EUROPA
(XIV, p. 604; App. I, p. 566; II, I, p. 883; III, I, p. 583; IV, I, p. 747)
Mutamenti politici e territoriali. − Una serie di rapidi e talvolta repentini e imprevisti mutamenti ha interessato la geopolitica dell'E. sul finire degli anni Ottanta. In particolare, nel triennio 1989-91 si sono concentrati molteplici avvenimenti di grande importanza destinati a lasciare una forte impronta e a mutare in profondità l'assetto sociale ed economico del continente. In quegli anni è venuto a maturazione un complesso di processi, legati dapprima al dialogo Est-Ovest fra le grandi potenze, quindi localizzati in particolare sulla linea di demarcazione politica fra E. ''occidentale'' ed E. ''socialista''. Sulla scena si sono avvicendati anche nuovi protagonisti: oltre agli Stati Uniti e all'Unione Sovietica (che − coinvolta dal processo di disgregazione politica − nel dicembre 1991 ha assunto, con l'esclusione di alcune repubbliche, la denominazione di CSI Comunità di Stati Indipendenti) anche la Chiesa cattolica e la Comunità europea hanno svolto un rilevante ruolo di mediazione e di collegamento. Uno dopo l'altro, i paesi europei legati al dirigismo burocratico e alla pianificazione centralizzata, dopo circa un quarantennio, si sono rivolti verso i sistemi a economia di mercato, attratti dalle potenzialità da essi manifestate, da più ampie forme di democrazia e abbagliati dall'elevato livello dei consumi. Sullo sfondo, un rinnovato clima di cooperazione internazionale ha permesso un evolversi rapido di problematiche annose, di trattative senza fine, di equilibri interni logorati: dalla Polonia, che ha in un certo senso aperto la strada al materializzarsi delle spinte innovative dei regimi socialisti, fino alla Romania e all'Albania, è stato tutto un susseguirsi di mutamenti politici la cui rilevanza e le cui conseguenze potranno essere meglio giudicate tra qualche tempo. Il ''vento dell'Est'' potrà soffiare ancora con forza se la ex Unione Sovietica, che ha affrontato un difficile processo di rinnovamento nel corso del quale sono giunte a compimento le istanze separatiste delle Repubbliche baltiche e della Georgia, saprà procedere sulla via delle riforme. Si potrebbe dire che una nuova storia d'E. sta per essere scritta, ma i rischi connessi a un processo così rapido non sono pochi: da quelli, essenzialmente politici, di un fallimento delle riforme intraprese negli apparati e nelle forme di governo fino a quelli, non meno carichi di incognite, delle radicali trasformazioni nelle strutture economiche che devono smantellare le antiche impostazioni centralizzate per dare spazio a nuove espressioni di libero mercato. Il rischio è anche quello di un aggravamento degli squilibri socioeconomici fra gli stati e all'interno di essi, in particolar modo se non verranno riaffermati i valori della solidarietà in un'E. che, dopo molti anni, intravede la possibilità di essere ''una dall'Atlantico agli Urali''.
