EURIPIDE (Εὐριπίδης, Euripĭdes)
Poeta tragico ateniese.
Vita. - La data della morte, che oscilla nella tradizione fra il 407-06 e il 406-05, può determinarsi con sufficiente esattezza: gennaio o febbraio del 406. Infatti, nelle Lenee (gennaio) del 405, quando Aristofane rappresentò le Rane in cui si raffigurava la discesa di E. nell'Ade, non solo da più mesi E. ma anche Sofocle era morto; e si sa che Sofocle, in onore di E., nel proagon (προάγων) delle Dionisie, aveva presentato coro e attori senza corone e sé stesso vestito di nero; codeste Dionisie non possono essere dunque che quelle del marzo 406, cioè subito dopo la morte del poeta. Stabilito questo, se E. morì di oltre 70 anni, come dice Filocoro, o addirittura di 75, come dice Eratostene, la data di nascita dobbiamo porla intorno al 480; e contentarci così: la più precisa data, qual'è quella quasi concorde della tradizione, che E. sarebbe nato il giorno stesso della battaglia di Salamina (settembre 480), apparisce una probabile costruzione per associare in certo modo i tre massimi poeti tragici al ricordo della gloriosa battaglia, in cui Eschilo combatté quarantacinquenne, e che Sofocle celebrò giovinetto di circa 15 anni, guidando il coro degli efebi che cantarono il peana della vittoria. Tanto più che proprio a Salamina probabilmente E. nacque, dove i genitori suoi sarebbero venuti, da Atene, nella minaccia della seconda guerra medica; e in Salamina visse la puerizia e la giovinezza. Ma inscritto nel demo attico di Phlya, della tribù Cecropide, era il padre suo; e Phlyeus in iscrizioni attiche è detto E. stesso: insomma, ateniese. Del padre Mnesarco o Mnesarchide antiche notizie dicono fosse un oste, della madre Clito una venditrice di erbaggi. Notizie di questo genere si sogliono attribuire a invenzioni maligne o giocose di poeti comici: certo, a codesto mestiere della madre di E. Aristofane allude più volte. Le negarono, protestando, alcuni degli antichi stessi, come Filocoro, il quale afferma che Clito era di famiglia nobile; vi contraddicono altre notizie, per esempio, che E. fu coppiere nelle sacre danze intorno al tempio di Apollo Delio, che fu πυρϕόρος di Apollo Zosterio: uffici non consentiti se non a figli di cittadini di condizione elevata. Forse la madre ebbe notevoli proprietà rurali; e questo potrebbe essere sufficiente a giustificare i motteggi di Aristofane e di altri poeti. In ogni modo padre e madre furono di condizione singolarmente agiata se provvidero subito con larghezza all'educazione del figlio. Lasciamo stare la ginnastica e l'atletica, che E. sempre avversò; e anche la pittura, di cui dicono desse buoni saggi, e sue tavolette dipinte si mostravano a Megara: certo egli possedette ben presto, forse in Salamina stessa, una ricca biblioteca ai suoi studî e alle sue meditazioni. Di codesti suoi studî e meditazioni, e dei suoi rapporti, in Atene, con filosofi e sofisti contemporanei, sono tracce molteplici nelle tragedie. Conobbe Anassagora, Archelao, Protagora, Prodico, fu amico di Socrate: contribuirono tutti, in varia misura, a quel suo spirito meditativo che gli meritò il soprannome di filosofo della scena; più i sofisti coi quali ebbe comune la virtù, o la mania, di voler discutere e ragionare e investigare, a dritto e a rovescio, il pro e il contro di ogni cosa. Alla sua filosofia un po' amara, alla sua concezione piuttosto pessimistica della vita, soprattutto, dicono, al suo antifemminismo, anche contribuirono, oltre il naturale temperamento e gli studî, sventure coniugali. Se non che, in cose di questa specie, dove tanto più facilmente si sbizzarriscono fantasie e malignazioni, è difficile distinguere tra verità e leggenda. Due mogli avrebbe avuto, prima Melito, e poi Cherine o Cherile, figlia di Mnesiloco, o viceversa; e Cherile l'avrebbe tradito con Cefisofonte, uri giovane schiavo di casa. Questo Cefisofonte è rammentato da Aristofane più volte come collaboratore del poeta; non senza probabile allusione a collaborazioni anche non poetiche. Ma si sospetta che Cherile o Cherine sia semplicemente un soprannome di senso osceno; e moglie di E. sarebbe stata la sola Melito. Ebbe tre figli: il primo, Mnesarchide, fu mercante; il secondo, Mnesiloco, attore; il terzo, Euripide, poeta tragico come il padre. Dalla vita politica, con quella sua indole schiva e solitaria, fu sempre lontano; non però indifferente: riferimenti e apprezzamenti politici abbondano nell'opera sua. Di suoi viaggi conosciamo uno solo: forse l'unico; certo l'ultimo: in Macedonia. Partì da Atene dopo rappresentato l'Oreste: dunque, nella primavera del 408. Il perché non si sa: e quando non si sa, tanto è facile quanto è inutile congetturare. Dapprima, secondo la Vita, andò a Magnesia, dove fu accolto con ogni onore; subito dopo andò a Pella, in Macedonia, invitato alla corte di Archelao. Quivi, nell'anno, o poco più, innanzi di morire, scrisse l'Archelao, dal nome del mitico fondatore della dinastia macedone, in onore del re ospite e amico; scrisse o finì di scrivere l'Ifigenia in Aulide e le Baccanti. Morì, come dicemmo, nel gennaio o febbraio del 406. Sulla sua morte, come anche sulla morte di Eschilo e di Sofocle, nacquero e si diffusero strane favole: la più nota è che fu lacerato da cani. Invenzione anche questa di poeti comici? Aristofane non la conobbe; ché