Europa orientale e Grecia
La complessa e intricata vicenda della fortuna del pensiero politico di M. nell’Europa centro-orientale si inserisce, secondo lo storico ceco Josef Macek (1980) nel contesto della «storia della secolarizzazione della teoria politica». L’evoluzione del machiavellismo e dell’antimachiavellismo non è solo «un triste capitolo della storia dell’ipocrisia», ma contrassegna i diversi stadi attraversati nella «secolarizzazione dell’ideologia politica» in Europa. Da una parte, M. è un «ritardatario eccellente», perché nell’Europa centro-orientale la sua opera è stata tradotta nelle diverse lingue nazionali solo a partire dal 19° secolo. D’altro canto, però, la sua diffusione è stata preceduta dalla disputa sul machiavellismo, quale «mito politico» che ha assunto una valenza metastorica e polisemica in quanto sottoposto «a tutti i mutamenti e alle insidie del gioco politico» (Macek 1980, pp. 383-84). Nell’ambito della «storia europea del machiavellismo», l’Europa centro-orientale, infatti, è stata una sorta di eterotopia, perché ha svelato i paradossi terminali di quella apocrifa «scuola del potere» inaugurata dal Principe e fondata sulla crudeltà, la perfidia e l’immoralità. La specificità eterotopica dell’Europa centro-orientale è stata rilevata dallo stesso M. dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 e l’affermazione dell’impero ottomano come principale potenza dell’Europa danubiano-balcanica. Per M. il sistema politico turco è paradigma di un regime dispotico e smisurato: «Tutta la monarchia del Turco è governata da uno signore: li altri sono sua servi» (Principe iv 6). La politica espansionista dell’impero ottomano favorì nell’Europa centro-orientale – a eccezione della Polonia – l’affermazione dell’assolutismo monarchico creando, secondo Angelo Tamborra (cfr. Tamborra 1972, p. 103), un ambiente politico ricettivo delle considerazioni realistiche di M. sul principe e sullo Stato.
Il primo incontro tra l’Europa centro-orientale e M. avvenne sul territorio della penisola, perché le università italiane attiravano la gioventù studiosa proveniente da tutte le nazioni europee. Come mito politico, il machiavellismo è stato identificato sia con il dispotismo e la tirannia sia con la repubblica e la rivoluzione. Un caso emblematico è quello della Polonia: il termine makiaweliczny («machiavellico») entrò nel lessico politico polacco alla fine del 16° sec., mutuato dalla pubblicistica ugonotta. L’agone politico polacco era occupato dalla cruenta lotta tra il re e la Sejm («Dieta nobiliare») per l’attribuzione del liberum veto e il termine makiaweliczny divenne una sorta di ‘ingiuria politica’ indirizzata sia contro i sostenitori della monarchia assoluta sia contro i fautori della Rzeczpospolita («Repubblica»), accusati di essere i responsabili dell’anarchia politica. Krysztof Warszewicki (1543-1603), che aveva studiato a Bologna ed è stato definito il ‘M. polacco’, in Paradoxa (1579) e in De optimo statu libertatis (1598) elargiva al re Zygmunt III Waza una serie di consigli al fine di consolidare il proprio potere contrastando con ogni mezzo l’influenza della Dieta nobiliare: «in uno stato unico, un re soltanto deve governare e decidere» (Malarczyk 1969b, p. 13).
Nel 17° sec. il retaggio spirituale di M. fu fatto proprio dal poeta ungherese Miklós Zrinyi (16201644). I pubblicisti ungheresi si limitavano a diffondere l’antimachiavellismo cattolico e calvinista, presentando M. come un «maestro di intrighi, ateo e cultore della tirannia»; Zrinyi, invece, operò una cesura con quella filosofia politica dominata dalle «disquisizioni religioso-moralizzanti di teologi riformati o di esponenti della Controriforma cattolica» (Tamborra 1972). Zrinyi elogiò l’etica politica machiavelliana basata sulla virtù intesa come vitészég («prodezza»), senza la quale non si poteva sconfiggere il Turco, anche perché, come rileva M., «a chi assalta el Turco è necessario pensare di averlo a trovare tutto unito» (Principe iv 11).
Mentre nei Paesi cechi il machiavellismo e l’antimachiavellismo, tra i secoli 16° e 17°, furono mediati dalle dispute tedesche, presso gli slavi del Sud l’influsso di M. ispirò le opere del commediografo raguseo Marin Držić (Marino Darsa, 1510 circa - 1567) e del pensatore politico croato Juraj Križanić (16181683). Tra il luglio e l’agosto del 1566, Držić scrisse, da Firenze, cinque lettere a Cosimo I de’ Medici per indurlo a partecipare alla «santa e facile» impresa di rovesciare il governo oligarchico della Repubblica di Ragusa. Il M. degli slavi fu il croato Križanić che in Politika, un saggio di tecnica politica ispirato al Principe, raccomandava allo zar di Russia Aleksej di non soccombere al «male polacco» e di non dissipare l’autorità regia, anche se lo zar doveva essere affiancato da un’assemblea nazionale al fine di forgiare una migliore legislazione. Alla Russia era attribuita la missione di liberare tutti i popoli slavi dal dominio turco e austro-tedesco.