Le tappe di questi importanti mutamenti politici (che per il momento, salvo la riunificazione tedesca, non prevedono mutamenti territoriali) partono dalla Polonia quando, il 5 aprile 1989, i negoziati fra governo comunista e Solidarnošć si concludono con un accordo che prevede di ripristinare un sistema pluralistico politico, sindacale e parlamentare. Le elezioni del giugno 1989 permettono, nel settembre successivo, la formazione di un governo di coalizione, guidato da un cattolico, mentre i comunisti mantengono alcuni dicasteri. Il 29 dicembre il Parlamento abolisce il ruolo guida del Partito comunista e ripristina il nome originario di Repubblica di Polonia. Nello stesso anno, anche l'Ungheria compie i decisivi passi verso un nuovo assetto politico (l'11 febbraio il governo riconosce il pluralismo politico; il 18 ottobre il Parlamento riforma la Costituzione; il 23 ottobre si ha la proclamazione della iv Repubblica ungherese, le cui connotazioni politiche vengono precisate con le elezioni del marzo-aprile 1990 vinte dai moderati centristi). Ancor più rapido il mutamento politico in Cecoslovacchia: il 29 novembre 1989 il Parlamento vota la fine del ruolo guida del Partito comunista e il 29 dicembre viene eletto il presidente della Repubblica, il cui nuovo nome (Repubblica federativa ceca e slovacca) viene sancito nell'aprile 1990 e il cui governo viene legittimato con le elezioni del giugno 1990. Più a Est i cambiamenti assumono connotati diversi, legati alle vicende storiche e anche alla stessa posizione geografica dei paesi; se la Bulgaria apre a una serie di riforme senza troppi rivolgimenti e la fase di transizione è ancora sostanzialmente gestita dal partito al potere che comunque approva (febbraio 1990) un nuovo "Manifesto per il socialismo democratico", la Romania segue un itinerario disseminato da sollevazioni popolari e repressioni sanguinose. Nel dicembre 1989 avviene il passaggio tra il regime di Ceauçsescu (confermato al potere dal Congresso comunista appena un mese prima) e un Consiglio di unione nazionale, ma le elezioni del maggio 1990 non sciolgono tutti i dubbi su un pieno ritorno a un regime democratico. Nel 1990 e all'inizio del 1991 fermenti di rinnovamento scuotono anche l'Albania, ultimo baluardo in E. di un regime dagli accenti staliniani. Fra tutti è comunque emblematico il mutamento avvenuto nella Repubblica democratica tedesca anche per la sua potenziale dirompenza sui futuri assetti dell'Europa. Preoccupato da un esodo massiccio di profughi (circa diecimila) verso l'Austria, attraverso il territorio ungherese, e da violente manifestazioni popolari, il regime che ha guidato il paese per oltre quarant'anni, spesso collocandosi fra i maggiori protagonisti della ''guerra fredda'', si dissolve in poco più di un mese: il 9 novembre vengono aperte le frontiere con la Germania Ovest: è la fine del ''muro di Berlino''. Le elezioni del marzo 1990 sono vinte dall'Alleanza per la Germania, mentre procede a grandi passi, sotto la spinta della Repubblica federale, il piano per l'unificazione dei due stati tedeschi. Una tappa fondamentale si ha nel luglio 1990 con l'unificazione monetaria; a pochi mesi è seguita l'unificazione politica che ha portato, il 2 dicembre 1990, a libere elezioni su tutto il riunificato territorio della Germania, per poi pervenire, a fine anno, alle elezioni unitarie. Grandi mutamenti, infine, hanno coinvolto la Iugoslavia e ne hanno causato il progressivo disfacimento. I fermenti disgregativi, pur avendo radici profonde, si sono accentuati nella seconda metà del 1989, con l'intensificarsi dei tentativi autonomistici della Slovenia. Nel gennaio 1990 si è verificata la prima, profonda, frattura fra Sloveni e Croati da una parte e Serbi dell'altra, ma la crisi vera e propria è esplosa nel dicembre 1990, con la dichiarazione di autonomia della Repubblica di Slovenia e della Repubblica di Croazia. Risultati vani tutti i tentativi di mediazione, nella seconda metà del 1991 è scoppiato il conflitto armato fra Serbi e Croati; nel gennaio 1992 la CEE, tutti i paesi ad essa aderenti, e un'altra trentina di nazioni hanno riconosciuto l'indipendenza di Slovenia e Croazia, sancendo così la fine della Repubblica Federativa Socialista Iugoslava.
A fronte di questi grandi mutamenti di scenario nella geopolitica europea, altri fenomeni pur importanti maturati nell'ultimo quindicennio appaiono meno rilevanti. Già in passato i negoziati sul disarmo fra USA e URSS avevano ridimensionato il ruolo di Nato e Patto di Varsavia − che per lungo tempo sono stati i protagonisti degli equilibri europei −: con lo scioglimento di quest'ultimo, avvenuto nel corso del 1991, è scomparso pure uno dei tradizionali antagonismi Est-Ovest.
In molti paesi europei proseguono i processi di decentramento e attribuzione a organismi regionali di particolari forme di autonomia.