altrimenti, nelle Rane, è verosimile ne avrebbe parlato. Fu sepolto in Macedonia. Un cenotafio gl'innalzarono gli Ateniesi, presso le Lunghe Mura, nella strada da Atene al Pireo, con un'iscrizione di Tucidide o di Timoteo. Sofocle lo commemorò. Dionigi di Siracusa, racconta Ermippo il Callimacheo, mandò subito a comprare dagli eredi, per un talento, la lira, la tavoletta da scrivere e lo stilo, e li fece deporre, a onore del poeta, nel tempio delle Muse. Incominciò dopo morte la sua fortuna che ebbe in vita assai scarsa. Si presentò la prima volta a concorso drammatico nel 455, l'anno della morte di Eschilo, con le Peliadi, e fu terzo; fu primo, la prima volta, nel 441, e poi altre tre volte soltanto. Vinse una quinta volta che già era morto, quando il minore figliol suo, Euripide, nella primavera del 406, rappresentò l'Ifigenia in Aulide, l'Alcmeone in Corinto e le Baccanti. Pochi mesi dopo, nelle Rane, Aristofane faceva dire all'ombra di Eschilo (v. 868-69): "La mia poesia non è morta con me; la sua è morta con lui". Quella vittoria postuma fu la prima smentita dell'ingiusto giudizio. La generazione giovine, che sola aveva applaudito Euripide, era cresciuta di anni e di autorità. Ed E. divenne il poeta prediletto. A cominciare dal sec. IV gli stessi pittori di vasi e scultori di bassorilievi e incisori di cammei e di gemme, attinsero soprattutto da E., dal realismo patetico di E., gli argomenti delle loro figurazioni: fonte per noi preziosissima, massime alla ricostruzione di drammi perduti. E rimase il poeta tragico per eccellenza di tutte le generazioni successive. I poeti che gli seguirono furono quasi tutti imitatori suoi; e imitatori suoi furono generalmente i poeti tragici latini. Ovidio scrisse una Medea, che non abbiamo più; ma anche nelle Metamorfosi e nelle Eroidi egli è forse di tutti i poeti latini il più schiettamente e naturalmente euripideo. Da E. attinsero sentenze ritenute definitive, oratori e filosofi; c'era, fra i tipi del letterato alessandrino, il ϕιλευριπίδης, il fanatico di E. Anche scrittori cristiani, e si capisce, massime in sentenze morali e più nella critica dei miti, citarono e lodarono E., talvolta addirittura lo reputarono un precursore del cristianesimo. Più tardi, nel Medioevo, il famoso Christus patiens, del sec. XI o XII, è un centone di passi euripidei, dove p. es. la Vergine parla con le parole di Medea e di Ecuba. E arriviamo a Racine che, più di tutti gli altri tragici greci, tenne E. per modello. L'altissima poesia di Eschilo, proprio al contrario di quel che Aristofane aveva predetto, fu per più secoli dalla più facile poesia di E. oscurata del tutto: si sa che la poesia di Eschilo è una scoperta storica e filologica di poco più che mezzo secolo fa.
E. fu di costumi severi, di temperamento malinconico, di aspetto grave e pensoso; amava la solitudine; a Salamina, e la notizia vale anche se fantastica, dicono passasse gran parte del giorno in una grotta aperta al soffio del mare, meditando e scrivendo; neppure fra convitati sapeva ridere e scherzare. Con barba folta e canuto lo descrive Aristofane nel 411 (Thesm., 190). Ci restano immagini diverse di lui; quella qui riprodotta è del museo di Napoli; i tratti essenziali sono comuni a tutte: barba folta, capelli radi al sommo del capo, abbondanti ai lati e che si confondono con la barba; e un'espressione di tristezza stanca, fortemente incisa nelle rughe del volto e della fronte; ma, in certa piega delle labbra e sotto gli occhi spenti, non senza soavità.
Opere: E. scrisse anche poesie liriche: ci rimangono un distico dell'epicedio in onore degli Ateniesi morti nella spedizione di Sicilia; un epigramma; e pochi versi di un epinicio per Alcibiade tre volte vincitore ai giochi olimpici (cfr. Diehl, I, 76): gli ultimi due di attribuzione sospetta. Dalla Vita e da altre antiche testimonianze risulta con relativa certezza che gli Alessandrini ebbero notizia di 23 tetralogie, e quindi di 92 drammi: ed è verosimile che pochi più realmente E. ne scrivesse perché poche altre volte, oltre quelle 23, si deve supporre che il suo nome comparisse tra i concorrenti di concorsi drammatici. Già di codesti 92 drammi gli Alessandrini possedevano solo 78, cioè 70 tragedie e 8 drammi satireschi: delle 70 tragedie, 67 giudicavano autentiche, 3 spurie; degli 8 drammi satireschi, 7 autentici, 1 spurio. Che di drammi satireschi E. scrivesse solo 8, quando avrebbero dovuto essere uno per ogni tetralogia, pare si possa spiegare in questo modo, che talvolta, anzi che con un dramma satiresco, la tetralogia si chiudeva con una tragedia: come avvenne nel 438 con la tetralogia Le donne Cretesi, Alcmeone a Psofide, Telefo, e, ultimo, l'Alcesti. Di tutta l'opera drammatica di E. a noi rimangono questi 19 drammx Alcesti, Andromaca, le Baccanti, il Ciclope (dramma satiresco), Elettra, Ecuba, Elena, Eracle furente, gli Eraclidi, Ippolito, Ione, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride, Medea, Oreste, le Fenicie, Reso (giudicato non autentico), le Supplici, le Troiane. Ci restano anche, di un'altra sessantina di drammi, più che un migliaio di frammenti, giunti a noi o indirettamente per citazione di scrittori antichi o direttamente da pergamene e papiri. La cronologia è certa, cioè attestata, per 8 drammi soltanto; degli altri è congetturale.
