliche Denkformen in der Literatur des Mittelalters..., a cura di K. Grubmüller-R. Schmidt Wiegand-K. Speckenbach, in Münsterer Mittelalterstudien, LI (1984), pp. 321-335; H. Bloch, Monte Cassino in the Middle Ages, I, Roma 1986, pp. 7-9; Lexikon des Mittelalters, IV, col. 85; P. B. Gans, Series episcoporum, p. 904.