Oltre alla Francia, che concede alla Corsica un nuovo statuto nel quadro di una politica di decentramento amministrativo (1982), si segnala soprattutto la Spagna che completa il quadro delle autonomie regionali (1983), e dopo Catalogna, Euzkadi (province Basche), Galizia, Asturie, sono costituite altre 14 regioni. In Belgio viene concessa (1980) l'autonomia amministrativa a Vallonia e Fiandre, mentre (gennaio 1984) vengono costituiti esecutivo e consiglio per la comunità di lingua tedesca che comprende 25 centri abitati nel Belgio orientale, in totale 9 comuni, con una popolazione di 66.000 abitanti. In precedenza, in Svizzera, in seguito al referendum del 24 settembre 1978, era stato costituito il nuovo cantone del Giura (capitale Delémont), facendo salire a 26 gli stati federati della Repubblica elvetica. Nel 1979, la contea danese della Groenlandia ha acquisito (dal 1° maggio) l'autonomia negli affari interni, mentre difesa e affari esteri restano affidati alla Danimarca.
Fin dal 1960 i paesi europei hanno concesso l'indipendenza a quasi tutte le loro colonie in Africa, Asia, America e Oceania. Tale processo è continuato negli anni Settanta per alcuni piccoli territori, divenuti indipendenti; l'impero coloniale francese si è ulteriormente ridotto nel 1977, quando il Territorio degli Afar e Issa è divenuto indipendente con la denominazione di Gibuti, e il condominio anglofrancese delle Nuove Ebridi costituisce, dal 1980, la repubblica di Vanuatu. Da parte sua, la Gran Bretagna ha concesso l'indipendenza alle Seicelle (1976), a Tuvalu (ex Ellice), Salomone e Dominica (1978), a St. Lucia, Kiribati (ex Gilbert), St. Vincent e Grenadine (1979), a St. Christopher e Nevis e all'ex sultanato di Brunei, nel 1983.
I confini politici, caso tedesco a parte, non hanno subìto modifiche di rilievo; permangono i contrasti fra Iugoslavia e Albania a proposito del territorio autonomo del Kosovo, mentre nel 1985 i governi di Atene e di Tirana hanno firmato un protocollo sulla necessità di ritracciare il confine tra i due paesi. L'accordo pone fine allo stato di guerra ancora esistente fra Grecia e Albania e prenderà in considerazione le rivendicazioni greche sul territorio albanese dell'Epiro.
Sussistono, ma in forma latente, le tensioni fra la Spagna e il Marocco per le cosiddette Plazas de soberanía (territori di Ceuta, Melilla, Peñón de Vélez de la Gomera, Peñón de Alhucemas e Chafarinas); fra la Spagna e la Gran Bretagna per il territorio di Gibilterra e fra la Grecia e la Turchia per la sovranità su alcune isole dell'Egeo orientale. Nella parte europea dell'ex Unione Sovietica, le riforme costituzionali di Gorbačëv hanno aperto la via a rivendicazioni latenti da tempo, come quelle dei Tatari di Crimea ai quali è stata concessa (1988) la possibilità di tornare nelle loro terre da cui furono deportati in epoca staliniana e, soprattutto, delle repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), che richiedono il diritto di secessione previsto dalla costituzione sovietica e che, nel 1990 e nel 1991, hanno riconfermato le loro intenzioni con referendum popolari, incontrando la forte opposizione di Mosca. Al momento della fondazione della Comunità di Stati Indipendenti (CSI) le tre repubbliche, unitamente alla Georgia − coinvolta in una difficile crisi dei vertici istituzionali −, non vi hanno aderito, ribadendo la propria indipendenza.
L'atteggiamento delle due superpotenze ha permesso di attenuare molte contese che riguardavano l'E., anche prima dei rapidi mutamenti avvenuti all'Est, ma permangono le aree di tensione nell'Irlanda del Nord, nei Paesi Baschi, in Corsica, a cui si aggiungono i contrasti d'impronta nazionale in Alto Adige e quelli, più rilevanti, in Transilvania, ove il governo romeno nega alla minoranza ungherese gli spazi autonomistici richiesti.