Alcesti. - È la più antica delle tragedie conservate. Fu rappresentata nel 438, come quarto dramma, cioè al posto del dramma satiresco, dopo la trilogia sopra ricordata. A questa sua posizione è dovuta in gran parte la critica antica, e anche moderna, di elementi comici o addirittura satireschi. Se non che la scena stessa di Eracle, appena Eracle sa che proprio Alcesti è morta, ed egli, per gratitudine di ospitalità, come già Apollo per gratitudine di ospitalità aveva concesso ad Admeto che altri morisse in vece sua, si precipita a liberarla dall'Ade, per restituire all'ospite la sua moglie fedele, è condotta con tale finezza e coerenza che non contraddice affatto al tono patetico di tutta la tragedia. E, quanto ad Admeto, bisogna ricordare che la tragedia è tutta quanta, fino dal prologo, in morte e post mortem, non ante mortem, di Alcesti; e questo basta ad eliminare ogni incertezza e incoerenza anche dal carattere di Admeto.
Medea. - Fu rappresentata nel 431. La tragedia è percorsa e sostenuta tutta quanta da una grande ispirazione unitaria. La figura di Medea che, per vendicarsi di Giasone infedele, non solo gli uccide Glauce, la nuova sposa, ma gli stessi figli che Medea ebbe da lui (invenzione, questa, probabilmente euripidea), è una delle creazioni più stupende del teatro greco. Passione e amore, e insieme perversità lucidissima e abilissima, ne costituiscono la mirabile trama; che ha il suo culmine di espressione tragica, nella parlata di Medea ai figli (v. 1119-1180). Unica scena che appare un poco estranea e non necessaria, e già da Aristotele criticata, è quella di Egeo. Ma i motivi patriottici che risuonano qua e là hanno rilievo nell'azione stessa, accentuando e meglio disegnando e giustificando di Medea gli elementi, a contrasto, del suo carattere barbarico. Alla rappresentazione il dramma non ebbe fortuna: Euripide riuscì terzo, secondo Sofocle, e primo Euforione, figlio di Eschilo.
Gli Eraclidi. - Data congetturale, tra il 430 e il 427. Gli Eraclidi sono i figli di Eracle tuttavia perseguitati da Euristeo; i quali finalmente trovano protezione e ospitalità in Atene, presso il re Demofonte, figlio di Teseo. La tragedia vuol essere un'esaltazione di Atene, città di liberi, generosa protettrice e soccorritrice, anche a suo rischio, di supplici e di oppressi. Ma l'intenzione patriottica non aderisce al mito sufficientemente; e il dramma scopre artifici di giunture, e si snoda attraverso scene un po' distaccate, di cui taluna, come quella di Iolao che parte per la battaglia, e l'ultima di Alcmena ed Euristeo, addirittura con tono falso. Meglio condotta è tutta la prima parte che culmina nel sacrificio di Macaria: episodio a sé anche questo, non centro, né mitico né fantastico, della tragedia.
Ippolito. - Tragedia fortunatissima anche d'imitazioni e ispirazioni antiche e moderne: ricordiamo la Fedra di Seneca, di Racine, di D'Annunzio. Solo che nell'Ippolito il motivo centrale è proprio Ippolito, il figlio dell'Amazone, nella sua verginità aspra, nella sua intolleranza ascetica, nella sua devozione ad Artemide pudica, e nel suo dispregio, che gli è fatale, di Afrodite; e Fedra, la matrigna ammalata di amore per il figliastro, giova mirabilmente allo sviluppo drammatico di codesto motivo. Il quale, dalla prima scena dell'arrivo di Ippolito cacciatore, anzi, dal prologo stesso detto da Afrodite, fino all'apparizione finale di Artemide, vi è seguito con una gradazione di tocchi e di toni che in Euripide non è frequente: né c'è bisogno per ciò di citare e lodare scene particolari, come quella, a principio, di Fedra e il coro, e l'altra, subito dopo, di Fedra e la nutrice, finissime, le quali dall'insieme e all'insieme prendono e dànno significato e valore. L'Ippolito fu rappresentato nel 428. Ma prima, e anche prima della Medea, Euripide aveva scritto un altro Ippolito: offendendo, pare, spettatori e giudici per il modo onde aveva figurato Fedra. Gli antichi li distinsero intitolando questo che abbiamo Ippolito porta corona, e l'altro Ippolito velato.
Andromaca. - Data congetturale, tra il 427 e il 425. La tragedia è divisa in due parti: la prima è il dramma di Andromaca prigioniera di guerra di Neottolemo, la quale Peleo riesce a salvare da Ermione e da Menelao; la seconda è il dramma di Ermione, la quale Oreste porta con sé dopo averla liberata in precedenza dal marito Neottolemo. Si potrebbe aggiungere una terza parte, di Peleo che sulla morte di Neottolemo piange la rovina totale della sua casa. In complesso una tragedia poco felice. Andromaca che le dà il nome non le dà nessuna unità: dopo la prima parte neanche appare più in iscena. Le stesse due o tre parti mancano di toni di coesione che uniscano, non dico codeste parti fra loro, ma ciascuna in sé stessa. E l'animo antispartano, che domina la tragedia, resta solo di E., non dei personaggi che lo esprimono: anche se, talvolta, come nella parlata di Peleo contro Menelao, lo esprimano con una volgarità vigorosa.
Ecuba. - Data probabile, il 424. Ci sono anche qui, come nell'Andromaca, due azioni: argomento della prima è il sacrificio di Polissena; della seconda l'uccisione di Polidoro, e la vendetta contro Polimestore. E. si è sforzato, nel prologo, e con allusioni qua e là, di gettare legami tra le due parti; ma sono legami esterni; né vale a unirle la stessa figura di Ecuba, così diversa nella prima parte e nella seconda. Se non che, a differenza dell'Andromaca, le due parti hanno una bella coerenza ciascuna per sé. In sostanza sono due tragedie. Migliore e meglio compatta la prima, così dominata dalla creazione di Polissena; nella seconda, lo stasimo sull'ultima notte di Troia è canto stupendo.