Nel 19° sec. le opere di M. cominciarono a essere tradotte nelle lingue dei popoli dell’Europa centro-orientale: il Principe fu pubblicato in ungherese nel 1848 e in polacco nel 1868. Nella temperie della ‘primavera dei popoli’ ci fu un rovesciamento del paradigma antimachiavellico. Tratto dall’abisso del machiavellismo malvagio, per i «cavalieri erranti» dei risorgimenti nazionali, il Segretario fiorentino non era più il gelido esteta, fautore dello Stato come opera d’arte, e «supremo maestro di falsità e perversità», ma il precursore del patriottismo ardente e della lotta dei popoli per la libertà e per l’indipendenza. Nei Paesi cechi, Karel Havlíček Borovský pubblicò nel 1850 un saggio nel quale sosteneva che la lettura del Principe era una rivelazione del carattere «abbietto del governo assoluto» e un incitamento alla lotta contro la «scellerata e diabolica» monarchia asburgica. Il Principe fu pubblicato per la prima volta in ceco nel 1873, tradotto da Bedřich Pacák esponente del movimento dei giovani cechi e, in seguito, ministro a Vienna. Pacák appose la triade rivoluzionaria «libertà, uguaglianza, fraternità» sotto il titolo del Principe, quale vangelo della «democrazia radicale».
Nel 20° sec. il paradigma del machiavellismo ha subito un ulteriore rovesciamento ed è stato considerato la prima ipostasi delle dittature totalitarie e il paradosso terminale delle rivoluzioni moderne. Nel 1937, il rumeno Valeriu Marcu pubblicò un libro su M. e il suo tempo che è una sorta di trattato sulla genealogia della dittatura nell’età moderna. M., secondo Marcu, è un «tecnico del Potere» che si estrinseca alla sua massima potenza nella dittatura. M. ha scoperto la «nuova realtà del potere»: la dittatura sostenuta da un ampio consenso popolare. Il «dittatore del popolo», quale figura idealtipica dell’età moderna, appare sia nei Discorsi sia nel Principe. M., per Marcu, ha scoperto e formulato il terrore quale strumento crudele della sovranità; e il Principe è il breviario del realismo politico sul quale si è formata quella scuola del potere che è approdata alla dittatura totalitaria.
Al di là del cliché del machiavellismo rivoluzionario e totalitario, il filosofo e storico delle idee polacco Leszek Kołakowski ha rilevato che il principio «il fine giustifica i mezzi» non può essere attribuito a M., il quale ha avuto il merito di strappare la «maschera delle dottrine bigotte», spogliando il meccanismo della «lotta rapace per il potere dalle ipocrisie del moralismo cristiano». Dal canto suo, il filosofo rumeno naturalizzato francese Emil Cioran ha sostenuto che M. torna a essere d’attualità perché la crisi dei miti del progresso e della libertà forgiati tra i secoli 18° e 20° ha ricondotto l’età contemporanea allo stato aurorale dell’umanesimo tragico (Cioran 1955). Affermando che la politica esula da una prospettiva morale e ideale, perché si definisce nella «costante terribile della natura umana», l’antropologia tragica di M. è più moderna di quella ottimista dell’idea di progresso, perché è ostile a tutte le utopie e si attiene alle circostanze e alle fluttuazioni storiche. M. ha messo in guardia contro i pericoli della bontà e dell’eudemonismo forzato, ponendo in evidenza che la società non è altro che una «giungla organizzata».
Bibliografia: V. Marcu, Machiavelli. Die Schule der Macht, Amsterdam 1937; E. Cioran, préface à N. Machiavelli, Le Prince, Paris 1955, pp. 7-16; T. Klaniczay, Un machiavellista ungherese: Miklós Zrinyi, in Italia e Ungheria: dieci secoli di rapporti letterari, a cura di M. Horányi, T. Klaniczay, Budapest 1967; J. Malarczyk, Machiavellismo e antimachiavellismo nell’Europa orientale del Cinquecento, in Machiavellismo e antimachiavellici nel Cinquecento, Atti del Convegno, Perugia 30 settembre-1° ottobre 1969, Firenze 1969a, pp. 106-16; J. Malarczyk, La fortuna di Machiavelli in Polonia, Wrocław 1969b; A. Danti, Machiavelli e l’Europa orientale, «Accademie e biblioteche d’Italia», 1970, 38, 3, pp. 180-89; A. Tamborra, Machiavelli nell’Europa orientale nei secoli XVI e XVII, in Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo, Atti del Convegno internazionale, San Casciano 28-29 settembre 1969, Firenze 1972, pp. 101-22; G. Procacci, Machiavelli rivoluzionario, in N. Machiavelli, Opere scelte, a cura di G.F. Berardi, Roma 1973, pp. XIII-XXXVI; J. Macek, Machiavelli e il machiavellismo, Firenze 1980; R. Valle, Urota ili traktat o čovjeku nahvao (Congiura ovvero il trattato dei sedicenti uomini), in S.P. Novak, Planeta Držić (Pianeta Držić), Zagreb 1984, pp. 140-54; D. Grubiša, Uvod u Machiavellija. Vrijeme, život, čovjek (Introduzione a Machiavelli. Il tempo, la vita, l’uomo), Zagreb 1985; J. Križanić, Politika, Moskva 1997; P. Carta, Politica e morale nel Machiavelli di Josef Macek, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, Atti del Convegno, Milano 16-17 maggio 2003, a cura di L.M. Bassani, C. Vivanti, Milano 2006.