La popolazione e i movimenti demografici. - Dal punto di vista demografico il periodo che va dal 1975 alla fine degli anni Ottanta ha visto la conferma delle tendenze registrate nel periodo precedente. In valore assoluto, comprendendo le parti europee della Turchia e dell'Unione Sovietica, nonché le porzioni di territorio convenzionalmente incluse nei singoli stati (v. tab. 1), la popolazione europea è passata da oltre 666 milioni di abitanti nel 1975 a oltre 705 nel 1989, con un incremento del 5,8% (nel periodo 1960-75 era stato dell'11%). Gli europei rappresentano ora solo il 14% della popolazione mondiale. La progressiva diminuzione del tasso di natalità ha fatto sì che la percentuale annua d'incremento della popolazione sia stata in E. dello 0,46% nell'ultimo quindicennio, contro il 3,67% dell'Africa, il 2,92% dell'America Meridionale, il 2,54% dell'Asia. In termini relativi, la densità della popolazione europea è passata dai 63 ab. per km2 del 1975 ai 68 attuali, ma si colloca ormai al secondo posto, dopo l'Asia che, con 69 ab. per km2, è la più densamente popolata tra tutte le parti del mondo.
Se si escludono i microstati, i maggiori aumenti della popolazione nel periodo 1975-89 si sono registrati in Polonia (11%), Grecia e Iugoslavia (10%), Spagna (9,3%), Romania (7,8%), Paesi Bassi e parte europea dell'ex Unione Sovietica (7%). Gli incrementi minori riguardano i paesi dell'E. del Nord, l'Austria e l'Ungheria, l'Irlanda, la Repubblica federale tedesca e l'Italia. Nell'insieme, l'E. appare in una fase di declino demografico frenato dai flussi d'immigrazione provenienti soprattutto dal bacino mediterraneo, dall'Africa e dall'Asia. Il tasso di natalità, peraltro in diminuzione dall'inizio del secolo come conseguenza dei fenomeni d'industrializzazione, di urbanizzazione e terziarizzazione, è sceso un po' dovunque nell'ultimo decennio. L'E. meridionale ha raggiunto, per quanto riguarda tale andamento, quella settentrionale e occidentale, non assicurando più il tasso di sostituzione della popolazione che richiede 2,1 figli per ogni donna fertile. In Spagna tale indice è caduto a 1,5, e addirittura a 1,3 in Italia, il più basso del mondo, contro 1,4 nella Germania, 1,6 nei Paesi Bassi, 1,8 in Francia e Gran Bretagna, 1,9 in Svezia, 2,4 in Irlanda. La caduta della fecondità si unisce alla relativa caduta della mortalità infantile, mentre il tasso di mortalità tende a salire per il progressivo invecchiamento della popolazione.
In quasi tutti i paesi europei tendono a scomparire le famiglie numerose, con qualche eccezione nelle regioni rurali dell'E. orientale e nelle comunità d'immigrati in conseguenza della modificazione dei modi di vita che rendono più difficile il ruolo della famiglia numerosa; di fattori sociali e culturali, come il prolungamento del periodo di studi e il lavoro femminile che contribuiscono a ritardare l'età del matrimonio; di fattori edonistici legati al mantenimento di elevati livelli sociali. La famiglia, in tutta E., tende ormai a divenire sempre più nucleare (media di 3÷4 individui), mentre i divorzi, le scelte individuali e anche l'emarginazione sociale, danno luogo al fenomeno delle famiglie con un solo componente. Se il numero dei matrimoni declina un po' dovunque e si diffonde la coabitazione, le nascite fuori dal matrimonio variano considerevolmente: dal 40% di alcuni paesi scandinavi, tradizionalmente tolleranti (Danimarca, Svezia), al 20% di Gran Bretagna e Francia, al 10% nella Repubblica federale tedesca e nei Paesi Bassi, al 5% in Italia e Spagna.