Eracle. - Data assai controversa: la più probabile, intorno al 424. Anche in questa tragedia si distinguono almeno due parti: nella prima Eracle, ritornando improvviso, salva e vendica il padre, la moglie e i figli, minacciati di morte da Lico re di Tebe; nella seconda, impazzisce, fa strage della moglie e dei figli, riacquista, con orrore, l'inutile senno, segue Teseo ad Atene. Vogliono trovare fra le due parti un voluto contrasto e quindi una superiore unità nell'espressione di un pessimismo disperato: se non che le due parti restano sempre due, e anzi tre, perché anche l'arrivo di Teseo non è giustificato necessariamente. Bellissima, sopra tutte, la parte seconda, nella rappresentazione, in tre momenti mirabilmente graduati, della pazzia.
Le Supplici. - Dopo la battaglia di Delio, nel 424, i Tebani avevano negato agli Ateniesi di seppellire i loro morti. La tragedia, che si pone appunto dopo il 424, e più precisamente, pare, nel 422, fu inspirata da questo episodio. Le Supplici sono le madri dei sette eroi argivi caduti nella guerra contro Tebe, le quali pregano Teseo che le aiuti a ottenere dal re di Tebe, Creonte, la restituzione e la sepoltura dei figli. È, come gli Eraclidi, una tragedia di esaltazione patriottica; se non che il tono di questa esaltazione, sull'umanità la generosità la civiltà di Atene, è assai più intimo che non negli Eraclidi. Vera e propria azione drammatica c'è solo nell'episodio di Evadne, inserito abilmente, ma artificiosamente, verso la fine. Dové esserci, in compenso, grande solennità coreografica.
Ione. - Data probabile il 418. Il dramma vorrebbe essere una celebrazione dell'autoctonia attica: Ione, figlio di Creusa e di Apollo, nipote di Eretteo, è l'eroe eponimo e capostipite degli Ioni. Il motivo patriottico vi è indotto senza fatica; appare nello sfondo archeologico e mitico, nelle descrizioni del tempio e della sala convivale, e in altri particolari; conferisce esso stesso al tono del dramma. Il quale è disegnato tutto quanto in una trama fiabesca e romanzesca, con grazia serena, con incredulità sorridente, con tocchi di leggerezza aerea e musicale.
Le Troiane. - La tragedia fu rappresentata il 415 in una tetralogia di argomento troiano. E. fu secondo. È di struttura episodica, come l'Andromaca e l'Ecuba, dove gli episodî non sono legati fra loro da unità necessaria. Solo che in questa gli episodî, benché o perché più numerosi, hanno tra loro un migliore accordo: nell'angoscia della città distrutta, dei figli uccisi, delle donne regali tratte in servitù; nella disperazione di ogni vana probità e virtù. Tragedia essenzialmente lirica e affettiva. La monodia nuziale di Cassandra, di un'allegrezza funebre, e il lamento di Ecuba sul cadavere di Astianatte, sono del più perfetto stile euripideo.
Ifigenia in Tauride. - Data congetturale il 414. È una delle tragedie più meritamente famose del teatro greco: famosissimo il duplice riconoscimento di Oreste e di Ifigenia, e il generoso contrasto di Pilade e oreste. Ma il merito che più la distingue è il suo perfetto equilibrio, non mai rotto da nessuno di quegl'interventi personali così soliti nella poesia di E.: anche la critica al mito barbarico, anche l'antitesi patriottica fra Greci e barbari, anche l'accentuazione un po' ironica di certe naturali o necessarie inverosimiglianze, tutto vi è appena toccato, e tutto commisurato e temperato nell'armonia dell'insieme: raro e felice caso in cui E. dimenticò e abbandonò sé stesso nella propria creazione.
Elettra. - Data congetturale il 413. E. vi riprende il tema del matricidio di Oreste, già trattato da Eschilo nelle Coefore e da Sofocle nell'Elettra; evidentemente con intenzioni polemiche: contro scene particolari, massime di Eschilo; in genere contro l'interpretazione mitica tradizionale. Tragedia di grande ardimento, e che per ciò solo non merita il dispregio onde è di solito giudicata; ma di sforzata struttura, con persone e situazioni volute, da E., non giustificate dal poeta.
Elena. - Rappresentata nel 412. Stesicoro aveva immaginato che un fantasma di Elena era andato con Paride a Troia, non la vera Elena, trasportata da Ermes in Egitto e ivi celata gli anni della guerra e delle peregrinazioni successive di Menelao. Su questa immaginazione E. costruì la sua tragedia: che è tragedia d'intrigo romanzesco e fantasioso, sul tipo dell'Ione e della Ifigenia Taurica. Anzi di questa l'Elena ripete addirittura schema e situazioni; ma con assai minore fluidità e leggerezza.
Le Fenicie. - Data congetturale il 409. La tragedia ha la struttura episodica delle Troiane. Tratta lo stesso argomento dei Sette a Tebe di Eschilo. Ma quanto è semplice quella nel suo svolgimento lineare, tanto è complicata e variata questa di episodî e personaggi molteplici; e il raffronto è singolarmente istruttivo e dimostrativo. Anche qui il centro mitico è la fiera inimicizia di Eteocle e Polinice: se non che, proprio su questo mito di guerra e di odio, il materno amore di Giocasta e il suo suicidio, il sacrificio di Meneceo, lo strazio di Edipo, la pietà di Antigone (nasce da questa l'Antigone dell'Edipo a Colono), distendono quella tenerezza accorata, intima, commossa che è l'accento piiù notabile dell'animo e della poesia di E.
Oreste. - Rappresentato nel 408. È forse la tragedia dove la dissonanza degli accordi appare più aspra che altrove. E. vi riprende il tema delle Eumenidi di Eschilo: ceito con novità singolarissima di motivi e di affetti; bellissima, p. es., in principio, la scena tra Elettra e Oreste e il coro; ma anche, specie nell'ultima parte, con intreccio e groviglio di casi, i quali appariscono più suggeriti da capriccio che da ispirazione.