Il Principe di M. sembra godere di un vivo interesse presso il pubblico greco, come dimostra il fatto che tra il 2003 e il 2010 sono state pubblicate nove tra nuove traduzioni e ristampe di questo trattato, mentre negli ultimi cinque anni la Grecia ha avuto cinque diversi governi e un dibattito politico molto acceso, e M. è stato assunto come punto di riferimento sia per gli intellettuali e pubblicisti progressisti sia per quelli conservatori, ma anche per i blogger anarco-autonomi. Tutte le traduzioni greche rendono il titolo con l’espressione O igemonas, che significa letteralmente «colui che comanda», mentre O pringipas significa invece «principe ereditario».
La prima traduzione in assoluto fu pubblicata ad Atene nel 1909, non presso una casa editrice, ma dalla stamperia P.A. Petrakou; il traduttore si celò sotto le iniziali «P. H.», ma oggi sappiamo che si tratta diun certo P. Halkiopoulos. È però importante segnalare che la traduzione fu accompagnata da un lungo commento di Neoklis Kazazis, noto filologo, giurista e politologo.
Tuttavia, la traduzione più diffusa e più importante è quella redatta da Nikos Kazantzakis nel 1944, durante il suo volontario esilio ad Aegina, e pubblicata postuma nel 1961 presso la casa editrice Galaxias di Atene. Kazantzakis, celebre romanziere, autore di importanti saggi filosofici e di libri di viaggio, è attualmente l’autore greco più noto all’estero. Aveva appreso l’italiano e il francese in un liceo di Creta, studiato giurisprudenza all’Università di Atene sotto la guida di Kazazis (che probabilmente gli aveva fatto conoscere M.), ed era stato cinque volte in Italia, divenendo un grande conoscitore, estimatore e mediatore della cultura italiana: mentre la sua sceneggiatura teatrale e cinematografica del Decameron (1932) non ebbe risonanza ed è andata perduta, la sua traduzione in terzine della Divina Commedia (1932) e quella del Principe (1944) sono ancora tra i libri di autori italiani più letti in Grecia, dopo quelli di Umberto Eco e di Oriana Fallaci, anche perché M. cita tanti personaggi della storia greca, sicché – come ha osservato Marco Riccobon – c’è tanta Grecia nel Principe e anche questo può aver contribuito al grande successo del testo in terra ellenica.
Kazantzakis aveva conosciuto personalmente Benito Mussolini nel 1926, ottenendone un’intervista in cui il dittatore veniva interpretato alla luce di Fried rich Nietzsche, Arthur Schopenhauer e M. stesso; ma nel 1944, quando Kazantzakis tradusse il Principe, la durezza dell’occupazione nazifascista lo aveva ormai costretto ad abbandonare Atene, e ogni possibile fascinazione per Mussolini era svanita; tuttavia il Principe restava evidentemente un importante testo di riferimento per la contingente situazione politica.
Secondo Gerasimos Zoras, a Kazantzakis preme di più fornire un testo facilmente leggibile, piuttosto che uno fedele all’originale fin nei minimi dettagli, e per questo il traduttore utilizza frasi e stilemi che trae dalla propria vena poetica e che sarebbero più consoni a un testo letterario che non a uno saggistico: e ciò fa di questa traduzione del Principe una traduzione unica perché – come ha osservato appunto Zoras – presenta le idee di un pensatore politico rinascimentale unico per la sua acutezza, in un greco fluente, a opera di uno spirito della Grecia moderna assai dotato e carismatico che era anche un profondo conoscitore della storia e della cultura italiane.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, a Kazantzakis non fu risparmiato il destino di M.: non la sua traduzione del Principe, ma il suo romanzo ’Ο τελευταῖος πειρασμός (trad. it. L’ultima tentazione, 1987, poi L’ultima tentazione di Cristo, 2012) pubblicato dapprima all’estero (1951), fu considerato blasfemo, non solo dalla Chiesa greca ortodossa, ma anche da quella cattolica che lo mise all’indice. Lui rispose citando Tertulliano: ad tuum, Domine, tribunal appello.