Ogni paese, pur confluendo in un destino demografico che pare accomunare tutta l'E. industrializzata, ha percorso un proprio sentiero: nei paesi cattolici, per es., la flessione è legata al processo di secolarizzazione e alla perdita d'influenza della Chiesa, in altri è stato dapprima percepito come un rimedio al sovraffollamento (Paesi Bassi), in altri ancora (come in Francia) la caduta della natalità è stata frenata dall'intervento degli aiuti statali alla famiglia, spesso penalizzata, come in Italia, dal sistema sociale (servizi, mercato delle abitazioni, assistenza sanitaria, ecc.). Negli anni Ottanta i movimenti migratori legati a motivi politici, quasi annullati nei decenni precedenti, hanno ripreso vigore, raggiungendo punte di vero esodo nel 1989, col passaggio di decine di migliaia di Tedeschi orientali all'Ovest e di quote minori di Ungheresi e Cecoslovacchi. Tali movimenti sono quasi del tutto cessati col rapido avvio delle riforme costituzionali nei paesi di partenza. All'inizio degli anni Novanta il fenomeno si è circoscritto ad alcune aree, come la Transilvania, la Bulgaria (con l'esodo dei Turchi) e l'Albania, ove ha preso avvio con i rifugiati politici nelle ambasciate dei paesi occidentali.
Per quanto riguarda le migrazioni dall'E. verso altri continenti, un tempo tradizionali, specie dai paesi mediterranei, sono ridotte al livello dei normali flussi, spesso di manodopera specializzata o di studenti. I movimenti interni vanno intensificandosi lungo alcune direttrici, da Est a Ovest, come si è detto, mentre all'interno della Comunità europea la libera circolazione delle persone è pressoché raggiunta.
Tendono ad assumere, specie nei paesi membri della CEE, una crescente importanza le immigrazioni dai paesi del Terzo Mondo, africani e asiatici. In alcuni casi si tratta di una situazione ormai consolidata (in Francia e Gran Bretagna dalle ex colonie, per es.), in altri di fenomeni del tutto nuovi (Italia, Spagna) che pongono una serie di problemi di accoglienza e integrazione la cui soluzione non è facile. Sotto la spinta sempre più forte dei flussi di immigrati provenienti dai paesi sovrappopolati, molti paesi europei hanno messo a punto un sistema di controlli che, più o meno efficacemente, tenta di selezionare e limitare gli arrivi commisurandoli alle capacità, in termini di posti di lavoro e di servizi sociali, effettivamente disponibili. Il problema non presenta facili soluzioni, vista la perdurante povertà di molti paesi africani e asiatici a cui si contrappone la relativa ricchezza di gran parte dei paesi europei.
I mutamenti nei sistemi economici. − Negli anni Settanta la crisi energetica ha messo a nudo l'incapacità dell'E. di risolvere in modo autonomo i propri problemi, ispirandosi, nei suoi comportamenti, soprattutto all'esempio americano (per i paesi occidentali) e a quello sovietico (per quelli orientali). Il declino politico e le più o meno velate forme di sudditanza economica si sono attenuate in seguito, anche per le capacità di risposta messe in atto dalla gran parte dei paesi europei, in particolare da quelli facenti parte della Comunità economica europea. Alcuni esperti parlano, con toni entusiastici, di un ''nuovo rinascimento'' che vedrà l'E. riappropriarsi di un ruolo da protagonista nell'economia mondiale. Dopo i decenni del primato statunitense e il rapido sviluppo dell'Estremo Oriente, i paesi europei, pur con ritmi e tempi diversi, pervenuti ormai a conseguire consistenti livelli di sviluppo, vedono aprirsi nuovi orizzonti, in conseguenza di due preminenti fattori di novità: l'apertura dei mercati dell'Est e l'avvio del mercato unico comunitario del 1993.