Ifigenia in Aulide. - Il tema del sacrificio eroico di umili creature non eroiche, che E. specialmente diligeva (ricordiamo Macaria, Polissena, Alcesti), ha in questo dramma la sua espressione più compiuta e più pura. Intorno a Ifigenia, presente anche se assente, tutto il dramma si raccoglie, di azione, di persone, di poesia. E certe difficoltà e incoerenze di caratteri notate da antichi e moderni, per es., di Menelao e di Ifigenia medesima, in realtà si disciolgono a un'analisi più avveduta. La Ifigenia in Aulide fu rappresentata dopo morto il poeta, o l'anno stesso della morte, il 406, o il 405, dal figliolo di E.; forse dal poeta era stata lasciata incompiuta; poté subire già allora, e più dopo, massime nel finale, qualche rimaneggiamento.
Baccanti. - Rappresentata insieme con l'Ifigenia in Aulide. La tragedia è di struttura semplicissima, quasi senza intreccio: un'unica azione la sostiene, la gioconda e terribile vendetta di Dioniso; appena distinta e rilevata, come in due pause da due grandi racconti: del contadino che descrive i prodigi delle Baccanti, del nunzio che narra la morte di Penteo. In questa giocondità e terribilità è il suo fascino. Pare una esaltazione di Dioniso; e in certo senso è realmente; ma proprio nel fondo di quella ebbrezza dionisiaca, che è anche ebbrezza fantastica del poeta, si scopre del poeta il solito giudizio amaro degli dei, degli uomini, della vita; più amaro anzi e più profondo e più sconsolato in questa che in tragedie precedenti. La tragedia fu ed è tuttavia argomento delle interpretazioni più disparate (annoverate e discusse in C. Bonfiglioli, Il dramma nelle "Baccanti" di E., Pisa 1924).
Il Ciclope. - È l'unico dramma satiresco di tutto il teatro greco che ci sia pervenuto intero. Ed è cosa stupenda. Il mito viene dal IX dell'Odissea; ma la fantasia di mettere a contatto, con Polifemo, Sileno e i Satiri, è, uno sviluppo fecondissimo e genialissimo dell'episodio del vino di Marone; e l'invenzione tutta quanta, con le sue stesse inverosimiglianze, si svolge dentro una misura unica di spensieratezza festevole e gioconda.
Reso. - Vi è drammatizzata la Dolonia omerica (Iliade, X). Già gli antichi sospettar0no che il dramma non fosse di E.; i moderni hanno confermato questo sospetto.
L'attività di E. noi conosciamo solamente a partire dal 438, cioè da quando E. aveva sorpassato i quarant'anni; e questa attività, anche tenendo conto di notizie e frammenti di drammi perduti, si suole dividere all'ingrosso in tre periodi cronologicamente distinti dai miti trattati: miti al tutto nuovi, cioè non trattati da poeti precedenti, in un primo periodo (per es., Alcesti, Medea); miti d'intonazione patriottica in un secondo (per es., Eraclidi, Andromaca, Eracle, le Supplici, Ione); miti non nuovi, ma nuovamente interpretati in un terzo (per es., Ifigenia Taurica, Elettra, Elena, le Fenicie, Oreste). È distinzione grossolana, con facili scambî e omissioni o inserzioni fallaci. Piuttosto, anche solo a guardare gli argomenti delle tragedie rimaste, una cosa apparisce notabile sopra tutte: la novità del mito o la novità dell'interpretazione, che in fondo è lo stesso. La quale non è la novità consueta, e, diciamo, inconsapevole, di ogni poeta drammatico e non drammatico; bensì è novità consapevole, cercata, voluta, segnatamente, si capisce, nei miti di nuova interpretazione, e che rivela per sé stessa un'esigenza singolare dello spirito del poeta. Esigenza critica: critica dei miti e delle tradizioni religiose, anzi tutto; e poi critica di costumi, di atteggiamenti, d'idee, di concetti e problemi della vita, di produzioni poetiche, e insomma critica morale, politica, filosofica, letteraria, sociale. Né questa critica è solo lievito che fecondi la creazione del poeta, e quivi rimanga dispersa o celata; perché da ogni parte prorompe, e dovunque fa impeto, e diviene polemica, e sforza limiti e forme. Ogni poeta che sia davvero poeta ha di necessità un suo modo di guardare le cose, e cioè di filosofare; una sua cultura, una sua disciplina, una sua etica, una sua politica; ma in E. queste qualità appariscono come tali, e come tali sono presentate, e consapevolmente e volutamente esibite; non sempre servono esse al poetare, ma il poetare ad esse; e le persone dei drammi non dicono ciò solo che la loro natura e i casi dell'azione vorrebbero che dicessero, ma anche e spesso, fuori della creazione poetica, ciò che vuole il poeta. In quella spregiudicatezza e libertà spirituale, che, massime per opera dei sofisti, si vennero formando nella società ateniese colta subito dopo le guerre persiane, e dominarono tutta la seconda metà del sec. V e oltre, anche E. è come agitato e concitato dal bisogno di rendersi conto di tutto, di riesaminare tutto, di non accettare, di proporre a sé stesso su ogni cosa nuovi problemi e nuove soluzioni. Sofocle è ancora uomo antico, che accetta: E. non accetta più, discute; e volge attorno il suo occhio curioso e aguzzo che per ciò è anche ironico talvolta e beffardo. Non ha un sistema coerente e positivo d'idee; più gl'importa negare che affermare. Non è irreligioso, e ateo tanto meno; ma del suo sentimento religioso ha solo espressioni vaghe; lo offendono degli dei e dei miti e di certi costumi (oracoli, diritto d'asilo, ecc.) immoralità e inverosimiglianze. Ama Atene e la democrazia e isonomia di Atene, e odia i nemici d'Atene, Spartani e barbari; ma anche odia la guerra, e l'orgoglio brutale della vittoria, e le rozze esaltazioni agonistiche. Del resto, le sue stesse negazioni, come la sua famosa misoginia, sono spesso un tratto di spirito, un motto, una fantasia giocosa e niente più. A codesto atteggiamento negativo spiriti e forme gli offrivano appunto la sofistica e la retorica; d'altra parte gli veniva incontro, consenziente, il gusto del pubblico per l'oratoria politica e giudiziaria, per il contraddittorio, per l'analisi sottile, per il paradosso raffinato. E così non c'è suo dramma, si può dire, dove egli non introduca di codeste ἅμιλλαι λόγων, di codeste contese e gare di parole: con l'accusato, l'accusatore, e il giudice rappresentato da un terzo personaggio, che talora è il coro stesso. Anche in Sofocle ce n'è taluna; anche in Eschilo; ma in E. con uno sviluppo speciale, con uno speciale rilievo, e soprattutto con la coscienza e con la volontà di codesto sviluppo e di codesto rilievo. Adibisce di proposito formule consuete; suggerisce cautela contro le lusinghe oratorie; sottolinea, in persona di Giasone, il bel parlare di Medea; accentua e deride l'eloquenza verbosa dell'araldo tebano nelle Supplici; nota d'inopportunità certo sentenziare di Ecuba. E in queste contese di tutto si contende: di monogamia e di concubinato; di monarchia e democrazia; di Atene e di Sparta; di atletica e di musica; della vita politica e della vita privata; anche della lancia e dell'arco: e tutto codesto non sempre aderendo, spesso contrastando al tono della poesia, anche nelle parlate che appariscono più proprie dei personaggi in azione. Dovunque il poeta interviene: e questo intervento, questa presenza vigile e continua, è appunto, in certo senso, uno dei segni più distintivi e più facilmente osservabili della sua poesia e della sua arte. Non accade in E., come in Eschilo e come in Sofocle, che, dati quei personaggi, in quei loro immaginati rapporti, in quella loro immaginata situazione, codesti personaggi si muovano da sé, come abbandonati dal poeta, e il dramma si svolga per impeto proprio, in una coerenza logica, serrata, lineare; anche nelle tragedie di E. più unite e concluse, l'occhio di E. ogni tanto apparisce, la sua parola ogni tanto si ascolta. La sua personalità non si fonde tutta nelle sue creazioni; gran parte rimane fuori, ma accanto. Egli vuole pur dire certe cose sue, vuole ottenere certi suoi effetti, vuol provocare certi atteggiamenti e certi movimenti di azione: talora interviene perfino con istruzioni aperte agli attori. Nasce di qui il senso che E. sia più preoccupato del particolare che dell'insieme, più della scena che della tragedia. Ci sono tragedie, e non poche, che veramente sono costruite di scene o di gruppi di scene: nelle quali ricercare unità d'ispirazione è fatica vana: la sua sensibilità analitica e critica, il suo mancato abbandono, inducevano naturalmente il poeta a codeste fratture. Certe coincidenze mitiche, certi accostamenti strani, che in Eschilo erano non giustificati ma voluti da un'atmosfera religiosa dominatrice (pensiamo alle Coefore), in E., mancando quell'atmosfera, restano combinazioni e spedienti di abilità tecnica, del poeta, non della poesia. Anche: la novità dei miti, e, più, d'interpretazione dei miti, deliberatamente critica e polemica, rendeva necessarie dichiarazioni esegetiche: al principio della tragedia, nel cosiddetto "prologo" alla fine, nella scena del cosiddetto deus ex machina. Non è vero, come s'usa ripetere da Platone in poi, che il deus ex machina risolva il nodo dell'azione altrimenti insolubile: questo avviene una volta soltanto, nell'Oreste, e male; di solito il deus ex machina, quando c'è, sancisce l'istituzione di un culto, definisce una tradizione locale; in ogni modo chiarisce il mito nelle sue conseguenze, come il prologo lo chiarisce nei suoi precedenti. Nella stessa intenzione del poeta sono fuori tutti e due, quasi sempre, della tragedia propriamente detta; solamente il prologo, qualche volta, riesce a fondersi con la tragedia: per es. nell'Ippolito, dove la poesia supera l'intenzione. E sono queste tre, frammentarietà della tragedia in scene ed episodî, prologo e deus ex machina, le novità esterne più appariscenti del teatro di E.; se ne aggiunga una quarta, i canti del coro: i quali troppo spesso col dramma hanno solo rapporti occasionali e indiretti, o estranei del tutto; quando addirittura le persone del coro, come nelle Fenicie, solo per un malo e strano artificio sono portate a contatto con le persone dell'azione.