Grandi opportunità d'interscambio e d'investimento nei paesi dell'Est europeo nei prossimi anni, dunque, ma anche qualche rischio dovuto al ritardo strutturale dei sistemi economici e sociali di questi paesi nei confronti dell'economia di mercato. Gli elementi d'incertezza sono numerosi e si riferiscono sia ai fattori politici (elezioni libere, normativa economica, investimenti sociali), sia a quelli economici (sistema dei prezzi, convertibilità delle valute, sviluppo dell'imprenditorialità, ecc.). Non è facile prevedere la durata di un eventuale processo d'integrazione (ormai concluso nel caso della Repubblica democratica tedesca, avviato per quanto riguarda Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia). In particolare, il quadro relativo alla Germania presenta alcuni elementi di certezza: unificazione monetaria dal luglio 1990, unificazione politica con l'inizio del 1991, costi presumibili della ristrutturazione nelle regioni orientali, in termini di investimenti e di posti di lavoro perduti, molto elevati. Il modello, proprio per le sue peculiarità, è scarsamente esportabile in altri spazi reali dell'Est europeo, per non parlare della stessa ex Unione Sovietica. Ottime potenzialità, ma anche grandi incognite si aprono dunque nei nuovi assetti dell'economia dell'E., con regioni che saliranno nella graduatoria dello sviluppo e della produttività e altre che registreranno recessione o stagnazione. Le aree più favorite sembrano quelle che ricadono nell'''asse lotaringico'', direttrice di sviluppo che, partendo dall'Inghilterra sud-orientale (dal Leicestershire e Northamptonshire fino a Londra), scende verso Sud lungo l'asse renano, limitato a Ovest dal bacino di Parigi, e a Est dai sistemi urbano-industriali di Amburgo e Hannover, per terminare nell'Italia padana. Accanto a queste che formano il core industriale europeo, si vanno delineando altre regioni le cui potenzialità potranno essere esaltate dalle nuove opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati: Emilia-Romagna e Veneto in Italia; Rodano-Alpi in Francia; asse mediterraneo spagnolo, da Barcellona a Valencia. Le nuove imprese innovative e ad alta tecnologia si dovranno infatti localizzare ove migliori sono i sistemi di infrastrutture e servizi, la qualificazione della forza lavoro, i livelli d'istruzione e di ricerca privata e pubblica. Da qui potranno partire gli impulsi per la diffusione dello sviluppo in altre parti d'Europa. In un tale scenario verrà accresciuto il ruolo di alcune città, quali Monaco di Baviera, Francoforte, Berlino, Lione, Milano, ecc. Accanto a tali fenomeni di centralizzazione se ne potranno verificare altri, di segregazione progressiva, all'interno del sistema europeo: potrebbero interessare quelle aree marginali situate in posizione troppo periferica e già penalizzate dalle attuali direttrici di sviluppo, come l'Irlanda, la Scozia, il Massiccio Centrale, il Mezzogiorno italiano, le regioni meridionali della Spagna, la Grecia e il Portogallo.
Per quanto riguarda gli organismi economici interstatali, nati negli anni Cinquanta (CEE, EFTA, COMECON), l'avvicinamento economico fra i due blocchi e, soprattutto, i mutamenti politici intervenuti nel biennio 90-91, hanno mutato la loro prevedibile evoluzione. Il COMECON, sul quale ha sempre pesato l'egemonia dell'Unione Sovietica, ha dovuto affrontare le conseguenze dei rapidi mutamenti politici dei paesi membri e addirittura la diversa collocazione di alcuni di essi, ed è stato definitivamente sciolto nel giugno 1991. L'EFTA, venute meno molte delle condizioni esistenti alla sua creazione (già fin dal 1973, con l'adesione della Gran Bretagna alla CEE), dopo un accordo stipulato nel 1990 con la stessa CEE, di cui doveva essere un potenziale antagonista, si avvia a un sostanziale ridimensionamento. In fase di espansione e di consolidamento appare invece la Comunità europea i cui membri sono saliti a 12 per l'ingresso della Grecia (1981) e di Spagna e Portogallo (1986). Essa ha proseguito il suo cammino verso il mercato unico con l'attuazione del programma di completamento previsto per il 1993, con l'obiettivo di rimuovere gli ostacoli che finora si sono opposti alla libera circolazione dei flussi di merci, di servizi e di fattori produttivi. Il mercato unificato è stato confermato come obiettivo prioritario dall'Atto unico europeo, entrato in vigore il 1° luglio 1987, che contiene disposizioni che modificano e completano i tre trattati istitutivi delle Comunità europee (CECA, Euratom, Mercato Comune). La Comunità è, nel frattempo, divenuta polo di attrazione per i paesi dell'Est ed è stata incaricata dall'OCSE di coordinare gli aiuti previsti per diversi stati: Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, con i quali ha stipulato appositi accordi. Nel 1989 la CEE si è affermata sulla scena internazionale, occupando un ruolo centrale nei negoziati commerciali (Uruguay Round), tenendo testa in varie controversie − specie sulle politiche agricole − agli Stati Uniti, ottenendo vistosi riconoscimenti dall'Unione Sovietica e intavolando negoziati con l'altra potenza economica mondiale, il Giappone, sul futuro degli scambi internazionali di manufatti. La CEE ha anche rafforzato la sua proiezione verso i paesi del Terzo Mondo, rinnovando la convenzione di Lomé che la lega con una serie di accordi a 69 paesi africani, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), aumentando in maniera sensibile gli aiuti finanziari finora erogati.