Ora, il problema critico della poesia di E. è proprio qui, in questo contrasto fra consapevolezza e abbandono, tra razionalismo e fantasia, tra vigilanza critica e ispirazione. Né è così posto, come parrebbe, il problema critico di altri poeti, perché in nessun altro poeta come in E. l'elemento critico anche penetra nella creazione, la motiva dall'interno, la feconda, vi si discioglie; e l'intervento personale del poeta non sempre diminuisce né distrugge, ma anche accentua di un tocco speciale, illumina di uno speciale rilievo, quasi indica col gesto di un commentatore sagace l'opera stessa della fantasia. Il contrasto è rischioso e determina un equilibrio di gradazioni mobilissimo; ma conferma dovunque, anche nelle sue manchevolezze e bruttezze, né piccole né scarse, la poesia grandissima di E. Quando nell'Elettra E. inventa, per polemizzare con Eschilo, la scena del riconoscimento di Elettra e di Oreste, sentiamo subito che codesta invenzione è prodotta da un intellettualismo artificioso; ma quando nell'Ione egli gioca col suo mito, irride agli oracoli e ai capricci amorosi di Apollo, sentiamo che la poesia è in quel giuoco, e certe battute ironiche e giocose di Ione e Xuto, di Ione e Creusa, sono nel tono di codesta poesia; e se, nella Ifigenia Taurica, Ifigenia non crede a un'Artemide sanguinaria e barbarica, codesta incredulità già scopre il motivo fiabesco del mito; alleggerisce, colorandolo di codesto motivo, il terrore del sacrificio, prenuncia la liberazione di Oreste: e l'Ione e l'Ifigenia sono due capolavori. Ma dall'attitudine critica di E. nasce un sentimento sopra tutti dominatore. Egli è poeta essenzialmente antieroico; si distacca radicalmente dalla tradizione epico-eroica dei suoi predecessori e contemporanei, tragici e lirici; si riavvicina, se mai, all'antieroicismo di Archiloco. Gli eroi dell'epica o li trascura o li umilia, riducendoli a proporzioni comuni e volgari. Anche Agamennone è un meschino re; neppur lo commuove come padre. I suoi re o sono prepotenti e brutali come Lico e come Menelao, o sono stolidi come Toante e Teoclimeno, o sono scolorati come Teseo e Demofonte. Né le vesti stracciate di alcuni di codesti suoi re, così derisi da Aristofane, sono il segno della loro umiliazione; nei Persiani di Eschilo, anche stracciato e squallido, Serse è re grandissimo e nobilissimo. Unico eroe che E. accetti e rispetti è Eracle, di tradizione non omerica, benefattore generosissimo; che della sua generosità e dei suoi benefici ha dagli dei premio la pazzia, e la distruzione dei suoi e di sé: e l'Eracle, fra le tragedie di E., è una delle più desolate e amare. Prevale, nell'animo e nella fantasia di E., lo spettacolo di un'umanità dolorosa; il suo mondo poetico è popolato di creature umili tutte, anche Medea, anche Fedra, travolte da passioni, percosse da sventura, ludibrio di cieca fortuna. E. è il poeta della simpatia umana e della pietà. Perciò egli primo introdusse donne nella tragedia: ossia donne con animo di donna, non donne di taglio maschile come la Clitennestra e l'Elettra di Eschilo e come l'Antigone di Sofocle; e bambini; e contadini e schiavi; e ammalati e stanchi; e scene d'amore; ed episodî tenerissimi di pietà filiale e materna. Anche i suoi massimi eroi sono donne: le quali proprio dalla loro fragilità, bontà e mitezza traggono forza e bellezza di eroismo: che è eroismo di sconfitta, non di vittoria, accettazione di sacrificio, obbedienza, dono, rinuncia. Tenerezza e pietà sono gli accenti prediletti di questo poeta. Alcesti, Ifigenia, Polissena, Fedra, Medea, Ecuba, sono creature immortali. E il poeta accarezza queste sue creature; ne loda egli stesso la nobiltà, ne piange la sorte; quasi le circonda di una sua attenzione vigile; scopre dettagli finissimi di tenerezza e di grazia: Glauce che si volge a guardare come le cada sui talloni il peplo fatale; Medea che, salutando i figli, ne sente la morbida pelle, ne respira il dolcissimo fiato; Fedra che prega la Putrice di alleggerirle il peso dei capelli; Ecuba che nello scudo di Ettore vede ancora le orme del suo braccio, scopre ancora le tracce del suo sudore di battaglia; le giovani spose troiane che, a notte alta, ignare della rovina imminente, cingono di bende i capelli, si abbigliano per il talamo dinnanzi agli aurei specchi profondi. Né rifiuta anche particolari di più umile tono: il pettegolezzo delle donne che mettono male nell'Andromaca, il chiacchiericcio delle Trezenie nell'Ippolito, la curiosità delle fanciulle di Aulide nella Ifigenia. Il dettaglio realistico è uno degli elementi più notabili e più consueti della poesia euripidea; in quanto espressione rivelatrice del suo sentimento, della sua simpatia, della sua pietà: strumento docilissimo, il linguaggio della vita quotidiana e familiare. Anche la musica realistica, venuta di moda, con le sue danze mimetiche e atti descrittivi, negli ultimi anni del secolo, dové conferirgli ricchezza larga di motivi: poco ne abbiamo, meno ne sappiamo: l'adoprò in monodie, in dialoghi lirici di attori specializzati, dove il patetico aveva concitazione maggiore; appena si avverte che la parola, con sue ripetizioni e assonanze e risonanze, sottostava al colorito e alle variazioni del canto. Ma espressione compiuta della sua grande simpatia e pietà umana è nel tocco celere, nell'abilità felicissima, ond'egli trova espedienti, pone a contatto persone, costruisce scene, annoda intrecci, immagina racconti, inventa riconoscimenti e peripezie. Pare lo preoccupi talora, massime in certi stacchi di scene e di tempi, e più dove più sente importuna la presenza del coro, e adombri il suo occhio critico, sospetto d'inverosimiglianza: se ne libera scoprendo da sé il suo gioco, superando con un atto d'incuria la sua critica stessa. È chiaro che egli non ebbe il senso né il proposito dell'unità; né cercò lode per codesto; né per codesto il pubblico lo spregiò e pregiò. Anche a lui allude Aristotele quando parla di tragedie episodiche e di composizioni a cui non può dare unità la pretesa unità del personaggio; e lo definisce, dei poeti tragici di Grecia, il più tragico. E l'ultimo. Dopo di lui, il suo realismo, il suo, "borghesismo", e certi suoi modi d'intreccio con impensati ritrovamenti e riconoscimenti, abbandonato il tragico della pietà, sboccarono nella commedia nuova di Menandro.
Fonti. - Le fonti principali e più antiche sulla vita di E. sono: 1. frammenti assai estesi di un βίος Εὐριπίδου, di Satiro, biografo peripatetico che fiorì intorno al 200 a. C., scoperti e pubblicati nel 1912 (Oxyr. Pap., IX, 1176); 2. un γένος Εὐρυπίδου χαὶ βίος che abbiamo da mss. euripidei, compilazione certamente disordinata ma preziosa, che ha coi frammenti di Satiro parecchi punti di contatto, che cita espressamente e più o meno direttamente adibisce Filocoro, Eratostene ed Ermippo. Questi due documenti ci riportano a scritti biografici ed eruditi di grammatici alessandrini. Altre notizie su E. in Aulo Gellio (Noct. Att., XV, 20), in Suida (s. v. Εὐριπίδης), nella Vita di Thomas Magister derivano in generale dalle due fonti sopra dette. Né, come fonte di notizie occasionali, anche se deformate da spirito comico, va dimenticato Aristofane.