I rapidi mutamenti di scenario sopra ricordati, l'ampliamento dei mercati sempre più rivolti a forme globali, l'acuirsi della concorrenza internazionale da parte dei paesi emergenti, hanno causato anche in E. cambiamenti di struttura simili a quelli riscontrabili in altre aree industrializzate (Stati Uniti e Giappone, soprattutto). Mentre l'agricoltura tende a ridurre l'impiego di addetti, sostituiti da un forte impiego di macchinari, concimi chimici, tecniche sperimentali, ecc., spesso con elevati guadagni di produttività, l'industria ha visto diminuire il peso dei settori di base (chimica, siderurgia, cantieristica) e dell'industria pesante in generale e l'affermarsi di sempre nuovi comparti, basati su tecnologie di punta, con frequenti innovazioni nei processi, nei prodotti ottenuti, nelle forme organizzative. Ma la caratteristica più rilevante è l'espansione che, negli anni Ottanta, ha interessato il settore terziario nelle sue componenti dei servizi alle imprese e alle famiglie. I primi, a più elevato contenuto innovativo, si sono affermati nelle economie più avanzate, i secondi un po' dovunque. Il fenomeno, che ha visto diminuire il numero degli addetti all'industria (deindustrializzazione), non prefigura comunque una crisi di tale settore che rimane centrale in tutte le economie avanzate.
Le risorse energetiche costituiscono un altro elemento decisivo dello scenario economico europeo; la crisi del 1973 è alla radice del processo di ristrutturazione industriale e delle modifiche al modello di sviluppo, che in quegli anni si andava affermando. Un po' tutti i paesi hanno diversificato le fonti di approvvigionamento e tentato di ridurre l'intensità energetica dei processi produttivi. Gli anni Ottanta hanno però modificato le aspettative, col crollo del prezzo del petrolio, e allontanato lo spettro della penuria. Il fattore energia ha cessato di rappresentare per molti governi un elemento strategico, avvantaggiando un po' tutta l'Europa. Si è quindi praticamente arrestata la brusca riconversione energetica da molti prevista e molti paesi sono divenuti più prudenti nei confronti dell'energia nucleare (fortemente presente in Gran Bretagna e in Francia e, al contrario, rifiutata in Italia) e più attenti alle nuove fonti di energia. Lo scoppio delle ostilit'a in un'area dall'elevato valore strategico come quella del Golfo Persico ha tuttavia riproposto ancora una volta la centralit'a dell'approvvigionamento energetico per la maggior parte dei paesi industrializzati d'E. e la necessit'a di politiche dirette a conseguire consistenti risparmi e a diversificare le fonti d'energia impiegate. Un ruolo crescente viene rivestito dalle istanze ambientaliste che di fronte alle piogge acide, all'inquinamento dell'aria, delle acque e del suolo, al timore dell' ''effettoserra'', chiedono ai governi di ridurre l'uso dei combustibili fossili e, in genere, un modello di sviluppo più rispettoso degli equilibri ambientali. Il movimento di opinione, di tipo ambientalista, che ha acquistato peso politico anche nei Parlamenti di vari paesi europei occidentali, potrà essere un protagonista soprattutto in futuro, anche nell'E. orientale ove le esigenze della produzione hanno spesso prevalso sulla conservazione degli equilibri naturali.
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