Storia del Testo. - La storia del testo di E. non differisce gran che dalla storia del testo degli altri tre tragici; la quale dalla tradizione medievale bizantina ci permette di risalire ai commentarî e alle edizioni dei grammatici alessandrini (Didimo, Callistrato, Aristofane di Bisanzio), agli studî dei peripatetici, e talora anche a interpolazioni e mutazioni di attori contemporanei o di poco posteriori a E. stesso. Se non che, mentre di Eschilo e di Sofocle noi possediamo solo le tragedie da una scelta che fu fatta verisimilmente nel II sec. d. C., al tempo di Adriano, e le altre tragedie, in conseguenza della scelta medesima, andarono presto smarrite e perdute, di E. invece, oltre le tragedie della scelta (10 drammi), ne possediamo anche altre che derivano da una compiuta edizione dove i drammi erano distribuiti per ordine alfabetico. Infatti i manoscritti di E. si distinguono nettamente in due famiglie: la prima, di cui i mss. principali sono del sec. XII e XIII (i più importanti sono il Marciano 471 e il Vaticano 909) ci dà nove drammi, che erano sicuramente tutti quelli della scelta meno uno, e che nella scelta avevano quest'ordine: Ecuba, Oreste, Fenicie, Ippolito, Medea, Alcesti, Andromaca, Reso, Troiane. La seconda famiglia, di cui i manoscritti sono del sec. XIV (i più importanti sono il Palatino 287 e il Laurenziano XXXII, 2, riprodotto fototipicamente da J. A. Spranger, Firenze 1920) di minor valore rispetto a quelli della prima famiglia ma di valore inestimabile per gli altri drammi che essi solo ci hanno conservati, ci dànno tutti i 19 drammi: i nove sopra detti; poi le Baccanti, che dovevano far parte della scelta; poi, in ordine alfabetico (a eccezione del Ciclope che vi si trova inserito fra l'H e l'I), altri nove drammi, Elena, Elettra, Eracle, Eraclidi, Ciclope, Ione, Ichetidi, Ifigenia in Tauride, Ifigenia in Aulide. Solo i nove drammi della prima famiglia hanno scolî abbondanti, e più i primi tre, Ecuba, Oreste e Fenicie, che costituivano una seconda scelta bizantina. Gli scolî, e le ὑποϑέσεις che precedono ogni tragedia, sono il migliore documento per la storia del testo e della critica euripidea.
Edizioni e tradizioni. - Editio princeps, Firenze 1496, curata da I. Laskaris (Medea, Ippolito, Alcesti, Andromaca). Aldina 1503, curata da M. Musuros; con tutte le tragedie eccetto l'Elettra, aggiunta poi da P. victorius nel 1545. L'edizione compiuta, con scolî e commentario, di T. Barnes, Cambridge 1694, riassume tutto il lavoro critico ed esegetico dei secoli XVI e XVII. L'edizione di A. Kirchhoff, Berlino 1855, 2 voll. (ed. minor 1867, 8), rinnovò le basi della critica del testo. Edizioni più recenti: Prinz-Wecklein, 3 voll., Lipsia 1878-1902; Nauck, 3ª ed., Lipsia 1892-95; Murray, Oxford 1901-1925, 2 voll.; Les Belles Lettres, Parigi, I, 1925; II, 1927; III, 1923; IV, 1925. Edizione parziale (importante anche per la storia del testo), H. Weil, Sept tragédies d'E. avec un comm. crit. et explic. (Ippolito, Medea, Ecuba, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride, Alcesti, Oreste) ottima, 2ª ed., Parigi 1879. Fondamentale, anche per l'introduzione, l'edizione dell'Eracle, commentato da U. v. Wilamowitz-Moellendorf (Berlino 1889), più volte ristampata. Traduzioni italiane complete di F. Bellotti (voll. 3, Firenze 1875), e di E. Romagnoli (voll. 7, Bologna 1928); notevole per la storia dell'interpretazione la traduzione parziale, in tedesco, di U. v. Wilamowitz-Moellendorf, Berlino 1889-1925. Edizione dei frammenti: Nauck, Trag. Graec. Fragm., 2ª ed., Lipsia 1889, pp. 361-716; H. v. Arnim, Supplementum Euripideum, Bonn 1913. Edizione degli scolî: E. Schwartz, voll. 2, Berlino 1887-91.
Bibl.: Sul teatro, in genere, di E.: P. Decharme, Euripide et l'esprit de son théâtre, Parigi 1893; W. Nestle, Euripides, der Dichter der griech. Aufklärung, Stoccarda 1901; P. Masqueray, Euripide et ses idées, Parigi 1908; G. Murray, Euripide and his age, Londra 1922; H. Steiger, Euripides, Lipsia 1912; U. v. Wilamowitz-Moellendorf, Die griechische Tragödie und ihre Drei Dichter, Berlino 1923; M. Pohlenz, Die griechische Tragödie, Lipsia 1930, p. 240 segg.; E. Howald, Die griechische Tragödie, Monaco 1930, p. 133 segg.; G. Perrotta, I tragici greci, Bari 1931, p. 151 segg. Per la metrica e la musica euripidea: O. Schröder, Euripidis cantica, Lipsia 1928; T. Zielinski, De trimetri euripidei evolutione, in Tragodoumenon libri tres, II, Cracovia 1925; C. Del Grande, Espressione musicale dei poeti greci, Napoli 1932, pp. 102-119. Per l'influsso di E.: A. Rostagni, Poeti Alessandrini, Torino 1916, p. 5 segg. Per E. e la commedia nuova: G. Pasquali, Studi sul dramma attico, in Atene e Roma, 1917, pp. 177-189; 1918, pp. 12-24, 55-77.